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ALBA

Stanza di Eduardo Jiménez, ore 04:00


     Cristina si era seduta il più lontano possibile che le manette le permettevano da Elisabetta, stringendo, a differenza di questa, le gambe sull’addome, come a nasconderle il seno e l’inguine.

     La nuova arrivata, dopo qualche frase di circostanza che grondava derisione, non l’aveva più nemmeno considerata. Sedeva sulle gambe, lo sguardo che vagava in pensieri che la bionda non riusciva a indovinare.

     L’unica cosa che sapeva era che la odiava. La odiava con tutta la sua anima. Quella troia era perfetta, sia fisicamente che nella postura, come quella di certi guerrieri dell’estremo oriente intenti a meditare, preparandosi mentalmente alla battaglia. Lei, però sapeva irradiare erotismo anche in quel momento, con le labbra appena socchiuse.

     Era fottutamente bella, doveva ammettere Cristina. Ma non avrebbe mai ammesso che avrebbe voluto farci sesso pure lei, baciarla sdraiate su un materasso di piume, stringerle uno di quei grossi, invitanti seni mentre contemplava il suo volto che veniva ulteriormente ingentilito da un orgasmo che lei stessa le avrebbe inflitto con una mano nella sua fottuta figa depilata.

     La bionda strinse i denti a quell’immagine, inorridendo nel rendersi conto dell’aumento dell’umidità nella sua passera. L’odore che sentì salire dal proprio inguine fu quasi più intenso della sborra secca che non era riuscita a togliersi dal volto, e in quel momento le parve più disgustoso del fluido uscito da una ventina di coglioni.

     La porta si aprì, dopo ore che l’ultimo fruitore della sua bocca era stato sbattuto fuori dalla camera a favore di Elisabetta, e, con soddisfazione di Cristina, questa volta mostrò davvero l’uomo che aspettava dalla sera precedente. Jiménez, il famoso calciatore di cui tutte le donne avrebbero voluto essere le amanti, si fermò sull’ingresso, l’espressione sul volto che passava da quella sicurezza che solo i veri uomini hanno la capacità di esprimere ad un attimo di sbigottimento alla vista delle due ragazze.

     Cristina si mise seduta meglio, imitando la posizione della puttana castana, gonfiando il petto sebbene privo delle mammelle che pendevano dal busto di Elisabetta, sorridendo lussuriosa a Jiménez, la cui espressione, nel vederla, non solo tornò ad assumere la sua sicurezza, ma si aggiunse anche una sfumatura di divertimento.

     Sogghignando soddisfatto, Jiménez entrò nella camera da letto, dirigendosi verso le due ragazze.

     Elisabetta sembrò ergersi ancora più mentre spingeva avanti il petto, aprendo le labbra, pronta ad accogliere in bocca il suo nuovo amante. Ma il suo sguardo di vittoria e lussuria si offuscò quando vide l’uomo passare davanti a lei, fermandosi di fronte a Cristina.

     Fu il volto della bionda ad illuminarsi ancora di più, il sorriso migliore e più sincero della sua vita ad accendere il luccichio dei suoi occhi. “Non bastano le tue cazzo di tette, troia”, pensò, guardando Jiménez sbottonarsi i pantaloni e infilarsi una mano nelle mutande.

     Incredibilmente, la felicità di Cristina crebbe ancora quando il calciatore estrasse il suo cazzo. Una nerchia di quasi una spanna e mezzo, dall’asta leggermente ricurva verso l’alto, una cappella lunga e grossa, rossa scura, emergeva per quasi metà dalla pelle. Una goccia trasparente colava dal meato, spandendo un profondo afrore maschile che fece bagnare ancora più Cristina e, sicuramente, la delusa Elisabetta.

     La ragazza aprì la bocca, sorridendo con gli occhi all’uomo. – Non potevi scegliere meglio, mio caro masc…

     Persa nello sguardo dominatore di Jiménez e dall’eccitazione che l’aveva invasa, Cristina vide arrivare il getto ma non ebbe il tempo di reagire, nemmeno di chiudere gli occhi prima che il piscio vi finisse dentro. Sputando il liquido giallo che le era finito in bocca, alzò le mani davanti al viso cercando di proteggersi.

     – Cosa… – gridò, totalmente confusa, disgustata, inorridita. – Basta, basta!

     Ma il calciatore, invece, continuò a puntare il suo cazzo contro Cristina, svuotando la vescica che sembrava non avesse avuto la possibilità di liberarsi una sola volta in tutta la notte, cercando di schivare le mani della ragazza a favore del viso. Rideva guardando la sua urina riversarsi sul piccolo seno della ragazza, schizzare sul tappeto che, solitamente, si bagnava di ben altri liquidi corporei.

     – Vedo che ti sei divertita, puttanella, eh? – disse. – Puliamo un po’ quella bega secca che hai in faccia.

     Quando il getto iniziò a perdere pressione e a ritirarsi tra il calciatore e la ragazza, l’unico suono fu il ridere cristallino di Elisabetta il cui volto, nascosto in parte da una mano che voleva celare le labbra, non poteva nascondere lo scherno che provava verso la sua competitrice.

     Cristina alzò la mano libera davanti a sé, le dita gocciolanti, guardando il liquido puzzolente che le colava lungo il corpo. – Ma cosa… – disse, confusa. Fissò il calciatore, un ghigno di disgusto che le distorceva la bocca. – Io… Mi hai mandato qui per fare sesso con te e… Poi tuo fratello ha…

     – Cosa? – esclamò il calciatore, divertito. – Io non ti volevo affatto qui, una rompicoglioni come te, una che si mette a disturbare i miei clienti, che si permette di urlarmi in faccia. Pensi davvero che voglia fottermi una come te? Sono i miei uomini che hanno frainteso e ti hanno portata qui invece che nel Tempio di Tlazolteotl, dove sono invece finite le tue comari, per le quali avevo in mente qualcosa di ben diverso. Ma non importa, i clienti si sono divertiti comunque con loro. – Indicò con un cenno del mento la faccia di Cristina. – Ma vedo che anche tu te la sei spassata.

     Cristina fu sul punto di reagire, ma il calciatore aveva già smesso di interessarsi a lei. Si era voltato verso Elisabetta, accarezzandole prima una gota e poi la gola.

     – Lei è la donna che voglio al mio fianco e nella mia alcova.

     A quelle parole gli occhi della mora scintillarono ed il seno gonfiarsi ulteriormente. – Sarei onorata a darti il miglior piacere della tua vita – disse con una voce avvolgente quanto un abbraccio.

     Il calciatore lasciò cadere i pantaloni e le mutande, mostrando a Cristina un culo e due gambe depilate e muscolose. Si avvicinò alla ragazza, ponendo la sua cappella a pochi centimetri dal suo volto.

     La mano di Elisabetta strinse con dolcezza la lunga asta, aprì le labbra, protendendo la lingua e passandola sulla cappella con una lentezza studiata, fissando negli occhi l’uomo e ammaliandolo con i suoi, ancora più che con il suo corpo perfetto.

     Un attimo dopo, il glande scivolava nella bocca della castana, che prese a succhiarlo come se stesse tettando un capezzolo. Jiménez si lasciò sfuggire un sospiro di piacere che avrebbe spiegato meglio di mille parole quanto fosse eccelsa la tecnica pompinara della ragazza, mentre una mano della stessa si appoggiava sotto le palle e cominciava a massaggiarle.

     Cristina, con la rabbia che le stava crescendo dentro al punto tale da trasformarsi in mal di stomaco, distolse lo sguardo da quello spettacolo disgustoso, ma di cui aveva sognato fino a pochi istanti prima di essere una dei protagonisti. Ma suo malgrado, lo divenne.

     Le mani di Jiménez si posarono sulla testa di entrambe le ragazze. Una accarezzò i lunghi capelli castani di Elisabetta, in un gesto di pura devozione, mentre l’altra afferrò letteralmente quelli biondi di Cristina. Con uno strattone, la ragazza si trovò tratta avanti, cadendo, rovinando con la faccia tra i glutei scolpiti del calciatore, il naso piantato contro l’ano.

     – Leccami il culo, puttana – ordinò il calciatore, mentre le scuoteva la testa bionda con violenza per meglio farle capire l’ordine. – Ti sei divertita nella mia camera da letto, e adesso ripaga la mia ospitalità.

     Cristina provò a fare resistenza, ma il braccio dell’uomo dimostrava una forza incredibile. Il movimento che poi faceva con il bacino, come per farla calare ancora più nel solco del suo culo, aggredendola con un fetore insopportabile, sembrò una presa in giro che la sconvolse, gettandola nello sconforto. Strinse i denti, ma comprese che se fosse voluta uscirne illesa, e soprattutto il prima possibile, accelerando il montare dell’eccitazione e aiutando la puttana castana nella sua opera verso il cuore dell’uomo che entrambe volevano, avrebbe fatto meglio ad aprirli per permettere alla sua lingua di fare quanto richiesto.

Tempio di Tlazolteolt, ore 04:10


     L’unico indizio del fatto che Miriam era ancora, almeno in parte, cosciente, era il suo emettere un gemito appena udibile quando l’attrice dai capelli bianchi sprofondava nel suo culo con lo strap-on che, per la fortuna della ragazza, aveva da tempo scaricato la batteria. Clelia, invece, non sembrava ancora soddisfatta dopo le ore passate a possedere quello splendido corpo ancora nel fiore della giovinezza. Ormai aveva perso la sensibilità all’utero, probabilmente le avrebbe fatto male per dei giorni, ma non importava: quei capelli rossi, quegli occhi verdi… cazzo, quella figliola era tutto ciò che avrebbe voluto essere lei alla sua età. Era come fottere la sé stessa ideale, punirla perché non era mai davvero esistita.

     Certo, la sua amica con i capelli biondi aveva delle poppe maestose, ma per lei non poteva competere con il resto dell’aspetto della sua piccola… e poi aveva potuto venderla a quei due pervertiti dei gemelli Grant, che sembravano scoparsi l’un l’altro attraverso una donna, per una somma considerevole. Avrebbe contemplato il video della loro scopata in una nottata più noiosa di quella.

     Quando aveva proposto a Jiménez di aprire quella discoteca con lei, usando la sua fama per adescare ragazzotte stupide attratte dalle celebrità e poterle usare come schiave sessuali in cambio di un inutile pass, non avrebbe mai nemmeno sognato di trovarsi davanti il suo sogno di bellezza. Convincere il calciatore a far portare dentro quelle tre e poi cambiare gli ordini delle guardie perché conducessero la bionda rompicoglioni nella stanza di Jiménez e la tettona dai Grant fu una cosa piuttosto semplice per lei.

     L’orgasmo che la colse fu qualcosa di appena accennato, nulla a che vedere con i primi che aveva strappato alla figa e al culo di Miriam, ma la lasciò ugualmente stremata. Non aveva più l’età, sebbene il desiderio di sesso fosse ancora maggiore di quando aveva diciotto anni.

     Rimase un attimo a prendere fiato, aspettando che le passasse il capogiro appoggiandosi al cazzo di gomma infilato nel retto della ragazza, poi lo estrasse lentamente. L’ano sembrò incapace di riprendere la sua dimensione originale se non dopo diversi secondi.

     Clelia si abbassò davanti alla ragazza, baciandola sulle labbra incrostate di sborra e accarezzandole i capelli impiastricciati. – Grazie, piccola mia… – le sussurrò, sincera.

     Miriam sembrò non aver sentito, gli occhi socchiusi e un rivolo di un liquido trasparente pieno di bolle che le colava da un angolo della bocca.

     Clelia si alzò, fece un paio di passi indietro e chiamò le guardie fuori dalla porta. Quando entrarono, la trovarono che si stava togliendo lo strap-on svelando un inguine arrossato, bagnato dai continui orgasmi che si era procurata. Gettò le mutande di plastica a terra, diventando un problema delle donne delle pulizie, e si diresse verso la porta celata da cui era entrata ore prima. Lanciò un‘occhiata alle guardie. – Portate via quella troia, lavatela, datele un vestito carino e un pass – ordinò, ricevendo un cenno dalle guardie. Fece un altro passo, fermandosi di nuovo e volandosi di nuovo verso gli uomini. – Ah, apprezzo molto il vostro impegno professionale – li elogiò, di nuovo con quel tono di voce da dolce nonnina. – Concedetevi pure una gratifica.

     Chiuse la porta mentre le due guardie si sfilavano le cinture dell’uniforme portandosi davanti e dietro alla ragazza.

Stanza 4, ore 04:20



     Eleonora non sapeva da quanto era in quella stanza con i due gemelli. Uno dei due, la ragazza non era ancora riuscita a distinguere uno dall’altro, era sotto e lei lo stava cavalcando, mentre i suoi pollici si muovevano capaci sulle labbra della sua passera alimentando il fuoco che le ardeva nell’inguine. L’altro, invece, era dietro, il suo grosso uccello che stantuffava nel suo retto, le sue mani che massaggiavano i suoi grossi seni, indecisa se con maggiore soddisfazione per lei o per lui. Una bocca le baciava e succhiava il collo, un gesto più erotico di quanto si sarebbe aspettata.

     Non sapeva quanti orgasmi aveva donato loro o quanti, al contrario, aveva ricevuto lei, ma ognuno sembrava più intenso, più potente del precedente. Cosa si era persa a causa della sua stupida vergogna… Si sarebbe maledetta per tutta la sua vita, non fosse stato per i due che le sembrava volessero farle recuperare tutto il tempo perduto, e con gli interessi.

     Era forse più sporca di sborra, trasudo vaginale, saliva e sudore di quando l’avevano tolta dall’ara sacrificale, ma questo non le dava più ribrezzo. Anzi, se le avessero scattato una foto in quel momento l’avrebbe appesa in camera sua per ricordare il momento migliore della sua breve vita quando fosse andata a letto e quando si fosse svegliata.

     – Vieni qui, dolce puttanella… – disse quello alle sue spalle, spostando una mano dal seno ad una guancia della ragazza, invitandola a voltarsi verso di lui.

     Eleonora lo fece, ben sapendo cosa l’aspettava. Un attimo dopo la bocca dell’uomo si appoggiò alla sua e la lingua della ragazza si ritrovò a danzare con quella dell’amante, chiudendo gli occhi per godersi ancora più il piacere che le stava infondendo.

     Uno spasmo nell’utero, che ormai aveva finito con conoscere e desiderare, le preannunciò l’ennesimo, fantastico orgasmo. Le sue gambe tremarono e il suo fiato farsi più corto e profondo. Il calore le salì dall’inguine verso il cuore e inondandole la mente.

     – La nostra zoccoletta sta per venire di nuovo – sogghignò soddisfatto quello sotto di lei, aumentando l’intensità con cui le stava coccolando il clitoride con i polpastrelli.

     – Adoro vederla godere – ribatté l’altro, interrompendo per un istante la venerazione delle labbra della ragazza. – Non fermarti!

     Quando tornò a baciarla, però, trovò Eleonora con la bocca aperta e gli occhi spalancati, la testa piegata all’indietro, incapace di respirare. Ebbe un violento spasmo, poi emise un gemito strozzato e sembrò crollare tra le braccia che le cingevano il seno mentre un getto di liquido spruzzava dalla sua fica.

     Priva di fiato, con la testa che le vorticava come una giostra, ebbe bisogno di qualche secondo prima di riprendersi. Provò a dire qualcosa ma le parole le vennero meno quando abbassò lo sguardo sul gemello sotto di lei: era tutto cosparso di gocce sull’addome fino al collo. Lo vide prendere con cura un po’ di quel liquido con la punta di un dito e portarlo alle labbra, suggendolo con soddisfazione.

     Eleonora si portò una mano alla bocca, imbarazzata – Scusa, mi spiace…

     L’uomo sotto di lei rise mentre prendeva un’altra goccia finita sugli addominali.

     Fu quello dietro ad infuriarsi. – Cazzo! – imprecò, gesticolando palesemente troppo. – Certo che devi dispiacerti: hai squirtato sul gemello sbagliato.

     La ragazza scoppiò in una risata, il grosso seno che sobbalzava. – Se vi scambiate di posto posso provare a farmi perdonare – propose, sperando di provare ancora un orgasmo simile.

     – Così mi piaci – rispose quello alle sue spalle.

     – D’accordo, – concordò quello sotto, con un sogghigno sul volto, dimenticando la goccia su un dito, incapace di distogliere lo sguardo dalle due splendide tette, – ma prima falla ridere ancora un po’.

     – Allora sarà meglio una barzelletta veloce, perché tra poco il nostro tempo con lei scadrà.

     A quelle parole, Eleonora provò per la prima volta tristezza da quando si era inginocchiata davanti ai suoi due fantastici amanti. Si sdraiò sull’uomo che aveva bagnato, baciandolo con passione. – Allora usate il mio corpo da puttana per riempirmi un’ultima volta con la vostra sborra. Voglio portarvi per sempre con me – disse, senza impedire ad un’ombra di malinconia di contaminare la sua voce, poi allungò un braccio per far stendere su di sé l’altro gemello.

     Un attimo dopo, la rete del letto iniziò a cigolare per l’ultima volta per il piacere di Eleonora.

Stanza di Eduardo Jiménez, ore 04:30


     Cristina non ebbe idea di quanto quella troia con i capelli castani e le poppe grandi come meloni avesse impiegato a far venire quello stronzo di Jiménez, ma avrebbe scommesso almeno mezz’ora: mezz’ora passata a leccare la nerchia grande quanto un avambraccio, succhiare la punta, ridere quasi imbarazzata quando non riusciva a mettersene in bocca nemmeno la metà. Elisabetta aveva ricevuto per tutto il tempo elogi sia verbali che attraverso gemiti di piacere. Lei che, invece, si trovava bloccata con la faccia in mezzo alle chiappe del calciatore, che dal fetore che emettevano doveva aver appena terminato un paio di partite di seguito senza trovare il tempo di darsi una rinfrescata con un bidet, non aveva beccato che un paio di ceffoni in testa perché aveva smesso di leccare il buco del culo per tirare il fiato senza mettersi a vomitare.

     Alla fine, forse stanca lei stessa, forse seguendo un programma che la ragazza aveva studiato appositamente, usando quella voce calda capace di arrapare anche un sordo, propose: – Permettimi, mio padrone, di donarti piacere massaggiando il tuo grosso cazzo tra le mie tette.

     Fu con un piacere immenso che, quando finalmente il calciatore si svuotò sul petto di Elisabetta, gemendo con una forza tale da far credere che stesse soffrendo, Cristina si trovò senza la mano che la costringeva contro il culo. L’aria con cui riuscì a riempire i suoi polmoni le parve profumata come un bouquet di fiori appena colti. Cadde sul sedere, stordita, facendo appena in tempo a vedere la ragazza dai capelli castani contemplare il volto del calciatore, mentre muoveva su e giù, alternativamente, le sue grosse mammelle, stringendo un cazzo abnorme, con gli ultimi schizzi di sborra che spruzzavano contro il suo mento e ricadendo sul seno, ormai bianco di bega.

     Completamente ignorata da tutti, vide Jiménez aiutare la ragazza a sollevarsi in piedi, baciarla con passione stringendole una chiappa, poi gettarla sul letto e lanciarsi su di lei, penetrandola con nemmeno un terzo del suo attrezzo di piacere.

     La chiavò con diversi colpi prima che lei, con un sorriso divertito, indicasse a lui Cristina.

     Il volto del calciatore, ricordandosi in quel momento della ragazza che gli aveva leccato il culo, assunse un atteggiamento aggressivo, quindi, con una voce simile, chiamò le guardie.

     Queste dovevano trovarsi proprio fuori dalla porta della stanza perché entrarono un istante dopo. Non batterono ciglio nel vedere il suo datore di lavoro intento a scopare o nel vedere Cristina nuda a terra, ma non poterono non concedersi uno sguardo lungo e ben approfondito sul corpo di Elisabetta, scosso dai colpi di bacino del calciatore.

     – Portate via quella troia, – ordinò senza smettere di scopare, le parole divise in sillabe allo stesso ritmo degli affondi nell’inguine della castana, – fatele firmare la liberatoria, datele quel cazzo di un pass e poi sbattetela fuori dai coglioni!

     Non aveva ancora finito di parlare che le due guardie avevano già aperto le manette, sollevato la bionda prendendola sotto le ascelle e praticamente trascindola fuori dalla stanza.

     Cristina, mentre la porta si chiudeva, nascondendo alla sua vista i due scopare ma non i gemiti di piacere di Elisabetta, non seppe dire se in quel momento fosse più arrabbiata, sconfitta, disgustata o invidiosa.

MATTINA

Esterno della discoteca Tlazo, ore 06:00


     Cristina trovò Miriam appoggiata ad un muro, come se si fosse addormentata, appena oltre la porta da cui erano entrate una vita prima in quell’inferno fatto di sesso.

     Dopo essere stata scortata senza una parola, ancora nuda e puzzolente di piscio, fino al piano terra scendendo quattro rampe di scale, alla ragazza era stato consigliato vivamente di usufruire di un bagno presente nella stanza accanto. Non che le sarebbe stato necessario essere spinta a farlo, e, anzi, aveva probabilmente fatto la più lunga doccia della sua vita. Se le fosse stato possibile, si sarebbe pure tolta via la pelle con una grattugia tanto era disgustata. Una volta finito e asciugata, aveva trovato ad aspettarla un vestito nuovo, di un certo valore, doveva ammetterlo, e, nella stanza successiva, un uomo che probabilmente era un avvocato.

     La ragazza si soffermò un attimo sul volto dell’uomo, cercando di capire se assomigliasse soltanto ad uno dei tanti che avevano goduto della sua bocca mentre era ammanettata, ma preferì lasciar perdere e firmare una carta che le imponeva il silenzio su quanto era accaduto nella discoteca; si chiese chi mai avrebbe avuto il coraggio di raccontare a chicchessia un’esperienza come la sua, e che avrebbe cominciato a non parlarne già da quell’istante.

     Le diedero anche la Golden Card, che guardò per l’ennesima volta mentre si avvicinava alla rossa. Un cazzo di pezzo di plastica dalle dimensioni di una carta di credito color oro senza una singola parola. Probabilmente avrebbe potuto farne una anche lei, a casa, con una vecchia tessera telefonica ed una bomboletta di pittura spray.

     Mise una mano sulla spalla della sua amica, chiedendosi come se la fosse cavata lei e quell’altra verginella. Probabilmente le avevano tenute in qualche stanza con le sedie appoggiate ad un muro, ad annoiarsi per tutta la notte.

     E invece, Miriam fece un salto, come se si fosse svegliata di colpo, voltandosi terrorizzata verso Cristina, quasi fosse pronta a strillare. Quando però riconobbe l’amica, il suo corpo si rilassò.

     – Ah, sei tu… – disse in un soffio.

     Cristina credette di leggere per un istante nello sguardo dell’amica sia la felicità, sia il dispiacere che alle sue spalle non fosse comparso un mostro.

     – Stai bene?

     – Io… io sì… – balbettò la rossa, poi estrasse dalla tasca di un abito diverso da quello con cui era giunta lì la sera precedente il Pass dorato, mostrandolo a Cristina quasi fosse un oggetto proibito. – Ho il Golden Pass – annunciò con uno strano orgoglio, nemmeno l’avesse strappato dalle mani della morte ma la stessa si fosse portata via la sua anima come baratto.

     – Non vedo l’ora di tornare a… – iniziò a dire Miriam, ma le parole le morirono in gola e anche la felicità le appassì sul volto. Chiuse la bocca e abbassò gli occhi, mentre un tremito le scosse le membra, come se una folata di aria fredda l’avesse investita. Quando sembrò riprendersi, domandò, con voce sottile, quasi avesse paura a chiederlo: – Hai fatto l’amore con Jiménez? Com’è?

     Questa volta fu Cristina a tentennare. Poi si rese conto che Miriam non aveva specificato quale Jiménez. – Ce l’ha piccolo, quello stronzo – disse, e sembrava sputasse quelle parole. Ma non poté trattenersi dall’aggiungere: – È più uno da puttane con le tettone che da ragazze di classe come me, quel figlio di troia, quindi ho preferito baciargli il culo e andarmene.

     Miriam annuì, o più esattamente scosse la testa come quei pupazzetti che si mettono sui cruscotti che la muovono ad ogni sobbalzo della guida. Cristina ebbe per un momento l’impressione che avesse davvero incontrato qualche vip, ma questi le avessero fatto qualcosa di brutto, come darle della droga.

     – A proposito di tettone, – riprese la bionda, – quell’altra figa di legno di Eleonora che fine ha fatto?

     Come se il ricordo scatenasse una sensazione di dolore, Miriam strinse la testa tra le spalle quando disse: – L’avevano portata via, ad un certo punto. Non so che cosa le hanno fatto…

     Pochi attimi dopo, la porta da cui era uscita Cristina si aprì di nuovo, ma lentamente e cigolando, attirando l’attenzione delle due ragazze. Alla bionda fu impossibile trattenere un verso di sorpresa, mentre Miriam, stupita, dava voce allo stesso pensiero: – Ma… quella è Eleonora?

     Cristina non seppe cosa rispondere. Quella era davvero lei, ma… non poteva essere lei.

     La ragazza dal seno prosperoso era tra i due gemelli Grant, abbracciando entrambi, baciando uno e poi l’altro sulla guancia, alternativamente. I due uomini la cingevano con un braccio ciascuno, non vietandosi di palpare alcune zone del corpo della bionda in particolare.

     – Ci vediamo, ragazzi – disse Eleonora, sciogliendosi dalla loro stretta con un movimento degno di un felino.

     – Ci mancherai – risposero gli altri due, sospirando.

     La ragazza, percorsi alcuni passi, si voltò verso di loro e, un sorriso lussurioso sulle labbra, afferrò con entrambe le mani il decolleté dell’abito che le era stato donato dalla direzione della discoteca, abbassandolo quando bastava per far vedere i seni fino ai capezzoli. – Questo per divertirvi nei momenti di noia – disse con un occhiolino.

     Uno dei gemelli le mandò un bacio, l’altro le giurò il proprio amore.

     Eleonora rise di gusto mentre si girava e si avviava verso le sue due amiche. – Ciao, ragazze. Come va? – domandò, la sua voce squillante che esprimeva tutta la sua felicità.

     Cristina sbatté le palpebre, confusa. – Ma cosa…

     – Ele! – esclamò Miriam, facendo qualche passo verso l’amica. Solo in quel momento, Cristina si accorse che la rossa camminava con fatica e, a giudicare dalla smorfia sul viso, con dolore. – Stai bene? Dove ti hanno portata?

     – Oh, amica mia! – Eleonora abbracciò la rossa con trasporto. – Come sono felice di rivederti! Ti hanno dato il Golden Pass, vedo.

     Miriam lo sollevò davanti alla ragazza. Sorrideva, ma agli occhi di Cristina non sembrava esserci nemmeno una briciola di felicità.

     Eleonora protese una mano verso di lei. – Me lo fai vedere?

     La rossa apparve davvero stupita. – Come, non te l’hanno dato?

     – No – rispose la bionda. Infilò una mano nel solco tra i grossi seni ed estrasse un cartellino con una catenina argentata che le cingeva il collo. Lo mostrò all’amica: un tesserino con il logo della discoteca e il nome della ragazza scritto a mano. – Mi hanno dato questo, dopo che ho chiesto un colloquio di lavoro per un posto nella sala dove ci hanno legate – spiegò, incapace di trattenere un sorriso ed un luccichio negli occhi.

     Al contempo, il volto della rossa sbiancò e gli occhi le si sgranarono.

     – Sì, – continuava Eleonora, come se stesse confessando qualcosa che l’aveva divertita ma che, sapeva, avrebbe fatto meglio a tacere, – ne approfitterò per pagare a tutte la vacanza, così da sdebitarmi.

     Cristina non riuscì a spiccare parola.

     – E ho visto il signor Jiménez, – continuò la ragazza, ancora più sorridente, – e ha detto di voler fare lui, di persona, il mio colloquio. Che onore! – disse, sogghignando soddisfatta. – Tra l’altro, devo dire che era seguito da una ragazza che immagino fosse la sua segretaria, che è un pezzo di fica pazzesca.

     La bionda guardò la verginella avviarsi lungo la strada, seguita da Miriam zoppicante. Le due iniziarono a parlottare sui gemelli Grant dopo che la tettona aveva sostenuto di esserci finita a letto. La vide fermarsi dopo qualche metro, voltandosi verso di lei. – Dai, andiamo, Cristina: ho voglia di chiederti qualche consiglio su come ammorbidire il calciatore quando farò il colloquio – disse con il sorriso che le illuminava gli occhi, poi scoppiò a ridere. – Anzi, più che “ammorbidirlo”, indurirlo!

     Nella penombra che la mattina non aveva ancora scacciato da quel vicolo, Eleonora non poté vedere lo sguardo assassino di Cristina. Quando poi l’altra riprese a camminare seguita da Miriam, Cristina prese dalla tasca il suo Golden Pass, lo fissò con disprezzo per un istante, poi lo scagliò in un cestino della spazzatura.

     – Fanculo! – sbottò a bassa voce.

FINE

Per contattarmi, critiche, lasciarmi un saluto o richiedere il racconto in PDF, scrivete a william.kasanova@email.it

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