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Eneide Postmoderno-Il racconto dell’Esule

By 30 Marzo 2020Aprile 2nd, 20202 Comments

-Esigo la verità, o esule. Secondo le nostre leggi, ti ho curato, aiutato te e i tuoi compagni. Ho accolto nel mio regno la vostra gente, accudito il vostro scarso bestiame, alleviato le sofferenze dei vostri feriti, seppellito i vostri morti, accompagnato i nascituri alla vita… La verità, un così piccolo prezzo.-, la voce della Regina di Kelraes era bellissima, soave. Come lei: la carnagione ambrata e il fisico decisamente aggraziato e privo d’imperfezione alcuna ricoperto dal non troppo pudico abito che lasciava intravedere le sue forme sotto la ricca porpora pareva solo aumentare la sua bellezza.
Il giovane, dalle vesti lacere, il viso bello ma tutto sommato triste, velato da un dolore indicibile, parlò, senza timore ne soggezione.
-Veramente tu vuoi, o regina, che un dolore indicibile risorga su di noi turbando la placida notte, nel mio narrare della fine del fiore di Licanes e della violenza che ci fu fatta, al perire della nostra patria tra le fiamme di scellerata guerra per mano dei Cimanei?-, chiese.
-Narra, o viandante. Cominciando dal tuo nome.-, disse lei. Il giovane aveva venti, ventisei anni al massimo. Era armato ma la regina non temeva. La sua arma era una spada e il suo braccio, quelle di lei le quattro guardie, tutte donne e tutte letali, disposte agli angoli della sala, perennemente attente a ogni movimento nella sala.
-E sia!-, esclamò il giovane. Alzò il capo verso il soffitto, un raggio di sole entrò dalla lucerna, illuminandone i lineamenti. Incominciò a narrare.
-Giungo da Nives, dalla sua capitale, Licanes. Un fiore tra i fiori. Il mio nome é Janus.-, disse, -Accadde che la mia patria divenne terra di conquista per la brutale orda che respinse per ben due lustri, in terribili battaglie, sinché un traditore per amor di una guerriera barbara la dannazione della nostra patria siglasse e con mano lesta aprisse le porte agli invasori. Nella terribile notte del decimo giorno del primo mese del decimo anno d’assedio, fui svegliato dai belluini ululati di vittoria. I pochi nostri uomini desti furon massacrati, come a un manipolo d’eroi s’addisse, essi furono abbattuti dalle lame e dalla ferocia. Io, figlio del Conestabile fui ordinato di fuggire, di trovare nuova patria alla nostra gente, gli esuli che tu hai misericordiosamente accolto.-.

Nulla si muoveva nella sala e nessuno fiatava. Janus riprese.
-Non v’era uomo, donna, infante o anziano venerabile che non sia stato ucciso o leso nella mente o nel corpo: nel loro delirio indotto dalle orribili misture che ingerivano prima della battaglia, i Cimanei uccisero e stuprarono, violarono e predarono, senza requie. Fu una notte atroce per chi la visse e pesante il mio cuore al dover lasciare la mia patria e non felicemente perirvi per dover poi convivere col ricordo dell’orrore.-. Tale era l’espressione sgomenta del giovane che la stessa regina parve, per un istante vivere la medesima angoscia, il medesimo dolore.
-E come giungesti qui, Janus di Licanes? Quale vento propizio indirizzò la tua nave verso i lidi da me amministrati?-, chiese con voce soave.
-Fu un sogno, o regina di guerriere! Fu una visione, donatami da dei che non venero da troppo e che mai cesserò di ringraziare. Fu la mano di un essere celestiale a indicarmi la via e la grazia accordataci dal Protettore dei Navigatori a concedere alla nave che fu nostra l’approdo.-, disse Janus. La regina annuì, apparentemente soddisfatta del risposta.
-Se non avessimo trovato la tua generosa patria, sicuramente saremmo morti sicché le nostre scorte eran finite da lungo a causa dell’errare tra mari stranieri e ignoti. A lungo vagammo, multiforme manipolo di scampati dalla distruzione della patria, recanti le sue più sacre vestigia.-.
-Ossia?-, chiese la regina.
-Esse son la nostra volontà di ricostruirci una vita, la tenacia dono dei nostri avi e l’intelletto di chi non ha a temere alcuna superstizione.-, disse Janus. Lei sorrise, beffarda.
-Ti contraddici, o viandante ultimogenito della tua patria: affermi di schivare le superstizioni ma dici che un dio ti concesse la grazia… Sei di certo confuso o non credi alle tue parole?-.
-Sull’onor mio, o nobile regina, ho detto che fummo graziati da un dio, non da spirti dappoco. Essi li lascio a prestigiatori e fraudolenti!-, ribatté l’esule.
-Ordunque, come giungeste alle mie rive é chiaro. Ma perché la vostra città suscitò tale guerra?-, chiese la regina, lo sguardo interessato sul giovane che ricambiava con uno sguardo fiero.

-Fu aimhé cosa assai triste. Il popolo che ci assediò per decenni era una moltitudine guidata da tiranni e conquistatori, nemici che noi, i Nivei, abbiamo con nostra vergogna generato.-, rivelò.
-Come può essere questo?-, chiese la Regina.
-Fu invero la nostra cupidigia, il nostro desiderio di una casta di condottieri, a guidare a questo scisma, la nostra gente decisa a forgiare un esercito inarrestabile e ineguagliato dalle potenze del nostro tempo. E fu la nostra gente a scoprire l’errore troppo tardi quando i ribelli, ormai divenuti signori di guerra in terre lontane, tornarono come figli ripudiati a percuotere padri e madri nella notte senza luna dell’estate.-, narrò Janus, -Fummo noi a inviarli in guerra contro Thebelos, città nostra nemica. Di essi, per anni, non avemmo notizia. Poi li vedemmo tornare, barbari conquistatori. Invitti condottieri adornati delle vittorie sanguinosamente ottenute. Cotanta brutalità ci fece orrore e capimmo che ci eravamo spinti troppo oltre. Distrutto fu l’elisir del male che diede origine la loro ferocia, demolita l’empietà compiuta in nome della vittoria. Ma tardi ormai! Quanto tardi, o regina!-, lacrime bagnavano il viso dell’esule ora, -Quanto l’orrore quando sapemmo di villaggi bruciati, del nostro popolo schiavo e in catene e sterminato per mera brama di brutalità e sottomissione! Quanta la ripugnanza per tale orrore! E tanto orrore, da noi scatenato con scienze ormai arcane e perse, disperse nel rado vento degli Alfisei, piombò come giusta punizione sul gioiello che era la mia patria!-.
-Esiste presso la mia gente il concetto dell’atto che torna. È destino. Nulla resta impunito.-, sussurrò piano la regina ma con voce sufficiente da essere udita.
-Se esso é destino, perché conceder la vita mia salva?-, sussurrò Janus.
-Perché tu possa redimere la tua gente dal fato.-, replicò lei, -Ti prego, continua.-.
Facendosi forza, l’esule riprese.

-Armi impareggiabili e arcane balenarono quella notte e per i giorni seguenti! Lame di fuoco tagliavano uomini e bestie. Eppure, per uno che cadeva, un altro giungeva. E quando si giunse al corpo a corpo, la loro ferocia fece sentire il suo atroce peso.-, disse, -Vi furono morti, molti. Le pianure arsero, i templi furono distrutti e lordati dal sangue di guerrieri e sacerdoti.-.
-E tu fuggisti quivi?-, chiese la regina. Janus scosse il capo.
-Io fui tra gli ultimi ad andare, accompagnando il padre mio sino alla cala donde la nave nostra attese.-, disse, -Ma mi battei, finanche durante il sacco della nostra città, mentre Emitheus, nostro regnante cadeva sotto le lame dei barbari e l’ultima, vana, disperata resistenza fu doma.-.
Janus chinò il capo, sopraffatto. Lacrime caddero dagli occhi suoi.
-Ricordo il fumo in lontananza. E non vi fu tra noi uno che non versasse calde lacrime come me ora.-, disse, -E non vi fu tra noi alcuno che non inneggiasse canti di cordoglio.-.
-Rasserenati Janus di Licanes, poiché qui sei al sicuro. Al tuo popolo é dato asilo fintanto che lo vorrà. Questo io ho deciso.-, decretò la regina. Janus chinò nuovamente il capo, in segno di gratitudine. La regina sorrise, benevola.
-È mio personale desiderio che tu mi narri della tua patria, o esule di nobili lidi.-, disse, -Ma comprendo se vorrai attendere che s’affievolisca il dolor della perdita di un simile fiore.-.
Lui annuì. Ringraziò di nuovo.
-Sii tu condotto ai tuoi alloggi e sia ogni tuo bisogno appagato, così io comando!-, esclamò lei.

Scortato in un alloggio principesco in muratura all’interno del palazzo della Regina, Janus fu servito di vino e carni cotte. Dopo il cibo, egli reclamò tuttavia un bagno, com’era uso nella sua antica patria. In una vasca incisa nella pietra, si lavò della sporcizia del viaggio e della devastazione. Uscì dalla vasca, un telo avvolto alle reni, trovandosi davanti una giovane.
Essa, carnagione ambrata come tutte le amazzoni del Regno, era vestita di poca veste, il sorriso invitante, i capelli scuri come l’ala di corvo e la bocca seducente. I seni erano sodi e pieni e tutto il suo corpo pareva costruito per l’amore.
-Chi sei, o giovane dalla meravigliosa bellezza e quale il tuo messaggio?-, chiese Janus.
-Alcun messaggio reco se non il desiderio di compiacerti, mio signore. Così mi é stato richiesto. Il mio nome é Althea.-, disse la giovane. Facendo seguire il gesto alle parole, si avvicinò, notando quanto la sua sola vicinanza avesse grandemente mutato l’umore dell’esule, il cui desiderio appariva palese. La giovane, spogliatolo del telo, s’inginochiò, suggendo il di lui membro.
Non volendo vedere una prestiva fine di quella grazia, Janus fece alzare e spogliò Althea il cui corpo bronzeo e fiero era atletico quasi quanto quello della Regina stessa.
Inginocchiatosi dinnanzia a lei, distesa ora sul letto di soffice piuma, rese omaggio alla sua vulva.
I gemiti dell’amazzone riempirono la stanza, come il suo profumo, mentre il nettare del suo piacere dissetava Janus di una diversa sete.
-Prendimi mio signore… affonda la tua rovente verga e donami un figlio!-, lo implorò lei.
-Non sei tu una guerrriera?-, chiese Janus, -Sia dunque tua la gloria di possedermi e mio l’onore di versare il seme nel tuo fertile grembo.-, disse.
La giovane annuì e s’impalò su di lui. La cavalcata durò diversi minuti, poi i due amanti cambiarono posizione, con Janus che possedeva l’amazzone come se fosse un toro e lei una vacca. Alla fine, spossato dal godimento, l’esule si addormentò, con Althea al suo fianco.

La regina, vedendo la scena attraverso una pittocamera che riprendeva e le inviava le immagini in tempo reale, sentì il calore affluire verso il suo ventre.
Avrebbe tanto voluto essere al posto di Althea che pur era una bellissima donna e una valente guerriera. Quello straniero l’aveva fatta sua con le sue parole prima che con qualunque altra cosa.
Ora, la Regina delle Amazzoni non avrebbe avuto pace sino a che non avesse preso il seme dello straniero dentro di sé.

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