Skip to main content

High Utility

Episodio 31

Per contattarmi, critiche, lasciarmi un saluto o richiedere il racconto in PDF, scrivete a william.kasanova@hotmail.com

– Non risponde? – domandò Alessio, che a stento nascondeva l’apprensione.
Luca premette nuovamente il nome di Flavia nella lista delle chiamate sullo schermo del cellulare. Di nuovo, dopo pochi secondi, dagli speaker uscì la voce registrata informandolo che l’utente selezionato non era raggiungibile o il telefono era spento.
– No… – rispose, e a differenza dell’amico non provava nemmeno a dissimulare la preoccupazione che stava vivendo.
Alessio si voltò verso Giada, la quale stava seduta ad una panchina, scrivendo qualcosa allo smartphone come se nulla fosse successo. Luca lo vide stringere le labbra e le mani, pronto a biasimare la ragazza per quanto era appena accaduto, ma lui era certo che la colpa fosse solo sua. Non aveva dato abbastanza importanza a Flavia, ai suoi bisogni, a ciò che succedeva fuori dal letto. Quant’era stato coglione a pensare che sarebbe bastato farla godere per tenerla con sé, e poi lasciarla annoiarsi per tutto il tempo che passava con lui vestita.
– Ma sì, – disse la ragazza, senza nemmeno sollevare lo sguardo dal monitor, – che volete che sia? Sarà andata a farsi una camminata per schiarirsi le idee, per capire cosa fare.
Questa volta Alessio non riuscì a trattenersi. – Parli tu che l’hai fatta incazzare!
– Si vedeva che stava tenendo dentro di sé delle emozioni che doveva lasciar uscire, – ribatté la bionda, questa volta concedendo loro la propria attenzione invece che allo schermo, – io l’ho solo aiutata a fare quel passo che le serviva per riuscirci. Nonostante tutto quello che ha fatto finora, – aggiunse, lasciando facilmente comprendere che alludeva alla sua vita sessuale molto discussa prima di fidanzarsi con Luca, – è timida e non vuole sembrare debole davanti al suo fidanzato.
– E ha tirato su e se n’è andata? – domandò poco convinto Alessio.
– Io vado a cercarla – disse Luca, mettendosi in tasca il telefonino e iniziando a togliere la fotocamera dal treppiede, ma dopo un istante cambiò idea. – Alessio, me la tieni d’occhio tu mentre…
Giada fece uno sbuffo. – Dai, Luca, non preoccuparti – disse, cambiando il tono di voce in uno più dolce e allegro, – non è mica andata a buttarsi sotto una macchina. Sarà a qualche centinaio di metri da qui, nascosta, a piangere. Deve solo capire com’è cambiata la sua vita e quanto è fortunata a stare con te.
Luca non ebbe il coraggio di rispondere, e anche Alessio si limitò a scagliare un’occhiata di fuoco alla sua fidanzata.
– Adesso, mentre l’aspettiamo, perché non viene a sederti qui, all’ombra? – aggiunse sorridendo la ragazza, appoggiando una mano sul tratto di panchina accanto a sé. – Potremmo parlare un po’.

***

Mentre stringeva il busto di Vittorio, Flavia era certa di trovarsi in un sogno, sebbene il termine “sogno” avesse, per la ragazza, un significato troppo gradevole per come si sentiva in quel momento. Forse, sarebbe stato più corretto paragonare quanto provava a quelle esperienze oniriche causate dalla febbre, o da un avvelenamento, se doveva considerare anche le sensazioni a livello di stomaco e visceri. Era come se la sua coscienza fosse scivolata all’interno di un corpo altrui, controllato da un raziocinio che non comprendeva e di cui, ad essere onesta, non apprezzava quanto stava facendo, e ne fosse solo uno spettatore impotente. Come la cutscene di un videogioco in cui ci si è impegnati per portare a termine l’impresa nel modo migliore possibile, e nella scena finale, attraverso gli occhi del personaggio, lo si vede fare qualcosa di incredibilmente stupido, che manda allo sfacelo tutto l’impegno profuso per raggiungere il risultato tanto agognato, e tornare nel capannone, Flavia lo sapeva benissimo, era la definizione di “incredibilmente stupido”.
.
Ma, al pari di una che cercasse di disintossicarsi, tutto il suo impegno, tutta la sua forza di volontà, aveva finito con il consumarsi, i suoi sogni di rendersi migliore si erano asciugati sotto i raggi sempre più caldi e abbaglianti della realtà, e alla fine il lercio fondo di delusione che aveva cercato di nascondere era emerso in tutta la sua deprimente verità. Arenata in un afoso mare asciutto, l’unica salvezza che aveva trovato era stata ricadere nel lurido, squallido vizio che l’aveva resa una paria.
Non ebbe nemmeno bisogno di muovere le gambe molli quando la moto si fermò nel piazzale spaccato invaso dalle erbacce, con gli altri tre mezzi tra cumuli di macerie polverose che sembravano aspettarla. In quella manciata di settimane, il capannone non era potuto cambiare molto, ma all’improvviso le sembrò avere ombre ancora più scure, le edere che si erano avventate sul muro dispiegare foglie secche e nerastre, piene di ragnatele colme di insetti mummificati penzolanti alla brezza del mattino.
L’odore di polvere sembrò scuoterla quando fece l’ingresso nell’edificio, lame di luce che fendevano l’ombra che cercava di nascondere i rottami abbandonati in attesa che qualcuno li portasse via in occasione di una ristrutturazione che era stata iniziata e abbandonata ancora allo stato embrionale. Gli altri tre ragazzi la aspettavano appena oltre il telone cellophanato, tutti e tre nudi: Jago, con il suo corpo dall’aspetto delicato, era seduto su una sedia da ufficio recuperata da qualche parte mesi prima, il cazzo in tiro e la punta dell’indice destro che passava delicatamente sul prepuzio, una sua abitudine strana, che la ragazza aveva sempre trovato raccapricciante, soprattutto per l’espressione ebete e di piacere che compariva sul volto del ragazzo ogni volta che lo faceva; Yuri era a sua volta seduto su una colonna crollata, segandosi lentamente mentre fissava lo schermo dell’IPhone, e Flavia non avrebbe saputo dire se ad eccitarlo era qualche foto della sua presunta fidanzata fotomodella o l’andamento di qualche azione o criptomoneta; infine, Diego era l’unico in piedi, con il suo strumento floscio ma che, alla vista della rossa, cosa che, nel suo caso, non la faceva inorgoglire come succedeva con altri, si stava gonfiando, la fissava con un misto di rabbia e… beh, Flavia lesse solo rabbia sul volto del bastardo.
Vittorio si pose davanti a loro, voltandosi verso la rossa, il suo sguardo impassibile. – Flavia, – iniziò, e alla ragazza, da come pronunciò il suo nome, parve di essere in un tribunale di quelli fatti in fretta e furia al termine delle guerre, per un processo farsa ai danni dello sconfitto, – ti avevo detto, quando avevi deciso che non avresti più preso parte ai nostri incontri, che ti avremmo ripresa con noi quando avessi cambiato idea.
Mentre appendeva la giacchetta al solito chiodo alla colonna, solo una parte della coscienza di Flavia di rese conto che il ragazzo non aveva detto “qualora” o “se”, ma sembrava piuttosto che sapesse già che lei avrebbe fatto ritorno, con la coda tra le gambe. Tra le loro, di gambe.
– Ma avevo anche aggiunto… – continuava, intanto, Vittorio, autoritario, come se avere il comando fosse per lui un’attitudine naturale oscura, qualcosa che solleticava il suo ego in un modo sottilmente perverso – …che per rientrare nelle nostre grazie avresti dovuto pagare lo scotto. Ricordi, vero?
Flavia annuì, lentamente. Ricordava, e ricordava benissimo: il senso di vertigine che l’aveva colta allo stomaco, come se stesse camminando sul bordo di un fosso pieno di mostri, la paura che stava vivendo per la reazione di Vittorio all’annuncio del suo ritiro, la sorpresa che l’avesse presa così bene, le parole che aveva aggiunto e che adesso stava ripetendo. Era come le scene dei film di Harry Potter, che aveva visto tante di quelle volte che avrebbe saputo ripetere ogni singola battuta, riconosciuto se avessero spostato qualcosa nella scenografia.
– Quindi, sei disposta a sottometterti a noi quattro per essere riammessa? – domandò, di nuovo, ma questa volta dalla sua voce e dal gonfiarsi dei muscoli delle braccia la ragazza intuì che stava parlando di qualcosa poco piacevole e ancora meno dignitoso. Malgrado ciò, nonostante una parte della sua mente, quella che non era stata corrotta dal senso di depressione che aveva preso possesso della sua anima negli ultimi giorni, il suo cuore che continuava a sussurrargli il nome del ragazzo che amava e non si meritava tutto questo, della coscienza che le ricordava che avrebbe deluso sua madre, non poté comportarsi diversamente.

– Sì… – disse, abbassando la sua testa contro il petto, con un volume tanto basso che a stento riuscì a sentire lei stessa.
Scorse Vittorio coprire a lunghi passi la distanza che li separava: Flavia capì che aveva parlato troppo sottovoce e lui non aveva capito. Aprì la bocca per ripetere, ma l’unico suono che ne uscì fu un grido strozzato mentre il ragazzo la afferrava per i capelli rossi con una mano e, con l’altra, la spingeva contro la colonna alla quale appende-vano le giacche. Flavia sentì il cemento fermare dolorosamente il suo movimento abbattendosi contro il suo seno e la guancia sinistra, poi Vittorio usare un piede per divaricarle le gambe. Trattenne il fiato quando la mano che non le stringeva le ciocche scese davanti al suo inguine e muoversi alla cieca per sbottonarle i jeans e abbassarle la cerniera zip, ma alla fine i suoi pantaloni calarono lungo le gambe, lasciandola in mutande.

– E allora, bentornata, troietta, – le sibilò in un orecchio Vittorio, un attimo prima di strapparle di dosso le mutandine, e con esse la dignità e l’amor proprio.

Continua…

Per contattarmi, critiche, lasciarmi un saluto o richiedere il racconto in PDF, scrivete a william.kasanova@hotmail.com

5
1

Leave a Reply