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Tornami ad ingannar, ch’io te ’l perdono,
sonno, poi che bisogna per men danno
cercar l’ombra e fuggir l’e
ffige vera.
 
Caro Diario,
perdonavo il Sonno per l’inganno che mi propinava, tanto ne ero piacevolmente rapita e lui non mi abbandonò, che, anzi, mi strinse al petto e, lentamente mi adagiò, cantando una dolce nenia. Sentivo il fiato profumato sul mio corpo, mentre, curvo su di me, si accostava alle orecchie, bisbigliando cantilene d’amore. Non capivo quel che diceva, ma il suono era sensuale.
 
Gli occhi chiusi, riposai, fino ad addormentarmi profondamente. Sembrava che ondeggiassi, mentre le sue mani sfioravano la mia fronte, dipartendosi, poi, sulle guance che si tingevano del colore dell’amore; passavano sulle labbra senza toccarle, seguendone l’orlo fino all’arco di cupido. Volavano leggere, spiccando il balzo dal bordo del vermiglio verso la fossetta del mento, lì dividendosi.  L’una risaliva lungo la mandibola verso l’orecchio. L’altra discendeva, scivolando lungo il declivio del muscolo laterale del collo per fermarsi sullo sterno. Dubbiosa restava, lasciandomi in ambasce, attendendo di conoscere la sua destinazione. 
 
Speravo che la direzione fosse quella giusta. Infatti scese nel solco che ripartisce le mammelle, circumnavigò la rotondità delle curve inferiori, quasi a misurarle nella coppa delle mano. Intanto la mano sinistra indugiava sul padiglione dell’orecchio, facendolo vibrare come un bicchiere di cristallo sfiorato sull’orlo. Il brivido si trasmise per tutto il corpo, raggiunse il seno. Vibravano finanche i capezzoli inturgiditi sulla vetta della rotondità delle mammelle.
 
Ardevo dal desiderio che si decidesse a toccarmi e la smettesse di accontentarsi di sfiorarmi. A me non bastava più. Sentii che anche l’altra mano  aveva abbandonato il lobo dell’ orecchio, spiccando il balzo fino a sostenere la coppa della mammella libera dalla sua omologa. Cominciai ad agitarmi nel sonno, a sospirare, ad affannare, a lamentarmi, mentre la smania di essere toccata raggiungeva il massimo.
 
Ora mi contorcevo, mugolando come una cagna in calore. Pretendevo che mi artigliasse il petto per suggere dai capezzoli tutto l’alimento vitale che ero pronta a donare, soddisfacendo la lascivia che si impossessava del mio corpo. Ma lui insisteva a apporre le mani in modo da trasmettere l’intenso, insopportabile aura vitale che si trasmetteva, insoddisfatta, in ogni membra del mio corpo.
 
Stavo per piangere, almeno in sogno, quando l’effusione di una dolce sensazione, una ondata di sensuale concupiscenza mi travolse. Finalmente, stavo chiavando. Nel vero senso della parola. Avvertivo la fessura che si allargava per accogliere la cappella di Monsignore. Si dilatava, si dilatava fino ad avvolgere per intero l’intrigante testa. Fremevo dal desiderio che continuasse, pregando che non mi svegliassi prima di aver adempiuto ai miei doveri.
 
Scossa ripetutamente, l’accolsi completamente, consentendo che  il nodoso bastone penetrasse la vulva e iniziasse a suonare il clavicembalo d’amore. Ah, come suonava bene! Che delizia di tocco, che profondità… di sentimento! Sentivo che non s’arrestava e, impetuoso, ardito, il cavaliere penetrava, penetrava fino al fondo della caverna, per poi risalire, risucchiando tutta la mia lussuria verso la superficie, per poi ricadere violentemente nel fondo e lasciarmi senza fiato.
 
Andava avanti da qualche tempo, quando sentii un respiro affannoso che diventò fragoroso, fino a diventare un urlo: “Prendimi tutto, ancora, ancora, ancora…!”. A quel punto mi svegliai, sballottata come tra i flutti di un mare in tempesta che un Dio agitava. Il turbine mi avvolse. Teo s’era infilato nel mio letto e si incuneava nel mio fragile corpo. Innestato con arroganza mi prendeva e s’era portato molto avanti con il “Lavoro”.
 
Non era un sogno. Mi stava chiavando allegramente. Tutte le sensazioni che provavo e credevo solo di immaginare erano reali. Da quanto tempo durava così non saprei dirlo, comunque ne ero rapita. Lo baciai appassionatamente, quasi strappandogli la lingua che s’era affacciata sulle sue labbra per infilarsi nella mia bocca. Si agitava su di me trombandomi che era una meraviglia. Impastava e imburrava, infornando e sfornando, cuocendo con fuoco ardente la mia “tortina”.
 
Sentivo la passione che ci consumava, finché Teo non esplose in un fuoco pirotecnico, lanciando mille lapilli. Sentii e immaginai i violenti spruzzi che percorrevano veloci le mie tube di Falloppio per giungere alle, per fortuna, ormai sterili ovaie. Strinsi le braccia sulla schiena, spinsi sul suo coccige le mani per tenerlo serrato contro di me, per sentire meglio la sua carne che mi attraversava e divorava la mia. Non ne ero mai sazia. Mi dimenai ancora, ancora e ancora. Adesso ero io a muovere il coccige in avanti e indietro per spillare fino all’ultima goccia di quel liquore tanto agognato. 
 
Giaceva inerte su di me, respirando a fatica, mentre continuavo a sfruttare gli ultimi istanti di erezione del suo pene, rubandogli il mio godimento. Ebbi due orgasmi consecutivi dopo che ebbe conclusa la sua fatica. Lo tenevo stretto, usandolo come vibratore. Mi piegai contro di lui, mentre arrivavo al culmine del piacere, poi lo abbandonai come un sacco afflosciato.
 
Lo sospinsi di lato e lui si rivoltò supino, abbandonando il bastimento fuori dall’ormai inutile porto della mia fica. Insensibile, giaceva. Un stertore, un rantolo improvviso lo scosse tutto, interrompendo la preoccupante apnea; poi iniziò a respirare regolarmente; la vita ebbe il sopravvento, si girò verso di me e si addormentò al mio fianco. Gli tirai sulle spalle la coperta, e mi accucciai fra le sue cosce.

Terra alla terra, vieni su di me:

voglio il tuo vomere nella mia terra,

fiorire ancora traboccando

e offrire il fiore a te, mio cielo in terra. (Valduga)
 
Esausta, ma contenta, mi addormentai di botto.
Nina Dorotea

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