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Capitolo 3 di 6

Per contattarmi, critiche, lasciarmi un saluto o richiedere il racconto in PDF, scrivete a william.kasanova@hotmail.com

Sono le sette e mezza quando mi trovo, quasi contro il mio volere, davanti all’ingresso de “Il Vecchio Torchio”. Il cartello in legno lucidato, con la scritta in bassorilievo, non è illuminato dai faretti nonostante il sole sia calato oltre le montagne che circondano il lago di Garda. Anche le luci nella zona destinata ai villeggianti sono spente e le uniche accese sono quelle di, suppongo, la cucina dei padroni di casa.
Mi è impossibile impedire al cuore di battere sempre più forte e le mie gambe tremare mentre mi avvio lungo il breve vialetto che conduce alla porta d’ingresso al punto tale che, quando afferro la maniglia, mi sembra di essere vittima di un attacco di ansia. Devo quasi fare uno sforzo per trovare la volontà di abbassare la mano e aprire l’uscio, che si muove senza rumore, girando sui cardini tenuti ben oleati, celando il mio ingresso ai due ragazzi in casa, nemmeno io sia una ladra.
E approfitto della situazione per attraversare il salotto e risalire le scale senza il minimo suono. Per qualche motivo, che io stessa non riesco a spiegarmi, non voglio annunciare il mio ritorno.
O, per essere onesta, sono le parole di Sara di forse un’ora fa a spingermi a comportarmi così, come se fossero state una formula magica scritta su un filo di ragnatela che potrebbe spezzarsi nel caso disturbi lei e suo fratello, e la consumazione della loro cena un rito pagano che non deve essere interrotto per nessun motivo.
Il suono delle suole delle mie scarpe sembra rimbombare nel corridoio delle stanze vuote, quasi possa sovrastare quello flebile di qualche programma televisivo che proviene da sotto. Anche la porta della mia camera è silenziosa, e quasi sento il suono dell’aria che si fende mentre il battente si apre all’interno del locale.
Non accendo la luce ma mi siedo sul materasso, che sprofonda di qualche centimetro sotto il mio peso con un sospiro, chiedendomi improvvisamente cosa fare nell’attesa. A che ora aveva detto, la ragazza? Le nove e mezza?
Sposto con una mano la manica della maglia leggera che ho indossato per la cena al parchetto e leggo l’orario sull’orologio digitale: quasi le otto, scopro con un senso di delusione cocente… Mi tocca ancora aspettare un’ora e mezza per… Un profondo respiro a bocca aperta fa gonfiare il mio petto, tanto lungo che dura diversi battiti del mio cuore che sembra fermarsi, quasi non trovi lo spazio per muoversi agevolmente, e un fastidioso bruciore affiora sui miei occhi al pensiero di Luca che scopava sua sorella.
– Cazzo – sussurro mentre un capogiro si affaccia nella mia mente ma subito scompare. – Devo trovare qualcosa da fare fino ad allora.
Il mio sguardo si posa sul mio tablet, ancora sul tavolino, dove l’ho lasciato ieri sera, la tastiera sottile rimasta innestata e il cavo di alimentazione collegato al muro ma non al computer stesso. Nessuno l’ha toccato, anche se il letto è stato rifatto durante il giorno. Solitamente, la sera, passo un paio di ore a buttare giù quella che si potrebbe definire una brutta copia degli articoli che poi, lungo la settimana, scriverò con maggiore agio a casa e che pubblicherò sul mio sito, oltre a caricare le foto e a modificarle un po’ digitalmente per compensare la mia tecnica non proprio eccelsa sul campo, ma in questo momento, lo capisco da come mi sento, non riuscirei a buttare giù mezza riga senza perdermi nei pensieri. No, nemmeno gli appunti riuscirei a scrivere.
Lo prendo ugualmente nel massimo silenzioso, neppure ci sia un predatore in agguato, muovendomi nella stanza in cui i particolari attorno a me stanno sprofondando nell’oscurità che sembra acquistare una consistenza fisica. Stacco la tastiera dallo schermo con un gesto della mano ormai abituale quanto usare una forchetta o allacciarmi le scarpe, lasciandola sul tavolo, e torno al letto. Spostandomi lentamente, mi sdraio, sprofondando nel copriletto e le coperte, il cuscino che avvolge la mia testa.
La luce gettata dal monitor, quando lo accendo, ferisce i miei occhi come se sia intenta a guardare il sole. So già che si rivelerà inutile, ma avvio ugualmente l’app di Kindle e apro la raccolta di romanzi della saga di Dumas dedicata alle gesta di d’Artagnan che ho iniziato un paio di mesi prima. Un muro di caratteri si dispiega davanti a me, simili all’armata spagnola che il giovane Raoul deve affrontare a Bethune, ma, a differenza del figlio del Conte di La Fère, io non riesco a sconfiggerlo. Arrivo a leggere poche righe, senza nemmeno riuscire a capirle, e poi mi ritrovo mezza pagina dopo, passando dallo studio del cardinale Mazzarino a Versailles, alla camera da letto di un inglese che sembra comparire all’improvviso nella storia.
“Dannazione…”, penso, cercando di concentrarmi ma, poco dopo che l’inglese viene visitato in stanza da un qualche ragazzo che chiede la verità della sorte della madre, la mia mente abbandona la Parigi del XVII secolo per scivolare nel giardino della sera precedente, sostituendo i nobili con Sara inginocchiata e i moschettieri con Luca intento a fotterle la bocca con foga.
Rinuncio alla lettura, lo schermo del Kindle abbandonato sulla coperta accanto a me unica, flebile fonte di luce nella stanza, mentre all’esterno quella ambientale continua a scemare, le montagne si tingono di blu mentre le cime diventano prima gialle, poi rosse ed infine si spengono. Comandate da una fotocellula, le lampadine alogene si accendono, gettando sulla strada oltre il muro e la siepe del giardino coni arancioni attorno a cui iniziano a danzare scoordinate falene e spettrali pipistrelli.
Solo quando qualcuno lo spegne, mi rendo conto che il volume del televisore dei padroni di casa si sentiva anche nella mia stanza, sebbene fosse solo una specie di suono appena udibile, come quello degli elettrodomestici che, dopo pochi attimi che sono in funzione, non ci si ricorda nemmeno più che sono accesi. Trattengo il fiato, continuando a fissare il soffitto, ormai buio dopo che lo schermo del libro elettronico ha capito che questa sera le avventure dei moschettieri hanno smesso di essere il mio principale interesse, cercando di carpire ogni singolo suono prodotto da quelli che hanno sostituito nella mia mente D’Artagnan, Porthos e gli altri.
Dei passi risuonano lievi sotto di me, uno scambio di frasi, il suono sordo e continuo dell’acqua che comincia a muoversi in una tubatura. Poi cala il silenzio, se non interrotto dal bubolare di qualche gufo nascosto tra le frasche degli alberi appena oltre la strada o una sporadica auto che passa nella via.
Dopo qualche lungo, interminabile minuto, i cardini di una porta cigolano e la luce che entra dalla finestra aumenta improvvisamente. Più ad un comando o ad uno stimolo che ha una risposta istintiva nel mio corpo, mi alzo dal letto lentamente, quasi sia in un sogno al rallentatore, e mi pongo di nuovo dov’ero ieri sera, accanto alla finestra, nascondendomi alla vista di chi si trova in giardino.
E, in giardino, vedo Luca che, illuminato di schiena dalla lampadina, segue la sua ombra che si avvia all’albero, scivolando sul suo tronco. Vi si appoggia di schiena e, nonostante sia distante e nella penombra, sono certa che un sorriso affiora sul suo volto mentre ricorda cos’è accaduto proprio in quel punto, ventiquattr’ore prima. Da una tasca estrae un pacchetto ed un accendino, e posso vedere il suo splendido viso mentre la fiamma accende la punta della sigaretta.
Lo osservo fumare e, nonostante non conosca nemmeno il sapore del tabacco, sento improvvisamente il bisogno di prendere dalle sue labbra quella puzzolente sigaretta e fumarla accanto a lui, di sfidarlo, di farlo arrabbiare di nuovo e spingerlo a rapportarsi con me. A rapportarsi con me contro quell’albero…
Proprio in questo momento appare sotto di me un capo dai capelli rossi: Sara fa il suo ingresso nel giardino, dirigendosi verso suo fratello. Cammina lentamente sotto lo sguardo rapito di Luca, ondeggiando le anche appena più del normale, ma sono certa che il ragazzo non è tanto rapito dal bacino della sorella quanto dal seno prosperoso. Sara gli si avvicina, appoggia le mani su un braccio di lui, gli dice qualcosa. Lui risponde: non so leggere il movimento delle labbra, ma quello del volto sì, ed è evidentemente arrabbiato per qualcosa, e i tentativi di calmarlo della ragazza non sembrano avere altra conseguenza se non quella di irritarlo ulteriormente. Lui scosta la testa, la punta della sigaretta che si illumina ulteriormente per un attimo, finché una mano della ragazza non l’afferra, sfilandola dalle labbra del fratello. Mi aspetto che la fumi lei, adesso, e invece no: la mia attenzione viene catturata da una piccola stella cadente che vola sopra il giardino, disperdendo effimere scintille quando cade in un angolo, nell’erba.
Per qualche motivo, la mia mente si perde nel pensiero che non è una buona idea gettare mozziconi nel giardino di una struttura ricettiva, soprattutto se ci lavori, e che la mattina dopo dovranno cercarla per… ma il pensiero evapora quando il mio sguardo torna sui due ragazzi addossati all’albero e li trovo stretti in un abbraccio ben poco fraterno.
Non posso vedere le loro lingue, ma sono certa che sono una nella bocca dell’altro, mentre una mano di Luca affonda le dita nella chiappa destra di Sara; lei solleva la stessa gamba, usandola per circondare quelle del fratello, lui sprofonda le dita della mano libera nei capelli rossi della sorella, poi la gira e la spinge contro il tronco della pianta.
So che Sara è a conoscenza del fatto che li sto guardando, lei stessa mi ha detto di mettermi qui, alla finestra, a quest’ora, per godermi lo spettacolo, ma nonostante questo, come se abbia paura più di disturbarli che di essere scoperta, mi nascondo ancora meglio dietro il muro della mia stanza, osservando i due con un solo occhio e senza respirare.
Non mi ci vuole uno sforzo per capire che sta per consumarsi un nuovo rapporto animalesco: Sara è contro l’albero, i grossi seni che sembrano abbracciarne il tronco; Luca le tiene la testa contro la corteccia rugosa mentre, una mano davanti a lei, le sbottona i pantaloncini, che dopo pochi istanti scivolano lungo le gambe, afflosciandosi sulle sue scarpe, lasciandola in mutandine rosa. La mano del fratello si abbatte su un gluteo, e sono sicura di sentire il suono dello schiaffo e il gemito di soddisfatto dolore della ragazza. Un attimo dopo, l’intimo raggiunge i pantaloncini e, mentre Luca sembra sussurrare qualcosa di minaccioso nell’orecchio della sorella, quella sorride, annuendo più volte, evidentemente desiderosa che quelle intimidazioni diventino realtà.
Il sorriso della ragazza s’ingrandisce e gli occhi si chiudono in un’espressione di profonda soddisfazione quando una mano di Luca scompare tra le sue gambe e sembra lasciarsi diventare creta tra le dita rapaci del fratello.
Le mie gambe, invece, si stringono, come a cercare di contenere il malessere che si è formato nel mio inguine a quella vista e che inizia a inumidire le mie mutandine. L’eccitazione latente che ha condizionato tutta la mia giornata sta sfociando in un calore insostenibile, nel bisogno di darmi piacere per eliminare questo dolore, più mentale che fisico, che sta attanagliando la mia anima. La mia mano scivola nella pozza di desiderio che si è formata nei miei pantaloncini, assalendo la mia figa come se fosse un predatore che finisce la sua preda preferita; le mie dita accarezzano con ben poca delicatezza le piccole labbra bollenti e sensibili, sprofondano nel calice fin oltre le nocchie. Cazzo, mi infilerei tutta la mano chiusa a pugno tanto sento il bisogno di essere posseduta…
Non mi importa più nascondermi: mi appoggio con più agio all’angolo della parete per avere una migliore vista sullo spettacolo nel giardino mentre mi ditalino. Nel giardino, Luca ha piegato leggermente avanti sua sorella e, dopo essersi abbassato pantaloni e mutande, il grosso cazzo che dimostra fino all’ultimo centimetro quanto apprezza il corpo di Sara svetta tra di loro: ora una mano stringe un seno mentre l’altra tiene la testa della ragazza contro il tronco, la bocca della stessa che si apre e gli occhi che luccicano quando la virilità del fratello sprofonda nella sua femminilità
Un brivido si scarica lungo la mia schiena al primo colpo inferto alla rossa come se la cappella fosse dentro di me. – Sì, cazzo, sì! – gemo, mentre la mia mano strimpella il mio clitoride senza pietà, impietosa nel dolore che mi provoca ma che non posso sospendere. – Fottimi, Luca! Fottimi!
Nei miei occhi si riflettono i due ragazzi nel giardino che chiavano selvaggiamente, ma nella mia mente sono io al posto di Sara, il lato destro del mio viso contro l’albero, miei i capelli stretti nella morsa di ferro del ragazzo superdotato, il suo grosso cazzo che si muove con la forza di un ariete medioevale nella mia figa.
L’orgasmo è talmente violento che, per qualche istante, la mia mente smette di avere controllo sul mio stesso corpo. Un grido simile da uno di dolore sfugge dalla mia gola mentre le mie gambe cedono e cado all’indietro, crollando sul letto e poi scivolando con il culo a terra, un senso di vertigine si impossessa del mio stomaco e credo di essere prossima a vomitare, ma è dalla mia figa che scaturisce un fiume di liquido caldo.
Passo diversi secondi intontita, immersa nel buio quasi totale della stanza, come se una dose di anestetico sia prossima a terminare la sua azione e permettermi di riprendere coscienza al termine di un’operazione chirurgica. E, al pari di un’operazione chirurgica, la prima cosa che percepisco è un profondo dolore al mio clitoride, torturato per il mio piacere.
E il piacere è stato talmente forte, intenso, esplosivo che, all’idea che potrei non provarne uno simile, sento il bisogno di scoppiare a piangere, ma, con uno sforzo, riesco a limitarmi ad un paio di singhiozzi ridicoli e strazianti alle mie stesse orecchie. Respiro profondamente l’aria viziata dal mio orgasmo e desiderio della stanza al punto tale da essere molesta, ma mi permette di riprendere un po’ il controllo della mia persona.
Dopo qualche secondo, lasciato al mio cuore per rallentare il suo battito al galoppo, mi sollevo in piedi, sorreggendomi al letto, ricordandomi di togliermi la mano dalle mutandine, ormai tanto intrise di desiderio da poterle strizzare. Faccio qualche passo incerto fino alla finestra, appoggiandomi all’angolo del muro, questa volta non per nascondermi quanto per sostenermi perché le gambe sembrano, contemporaneamente, avere i muscoli come blocchi di metallo e le ossa fatte di spaghetti cotti.
Lancio un’occhiata all’esterno, nel giardino. Luca dimostra di avere una resistenza maggiore della mia, ma non di molto: sua sorella lo eccita troppo e in questo momento è addossato a lei, il volto tra i capelli di fuoco, il viso in una smorfia che potrebbe essere tanto di dolore come di piacere, mentre quello della sorella, indubbiamente, è illuminato dal godimento. Il ragazzo conficca il suo cazzo nel corpo di Sara con colpi profondi e sempre più lenti, spingendo sulla punta dei piedi la ragazza ad ogni affondo. Ad un tratto si ferma, probabilmente dentro fino in fondo alla figa gocciolante, sospira animando le ciocche rosse, poi i suoi muscoli sembrano afflosciarsi: lascia la ragazza, fa un paio di passi indietro, il lungo cazzo che luccica per gli umori di entrambi gli amanti che colano lungo l’asta, raccogliendosi in fondo alle palle e gocciolando. Una nuova manata si abbatte sulla chiappa destra della sorella, facendola sussultare, aggiungendo qualcosa a voce che, però non riesco a capire. Di certo, nulla di educato, ma il sorriso di Sara, che già credevo alla sua massima dimensione, si estende ancora di un pollice.
L’incesto è finito come è iniziato, senza coccole, amore, calore. Lui mette via il suo uccello, quasi con difficoltà nel riporlo tutto nelle mutande, si solleva i pantaloni, li chiude e se ne torna in casa, come se non fosse accaduto nulla. Sara lo osserva allontanarsi senza muoversi dalla sua posizione contro l’albero e, solo dopo che odo il suono della porta che si chiude, si alza in piedi, si passa le mani tra i capelli e muove la testa, come a rimettere a posto le ossa del collo. Poi, invece di alzarsi mutande e pantaloni e abbassarsi la maglietta sul seno scoperto, solleva lo sguardo verso di me.
Sento il cuore balzarmi in gola, come se sia stata scoperta, nonostante fosse stata Sara stessa a consigliarmi di prendere posizione lì e guardarla essere posseduta da suo fratello, quando mi guarda e sorride. Si pone un dito tra il seno, poi me lo punta contro.
Non ho dubbio di cosa voglia dire, e ora capisco perché, questa mattina, mi ha consigliato di non chiudere a chiave la porta della mia stanza.
Mi ritraggo dalla finestra, senza rispondere. Non ce n’è bisogno: abbiamo capito entrambe cosa sta per succedere e, improvvisamente, mi sembra che quanto abbia vissuto negli ultimi minuti non sia nulla rispetto a quanto sta per accadere.

Continua…

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