Skip to main content
Erotici Racconti

Mosca cieca

By 9 Luglio 2006Dicembre 16th, 2019No Comments

“Alice moriva di noia a starsene seduta con la sorella sulla proda, senza far niente; aveva sbirciato un paio di volte il libro che la sorella stava leggendo, ma non c’erano figure né dialoghi – e a cosa serve un libro -, pensava Alice, – senza figure né dialoghi?-”
Lewis Carroll (Alice nel paese delle meraviglie)

Lei non sapeva.
Non poteva sapere.
Non doveva sapere.
Ma soprattutto non voleva sapere.
Di chi fossero le mani. E di chi la bocca.
Chi fosse che la stava aprendo con le dita, come si allarga una ferita, con calma e decisione, sul lettino prima della sutura. Chi avesse dilatato le labbra fino a farne un orlo, prima di suturarla salendole a riempirle il ventre.
Chi le stesse tenendo i polsi saldi sopra la testa sul grande letto tondo nella stanza buia. Tendendole i seni in quella posizione. Prigioniera.
Dove fosse lui se uno dei calori che la sfioravano anche in quel momento fosse il suo. O no.

Non sapeva di chi fossero le voci. Sottili, quasi sussurrate come se fossero all’ombra di una chiesa.
‘ tienila stretta ora’
‘ lasciami avvicinare, voglio toccarla, io”
Di chi fossero i fianchi che sentiva a sinistra e a destra posati, poi scostati, poi ancora a sfiorarla o spingere, aderenti ai suoi che si scopre così sensibili ad ogni alito di pelle, docili e imprevedibili come i sussulti del materasso sotto. Né dove e con chi fosse Andrea.
Perché anche adesso non riusciva a non pensare a lui?
Andrea.
Se una delle mani fosse la sua. Quelle sul seno, magari, bizzose sui capezzoli, quasi crudeli a volte, o una di quelle che sente salirle lungo il ventre.
O sua la bocca che dopo aver leccato un capezzolo con cura certosina ora tra i denti lo stringeva.
Una minaccia che la scioglieva.
Con la lingua a schiacciarlo, comprimerlo, in punta. Calda e dura. A spremere dal capezzolo il grido che le saliva muto dal fondo della gola.
Dall’entrata nella stanza buia, nemmeno dopo un’ora ancora riusciva a distinguere altro che ombre nere su uno sfondo di pece, si era aperta un’oscurità così oscura da far vivere in tutti gli altri sensi la cecità di un pomeriggio nuovo.
Al buio, drappeggiato da un doppio tendone di velluto che frenava vista, udito, negando i sensi più rassicuranti. Lì lei aveva perso senso, cognizione e misura. Prospettive e pudore.
Chi?
‘Andrea..’ il suo nome le si era spento in gola.
La testa scivolava sulla domanda.
Ma soprattutto perché sentiva la sua testa andare via?
Come se non avesse dimensione alcuna la stanza, una bolla sospesa, e non vi fosse alcun tempo a scandire i minuti e il tempo fosse rimasto chiuso nell’orologio lasciato chiuso nell’armadietto, a sua volta chiuso nella borsa. E non vi fosse soluzione di continuità alcuna tra mani bocche e corpi.

‘Ti porto a giocare a moscacieca’ le aveva detto Andrea la settimana precedente. Ridendo.
Lei si era detta che era proprio matto. Sapendo mentre lo pensava che quella parola, matto, era colma di calore, sapore, odore e desiderio, anche solo a pensarla, riferita a lui.
‘Mettiti come piace a me’ aveva detto il matto mentre lei usciva dalla doccia per vestirsi e uscire quel pomeriggio.
Mettiti come piace a me, lei aveva riso pensando a come un paio di calze intraviste, un reggiseno che spingesse a fare capolino il seno o una gonna capricciosa che svolazzava un po’ troppo quando lei allungava il passo, bastassero a dare a lui stimolo per eccitarsi all’istante. Aveva scelto con cura, era un gioco questo a cui era avvezza, il suo abbigliamento.
E poi, piaceva ad Andrea.

Bocche mani e corpi adesso. Con gli abiti riposti con cura nell’armadietto all’ingresso.
Salive che la lasciavano strisciata di baci, e carezze infinite. Che le scavavano i nervi, improvvise.
Morsi, corone di denti e strisce di saliva.
Che facevano rabbrividire ora il fianco, due lingue a lambirla salivano contemporanee sotto, fino alle ascelle, con quel cazzo che la colmava. Qualcuno stava leccandole il fianco con meticolosità bagnata e la dipingeva di calda e umida saliva.
Una pelle umida di saliva posata sulla sua ora la ricopriva.
Sapeva che sotto la lingua l’uomo, o la donna, per quel che ne sapeva e che sentiva, quella lingua superava i limiti del sesso, poteva perfettamente cogliere il rabbrividire della sua pelle, la pelledoca che anticipava, schiava fedele della striscia bagnata che la percorreva.
La pelle rabbrividita cone se percorsa da un’onda fino in alto, al collo, dove finiva la schiena.
E che alla luce sarebbe stata lucida e densa la scia che, al contatto con l’aria, da calda, subito, rabbrividendola, si raggelava.
Il fiato che sentiva addosso, cacciato nell’ansimare da bocche sconosciute per appartenenza e numero, e capriccio nel toccarla, era come una carezza di aria calda, insistita, un getto di phon umido, insinuante.
Una carezza avvolgente, frastagliata, ripetuta, moltiplicata e replicata da più bocche, possessiva.
Sentiva il fiato sulla pelle prima ancora del posarsi su di essa delle labbra e della lingua. Un anticipo estenuante.
Staccarsi e posarsi. Lambire. Darsi.
Farsi umido per poi scomparire, alito come vento rubato, e ritrovarlo inatteso a lambirla un attimo dopo alla caviglia. Poi all’interno della coscia.
‘Andrea”

‘Non sarà necessario quel foulard che ha al collo per giocare a moscacieca Martina.’
‘Dipingerò di nero pece il mondo intorno, benderò tutto per lasciare a te la voglia di forzare gli occhi aperti nell’impossibilità stupenda di vedere attraverso essi’
‘Fidati, vedrai il mondo con la pelle’
Poi erano saliti in auto, lei seduta un poco tesa ‘ chissà cosa ha in mente oggi il matto ‘
Lui, percependo gli interrogativi non espressi e un leggerissimo fondo di titubanza, le aveva posato la mano dolcemente sul ginocchio, facendo correre le unghie leggerissime sulle calze.
Lei aveva sorriso alla carezza, accavallando le gambe e mostrando a lui che si era girato leggermente con il capo l’orlo più scuro delle calze, e l’auto era scivolata verso il loro appuntamento.

E ora?
Andrea è scomparso.
Andrea ha tante bocche e tante mani.
Andrea ha un sesso che non conosce sosta, ubiquo, eterno. Andrea si moltiplica sulla sua pelle in due in quattro.
Andrea veste l’alito di bocche sconosciute.
Quattro mani che la sollevano, rivoltano senza fatica. Il cazzo, è entrato poi uscito, quante volte lei ha perso né ha tenuto il conto, ora le è dentro, sempre lo stesso o no, lei non lo può sapere, né lo vuole sapere. Risale senza alcun preavviso.
Facendosi leccare l’asta dalla fica.
In ginocchio sul letto ora. Le mani e le ginocchia a reggerla, offerta come un animale.
Mani che le afferrano i capelli, legati da un sottile nastro di velluto nero in quella piccola capricciosa coda che le da l’aria da ragazzina che Andrea ama così tanto, e le sollevano la testa.
La fanno stare alta, quasi reclinata indietro. Devono essere le mani dell’uomo che ora sta scivolando, sfregandola con carne morbida, dalla fica al culo.
Che scia di umori di Martina quella piccola terra di nessuno, dove poco prima qualcuno aveva la boccca e la succhiava.
Scivola come la punta di un pennello fradicio a risalire quei centimetri sensibili e pulsanti dove lei tra due bersagli è chiusa. Scivola lenta per poi puntarsi alla rosa stretta e serrata..
La testa è tirata indietro, come il capo di un cavallo tirato a fermarsi dal morso, il collo quasi torto un po’ di lato. Testa ribelle che si fa doma, protesa.
La gola offerta a quelle bocche che baciano, leccano succhiano le vene del collo, quasi a cercarne il caldo del sangue che pulsa e gonfia e corre sotto la gola, l’incavo delle spalle, la nuca.
L’attaccatura matura e larga dei suoi seni.
Sono stretti ora con forza, il palmo di due mani a nascondere sotto di sé i capezzoli e le dita a raggiera. Sembrano mille le dita ora. Una coppa.
I suoi seni in una coppa di dita dure come cristallo.

Una punta calda, con quell’odore inconfondibile che ha la prima goccia affiorata in anticipo in cresta solo per voglia, che sente posarsi a forzarle la bocca, che si fa strada dilatandole le labbra ‘lei sta solo attenta a non ferire coi denti ma si lascia prendere così, a bocca socchiusa, passiva – come se fossero bocca e labbra appena appena schiuse un sesso rosso.
Da penetrare con cura. Rubandone il rossetto carminio nello scivolo, macchiandosi di rosso come se avessero aperto non la sua gola ma una ferita.
La gola piena, quel movimento inatteso e a fondo che la fa quasi soffocare, prima di poterlo governare con lingua e labbra.
E le mani, tante mani, incontabili mani, inarrestabili mani.
Dolci e rudi, ferme e in risalita, calde alcune, nervose o morbide come lumache, coi polpastrelli che sembrano cavi elettrici sulla pelle o con le unghie a solcarle impercettibili i fianchi altre, a trasformarle su tutto il corpo ogni centimetro di pelle in fica.

Martina suda.
Suda come se fosse agosto.
Come quando l’afa dal mare bagna di sudore salato in riviera lei e Andrea.
E lei fosse lì al mare in una giornata di scirocco dispettoso.
Suda con tutto il corpo, sente il sudore farsi acqua e scivolarle sul collo, solleticandola nell’imprevedibilità e irregolarità della lunga goccia che si condensa, e si gonfia.
Accresce scendendo e si dipana lungo i seni. Fino a fermarsi un attimo a lambirle e carezzarle un capezzolo, prima di cadere sotto di lei, muta, sul copriletto.
La pelle pulsa come se fosse ogni centimetro del suo corpo fatto di umida e gonfia, turgida, viva mucosa.
La testa vola via.
Il corpo suona.
Mille melodie, scomposte, scoordinate e indipendenti, e riunite, per prodigio, in un piacere solo, sotto la guida di un’intera orchestra. Andrea moltiplicato nello specchio magico del lunapark a fare replica su replica di sé e portarsela via.
Nella camera buia ora c’è odore forte.
Di corpi e di sudore. Di sesso caldo, mucose gonfie e surriscaldate, sesso sfregato. Odore carico di sessi svuotati, di umido animale e di calore.
Sul grande letto tondo nella stanza scura del privè.
Una quindicina di corpi si sono trovati e fusi componendo una macchina, un unico motore che pompa e corre e scoppia e si carica. Un’ameba mutante di gambe e braccia, un grande brulicante e pulsante cuore.
Pulsa e contrae se stesso. Implode ad ogni ansimare.
La macchina umana di Martina e Andrea. Un venerdì sera.
Giocando al buio a moscacieca.
Una perfetta. Fotofobica, come gli occhi di Martina quando tornerà alla luce, macchina del piacere.

Vieni a
trovarmi sul mio sito: clicca qui!
(aggiornato al 9 luglio 2006)

Leave a Reply