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Avviene e basta

By 12 Marzo 2019Aprile 2nd, 2020No Comments

(Amabili e premurose lettrici, garbati e disponibili lettori)

Capita spesso e volentieri che vari lettori chiedano a uno che scrive e che racconta, in tutta semplicità, perché ha scritto certe varietà di racconti, o perché l’ha scritto così, o anche, più abitualmente, perché scrive e perché gli autori scrivano. A questa domanda, che contiene di rimando secondo me (fra le righe) anche le altre, vi dico che non è agevole né scorrevole spiegarla quanto commentarla. Non sempre, in realtà, chi racconta e scrive, è conscio o è informato dei motivi che lo invogliano inducendolo a scribacchiare, non sempre è spinto da un motivo solo, non sempre le stesse ragioni stanno dietro all’inizio e alla fine dello stesso frutto. Mi sembra che si possano raffigurare diverse spiegazioni, che proverò a esporre, ma il lettore sia egli del mestiere oppure no, non avrà difficoltà a rintracciarne e individuarne delle altre.

Io cercherò d’illustrare e di commentare in conclusione quest’origine e ciò nonostante questa causa, che è forse la più sfavorevole, ma che è in definitiva obiettivamente e serenamente la preferibile d’accettare. Forse non sarà bello né piacevole, ma accade.

Perché, dunque, si smette di scrivere, come nel mio caso?

Perché se ne sente l’impulso, in quanto si sta giungendo al termine del bisogno. E’ questa, infatti, come prima ed elementare approssimazione, la motivazione più disinteressata e imparziale. Il creatore, che scrive per il fatto che qualcosa o qualcuno gli detta dentro non opera in vista d’un secondo fine; dal suo lavoro gli potrà venire fama e gloria, ma saranno un beneficio aggiunto non consapevolmente desiderato: un sottoprodotto, insomma. Beninteso, il caso delineato è estremo, teorico, asintotico; è dubbio che mai sia esistito uno scrittore, o in generale un artista così puro di cuore? Tali vedevano se stessi i romantici; non a caso, crediamo di ravvisare questi esempi fra i grandi più lontani nel tempo, di cui sappiamo poco, e che quindi è più facile idealizzare. Per lo stesso motivo le montagne lontane ci appaiono tutte d’un solo colore, che spesso si confondono con il colore del cielo.

Per divertire o divertirsi?

Fortunatamente, le due varianti coincidono comunemente: è raro che chi scriva per divertire il suo pubblico non si diverta scrivendo, ed è raro che chi prova piacere nello scrivere non trasmetta al lettore almeno una porzione del suo divertimento. A differenza del caso precedente, esistono spesso non scrittori di professione, alieni da ambizioni letterarie o non, privi di certezze, d’ingombranti rigidezze indiscutibili leggere e limpide come bambini, lucidi e giudiziosi come chi ha vissuto a lungo e non invano. Il primo nome che mi viene in mente è di Lewis Carroll, il timido decano e matematico dalla vita incorruttibile e integra che ha affascinato sei generazioni con le avventure della sua Alice, prima nel paese delle meraviglie e poi dietro lo specchio. La conferma del suo genio affabile e amichevole si ritrova nel favore che i suoi libri godono, dopo più d’un secolo di vita, non solo presso i bambini, cui egli idealmente li dedicava, ma presso i logici e gli psicanalisti, che non cessano di trovare nelle sue pagine significati sempre nuovi. E’ assai facile e molto probabile, che questo mai interrotto successo dei suoi libri, sia dovuto proprio al fatto che essi non contrabbandano nulla: né lezioni di morale né sforzi didascalici.

Per insegnare qualcosa a qualcuno?

Farlo, e farlo bene, può essere prezioso per il lettore, ma occorre che i patti siano chiari. A meno di rare eccezioni, come Virgilio delle Georgiche, l’intento didattico corrode la tela narrativa di sotto, la degrada e l’inquina: il lettore che cerca il racconto deve trovare il racconto, e non una lezione che non desidera. Ma appunto, le eccezioni ci sono, e chi ha sangue di poeta sa trovare ed esprimere poesia anche parlando di stelle, d’atomi, dell’allevamento del bestiame e dell’apicultura. Non vorrei dare scandalo ricordando qui “La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene di Pellegrino Artusi”, altro uomo di cuore puro, che non si nasconde la bocca dietro la mano: non posa a letterato, ama con passione l’arte della cucina spregiata dagl’ipocriti e dai dispeptici, intende insegnarla, lo dichiara, lo fa con la semplicità e con la chiarezza di chi conosce a fondo la sua materia, e arriva spontaneamente all’arte.

Per migliorare il mondo?

Come si vede, ci stiamo allontanando sempre più dall’arte che è fine a se stessa. Sarà opportuno osservare qui che le motivazioni di cui stiamo discutendo hanno ben poca rilevanza ai fini del valore dell’opera a cui possono dare origine. Un manoscritto o un opuscolo può essere bello, serio, duraturo e gradevole per ragioni assai diverse da quelle per cui è stato scritto. Si possono scrivere volumi ignobili per ragioni nobilissime, ed anche, ma più raramente, libri nobili per ragioni ignobili. Tuttavia, provo personalmente una certa diffidenza per chi “sa” come migliorare il mondo; non sempre, ma spesso, è un individuo talmente innamorato del suo sistema da diventare impermeabile alla critica. C’è da augurarsi che non possegga una volontà troppo forte, altrimenti sarà tentato di migliorare il mondo nei fatti e non solo nelle parole: così ha fatto Hitler dopo aver scritto il “Mein Kampf”, poiché ho sovente rimuginato che molti altri utopisti, se avessero avuto energie sufficienti, avrebbero scatenato guerre e stragi.

Per far conoscere le proprie idee?

Chi scrive per questo motivo rappresenta soltanto una variante più ridotta, e quindi meno pericolosa, del caso precedente. La categoria coincide, di fatto, con quella dei filosofi, siano essi geniali, mediocri, presuntuosi, amanti del genere umano, dilettanti o matti.

Per liberarsi da un’angoscia? Spesso lo scrivere rappresenta un equivalente della confessione o del divano di Sigmund Freud. Non ho nulla d’obiettare a chi scrive spinto dalla tensione: gli auguro anzi di riuscire a liberarsene così, com’è accaduto a me in anni lontani addietro. Gli chiedo però che si sforzi di filtrare la sua angoscia di non scagliarla così com’è, ruvida e greggia sulla faccia di chi legge, perché altrimenti rischia di contagiarla agli altri senza allontanarla da sé.

Per diventare famosi?

Credo che solamente un folle possa accingersi a scrivere unicamente per diventare famoso, ma credo anche che nessuno scrittore, neppure il più modesto, neppure il meno presuntuoso, neppure l’angelico Lewis Carroll sopra menzionato, sia stato immune da questa motivazione. Aver fama, leggere di sé sui giornali, sentire parlare di sé, è dolce, non c’è dubbio; ma poche fra le gioie che la vita può dare, costano altrettanta fatica, e poche fatiche hanno risultato così incerto.

Per diventare ricchi?

Non capisco perché alcuni si sdegnino o si stupiscano quando vengono a sapere che Collodi, Balzac e Dostoevskij scrivevano per guadagnare, o per pagare i debiti di gioco, o per tappare i buchi d’imprese commerciali fallimentari. Lo scrivere, invero, come qualsiasi altra attività benefica e utile, sia ricompensato, ma credo che scrivere unicamente per denaro sia pericoloso, perché conduce quasi sempre ad una maniera facile, troppo ossequente al gusto del pubblico più vasto e alla moda del momento.

Forse per abitudine?

Ho lasciato per ultimo questa riepilogante motivazione, forse perché è la più giù di tono. Non è bello, ma capita: avviene che lo scrittore esaurisca il suo propellente, la sua carica narrativa, il suo desiderio di dar vita e forma alle immagini che ha concepito nel tempo; che non elabori né manipoli né rifinisca né senta più immagini, che non abbia più desideri, che scriva ugualmente per svogliatezza, per inerzia, per abitudine, per “tener viva solamente la firma”. Su quella strada non andrà lontano, finirà fatalmente e disgraziatamente con il copiare unicamente se stesso.

Secondo me è più dignitoso, corretto e accettabile il silenzio, anche definitivo esso sia.

Qui di seguito, potrete leggere il mio conclusivo pezzo dal titolo “Avviene e basta”.

Buona fortuna a voi tutti! (^_-) ☆(*^-^)b ♪ (^ε^)♪

Idraulico1999 (Salvatore)

Mi chiamo Patrizia, sono una signora di quarantasette anni di gradevole presenza, lietamente coniugata con tre figli piccoli, sono alquanto appagata della vita matrimoniale nel suo insieme, mi ritengo affezionata e legata al consorte che ho accanto, reputandomi in definitiva di non cercare altro né di scandagliare alla ricerca d’ulteriori estranei. Dopo svariati anni d’intensi impegni lavorativi, sono riuscita finalmente a trascorrere una villeggiatura con tutta la mia discendenza al mare in una ridente località della provincia di Sassari in Sardegna. Per la nostra riflessiva e spensierata occasione abbiamo locato un ampio casale ristrutturato di recente, nelle adiacenze d’una estesa e lussureggiante pineta non molto distante dal litorale, tenuto conto che il fabbricato essendo situato in disparte dal baccano e in modo accorto dal trambusto locale serale della zona, è in aggiunta a ciò funzionale e finanche ben servito dai servizi degli autobus, in ultimo e addirittura ben incastonato in una zona panoramica di grande bellezza paesaggistica. L’altro caseggiato, simile accanto al nostro, è invece distanziato suppergiù d’una dozzina di metri.

La mattinata si svolge con il seguente e meccanico criterio: al mare suppergiù fino alle ore undici, a seguire con calma il pranzo, dopo la pennichella ristoratrice, dopo nelle ore pomeridiane chi ne ha voglia ancora verso il mare, più tardi il rientro, talvolta la cena fuori nella confortevole trattoria, per concludere la passeggiata sul corso consumando il succulento gelato nella zona pedonale, e alla fine si presenta la notte. In questa ripetitiva modalità vivevamo o dovevano trascorrere al meglio, le tre settimane di riposo e di svago nel bel pieno del mese di luglio. I nostri attigui coabitanti per la circostanza erano due maschi di trentacinque anni d’età, Antonello e Giovanni, ambedue scapoli che celebravano le meritate e sospirate ferie in maniera allegra, distesa e ridente, lasciandosi alle spalle i sacrifici tipici di chi lavora e sgobba costantemente tutto l’anno.

I giorni di villeggiatura avanzavano, gradualmente eravamo arrivati al terz’ultimo giorno di ferie di quelli a nostra disposizione. Quella tarda mattinata io rincasavo dall’arenile con i ragazzi e con il mio consorte, con calma ho approntato un semplice pranzo, mentre tutti gli altri componenti riposavano. Quel giorno mi sentivo insolitamente energica e stranamente pronta all’arrembaggio, verso le cinque del pomeriggio il mio uomo mi domandò se fossi voluta andare con lui sul litorale assieme ai pargoli, tuttavia quel tardo pomeriggio non ero tanto invogliata di recarmi sulla riva, sicché definii il tutto scegliendo di restarmene in santa pace sotto l’ombra dell’enorme pino marittimo del giardino sfogliando delle riviste, poiché dentro il casolare l’arsura era insopportabile, viceversa là di fuori si stava decisamente meglio. Io ero collocata sopra uno sdraio di quelli reclinabili in legno e da lì potevo dominare la completa vista del grande loggiato suddiviso da una larga griglia di legno attorniata dalla siepe rampicante, dove però si scorgeva la parte esterna dell’edificio poco staccato utilizzato da Antonello e da Giovanni, due splendidi e cortesi giovani assai garbati, che ogni mattina mi davano il buongiorno salutandomi per nome allorquando s’allontanavano per dirigersi verso la costa.

Io essendo completamente concentrata e meditabonda nelle mie letture, ben presto m’accorsi del loro rientro dal bagnasciuga udendo i loro discorsi, li vidi entrare nell’edificio, dopo qualche istante Antonello comparve nel giardino facendo scorrere l’acqua della doccia esterna, adibita per l’occasione esclusivamente per il periodo estivo. Io ho seguitato a scorrere con gli occhi gli opuscoli, per tutto il tempo che avvertivo scorrere lo scroscio dell’acqua della doccia. In maniera assente e sbadata mi sono voltata verso Antonello rimanendo totalmente ammutolita e impietrita. Ho osservato quel giovane che si faceva la doccia, presumibilmente non m’aveva avvistato, di conseguenza aveva creduto d’essere ben isolato dagli sguardi degli estranei.

Io, in effetti, non avevo giammai adocchiato né esaminato una corporatura mascolina dissimile da quella del mio sposo, il mio guardo eloquente quantunque aspirassi d’adocchiare le riviste e di non considerare quel fisico, andava durevolmente là in maniera impicciona ispezionando quel cazzo senza veli che dondolava, maneggiato dalle mani di Antonello mentre si lavava con il detergente liquido. Io non ero per niente avvezza nell’avvistare la misura di quel cazzo, per il fatto che seppur osservato da quella distanza appariva nell’insieme alquanto rispettabile. Antonello indubbiamente subodorò la mia silente presenza, perché dirigendo lo sguardo mi chiamò all’istante appoggiandosi lestamente un canovaccio per coprirsi, sgattaiolando in ultimo verso l’interno disapprovando e domandandomi nel mentre d’assolverlo:

“Ti chiedo scusa Patrizia, non volevo, non t’avevo visto”.

“Immagina, può benissimo succedere Antonello” – replicai io in modo placido, seguitando a sfogliare i manuali.

In breve tempo Antonello uscì, al presente era ancora discinto, ma ammantato dalla cintura in giù con un enorme canovaccio, a rilento s’avvicinò alla divisione delle due aree separate dei relativi alloggi, pregandomi se volessi sorseggiare una bevanda esotica assieme a lui in quanto la stava approntando. Io ho placidamente raccolto il suo cortese invito accettandolo, mi sono alzata dallo sdraio lasciando là di sopra l’opuscolo e le riviste, ben presto valicando di lato la grande grata in legno coperta dall’edera, accedevo in conclusione nella superficie prospiciente l’altro alloggio abitato da quei due giovani ragazzi.

“Levami una curiosità, sei da solo? Giovanni non è con te?” – chiesi in maniera incuriosita rivolgendomi ad Antonello.

Antonello mi ribatté che Giovanni stava comodamente ritemprandosi sul giaciglio del piano superiore. Io entrai e mi sistemai sul canapè della cucina, mentre Antonello mi teneva compagnia descrivendomi ed esponendomi come aveva trascorso quel dì al mare. Nel corso della conversazione domandai al giovane per quale scopo non si era abbigliato per come aveva affermato, ma per quale motivo fosse rimasto con un canovaccio indosso, lui lestamente mi confutò che lo avrebbe messo in pratica appena avrebbe preparato quella tisana esotica, riferendomi nel contempo come una bizzarra e tagliente spiritosaggine, che poi il suo fisico non era più una novità per me. Quell’inattesa quanto insospettata opinione da parte sua in verità m’indispose urtandomi leggermente, d’altro canto non era stata un’imperizia né una mia mancanza se io avevo intravisto involontariamente da lontano il suo corpo nudo. In ogni modo lo confortai animandolo e rammentandogli che la circostanza sarebbe potuta accadere a chiunque, che non era stata un’incuria né una negligenza di nessuno, dal momento che non dovevamo architettare né tramare più sull’accaduto. La fragrante bevanda esotica era già pronta, Antonello la versò nelle tazze disponendole sul vassoio e invitandomi nel servirmi. In quell’istante il canovaccio che Antonello aveva infagottato addosso si slegò e cadde per terra, lasciando il corpo di Antonello nuovamente spoglio a pochi centimetri da me. Onestamente io m’aspettavo un contraccolpo e un distinto riflesso da parte di Antonello, che collocasse rapidamente il portavivande che aveva fra le mani per avvolgersi in fretta e per chiedere nuovamente scusa, ma in quel frangente non accadde nulla di simile.

Lui era là statico in piedi di fronte che m’osservava con il portavivande, intanto che m’intimava d’acciuffare la tazza con le mani e di servirmi davanti al suo corpo totalmente disadorno. Io non avevo mai visto un maschio denudato così attiguo se non unicamente il corpo del mio sposo, sorvegliavo attonita il portavivande con quella tisana, la faccia di Antonello e flettendo lo sguardo non potevo fare a meno d’ammirare quel cazzo che oscillava. L’occhiata di Antonello era flemmatica, quasi ammaliante, invitante, decisamente appetibile, come se mi lasciasse tutto il tempo necessario per stabilire e in ultimo di poter scegliere che cos’avessi voluto in conclusione compiere, intanto che notavo distintamente che il suo cazzo si stava ingrossando. Che cosa dovevo fare? Istintivamente mi venne la voglia di svignarmela strillando, eppure nello stesso tempo ero atrofizzata, magnetizzata, come se qualche cosa d’esclusivo e di recondito m’istigasse nel rimanere là a squadrare e infine ad approfittare di quel cazzo che era diventato eretto là a mia disposizione, tenuto conto che un cazzo di quelle dimensioni non lo avevo mai visto.

Antonello d’istinto collocò il portavivande che nessuno di noi due aveva bevuto sul ripiano della cucina disponendosi di fronte a me, lambendomi con dei lievi sfregamenti con quel cazzo sodo ed eretto sulla faccia. Io mi chiedevo se stessi vagheggiando, ma ero asservita e soggiogata da quel lascivo e vizioso vortice, volevo, però un po’ mi trattenevo rimuginando, ero assediata, inibita ma anche usurpata, accerchiata nell’attesa che avvenisse daccapo qualcosa. Antonello s’approssimò poggiandomi la punta del suo enorme glande sulle labbra, domandandomi se gradissi il suo fisico. Io avevo la cognizione che il suo quesito era stato studiato solamente per farmi conversare, per farmi spalancare la bocca tentando d’introdurmi il suo cazzo, malgrado ciò restai zitta con quel grosso glande che premeva intensamente sulle labbra, io lo percepivo formoso, palpitante e sobrio, ma al tempo stesso lo captavo cedevole, conciliante e liscio.

In quella circostanza mi è venuto in mente il mio sposo assieme ai miei pargoli, successivamente la fervida cupidigia m’ha testualmente infagottato e mi sono messa a succhiare gustosamente quel cazzo come se fosse un prelibato gelato. Antonello me lo sfilò dalla bocca, dopo mi fece distendere sul canapè, mi levò adagio il leggero indumento, mi spalancò ammodo le cosce e posizionò la sua faccia fra le mie gambe ispezionandomi con dovizia la fica. A dire il vero, è schiettamente una percezione magnifica, non solamente per la sua lingua che rifiniva e piallava la mia pelosissima fica, ma perché compivo quell’impudico e lussurioso atto con quel giovane forestiero. Quella che stavo vivendo era una situazione assai audace e indisponente, azzardata e lusingante, perché fino ad allora non avevo giammai architettato né ponderato di sperimentare una tale libera e lasciva disubbidienza. A questo punto totalmente conquistata e invasa appieno dal quel godimento, prossima all’apice dell’orgasmo sbarrai gli occhi, ma in modo repentino ecco che sbucò in modo insperato il cazzo Giovanni. In quel preciso frangente non avevo più il vigore d’oppormi, dal momento che ero radicalmente avviluppata dal piacere.

E’ stato sufficiente serrare le labbra, che subito il cazzo di Giovanni saggiò la mia bocca, aveva un buon sapore, ma di proporzioni non era smisurato come quello di Antonello. Antonello frattanto mi collocò il suo cazzo sulla fica e iniziò a premere, intanto che Giovanni si era adagiato con me sul canapè leccandomi il clitoride. Io raggiunsi ben presto l’orgasmo sapientemente stimolata da lui, qualche minuto dopo pure Giovanni raggiunse il culmine, sborrandomi tutta la sua lattescente linfa sopra la bocca, le guance e alcuni fiotti finirono sulle tette. Io non ero abituata a ricevere così lo sperma, non ero esperta né per nulla impratichita nel compere tali atti con il mio sposo, così per evitare di compiere ineleganti e sgraziate impressioni alla fine lo deglutii, verificando in quel preciso istante che cosa concretamente si prova quando ci si cimenta nell’ingoiare quel liquoroso e denso fluido del sesso, in quanto era la prima volta che espletavo quell’azione e la faccenda candidamente non mi dispiacque né mi disturbò per nulla. Soltanto che devo ammettere e confessare, che in quella precisa circostanza mi sentivo squisitamente irrigata da quella viscosa e aromatica sostanza biancastra, eppure dentro di me ritenevo che stessi eseguendo una peccaminosa e irrimediabile condotta, commettendo un grande disonore e una grossa sconcezza, sentendomi sporca e contaminata da tutto quello stato di cose.

In quell’istante fu il turno di Antonello, in quanto si ritrasse appena in tempo, perché la sua esuberante sborrata imbrattò la mia pelosissima fica e parte della pancia, evitando in tale maniera d’allagarmi l’interno della fica, poiché è stato assai rapido, solerte e riguardoso, non avendo avuto da me notizia se io utilizzassi degli antifecondativi, evitando in tal modo di farmi rimanere incinta. Praticamente atterrita mentalmente e per di più assai sbigottita interiormente da quei due cazzi che ancora sgocciolavano, a momenti con l’afflizione e il rincrescimento cucito addosso, dopo l’orgasmo riacciuffai alla svelta gl’indumenti sparsi, mi vestii di corsa e dichiarai loro che sarebbe stata chiaramente sia la prima che l’ultima volta, allontanandomi lestamente come se non volessi più incontrarli né avere a che fare con entrambi.

Qualche ora dopo il mio sposo rincasò, io ero concitatamente aggomitolata sotto le lenzuola affermando e ribadendo d’avere un fastidiosissimo e notevole mal di testa, cagionato molto probabilmente dall’eccessivo sole preso in tutti questi giorni di villeggiatura. Dentro me stessa, invece, rimuginavo diffusamente facendo scorrere come un cortometraggio la mia depravata, oscena e triviale prima volta, tenuto conto che la stessa era avvenuta al di fuori dell’ambito coniugale, quella invero nella quale ho rinnegato soltanto per sesso il mio uomo diventando infedele, palesemente adultera, per il fatto che al presente mi turbo e mi vergogno. Io ero in vigorosa crisi, in forte squilibrio, mi sentivo sprofondare, il rimorso m’assaliva, il tormento mi martellava e il pentimento cercava d’emergere, affiorava e scompariva scompigliandomi l’intelletto.

Solamente il giorno successivo, dopo una ricostituente e tonica dormita, e a seguito d’una ritemprante e ricca colazione nel bar adiacente il viale, ho rammentato quel dissoluto e licenzioso incontro con intenso piacere, come un patrimonio mio prezioso che serbo gelosamente custodito nel mio intimo forziere, che nessuno dovrà sapere né conoscere in alcun modo. Nei giorni a seguire, non incontrammo né rivedemmo più Antonello né Giovanni, perché erano già andati via in segretezza in maniera spiccia partendo da quel casolare.

Quest’oggi, in tutta apertura e in schietta franchezza, a distanza di tempo, sono molto lieta e appagata di poter apertamente pensare che tutto può accadere quando meno te lo aspetti, in aggiunta a ciò, devo avvallare, riconoscere e con tenacia confermare, che perfino i rapporti intimi a letto con il mio sposo sono notevolmente e materialmente migliorati sotto tutti gli aspetti.

{Idraulico anno 1999}

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