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LETTERE DA COPENAGHEN – II L’ESTASI DI MIRABELLE

By 8 Ottobre 2008Giugno 28th, 2021No Comments

Africa Coloniale Tedesca, 2 Ottobre 1917.

Era l’estasi felice, l’estasi dell’amore e dei sensi. La assaporai per caso, avvolta dal mio sogno lieto, in quel mio paesaggio che mi ricordava l’Asia e l’Africa, a un tempo. Quel mattino, mi affacciavo vagamente alla finestra, donde potevo ammirare i mercanti di colore, avvolti nelle loro tuniche color ebano, mentre si recavano al mercato, portando sulle spalle i loro sacchi di juta colmi di mercanzie. I falegnami, i muratori e persino i viandanti intonavano canti africani, no, anzi, tropicali.
Io socchiudevo i miei begli occhi, allorché il sole del mattino africano baciava le mie lunghe ciglia nere, faceva brillare la pelle d’argento del mio volto ariano e qualcuno, o forse, nessuno, carezzava con la sua mano morbida i miei capelli stellati.
Eri tu, amore caro, lo sento, nei sussurri segreti che confido ai quattro venti!
Sono sempre io che scrivo, io, Mirabelle, la bambola, per le gioie di un’illusione proibita. Ho la sensazione di essere di porcellana, di indossare vestitini di velluto, di portare dei lunghi boccoli arricciati dalla fantasia delle parrucchiere più sapienti. Sì, sono bambola di tutto ciò che brilla in me.
Ricordo che in quei giorni facevo l’amore con un negro e la mia pelle di seta godeva di quella più bruna e ruvida di lui. Mi toccava dappertutto ed io giacevo come ubriaca sulle sue gambe irsute, gigantesche, nell’attesa dell’oblio dell’essere e del fuoco della carne. Eppure, il mio amore lontano era accanto a me, era intorno a me, mi colmava di lusinghe e di carezze senza fine, malgrado io tentassi invano di nascondere a me stessa la sua mancanza e di sostituire alla tristezza del ricordo la certezza del volto di quel giovane di colore.
Non mi sarei mai dimenticata dei dolci accoppiamenti africani, consumati, bruciati, al suono dei tamburi’ Una ragazza si era sposata, sapete? Avevano chiamato il capo tribù e tutti i giovani si erano messi le maschere di legno’ E danzavano, danzavano, mentre consumavano i loro amplessi fatati con la sposa’ Ognuno giaceva con lei, a turno, sì, a turno, davanti ai capanni di paglia, mentre lo stregone mascherato intonava formule magiche al vento. Poi, quella nube di sogni, di verde, d’Africa’ Più nulla.
Il mio paradiso era sempre con me, era in me ed intorno a me. Si diceva che vi fosse stata la guerra, in Europa: le mitragliatrici, le trincee, le bombe, il sangue, la morte’ Io non ne sapevo niente; per me, quello era il nulla e la felicità mi avvolgeva nei suoi abbracci, anche perché ero certa che un giorno avrei visto arrivare il mio tesoro.
– Vieni presto da me’ Vieni a stringermi forte! ‘ gli dicevo, portando le mani agli angoli della mia bocca rossa, come per chiamarlo, mentre dall’ampia veranda della mia dimora contemplavo il tramonto.
Era un richiamo d’amore.
E vedevo gli armenti, le mandrie, che ritornavano alle fattorie dopo il pascolo diurno, guidate dal boy che teneva in mano la verga di legno.
Baci, carezze, lusinghe, meriggi trascorsi cantando e correndo nel sole: tutto questo era la mia vita, in quel tempo.
Una volta, andai verso il deserto. C’erano le dune di sabbia e soffiava forte il vento. Io m’ero avvolta nel mio scialle nero e la mia lunga chioma brillava quanto quella di una fata. Poi, quell’aereo’ Era scarlatto e la sua elica di legno rombava forte su nel cielo. Pareva un gioiello dell’aviazione tedesca, un Barone Rosso. Mi dissi che forse, un giorno, il mio amato sarebbe tornato da me di lassù ed io gli sarei corsa incontro. Disparve.
E mi sovvenne di Parigi, dei miei boulevards, delle carrozze opulente dell’alta borghesia parigina. Vi avevo vissuto un tempo, sì, molti anni prima, con indosso la mia tenera giovinezza senza fine, la stessa che ancora oggi porto sul volto e che non mi abbandonerà mai. Mi sovvenne dei quadri di Monet, di Degas, appesi alle pareti, mi sovvenne di Ronsard. Erano tempi in cui i ricchi amavano circondarsi delle cose più preziose della terra, l’oro e l’argento scintillavano nei loro appartamenti sontuosi, agli ultimi piani degli eleganti palazzi del boulevard ***, dove s’udivano soltanto i nitriti dei cavalli arabi, le voci dei cocchieri, il rumore delle ruote delle vetture di piazza, le chiacchiere vaghe dei caff&egrave. I ricchi avevano mani bianche, dalle dita lunghe e affusolate, fatte per improvvisare al più prezioso pianoforte, nel cuore della notte. Banchieri, gente che viveva di rendita, figli di papà, ereditieri famosi, doviziosi ufficiali in pensione non facevano che divertirsi in silenzio. E così, l’alta borghesia sfilava, nello scintillare dei gioielli, all’Opéra, al Moulin Rouge e nelle magioni dorate, dove si consumavano gli amori più felici e appassionati. Erano accoppiamenti sessuali goduti in segreto, tra argenterie scintillanti e mobili in ebano, specchiere dorate e oggetti appartenuti a Re Luigi XV. Tutto questo accadeva in quegli appartamenti, degni delle sale di Versailles.
Mi dissi che presto sarei andata a visitare il mio porto d’Africa.
Allora, avrei ammirato i marinai di colore, dai torsi nudi e muscolosi, mentre scaricavano casse di legno, colme di zanne d’avorio e pietre rare. Avrei visto vapori e bastimenti, comandati da ufficiali bianchi, dalle uniformi ricoperte di medaglie. Qualcuno avrebbe fatto il saluto militare. Io avrei desiderato partire per le Indie, in cerca di profumi rari, con cui coccolare la mia pelle’ Poi, più niente.

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