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LETTERE DA COPENAGHEN – XVI MIRABELLE E VENEZIA

By 27 Ottobre 2008Giugno 28th, 2021No Comments

*Riporto di seguito lo scritto della protagonista.
L’autore Dunklenacht.

Africa Coloniale Tedesca, 10 dicembre 1917.

Amavo contemplare i voli degli uccelli. Erano voli tristi, visionari, che evocavano i ricordi di giovinezza. Le tortore si posavano sulle mie mani bianche e io davo loro da mangiare le mie briciole di pane.
Le avevo viste a Venezia, sul Canal Grande e i rii angusti, le avevo viste ad Amburgo, sui lungo-canali e la Landstrasse, le avevo viste a Parigi, nei giorni delle lacrime, strappate alle mie palpebre dalle notizie della guerra.
Ricordo quel giorno grigio, in cui ero tutta sola a Venezia, ai Giardini, era autunno e cadevano le foglie, giungevano sino a me il rumore e la visione delle barche, delle onde, tenevo tra le mie mani una lettera d’addio, profumata e languida, quanto uno dei miei baci.
Addio, addio, a quei corvi tristi, alle torri mute dell’arsenale vecchio, a quell’isola lontana, dedicata a S. Giorgio, che si smarriva tra le nebbie, con il suo campanile antico. Le mie labbra tremavano, mentre sussurravo al vento le parole della lettera, scritte con inchiostro blu su carta bigia, che sapevano di morte e di Thomas Mann.
‘Non ci rivedremo mai più. Non tornerò mai più da te, specialmente ora, che la guerra mi richiama alle armi. Se ti ho fatta piangere, &egrave perché te lo meritavi. L’altra notte ho carezzato le morbide tue guance per l’ultima volta, prima di andarmene per sempre. Non desidero i tuoi baci, né le tue lusinghe o il fremito carnale che la tua presenza mi poteva regalare. Se una pallottola dovesse cogliermi o un colpo di sciabola dovesse ferirmi, non penserò a te. Ti dimenticherò, nel furore degli assalti all’arma bianca, nel fuoco dei fucili e delle artiglierie, nel gelo delle trincee innevate e dei fili spinati. I tamburi della guerra rullano forte, presto squilleranno anche le trombe. Ti ho baciata per l’ultima volta, con il bacio dell’addio, lo stesso che ti porgo con queste mie parole scritte’.
Mentre leggevo quelle espressioni malinconiche, la voce mia si spezzava, rotta da singhiozzi appassionati.
Uno stormo di colombi si alzò in volo, mentre una gondola passava lungo il vicino rio. Un barcaiolo remava e cantava, l’altro suonava la fisarmonica, mentre i due amanti si baciavano sulla bocca. Erano canti amorosi, dolci, che sapevano di fringuelli di primavera che s’alzavano in volo e facevano festa, io li ascoltavo e una bianca lacrima sfuggiva alle mie palpebre, carezzava la mia guancia per poi precipitare in quelle acque.
Mi trovavo lungo un rio, vicino ad un approdo, facevo delle segnalazioni tristi col mio fazzoletto scarlatto, davanti agli edifici fatiscenti in gotico veneziano e chiamavo:
– Barcaiolo!
Non mi ascoltava nessuno, non si fermava nessuno, non mi guardava nessuno.
– Barcaiolo!
Il suono dei violini dei caff&egrave di S. Marco mi inebriava e mi rapiva’ Mentre piangevo sconsolata, correvo a più non posso nella folla, attraversavo i ponti e fuggivo, avvolta da un’atmosfera di fine secolo, dove le luci e le ombre nascondevano fantasmi, vecchie sdentate, vestite di nero, che sghignazzavano, epidemie e morbi misteriosi, che si diffondevano attraverso il sangue e l’acqua piovana’ Ma erano soltanto leggende.
C’erano tante barche, ormeggiate lungo la sponda. Le illuminava la luce crepuscolare dei lampioni e delle lanterne, benché si fosse nel primo mattino.
Rividi tutto questo mentre passeggiavo sulla sabbia, verso l’oasi bianca, lontana, come un miraggio. Tremavo ad ogni istante, ma quando mi riscossi da quella sorta di torpore che mi aveva avvolta, scoprii di stringere una mano amica, che m’avrebbe consolata, forse per il resto della vita. L’animo mio desiderava il paradiso, così come le mie labbra, che ardevano per quell’amore vago e lontano, di cui forse, più non mi ricordavo. Eppure, ne avevo uno nuovo, inenarrabile, al mio fianco. Una colomba mi volava accanto’ Era la serenità, la felicità, svelata’ Era l’estasi dell’amore, che avvolgeva ogni mio membro e coinvolgeva ogni spazio della mia mente. Poi, un abbraccio improvviso e quella casa bianca, dal tetto rosso, che appariva all’orizzonte. Era una fattoria o forse, un mulino, non ricordo. Avevo sempre il mio mantello col cappuccio nero indosso, che volava nel vento, mentre un nuovo abbraccio amoroso travolgeva i due amanti. Sembrava che ballassero un valzer affettuoso e senza fine. Sì, senza fine.

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