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Racconti EroticiVoyeur

La Caduta, Oltre il Confine. Sul mare

By 25 Luglio 2021No Comments

Mi adattai alla vita di bordo con l’impacciata applicazione di chi, pur non avendo mai messo piede a bordo di una nave, ce la mette tutta.
Durante le prime ore a bordo mi fu assegnato un turno ai remi e, una volta terminato di remare quando il vento era favorevole, aiutavo in cucina. Quello e un sostanzioso pagamento avevano permesso a me e a Fatma di salire a bordo.
Tork era un gigante buono, ma la sua ciurma non appariva altrettanto benevola: c’erano genti di più e più popoli. Riconobbi almeno un romaneo, un vecchio dai capelli bianchi che svolgeva la mansione di cartografo e mozzo, due uomini dalla carnagione ambrata tipica del Kelreas, la pelle scura degli abitanti dall’Africea e delle terre del Sud.
Il resto erano tutti riconducibili ai popoli del deserto, salvo un giovane dagli occhi sottili e il viso piatto. Nessuno di loro mi ispirava fiducia.
Non che non ci fossero donne a bordo. Ce n’erano ben tre. Una era una donna un po’ in carne, dal viso sfatto e gli occhi bovini, i capelli lunghi e la pelle scura. C’era inoltre una giovane, bionda e chiaramente parte della ciurma, anche se appariva fuori luogo. Poi c’era Amea, la compagna di Tork (e dico compagna solo e unicamente perché di fatto ritenevo all’epoca fosse tale). Alta, muscolosa, si avviava verso i quaranta senza però mostrare segni del tempo, chiaramente di origini licanee, aveva la pelle abbronzata di chi passa molto tempo al sole, il viso volitivo, gli occhi verdi aggressivi e i capelli rasati quasi a zero e il corpo fasciato in vesti che lasciavano libertà di movimento senza perdere in fascino. Appena mi vide, parve categorizzarmi come una zavorra, ma ebbe il buonsenso di non contraddire la volontà di Tork e mi spiegò, seppur stizzita, alcune cose sulla vita a bordo. Fu alla fine della conversazione che me lo disse, chiaro e semplice.
-Ascolta, tu sembri uno che sta scappando. Sei di Roma, o pressappoco a giudicare dall’accento e questo mi fa pensare a un criminale, uno che ha commesso qualche reato e ora vuole eludere la giustizia imperiale. Quindi te lo dico subito: se è così faresti bene a essere certo di non avere qualcuno alle calcagna perché la regola qui è semplicissima…-, i suoi occhi parvero volermi frugare nell’animo, -La ciurma non s’infama né si mette in pericolo per il singolo. Se sei ricercato, hai scelto la nave sbagliata. E anche Tork sa che ci sono limiti alla benevolenza. E questo vale anche per la tua ragazza.-.
Non mi diede il tempo di replicare che Fatma non era la mia ragazza, a ben pensarci non sapevo precisamente cosa fosse divenuta dopo tutto il tradimento da lei perpetrato, anche se a fini comprensibili. La guardai ancheggiare mentre se ne andava, pensando che fosse una bella donna, pericolosa come nessun’altra che avevo conosciuto.
Ma non potevo dirle la verità, non potevo dirle che la Lama della Fondatrice in mio possesso avrebbe potuto condannare me stesso e tutti loro a una morte atroce.

In realtà, io e Fatma non avevamo parlato. La giovane non pareva intenzionata a parlare e io rispettavo la sua volontà, la rispettai sino alla sera di quel giorno quando, dopo aver mollato gli ormeggi, la nave prese a far rotta verso isole lontane.
Dopo un pasto frugale: zuppa di verdure e pane, c’eravamo diretti in camera.
La nostra camera era in comune, ed era già una grazia visto che molti altri membri dell’equipaggio dormivano in camere da sei e non c’era l’ombra della riservatezza.
Io avevo preso possesso del mio pagliericcio con la volontà di lasciarle il letto, ma lei, appena sedutasi su di esso, mi guardò. Nel suo sguardo e sul suo viso c’erano rabbia, dolore e qualcosa che non riuscii proprio a identificare. Capii che voleva parlare.
-Perché?-, chiesi soltanto. Lei parve soffrire fisicamente per quella sola parola.
-Perché ti amo! Perché ti volevo per me! Perché non volevo che dovessimo fuggire sempre!-, esclamò con rabbia. Le feci cenno di abbassare la voce.
-Lo so. Lo capisco, ma tu…-, sospirai. Non sarebbe stato facile spiegare, ma glielo dovevo.
E lo dovevo a me stesso. Potevo sopportare il fardello di quella reliquia ma non potevo imporlo a lei. Non dovevo. Il peso era quasi insopportabile per me, figurarsi per lei.
-Il coltello é… una reliquia del passato…-, iniziai. Lei scosse il capo.
-L’hai già detto.-, disse. Io annuii. L’avevo già detto.
-C’è un’organizzazione, un gruppo, che cerca il coltello per i suoi fini. La Cerchia, così si chiama, vuole prendere il dominio sull’Impero e se ce la farà… Non si fermeranno finché tutto il mondo non sarà sottomesso a Roma.-, spiegai. Stavolta la rivelazione parve colpire la giovane come un pugno. Io sospirai. Ripensai alla fuga dall’Impero, alle ultime parole di Socrax, a Ferius e al viaggio sino a lì. Saremmo mai stati al sicuro?
-E a te non sta bene?-, chiese Fatma. Io scossi il capo.
-No. Roma ha il suo Impero e guarda come siamo ridotti, a farci la guerra, a insultare gli Dei… A pretendere una gloria che forse di diritto ci venne tolta.-, risposi.
-Allora perché vuoi tenerlo? È questo che non capisco!-, Fatma si avvicinò, sino a sedersi accanto a me, -Perché continuare a soffrire? Gettalo via, seppelliscilo, distruggilo!-.
-Lo farei! Lo farei ora e qui, se potessi! Ma non posso, capisci? Non posso! Non posso perché così come questa lama può distruggere l’Impero, può anche renderlo nuovamente pacifico, degno di essere nuovamente avvolto dal manto benevolente degli Dei.-, le mie ultime parole siglarono un silenzio lungo. Un minuto, due. Poi Fatma sospirò.
-Mi stai dicendo che se dovessi scegliere tra me e quel pezzo di metallo…-, disse nella sua lingua. Io scossi il capo.
-Non voglio scegliere.-, dissi. Lei mi guardò, fisso
-Potresti doverlo fare, lo sai?-, disse. Io la guardai, incredulo.
-Mi stai chiedendo di scegliere tra te e il coltello?-, chiesi. Fatma mi guardò.
Nei suoi occhi vedevo le avvisaglie delle lacrime prossime a esser versate.
Ricordai quel che mi aveva detto Socrax.

“Porti un grande fardello, Alexander, il tramite tra ciò che fu e che sarà. Molti vorranno sollevarti da tale peso, anche per fini nobili, giusti o comprensibili. E vi saranno momenti in cui ciò che pensavi di sapere sulla responsabilità e il destino non ti servirà a nulla. Ti sentirai perso e privo di scopo, ma confida nel volere degli Dei, nella loro provvidenza. Trova rifugio in questo, anche quando chi ti ama non comprende e ti abbandona e chi ti odia alza la sua mano contro di te. Porta questo fardello consapevole che nessun altro saprebbe farlo al tuo posto. E lascialo solo quando sentirai che il tuo compito è compiuto”.

Io guardai Fatma. Era bella, l’amavo come mai avevo amato. Ma ciò che mi stava chiedendo era semplicemente impossibile. Abbandonare la lama della Fondatrice avrebbe implicato voltare le spalle alla memoria di Socrax, al mio più sacro dovere.
Non potevo. Non per lei, né per altri. La guardai. La guardai e basta. Lei mi guardò.
-Io ti amo Alexander, e ti seguirò fin dove il mio dio mi concederà.-, disse. Mi accarezzò una guancia con la mano. Sentii qualcosa. Un vuoto dentro, una solitudine che non avevo mai provato. Improvvisamente mi accorsi di cosa significava davvero la solitudine.
-Ti amo anche io.-, dissi con tono gentile ma fermo, -Ma non puoi chiedermi questo. E se perderti è il prezzo che devo pagare per restare sulla via che mi è stata assegnata, allora così sia.-. Fatma mi guardò, annuì. Lacrime mute tracimarono dai suoi occhi schiantandosi poi sul pagliericcio. Feci per intercettarle, mi bloccò la mano a metà del movimento.
-Va bene così.-, disse secca. Si alzò e si distese. Io mi addormentai, quel coltello maledetto stretto al petto come un talismano.

Non parlammo il giorno successivo, ma il coltello non abbandonò la mia cintura per i successivi giorni e da lì in avanti lo portai sempre. Era una garanzia che Fatma non avrebbe tentato di rubarlo. Una parte di me si odiava per quel pensiero, ma nonostante ciò ero ben conscio della necessità. Fatma non capiva. Non avrebbe mai capito.
Io avevo un dovere. Un compito imprescindibile, definito da un destino in cui avevo scelto di credere sino in fondo. Fatma però pareva inconciliabile con quella mia posizione e passò il giorno successivo in cabina, presumibilmente in lacrime.
I sensi di colpa mi colsero presto. Pungolavano nei momenti di pausa tra i lavori, la notte, a cena, ovunque e soprattutto prima di dormire. Sì, specialmente prima di coricarmi avevo come la sensazione di Fatma che mi giudicava, che mi guardava con sdegno.
Per sfuggirgli, il terzo giorno di navigazione decisi di fare più turni di lavoro: lavavo le stoviglie e le pentole, cercavo sempre qualcosa da fare. Tork mi sorrise.
-Stai cercando di farti assumere in pianta stabile?-, chiese con una pacca sulla spalla.
Distolsi lo sguardo dalle stoviglie che stavo finendo di pulire.
-Problemi di cuore?-, chiese l’omaccione con un sorriso comprensivo.
-Sì. Diciamo che… Fatma non vede bene una mia decisione.-, dissi, optando per un sunto molto purgato dell’intera faccenda. Tork annuì. Mi porse un bicchiere. Acqua. Bevvi.
-Non ti devastare di lavoro. Parlale. Cerca un compromesso.-, disse.
-Ci ho provato…-, iniziai. Lui non parve impensierito.
-Riprova. La vita è troppo breve per passarla a soffrire.-. Si dileguò.
Aveva ragione. Finii le stoviglie e andai verso la camera. Aprii la porta fiducioso di poter chiarire con Fatma ma la giovane non era lì. C’era però un biglietto, in una calligrafia incerta ma leggibile.
“Ho preso un’altra cabina. Penso sia meglio così. F.”, lessi. Strinsi il biglietto con rabbia.
Non capiva. Non voleva capire. E scemo io che credevo di poterla persuadere. No, il mio era un cammino solitario. Ora, se mai ne avessi avuto dubbio, lo sapevo.
Uscii dalla camera. Cercare Fatma a quell’ora poteva essere sbagliato ma volevo almeno tentare, provare a farle capire che… che cosa?
Mi fermai, nel mezzo del corridoio della nave. Certo che non aveva senso: le avevo detto tutto, tutto quello che avevo potuto dire. Cos’altro c’era da aggiungere?
E che vantaggio avrei avuto nel ripetere a pappagallo quanto lei già sapeva?
Scossi il capo, accorgendomi che le mie elucubrazioni mi avevano portato alle scale che portavano ai ponti superiori. Le percorsi. Incrociai un membro dell’equipaggio che mi sorrise con derisione palese. Ero il pesce decorativo in una vasca di Squali Malleus.
Lo superai, non senza pensare che forse, qualcuno su quella nave mi avrebbe attaccato, prima o dopo. Salii all’aperto. L’aria della notte pareva una benedizione, anche se lieve.
-Non dormi.-, disse una voce di donna. Mi voltai. Era la bionda. Non ricordavo il suo nome, ma sorrisi ugualmente, cercando di apparire cordiale.
-Non ho sonno.-, ammisi. Lei sorrise. Alla luce della luna piena notai che aveva un coltello e una pistola di metallo alla cintura. Armi primitive. Il viso era quello di una ragazza non ancora uscita dall’adolescenza, i capelli biondi spettinati le conferivano fascino.
-Mal di mare?-, chiese. Scossi il capo. Non lo sentivo minimamente.
-No. Pensieri.-, dissi. Lei annuì.
-Io mi chiamo Izabel, vengo dall’Hiberia.-, disse presentandosi. Le strinsi la mano alla maniera di Licanes, presentandomi. Mi squadrò. Pareva starmi valutando.
-Non sei un marinaio, né un guerriero anche se vuoi sembrare tale. Che ci fai qui?-, chiese.
-Io… volevo andarmene. Dall’Impero.-, dissi. Era quantomeno riduttiva come risposta, ma poteva andare. E infatti, Izabel annuì, gli occhi color nocciola che s’impensierivano.
-L’Impero è nella merda. La guerra civile li distruggerà. Io me ne sono andata con un ragazzo. Lui è morto. Io no.-, disse lei. Mi prese la mano, trascinandomi verso un tavolo.
-Cos’è?-, chiesi. Lei sorrise.
-Un gioco che giocano i figli del deserto. Lo chiamano Mancala. Visto che non riesci a dormire…-, disse. Mi spiegò le regole. Bisognava mettere semi in ogni buca, per poi mietere il raccolto e vinceva chi raccoglieva di più senza però privare l’altro della possibilità di avere un raccolto successivamente. Persi tre partite e alla quarta riuscii a mettere in difficoltà la bionda che alla fine capitolò. Era passata almeno un’oretta buona.
-Forse dovrei andare, intendo, vorrai dormire, credo?-, chiesi, temendo di essere di troppo.
-Nah, io non dormo molto.-, rispose lei, -Ma se hai sonno, vai pure. E se ti va, magari un giorno ti insegnerò a maneggiare quello.-, disse indicando la Lama della Fondatrice.
-Sempre se la tua ragazza non ha da ridire…-, aggiunse con un occhiolino.
-Non… non è la mia ragazza…-, dissi, -Io… diciamo che abbiamo litigato.-.
-Mh-mh.-, fece Izabel mentre beveva qualcosa. Dall’odore sembrava alcolico.
-Insomma, se potessi insegnarmi… Te ne sarei grato.-, dissi. Lei annuì. Bevve di nuovo.
Improvvisamente mi sentii davvero di troppo. Mi alzai. –Buonanotte.-, dissi. Lei annuì.
Persa nel suo degustare l’alcool, non disse altro. Mi allontanai. Il vecchio coi capelli bianchi scrutava l’orizzonte da prua. Alcuni membri dell’equipaggio parlottavano tra loro.
Tornai verso le scale. E lo sentì. Un urlo. Di donna. Mi voltai verso la direzione, senza pensare. Un altro. E un altro. E quello di un uomo. “Dei, che sta succedendo?”, mi chiesi.
Notai una porta. Semi aperta e con la luce accesa. Guardai. Rimasi bloccato.
Amea, carponi sulle coltri sfatte, subiva i prepotenti assalti di Tork che le affondava dentro con spinte decise. La donna urlò di nuovo in suo piacere, evidentemente in estasi a causa di quell’amplesso così travolgente. Gettò il capo indietro, inarcando il collo. Aprì gli occhi.
Inchiodato da quell’immagine di un erotismo potente, non potei muovermi. I suoi occhi parvero bruciare nei miei. Impossibile che non mi avesse visto. Ciononostante, oppure proprio per questo, andò avanti come se nulla fosse stato, prendendo anzi a toccarsi tra le cosce con una mano. Il tutto senza smettere di guardarmi. Io non sapevo che fare.
Il cuore mi batteva a un ritmo tutt’altro che quieto, e il sesso gonfiava i vestiti, inturgidendosi alla vista di una scena così lussuriosa da sembrare uscita da un poema erotico. Andare o restare? Certo, sicuramente a Amea non davo fastidio, ma Tork avrebbe potuto essere meno… permissivo. E d’altronde, già il vedere quell’amplesso era una violazione effettiva del loro talamo. Restare avrebbe solo portato guai, se mi avesse scoperto. Fu un grido di Tork a distrarmi da quel dilemma. Con un gemito bestiale l’uomo si sfilò da Amea, il sesso grosso, turgido e pulsante in una mano. Lei si voltò, abbastanza da permettersi di intravedermi con la coda dell’occhio. Prese il membro dell’uomo e lo manipolò. Gli sorrise, o forse il sorriso era a me. Difficile dirlo. Tork venne in faccia alla donna appena un istante dopo, gli schizzi perlacei e abbondanti del suo piacere che fiottarono a colpire il viso, la fronte e il collo di lei. La mano destra di Amea era ancora tra le sue cosce, a continuare a darsi piacere, insaziabile. Voltò appena il capo e sorrise.
Stavolta, ne ero certo, aveva sorriso a me. Che fare? Infine vidi Tork che si rivestiva.
-Dove vai?-, chiese lei.
-Controllo che sia tutto in ordine.-, rispose lui. Io rischiai l’infarto. Dovevo sparire!

Riuscii a dileguarmi e a tornare alla mia camera. Mi svaccai sul letto, ma già sapevo che non sarei riuscito a dormire. Infatti, passai la notte a pensare un po’ a tutto quanto.
Rividi Fatma a colazione, ma non mi degnò di uno sguardo. Aveva evidentemente deciso di punirmi a quel modo. Presi la mia fetta di pane e vi spalmai sopra della pasta dolce di frutti pressati. Mangiai senza molto appetito. E poi la vidi.
Altera e bella, camminava con alla cintola una spada e pareva incurante degli sguardi che attirava. Amea avanzava piano. Si prese un bicchiere d’acqua e null’altro.
Mi guardò appena, di sottecchi, con aria indecifrabile, poi si girò.
Improvvisamente mi accorsi di non avere più fame.
Mi misi ai remi. La giornata era senza vento e si prevedeva che si remasse.
La voga durò tre ore, e mi vide stanco e sudato al suo termine. Fortunatamente, le acque quiete permisero di calare una rete in mare e creare una sorta di balineum.
Mi lavai tra le acque dei mari stranieri, rivestendomi prima di risalire sul ponte.
Fatma parlava con alcuni membri dell’equipaggio. Capivo che parlava di Fez e della sua distruzione. Un’altra colpa da mettere in conto a me e a me soltanto.
Mi girai. E mi trovai davanti Izabel.
-La tua amica chiacchera molto. Non temi che qualcuno te la possa rubare?-, chiese con un sorriso. Annusai appena. Alcool. Poco ma si sentiva.
-No. E comunque sono fatti suoi. Tu piuttosto… È solo pomeriggio e hai già bevuto?-, chiesi io di rimando. Lei sbuffò.
-Uff. Sembri mio padre. Dannazione a quel vecchio. Era centurione nelle forze di Aristarda. Gloriosamente morto durante la battaglia di Niacorenia.-, disse con stizza.
-Tuo padre serviva Aristarda Nera?-, chiesi io, incredulo.
-Sì. Mia madre non lo ha mai perdonato. Si sono separati. Io alla sua morte me ne sono andata.-, rispose, -Ma cos’è un interrogatorio? Vuoi che chiamo Asulfio? Lui farebbe volentieri da Explicator!-, rise da sola. Io scossi il capo.
-No, scusa. Non volevo…-, dissi, tentando di giustificare l’ingiustificabile.
-Già… Non hai dormito un cazzo, alla fine.-, dedusse Izabel.
-No.-, ammisi, -Ma neanche tu sembri fresca.-. Lei sbuffò di nuovo.
-Le urla di quella sono peggio di una buccina…-, disse.
-Parli di Amea?-, chiesi per capire. Lei sorrise, complice.
-L’hai sentita? Quando scopa sembra che la stiano sventrando. Urla come una gorgone dei miti antichi.-, la giovane scoppiò a ridere, -Quella si è trombata mezzo equipaggio. E l’altra metà aspetta il suo turno.-. Io annuì, pensando che probabilmente ero nella sua lista.
-Izabel… dove siamo diretti?-, chiesi infine. Lei parve pensosa.
-Verso l’Eire. Le tribù di lì sono prodighe di scambi. Se vorrete tu e la tua amica potrete scendere lì!-, esclamò lei, -O proseguire. A te non dispiace la vita di mare, no?-, chiese.
Ci aveva preso. Non mi dispiaceva, ma sapevo che restare sarebbe stato rischioso.
-Scommetto che stai pensando a lei.-, disse sorniona Izabel con un ghigno.
-Lei?-, chiesi io.
-Amea, e la tua amica. Magari insieme…-, continuò lei con noncuranza. Bevve da una fiasca. Me la offrì. Annusai. Era un liquore di qualche tipo. Scossi il capo. Lei scrollò le magre spalle, -Sì, sai… Amea è bisessuale. Gode sia con donne che con uomini. È una vacca mostruosa.-, mi parve di cogliere invidia in quella voce. La lasciai parlare. I miei pensieri erano in ben altra direzione ma non c’era bisogno che Izabel lo sapesse.
-Quella è un vulcano. È salita a bordo poco tempo fa ma penso conosca Tork da molto prima. Lui non sa che lei lo tradisce. O forse sì. Una volta…-, la voce della bionda si abbassò sensibilmente, -Invitò me a fare sesso con lei. Amea me la leccò in un modo divino… Oh, io non sono bisessuale, ma Amea… ha come un fuoco dentro. Scopare con lei è un’esperienza, più che altro. E intanto Tork la inculava per bene. Un’esperienza!-, ridacchiò Izabel, -Ma lei non vuole figli. Nessuno le viene dentro. Mai!-, disse.
-Ne sai parecchio…-, commentai io, cercando di mantenere un certo aplomb e fallendo consapevole di fallire. Quel racconto mi aveva eccitato. Izabel sorrise, sorniona.
-E a te non dispiace, no? Su! Una notte con Amea e, se sarai ancora vivo, scorderai le tue pene!-, esclamò ridendo sguaiatamente.
-Veramente io…-, iniziai con educazione.
-Sei omosessuale? Oh, sarebbe un peccato. Sei un giovane bello e…-, la mano di Izabel mi strinse il membro turgido attraverso i vestiti, -Ben fornito dagli dei, se questo non è il coltello.-. Io le allontanai la mano, con calma.
-Non lo é. E ti ringrazio. Comunque sì, mi piacciono le donne ma ora come ora, il sesso è quanto di più lontano dai miei pensieri.-, dissi con fermezza.
-Come no! Ce l’hai duro e se ti va di svuotartele devi solo chiedere, Amea non ti direbbe di no!-, ammiccò selvaggiamente, -E nemmeno io!-. Rise di nuovo, piegata in due come dalla migliore delle battute. Io non risi.
-Terrò a mente.-, dissi. Girai i tacchi e me ne andai.

Avevo mentito. Nonostante le mie preoccupazioni il sesso era tutto meno che lontano dalla mia mente, complici le conversazioni di prima e la scena vista la notte scorsa.
Tornai sul ponte e aiutai ad assicurare la vela. Il vento si era levato e la nostra nave procedeva verso l’Eire.
-Quanto all’attracco a Dublinius?-, chiesi. Tork mi sorrise.
-Almeno un giorno. Sicuramente sarà un viaggio quieto. Aristarda non ha giurisdizione su queste acque e da quando si è scissa dall’Impero, la Britannia ha altro a cui pensare che a noi.-, disse. Io annuii. Notai Amea. Mi guardava. Ancora. Insistente.
Era bruciante il desiderio che prepotente sentii. Mi allontanai piano.
-Vado sotto coperta.-, dissi.

Arrivai al primo ponte sottocoperta e incappai in rumori di lotta. Grugniti maschili e femminili. Mi sporsi. Era una sorta di arena. Nel quadrato c’erano un tizio dalla pelle abbronzata e Izabel. Maneggiavano dei rudis di legno, pugnali da pratica atti all’apprendimento del corpo a corpo. Solo che la giovane pareva cambiata: si muoveva con sicurezza, affondava i colpi rapidamente e schivava prontamente. Dubitavo avesse già smaltito l’alcool in corpo ma anche in quel caso la sua maestria era ammirevole.
Mi vide e, dopo aver vinto, avanzò verso di me, coperta solo da dei calzoncini in tessuto e un reggiseno a pezzo unico senza ganci.
-Vieni ad allenarti? O vieni per me?-, chiese.
-Allenarmi non mi dispiace. Mi avevi detto che mi avresti dato lezioni…-, le ricordai.
Lei sorrise, un sorriso che pareva dire: “Sì, divertiamoci!”.
-Ovvio.-, disse. Mi gettò dei calzoncini e un rudis. Mi cambiai alla svelta in un alcova. Misi la Lama della Fondatrice bene in vista. Non me la sarei fatta rubare.

-Esistono due prese. A spatha e a pugio.-, disse. Le due prese erano semplici ma le loro implicazioni erano notevoli. Il pugio permetteva colpi corti potentissimi e rapidi, la spatha garantiva mobilità e ampiezza a scanso della forza.
Dopo aver visto i movimenti di base e il gioco di gambe, Izabel decise di darci dentro.
Vidi qualcuno fare gesti, altri ridevano. Sentii qualcuno fare il tifo, ma non per me.
-Sappi che non ti farò sconti.-, disse la bionda. Ci muovevamo in cerchio, lenti ma consapevoli, ovviamente io mi sentivo comunque un mattone al confronto con lei.
E di fatti, per i primi due round, pur riuscendo a schivare qualche colpo, persi.
Izabel era brava, più di me. Ma non ero totalmente a digiuno di arti marziali e combattimento corpo a corpo: durante la mia formazione era stato Antusio Bruto Maximo a istruirmi nell’arte dell’autodifesa e mi aveva insegnato qualche trucchetto.
Espirai. Sudavo e quando partì il terzo e ultimo round, agii. Ignorai l’attacco in arrivo e colpii verso il polso col mio rudis. Vidi Izabel sorridere con un ghigno arrogante.
Bloccò l’attacco, preparandosi al prossimo.
Ed entrai nella sua guardia muovendomi in fretta e senza pietà. Afferrai il braccio armato della giovane con il mio, proiettandola a terra. Le balzai addosso. Nel combattimento a terra ci contendemmo il pugnale di legno che lei ancora aveva in mano e infine riuscii a riprendere il mio. Lo puntai al suo fianco in corrispondenza del costato mentre lei mi appoggiava il suo sul collo.
-Parità.-, dissi con un sorriso. Sorrise anche lei. E improvvisamente alcuni esultarono. Tutti applaudirono, li vidi quando mi rialzai. E vidi anche un’altra cosa.
Amea era lì. Si mordeva un labbro con espressione curiosa. Mi congedai da Izabel e dai suoi e uscii. La bella donna dagli occhi verdi mi fissò.
-Notevole. Non ti si può certo rinfacciare di essere pigro, anche se sicuramente sei un guardone!-, esclamò al mio orecchio. Il suo fiato caldo pareva un richiamo.
-Oh, beh. Non mi è sembrato che ti desse fastidio…-, dissi sorprendendomi io per primo della mia audacia. Normalmente avrei fatto diversamente. Lei sorrise, in modo lascivo.
-Nessun fastidio… Sai, m’interessi. Non sei il classico marinaio che s’imbarca in cerca d’impiego, né un combattente, neppure un criminale, a quanto vedo.-, gli occhi verdi mi dardeggiarono addosso con intensità assoluta. -Chi sei, Alexander?-, chiese.
Prima che potessi rispondere fummo chiamati tutti sul ponte.
Ci arrivammo pochi minuti dopo. La nostra bandiera, notai, era stata cambiata e ora era interamente bianca. Una bandiera civile, di tregua. Quella che si usava per sottolineare che gli occupanti della nave non erano combattenti. In teoria, era un vessillo che sanciva l’inviolabilità del vascello. Ma con la teoria, in quei tempi, si scavavano le tombe.
-Guardate!-, esclamò il vecchio dai capelli bianchi, Asulfio.
Guardai. Navi. Lontane. In tante. A decine. Forse un centinaio tra grandi vascelli e piccole navi da supporto. E mezzi d’attacco.
-Dei…-, sussurrò Izabel, -È l’Ottava Flotta. E quella…-, puntò una nave col dito e si fece dare un binocolo. –È la Aristarda Domina.-, disse, -L’Ammiraglia delle forze navali dell’Imperatrix in esilio.-.
-Dove vanno?-, chiese Fatma, -Non capisco dove vadano!-.
-Lo so io.-, dissi, -A combattere i lealisti. La guerra civile è tutto meno che finita.-.
-Ma… la nostra rotta…-, iniziò qualcuno.
-Suonare la fonda! Ammainare le vele! Fermate i remi!!!-, sbraitò Tork.
-Ma l’Eire!-, esclamò Izabel. Altri vociarono in protesta.
-Preferite venire uccisi o catturati?-, chiese Amea con tono tagliente.
Si fece silenzio. Tutti, me incluso, guardammo Tork. Il capitano sbuffò.
-Timone a tribordo, invertire. Dirigiamo verso il Mare esterno.
Mentre tutti si affrettavano ai loro posti, Fatma mi guardò. Nel suo sguardo c’era la consapevolezza che forse, cedendo il pugnale a uno dei contendenti avrei potuto evitare quello scontro. Forse. Ma a che prezzo?
Pregai in silenzio gli Dei antichi e nuovi di avere misericordia dell’Impero di Roma mentre le navi di Aristarda si assembravano verso la battaglia contro le flotte lealiste.
Erano passati quattro giorni dalla nostra partenza e già pareva un’eternità

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