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Inspirai appena. L’aria della stanza era appesantita dal caldo e dall’odore di sesso recentemente e furiosamente consumato. Umori corporali e afa. Incredibilmente piacevole come connubio.
Passai una mano sullo stomaco della mia amante. Lentamente. Lei sorrise, triste.
-Siamo nella merda. Lo sai anche tu.-, disse.
-Non m’importa.-, dissi secendendo piano con la mano sino al pube.
-Non dovevamo.-, continuò lei. Non fece una mossa per fermarmi.
-Ma l’abbiamo fatto.-, risposi coprendo la sua vulva con la mano, come a proteggerla.
-È stato un errore.-, concluse la superba femmina. La sua mano si appoggiò sul mio petto sudato che ancora lottava per ritrovare il ritmo respiratorio idoneo dopo la frenesia dell’amplesso.
-Un errore che rimpiangeremmo di non aver compiuto.-, ribattei. Lei non rispose.

Due ore prima.
-Lo so che hai un’altra! Lo so benissimo! Ma torni sempre da me! Perché? Perché senza di me non sai vivere. Lo vedo sai? Sei un sottomesso, un ominicchio che non osa né oserà mai staccarsi da me!-, la voce di Jessica era monotona e condita di arroganza, come suo solito. Sospirai. Quella relazione era divenuta stantia. Acida. Come aveva potuto divenire così? Era stata una relazione appagante, per i primi tre mesi.
Poi Jessica aveva cominciato. Gelosia, richieste, pretese. E io l’avevo accontentata. Per paura? Forse.
Fatto stava che ne avevo piene le tasche. A trent’anni mi sentivo stufo di essere la seconda scelta.
Forse anche Jessica ne era stufa a suo modo, ma mettere alla prova in quel modo la mia pazienza era la migliore linea d’azione per disgregare quel poco di legame che ancora c’era tra noi.
-Esco.-, dissi soltanto mettendomi la maglia. Lei, stesa sul divano nell’assente contemplazione dell’ennesima serie di Netflix, scrollò le spalle.
-Tanto tornerai qui implorando la mia attenzione. Lo fai sempre.-, disse con sufficienza.
-Sai, proprio non mi spiego cosa ti sia successo! È da quando è finita la pandemia che sei… cambiata.-, dissi, amareggiato e stanco. Lei scrollò nuovamente le spalle, come a rimarcare la propria indifferenza.
-Non so. Forse sei tu. Da quando tutto è tornato normale mi sembra che tu sia un altro…-, disse senza staccare gli occhi dalle scene di sesso spinto sullo schermo. Per essendo Netflix, la scena era bella esplicita. Un tizio biondo di quaranta o forse trent’anni stava possedendo un’afroamericana mentre l’amica al telefono si toccava. Titoli di coda…
-Uff. Sempre sul più bello!-, sbottò Jessica armeggiando col joystick della playstation per passare alla svelta al menù. Capii che quella conversazione era destinata a rimanere lettera morta. Annuii.
Uscii senza dire altro.

Appena uscito mi dovetti trattenere dal gridare, dal bestemmiare.
Non capivo cosa diavolo fosse successo: durante la pandemia, tra la fine del primo e l’inizio del secondo lockdown eravamo stati semplicemente inseparabili e quasi interamente affini.
Ci eravamo conosciuti per caso, durante uno dei tanti party euforici che scoppiavano come bubboni durante la primavera e le prime riaperture. Da lì il passo era stato breve. Altri incontri, initimità, baci.
Il sesso era sembrato naturale, così come il suo venire a casa mia qualche volta, o il mio invitarla a cena.
Passi consolidati, sentieri già noti percorsi in passato. Una ritualità sottile ammantava quella routine.
Poi, con il tempo, l’idillio era andato incrinandosi. Jessica aveva cominciato una nuova attività come influencer e tutta una serie di altri lavori accessori ad esso correlati.
Bionda, occhi marroni dal taglio sottile e viso appena involgarito dal trucco, fisico piacevole e tatuaggi su braccia e gambe. Il suo punto debole era il cervello: le poche volte che le avevo proposto qualcosa di culturalmente elevato mi ero sentito dire che non faceva per lei. Inutile insistere. Per un po’ avevo cercato di adattarmi ai suoi passatempi.
Ma dopo un po’ era divenuta pressante: cene fuori un giorno sì e l’altro pure. Terme, viaggi…
Sarebbe stato sopportabile se non fosse stata così dispotica. Lo era divenuta in modo repentino.
La sfuriata di poco prima era stata un patetico attacco di gelosia, dovuto alla risposta data ad una mia collega in merito a un turno di lavoro. Una cosa decisamente spropositata.
Le avevo già detto anche di questo, ma Jessica era convintissima che io la tradissi, più per un perverso orgoglio motivato dal mio continuo tornare da lei piuttosto che da un sospetto fondato.
Ero sempre più convinto che averla fatta entrare nella mia vita fosse stato un enorme errore.
A quel punto però farla uscire era difficile: Jessica non aveva perso tempo ed aveva reso la nostra relazione qualcosa di pericolosamente simile a un fenomeno mediatico. Cambi di stato su Facebook, post sdolcinati su Instagram, stati grondanti felicità di coppia su Whatsapp, contenuti spammati su Tik Tok e tutto un corredo di messaggi a parenti e conoscenti vari avevano sancito la nostra relazione, ufficializzandola dinnanzi al mondo intero.
Io avevo tentato di rivendicare un minimo di privacy, ma lei aveva solamente sottolineato l’importanza di far sapere a tutti della cosa. Inutile contraddirla: su certe cose era così testarda.
Inoltre si era impuntata su tutta una serie di altre cose: mi stava attaccata peggio di una cozza e sabato, quando normalmente volevo riposare, aveva da qualche settimana preso a pretendere che venissi con lei a fare spesa. Ovviamente la cosa implicava girare per negozi di vestiti pregando che Jessica non dilapidasse l’equivalente del PIL della Costa Rica in vestiario e ammennicoli vari.
Inizialmente non era stata così: era parsa una persona meno appariscente e più concreta e ragionevole.
Cos’era successo? Forse con la fine dell’emergenza si era improvvisamente scoperta a vergognarsi di alcuni aspetti di sé, rivelati con timore e forse con speranza?
Oppure era proprio la rinnovata possibilità a renderla baldanzosa ed egoista? Impossibile dirlo.
La verità era che ero stanco. Esausto. Che diavolo, era sembrata quella giusta, una seria…
E invece no.
Mi trascinai in strada senza troppe idee su dove realmente andare. Qualunque posto andava bene.
Qualunque che non fosse accanto a lei. Anche perché aveva ragione: sarei tornato.
Era una cosa che detestavo: per quanto disprezzassi il modo in cui si comportava, non riuscivo a immaginarmi di lasciarla. Volevo credere che ci fosse ancora qualcosa della giovane che avevo conosciuto, anche se non si palesava.
Mentre procedevo a cercare una meta, mi sovvennero ricordi.
Lei che non voleva parlare di questo o di quello. Lei che insisteva…
E io che cedevo. Io che avevo creduto in quel legame speciale che ancora volevo credere sopravvivesse tra noi. Strinsi i pugni, improvvisamente incazzato con me stesso e con lei.
Non potevo continuare a fare lo zerbino, ma non volevo neppure ferirla.
D’altronde lei non si era fatta scrupoli a dirmi ciò che pensava nel modo più duro e tagliente che aveva saputo trovare. Io non avevo reagito. Solo per mera paura di perderla?
Valevo più di così e lo sapevo.
Trovai un bar vicino alla decenza. Ordinare un bicchier d’acqua e poi un’altra bibita.
Niente alcool: non volevo deprimermi oltre e tendeva ad accadere se bevevo.
Finii le bibite rapidamente, aiutato dal caldo del sole di luglio che batteva senza nessuna pietà.
Un caldo fottuto che non aiutava minimamente il mio stato d’animo a risollevarsi.
Mi guardai attorno. E fu lì che accadde.
La vidi discutere animatamente al cellulare. Incespicava sotto il peso di una borsa di spesa ricolma sino all’orlo. Le frasi che diceva erano a voce moderatamente alta e ciò mi permise di intuire che parlasse con il suo compagno o con suo marito. Non era certamente una discussione felice.
Mi alzai dopo aver pagato. Poi la udì chiudere la chiamata con un imprecazione e un insulto rivolto all’interlocutore. Forse si distrasse a causa della burrascosa conversazione o forse fu lo sguardo che alzò dai suoi passi per guardare verso un punto alle mie spalle, ma la vidi mettere un piede in fallo.
Scattai afferrandola. La giovane aveva più o meno la mia età, quindi due anni in più di Jessica.
L’incarnato color ebano scuro contrastava con il bianco della maglia che indossava, una T-shirt e dei jeans. Abbigliamento a basso costo, non di marca e senza griffe di sorta. Ai piedi aveva delle scarpe da ginnastica semplici. Nulla di troppo complesso o pretenzioso. La afferrai sostenendola. I capelli crespi erano riuniti in trecce che scendevano sino a metà schiena, la cui maggioranza era riunita in un’acconciatura tenuta da uno spillone. Il suo sguardo era profondo e mostrava sorpresa, forse persino paura? No. Non pareva spaventata. Comunque mi affrettai a ritrarmi, non volevo essere molesto. La osservai in viso.
Non aveva che un filo di trucco, pochissimo. Elegante ma sobria. Gli occhi erano profondi, dalle pupille scure. A differenza di quelli di Jessica parevano dolci, ma fondi come se fossero stati un abisso in cui tuffarsi con un solo sguardo. I seni di lei sobbalzarono nella T-shirt. Notai che non portava reggiseno. Erano discreti: non erano esagerati o ritoccati, bensì seni naturali.
Mi affrettai a guardarla in faccia.
-Tutto bene?-, chiesi. La sua pelle al contatto con la mia era parsa sudata. Nulla di nuovo o di particolare siccome il caldo stritolava l’intera città e tutta la fottuta Europa in una morsa.
Il suo odore però era quello tipico delle donne africane. Forte senza essere maleodorante. Colsi anche qualcos’altro. Un profumo artificiale che non seppi identificare che contrastava con il suo odore naturale.
-Sì, grazie. Stavo pensando a mille cose…-, disse lei. Riassestò la presa sulla borsa. Notai che era parecchio tesa. Il mio animo cavalleresco si fece avanti. Impegnato o meno, non avrei lasciato quella giovane in difficoltà. Non ero certo un paladino o un cavaliere senza macchia, ma non ero neppure il genere di persona che pensava solo a sé.
-Hai bisogno di una mano?-, chiesi, -Sembra pesante…-.
-Non mi dispiacerebbe, ma non voglio sembrarti un’approfittatrice.-, rispose lei.
Guardai di sfuggita le mani. Niente anelli salvo uno, piccolo d’argento. Una vera? Una sorta di fede?
“Ma che ti dice il cervello? L’hai appena incontrata, manco la conosci… In più sei impegnato!”, pensai. Le sorrisi, galante.
-Beh, almeno lascia che ti offra da bere.-, dissi, indicando il bar.
-Sono impegnata…-, mormorò lei, come a volersi scusare. Non c’era aggressività o repulsione in quella frase, sembrava piuttosto una constatazione di fatto in qualche modo infelice.
Stavo per dirle che l’offerta di una bibita non implicava finire a letto, né tantomeno voleva essere un adescamento di sorta, bensì solo un’offerta dovuta al caldo implacabile che ci bombardava.
-D’altronde fa caldo.-, disse lei accettando con un sorrisetto.
Sorrisi anche io.

All’ombra, seduti al bar e davanti a due bibite, cominciammo a parlare.
Mi presentai e lo fece anche lei, si chiamava Gerda ed era del Congo, i genitori erano in Italia da parecchi anni ed anche lei vi era nata.
Io le dissi il mio nome, Alex. Domande su vita lavorativa, ecc.
All’improvviso, dallo stereo del bar partì la classica canzone commerciale: Blanco e Mina.
-Questa proprio non la sopporto… Blanco mi pare un bambinetto a cui hanno messo in mano il mic per sbaglio.-, mormorai a voce moderata. Un gruppetto di ragazzini di dodici anni mi guardò male mentre oltrepassava il nostro tavolo al riparo dell’ombrellone: come osavo insultare il loro idolo? Ma Gerda sorrise, divertita e comprensiva.
-Ha una voce come se non fosse ancora uscito dalla pubertà.-, disse. Scoppiai a ridere mentre anche lei rideva. Il gruppetto di ragazzini batté in ritirata. Terminato lo scoppio di risa mi accorsi che Gerda era bella, e che non sembrava avere troppa fretta di tornare a casa. D’altronde neanche io.
-Quindi sei falegname.-, disse lei, riprendendo il discorso. Annuii.
-Sì. Da qualche tempo lavoro in azienda con diversi altri. Ci occupiamo di diverse cose, restauri e oggettistica.-, dissi. Lei annuì. Io chiesi cosa facesse lei.
-Facevo la commessa in un negozio di vestiti femminili. In realtà volevo studiare, ma…-, parve lasciar cadere il discorso. Io lo ripresi, con una certezza tale da sfociare nella preveggenza.
-…Ma il settore discrimina e la scuola è pesante. Se hai mezzo deficit a livello scolastico sei fregato e nonostante le varie promesse, nessuno ti aiuta a riprendere il passo con gli altri.-, completai.
Gerda parve sorpresa e sorridente mentre annuiva.
-Sì! Esatto!-, disse, -Come lo sapevi?-, chiese. Io le sorrisi.
-Ho fatto esattamente lo stesso percorso. Il peggio è che…-, lei m’interruppe.
-Che poi danno la colpa a te. Sei tu il fallito, non può essere il sistema a sbagliare.-, disse.
Annuii. Questa volta non avevo dubbi: io e lei la pensavamo uguale, nel senso, eravamo sulla stessa lunghezza d’onda, da quel lato. Mi sorpresi a domandarmi: sarebbe stato così anche per altro?
Improvvisamente il pensiero di essere impegnato e che lei lo fosse stava scivolando sullo sfondo.
-Fa ancora un caldo boia.-, dissi mentre Gerda terminava l’acqua e menta che aveva preso.
Anche io ne avevo presa una e non per emularla: era la mia bevanda preferita col caldo dell’estate. C’era sintonia tra noi. Qualcosa di assolutamente armonico scorreva guidandoci a condividere quelle piccole scelte e opinioni.
Mio malgrado, ero intrigato. Volevo capire fin dove si spingeva quell’affinità.
-Quindi mi sono ritirata a fare la cassiera, poi ho conosciuto Pietro, il mio ragazzo e…-.
-E il tempo è passato.-, dissi io, -E tutto è sembrato così stantio da far divenire la vita un mero sussegguirsi di giorni.-. Stavolta lei mi sorrise con aria gioiosa, la sorpresa intrisa di una punta di curiosità.
-Che fai? Mi leggi nella mente? Pratichi il vudù con un’africana?-, chiese con una risatina.
Sorrisi. Ironizzava ma nella sua domanda c’era qualcosa della mia. Anche lei voleva sapere?
-No: sarebbe rischiosissimo.-, tornai serio dopo un sorrisetto, -In realtà ho vissuto situazioni sin troppo simili.-, a quelle mie parole anche il suo volto si adombrò.
-Ne sei uscito?-, chiese dopo qualche istante. Scossi il capo.
-Non del tutto. È un sentimento che colpisce quando meno te lo aspetti.-, ammisi.
Tra noi calò un silenzio pregno di improvvisa comprensione. In quel silenzio, mi parve di poter sentire un legame stringersi. Avevo spesso creduto che nella vita una simile intesa non fosse possibile. L’avevo cercata ed ero rimasto deluso, sino a dimenticarmi di un simile desiderio, eppure eccola lì. Lo stupore mi spronò ad agire. A non lasciarla andare così.
-Ti do una mano con la borsa.-, dissi. In realtà mi uscì più una domanda, ma Gerda parve comunque imbarazzata.
-Mi hai già offerto da bere… Potrei pensare che tu stia tutto sommato provandoci con me.-, mi avvisò con aria fintamente scioccata. Sorrisi di nuovo.
-Non è provarci se non ho possibilità!-, dissi. Lei sorrise, suo malgrado.
-Le stime probabilistiche… che universo bizzarro.-, mormorò mentre si alzava. Era stupenda.
Mi caricai la sua borsa su una spalla. Pesava parecchio. Era tutto cibo, o così veniva da credere.
C’incamminammo. Gerda mi condusse attraverso una stradina, tagliò lungo una via principale e infine svoltò oltre una piazzola in cui la presenza di una chiesa romanica pareva l’elemento centrale prima di raggiungere un condominio in una viuzza laterale.
-Ecco qui!-, esclamò. Era accaldata. Lo ero anche io: il peso della borsa e la camminata avevano vanificato l’idratazione di poco prima. Io annuii, incerto su come proseguire.
Non volevo chiederle di farmi entrare, ma non volevo neppure svanire dalla sua vita.
-Forse è meglio che vada…-, dissi. Ero tremendamente insicuro.
-Lascia almeno che ti offra dell’acqua: stai grondando, anzi, stiamo.-, ribatté Gerda.
Era vero. Non replicai, anche perché tutto sembrava star andando meravigliosamente bene.
La seguii lungo le scale, casa sua non disponeva di un ascensore. Tre piani dopo, Gerda aprì una porta. -Casa dolce casa…-, disse con tono nient’affatto lieto dopo esserci tolti le scarpe, -Scusa il disordine. Non riordino molto. Nel caos trovo un certo ordine.-.
Il corridoio che avevo davanti si divideva su due stanza per poi divenire una sorta di sala-cucina.
A parte un tappeto nel corridoio e il mobile all’ingresso, nulla attirò la mia attenzione.
Sul mobile c’erano un paio di libri. Scorsi i titoli.
-Non è così male: casa mia è peggio. Wilbur Smith?-, chiesi indicando i libri. Ne avevo letti alcuni di quell’autore.
-Cosa? Ah, i libri!-, Gerda interruppe la lotta contro la borsa della spesa per raggiungere il mobile.
-Smith scrive bene ed è così bello leggere racconti di paesi lontani…-, disse.
-Già. È un modo fantastico per viaggiare con la fantasia.-, dissi. Sorridemmo entrambi.
-La Notte del Leopardo, il Dio del Fiume…-, continuai, -Letture stupende.-.
Improvvisamente mi accorsi di desiderare di restare lì, con lei. Non m’importava più nulla di ciò che c’era fuori da quel bilocale.
-Ti prendo l’acqua…-, disse Gerda, -E, fai pure come se fossi a casa tua.-, aggiunse prima di scomparire in direzione della sala-cucina. La seguii.
-Grazie.-, dissi, -Vivi da sola?-, chiesi. Lei sospirò.
-Il mio compagno, a tratti mi raggiunge. Si ferma un po’ di giorni e riparte.-, disse.
Colsi una punta di delusione in quella frase. O fu solo immaginazione?
Mi sedetti al tavolo. Vidi altri libri. Testi di lingue e guide. La tovaglia era di plastica e il resto del salotto era occupato da una serie di attrezzi ginnici che parevano disposti attorno a un divano.
-Del tuo compagno?-, chiesi a bruciapelo quando Gerda arrivò con l’acqua.
-No. Li uso io. Quando riesco. Quando il lavoro non mi stende.-, precisò la nera.
-A chi lo dici: a volte sembra quasi che…-, iniziai. Stavolta lasciai volontariamente la frase in sospeso, in attesa che lei parlasse. Che completasse.
-Che si viva per lavorare e non l’opposto.-, mormorò Gerda. Sorrisi.
-Ora chi fa il vudù a chi?-, chiesi. Lei sorrise a sua volta.
-Tu invece?-, chiese, -Hai qualcuno tu?-. Io sospirai.
-Sì, c’è una ragazza ma non credo proprio di voler continuare una storia in cui…-, lei m’interruppe.
-In cui la tua opinione conta sempre meno, i suoi desideri sempre più e ti pare di essere…-, s’interruppe a sua volta. Io ripresi.
-Una nota a margine.-, dissi. La mia voce si era abbassata, e anche la sua.
Il mio sesso s’inturgidiva intanto. La desideravo e non solo perché era bella, ma per quella sottile affinità tra noi. Ma non avevo il benché minimo indizio su come avrebbe preso delle avances.
-Fa caldo qua dentro. Dannazione, il condizionatore si è rotto di nuovo!-, esclamò Gerda. Si alzò mentre io prendevo un sorso d’acqua da frigo, cauto. Non potei evitare di guardarla camminare verso l’imponente monolite in plastica il cui tubo avrebbe dovuto filtrare l’aria calda dall’esterno e mandarla in circolo raffreddata all’interno, cosa che non stava accadendo.
-Domani Alberto mi sente, cazzo!-, esclamò con rabbia preparandosi a sferrare un calcio all’elettrodomestico tutt’altro che operativo.
-Aspetta!-, la frenai, -Lascia che ci dia un’occhiata.-, dissi. Lei si fermò, mi fissò.
-Pensi di riuscire a sistemarlo?-, chiese. Scrollai le spalle.
-Peno di poter provare.-, dissi mentre m’inginocchiavo e osservavo il retro del condizionatore.
-Mi eviti una caduta, mi paghi da bere, mi porti la spesa e ora questo…-, il tono di Gerda era divertito, -Sicuro di non starci provando?-, chiese. Non risposi subito.
-La grande saggezza è uguale alla grande stupidità.-, dissi.
-Come?-, chiese. Io sorrisi. Da adepto dello Zen spesso utilizzavo i Koan per situazioni come quelle.
-Non ha molto senso combattere una guerra già persa.-, ammisi. Lei non rispose, non subito.
Il che mi lasciò tempo e modo d’immaginare cosa sarebbe potuto accadere se lei ci fosse stata…
Al solo pensiero, il mio sesso parve soffrire per quell’astinenza da un paradiso probabilmente più che disponibile e vicinissimo. Cercai di concentrarmi ma l’odore di Gerda e il desiderio che provavo rendevano ardua impresa la ricerca del guasto. La sentii andare di là. Non guardai dove.
Espirai e inspirai. “Forse dovrei andare. Insomma, è impossibile che mi dica sì… Magari con il tempo abbandonerà questa relazione pessima che ha, io lascerò Jessica e ci rivedremo per vedere se qualcosa può nascere o se invece no.”, mi dissi. Riattaccai un paio di cavi e controllai la saldatura del tubo. Eccolo il problema! Chiamai Gerda, mi feci portare alcuni componenti d’uso comune.
-È il tubo: è brecciato in un punto. L’aria non arriva al condizionatore.-, dissi mentre mi affannavo attorno allo squarcio. Valutai come procedere e infine lo chiusi con del nastro adesivo.
-Lo sistemerai?-, chiese lei. Io scossi il capo.
-È una soluzione provvisoria.-, dissi, -Dovrai sostituire il tubo per esser sicura che non ricapiti.-.
-D’accordo.-, annuì lei. Mi alzai. Faceva un caldo bestiale: il condizionatore ora funzionava, ma a dissipare la cappa di calore creatasi in casa ce ne avrebbe messo di tempo.
Gerda se ne accorse, d’altronde neanche lei aveva particolarmente fresco ma era pur vero che tra la spesa e il resto, potevo comodamente dire che almeno un chilo se n’era andato in sudore.
-Vuoi farti una doccia?-, chiese lei. Non pareva schifata, ma piuttosto intenzionata a ricambiare.
-Ti ho già disturbata un sacco…-, dissi io. Non volevo approfittare della sua generosità.
-Sì, come no!-, sbuffò lei, -Mi hai portato la spesa, offerto da bere, riparato il condizionatore… Una doccia è il minimo!-, esclamò. La mia indecisione si risolse quando la guardai.
In qualche modo potevo sentire che ero alla svolta. Che sarebbe accaduto qualcosa.
E che da lì, più niente sarebbe stato come prima. Forse lo capiva anche Gerda.
Dubitavo potesse negare che quella sintonia tra noi si accompagnasse al desiderio.
In realtà, volevo crederci e il fatto che i suoi capezzoli sembrassero più pronunciati sotto la maglia mi spingeva a dar per confermate le mie speranze. D’altronde poteva anche non esssere così…
-Hai ragione. Una doccia può starci.-, dissi infine con una voce che non riconobbi quasi.
Lei sorrise appena. Pareva tesa, incerta? Forse sul mio stesso identico problema?
Mi concessi la speranza. Tutto il mio essere si sentiva scosso da quell’eventualità.
La seguii sino al bagno. Non era gigantesco, ma due persone potevano entrarci. La doccia aveva le pareti in vetro. Evidentemente un’aggiunta recente rispetto all’arredamento del resto del bagno..
Rimasi imbambolato là, al centro del bagno. Gerda se ne accorse. Mi fissò.
Eravamo vicini. Potevo sentire l’odore del suo corpo, percepivo il mio cuore battere e vedevo ogni dettaglio del suo viso, ogni segno della sua vita, la sua espressione che più che fastidio trasmetteva incertezza, i suoi occhi profondi, abissali e bellissimi.
I nostri fiati si mescolavano pigramente nell’aria. Nessuno di noi due faceva una mossa.
Lei rimaneva a guardarmi, come timorosa di spezzare la magia creatasi.
Sapevamo solo che avevamo quel momento. E non volevamo perderlo.
Il petto di Gerda si alzava e abbassava, ma il suo respiro non pareva esattamente quieto.
Fu quello a farmi decidere: non sarebbe rimasta ferma così a lungo se non avesse sentito ciò che anche io sentivo.
-Gerda…-, mormorai come ad assaporare il suo nome sulla mia lingua una volta ancora.
Sentivo il pene turgido nei pantaloni, ingiustamente torturato dal vestiario.
-Io…-, continuai. Lei mi guardò. C’era speranza in quegli occhi. Mi buttai.
-Ti voglio.-, sussurrò lei, -Ma non possiamo. Siamo impegnati.-.
-In relazioni che non ci fanno bene.-, dissi io. La nera mi mise la mani sulle spalle, senza volontà di allontanarmi o attirarmi, solo come per sostenersi mentre chinava il capo.
-Non è giusto…-, sussurrò lei. Non capivo se si riferisse a quel che stavamo entrambi provando o alla nostra situazione. Da quando la felicità doveva avere una bussola morale?, mi sorpresi a domandarmi. Da quando avevamo l’obbligo di giustificare i nostri impulsi?
Le sollevai appena il capo con la mano, guardandola negli occhi.
-Dimmi che non vuoi… e non insisterò.-, dissi, ben conscio di rischiare di gettar via quella grazia.
-Io…-, esitò, raccogliendo le parole, -Io voglio. Ma non voglio…-, s’interruppe..
-Non vuoi tradire.-, completai io. Lei sospirò. Il peso sulle mie spalle aumentò. Chinò il capo.
Le alzai dolcemente la testa, accarezzandole una guancia che scoprii umida di lacrime.
-Lui ti tradisce?-, chiesi a bruciapelo.
-Io… non lo so. Sospetto.-, ammise Gerda, -Ma non ho prove.-.
-Neanche io. Ma entrambi stiamo vivendo relazioni che ci fanno soffrire. Non ha senso.-, dissi.
La sua mano mi accrezzò il viso. Piano, poi più fiduciosa. Inclinai appena il capo, come a lasciarmi nel suo palmo. Lei sorrise appena. Era un sorriso come i miei. Velato di tristezza.
-Ci faremmo del male in ogni caso.-, disse. Io annuii. Capivo perfettamente. Quell’attimo di felicità rischiava di essere il preludo a una tempesta perfetta. Potevo solo immaginare le ripercussioni, eppure…
Eravamo così vicini. Titubante, feci appena un passo verso la nera che non retrocedette. I suoi seni distavano pochissimo dal mio petto.
-Almeno possiamo scegliere per cosa soffrire.-, sussurrai. Appoggiai le labbra sulle sue.
Gerda non si ritrasse. Il nostro fu un bacio casto, rapido, nient’affatto erotico ma pregno di elettricità da poter alimentare una turbina idroelettrica. Non durò molto: ci staccammo.
Il sapore delle sue labbra era inebriante. Lei sorrise. I suoi seni sotto la maglia sfioravano con i capezzoli il mio petto. La guardai. Lei mi guardò.
-Ti voglio.-, sussurrò, -Ti voglio adesso.-. Io la baciai di nuovo. Stavolta Gerda accolse la mia lingua nella sua bocca. Le sue mani presero a muoversi frenetiche come le mie. Carezzai le spalle e la schiena della nera, sentendo le sue sul collo, sul petto e sulla mia schiena.
La mia lingua trovò la sua. Il nostro bacio si fermò, riprese. Riaprii gli occhi.
Le mani di Gerda mi carezzavano petto e spalle, le mie erano all’altezza delle sue reni, a tenerla quasi non volessi permetterle di scappar via. Lei sorrise di nuovo e mi baciò ancora. Stavolta la sua lingua, ruvida e audace mi entrò bocca con veemenza. Le sue mani scostarono la maglia andando a carezzare il mio addome, non certo una tartaruga ma sicuramente definito.
Le mie mani alzarono la sua maglia. La sua schiena era umida, ma la pelle pareva seta appena irruvidita. Interrompemmo appena il bacio. Lei mi sfilò la t-shirt e io feci lo stesso con la sua maglia. Non c’interessava dove finissero: non era quello il probelma. La bocca di Gerda mi baciò piano il collo. Ricambiai facendola fremere mentre scendevo verso il seno dai capezzoli duri e turgidi.
Leccai la sua pelle sentendomi scivolare di dosso le ultime vestigia di razionalità.
-Mmmh-, mugolò lei. La sua mano destra, che indovinai essere quella dominante, scivolo lungo il mio addome, sino alla cintura dei calzoni. Io sorrisi. Affondai le mani nei suoi jeans abbassandoli e mi trovai davanti delle mutandine marroni, colore intonato alla sua pelle.
Non potei evitare di notare una chiazza di umidore sul tessuto. Mi alzai a baciarla e lei, fulminea, mi abbassò i calzoni e anche le mutande. La mia erezione, finalmente libera, svettò fiera e retta.
Gerda si staccò dal bacio e contemplò ciò che aveva portato in superficie.
-Quante qualità in un uomo solo…-, mormorò lasciva mentre le accarezzavo i seni scendendo piano lungo la pancia. Il grasso e la cellulite non avevano ancora devastato il corpo della giovane nera.
Le dita di Gerda sfiorarono appena il mio sesso, dalla punta alla radice.
Mi abbassai, abbassandole di scatto le mutandine. Lo feci per evitare di esplodere.
La vulva rasata di Gerda mi si parò davanti. Il pube depilato non celava il cappuccio del clitoride o le grandi labbra. Accarezzai piano il Monte di Venere, scendendo lungo l’attaccatura delle cosce, piano, senza fretta. Gera si sbarazzò dei calzoni e delle mutande abbassate e io feci lo sesso.
Entrambi guardammo la doccia.
Il bacio successivo fu un incontro feroce con le nostre lingue che si trovavano e perdevano mentre i nostri corpi procedevano alla cieca dentro la doccia, spaziosa abbastanza per due e le nostre mani alternavano palpeggiamenti ed esplorazioni o graffi a goffi tentativi di trovare il modo far scrosciare la dolce acqua sui nostri corpi a temperature tollerabili.
Gerda emise un gemito quando le sfiorai il clito. Ripetei il passaggio tre volte strappandole mugolii.
Lei si strappò lo spillone dai capelli, gettandolo sul pavimento del bagno. Rimbalzò in un angolo.
La sua folta chioma radunata in trecce calò a coprirle le spalle.
-Sei bellissima…-, esalai senza quasi respiro mentre l’acqua, fredda, ci refrigerava. Mi baciò in risposta. Le baciai e mordicchiai il collo. La sentii gemere.
MI carezzò la schiena mentre le mie mani le accarezzavano il seno e l’intimità dischiusa.
La sentii appoggiarsi al vetro. Mi strappai dal viso gli occhiali appoggiandoli su un ripiano fuori dal cubicolo. Mi abbassai. Lei mi fissò, interrogativa.
-Ora mi faccio una bevuta.-, dissi. Le spalancai le gambe. Gerda parve perplessa.
Evidentemente il suo ragazzo non aveva mai fatto nulla del genere.
Baciai il pube e l’interno coscia d’ebano mentre lentamente disegnavo una strada liquida verso il suo antro. Trovai il clito, aiutandomi con una mano mentre l’altra, attorno alla vita di Gerda pareva sostenerla in modo puramente simbolico. Leccai l’interno della sua vulva sentendola gemere appena. Strinse le cosce di riflesso quando la mia lingua riprese il clitoride e le mie labbra lo avvolsero. Alternai mani e bocca, lingua e labbra su clitoride, grandi e piccole labbra, finché…
-Aaahh, sì… Sì…. Che bello… s….AHHH!-, gemette Gerda terminando con un urlo gutturale.
Gettai uno sguardo sopra di me, vedendola inarcata contro il vetro, la nuca lanciata indietro, il viso distorto da un piacere feroce, gli occhi semichiusi e la bocca aperta a prendere ossigendo come se quel che già aveva a disposizione non fosse stato abbastanza. Sfiorai le grandi labbra con un dito osando appoggiarlo sull’apertura della vulva. Sentii le sue pareti schiudersi piano al mio tocco. Invitarmi. Entrai di poco, delicatamente. Era rorida di succhi bollenti e odorosi, dalla parte più selvaggia. Sentii la sua mano sulla testa, premere decisa mentre alzava il bacino a offrirsi.
La accontentai leccandola tutta. Fremette e gemette per chiudere con un grido roco e una secrezione di altri liquidi nella mia bocca. Bevvi dalla sua fonte tutto ciò che trovai.
-Oh…-, ansimava riprendendo fiato. Mi alzai. L’acqua scrosciava ancora su di noi. Fredda.
-Mai… mai nessuno mi ha fatto godere così…-, mormorò Gerda toccandosi la vulva quasi a sincerarsi che fosse ancora là. Io ne ero sorpreso.
-Che incivili.-, mormorai. Lei mi baciò. Leccò il suo sapore dalla mia lingua.
Il solo contatto col suo corpo rischiava di spingermi oltre il limite. Contrassi gli addominali e tentai di resistere. Non volevo venire senza averla fatta mia ed esser stato suo.
Le sue braccia si avvolsero al mio collo. Le sue gambe mi agganciarono le reni. Spinse contro il mio sesso con il proprio. Trovò l’angolazione inerpicandosi appena e….
Affondai nel suo baratro rovente, dentro di lei. Sentii il suo gemito di accettazione, la sua resa alla mia spada le sue unghie graffiarmi la schiena mentre mi ritraevo e rientravo. Lo feci altre due volte, per poi uscire mentre la baciavo. Lei si staccò prendendomi il sesso in pungo con forza rapace.
Non fu interamente piacevole, ma capivo che non era il piacere il dono che voleva farmi.
-Vieni!-, disse tirandomi dal membro. La seguii.

La camera da letto la raggiungemmo a stento. Già in corridoio la presa di Gerda sul mio sesso divenne una masturbazione a tutti gli effetti e infine, quando spalancò la porta di camera sua e vidi il letto matrimoniale mi domandai come avevo fatto sin lì a non godere.
Un miracolo di volontà che sicuramente non sarebbe resistito a quell’ennesima prova.
Gerda sorrise. La sua mano stringeva ancora il mio sesso. Si abbassò. Le sue labbra si schiusero e il mio membro fu fagocitato da un baratro rovente flagellato da un vento caldo.
Cercai di distrarmi. Notai il disordine nella stanza, il letto fatto in modo approssimativo, lo specchio impolverato su cui si rifletteva la mia figura in piedi e quella di Gerda, accovacciata a suggere con voluttà il mio membro mentre una sua mano mi stringeva i testicoli. MI strappai a quella tortura.
-Gerda…-, ansimai, -Rischio…-. Lei sorrise. Si alzò. Mi baciò piano accarezzandomi il petto.
Le diedi appena una spinta ma lei mi afferrò e rotolammo sul letto disfacendo le coltri. Le leccai la vulva ancora rorida di succhi mentre la sentivo intrappolarmi il sesso tra le labbra carnose.
Cercai di concentrarmi su altro. Notai la sua libreria. Libri sparpagliati, mal messi, spiegazzati e pieni di segnalibri assortiti. Cambiammo posizione. Gerda si distese, gambe aperte e vulva in mostra. L’incarnato ebano del pube e delle cosce creava un fantastico contrasto con il sesso rosato.
-Prendimi.-, sussurrò appena sfiorandosi i capezzoli. Mi chinai a baciarla distendendomi sopra di lei, leccandole il collo piano mentre il mio sesso trovava facile la via per congiungere i nostri corpi in uno e le affondava dentro. Gerda mi graffiò il petto mentre, troneggiando su di lei, imponevo il ritmo. Non volevo godere subito ma quella donna era pura passione. Impossibile trattenersi oltre.
Le affondai dentro a più riprese. Uscii. Il mio sesso era cosparso dei suoi umori. Inspirai ed espirai.
-Prendimi così-, disse lei mettendosi a carponi. Il suo sesso aperto gocciolava umori sul corpiletto.
Non attesi: affondai di nuovo la mia spada tra le sue pieghe sentendo i suoi gemiti compiacenti mentre afferrava spasmodicamente la trapunta con le mani, artigliandola selvaggiamente.
La martellai con metodo, costante ma sapendomi interrompere. Sentivo i testicoli d’acciaio.
Non volevo venire così: mi sembrava bello ma selvaggio, animalesco. Era più simile al sesso da strada offerto dalle meretrici che avevo a suo tempo frequentato, o agli amplessi spinti ma vuoti che si vedevano nei porno. Io volevo guardare Gerda in faccia. Lo esigevo. Mi sfilai.
-Ridammelo…-, protestò debolmente lei. Io espirai, soffiando come un mantice. Ero al limite.
-Girati!-, esclamai. La girai quasi di forza. Gerda rise.
-Avanti! Che aspetti?-, chiese toccandosi la vulva, aprendosi piano le grandi labbra con due dita.
Non aspettai. Affondai di nuovo. Lei prese a gemere, a voce bassa, sussurrando parole smozzicate.
La sentii stringere il mio sesso con i suoi muscoli più segreti. Una tortura a cui stavo cedendo.
Infine crollai: la bloccai contro il materasso affondandole dentro con colpi lunghi e profondi, uscendo quasi del tutto. Quando sentii di essere prossimo al culmine mi chinai a baciarla e subito lei mi avvinghiò con braccia e gambe, bloccandomi nella sua morsa predatrice. L’odore del suo corpo, il suo calore, il caldo, tutto si fuse e perse di significato in un’esatsi che abbatté le mie ultime barriere. Sentii le unghie di Gerda affondarmi nella schiena, le sue gambe stringermi, il suo corpo inarcarsi contro il mio, il suo gemito divenire un urlo e il suo sesso stringere il mio mentre il piacere ci travolgeva. Venni schizzando nel suo ventre, abbattendomi su di lei come fulminato. Rotolai al suo fianco, dove il mio respiro uscì in ansiti rapidi e radi.

-Sono questi gli errori per cui val la pena vivere.-, dissi mentre mi giravo su un fianco per guardarla.
Lei mi guardò, togliendosi pigramente una treccia dal viso. Eravamo nuovamente coperti di sudore.
-Sai qual’è la cosa buffa?-, chiese all’improvviso Gerda. I suoi occhi scuri erano ancora luminosi, ma non era la lussuria ora a renderli languidi, ma la felicità. La fissai, in attesa.
-Io voglio che questo errore non finisca.-, sussurrò. La accarezzai dal viso alle reni lungo il fianco, fermandomi a osservarla. Pareva una magnifica predatrice a riposo.
-Anche io.-, dissi, -Voglio poter vivrere altri mille giorni così con te. Anche un po’ meno caldi in caso.-. Sottolineai l’ultima frase con un sorriso. La mano di Gerda mi carezzò il petto.
-Bianco e nero…-, mormorò meditabonda, -È perfetto.-. Se fosse stato un dating show avrei urlato di fermare tutto, che avevo trovato quella giusta. Gustai quel momento senza parlare.
Inspirai l’odore. Il nostro, quello di quella stanza, del caldo.
-Dovremmo vestirci. Sai… probabilmente…-, abbandonai la frase. Chi me lo faceva fare?
-Non c’è niente fuori da qui che m’interessi, per ora.-, disse Gerda. Si portò una mano tra le cosce.
Toccò appena, ritraendo un dito da cui si svolgeva un filamento perlaceo.
-Mi sei venuto dentro.-, disse soltanto. Io non parlai. Realizzai solo in quel momento la gravità della cosa. Una sveltina era un conto, ma quello era proprio il punto di non ritorno.
-Non prendi niente per proteggerti?-, chiesi. Lei parve rifletterci.
-Avevo finito le pillole l’altro giorno. Ovviamente non pensavo che ne avrei avuto bisogno. È un po’ che…-, abbassò lo sguardo. Io annuii.
-Anche io. Era un bel po’-, dissi. L’intimità con Jessica era divenuta semplicemente stantia.
Il sesso? Un ricordo. L’amore? Un’illusione. Sin lì, sino a quel momento.
Non so dire quanto rimanemmo fermi. Un minuto? Venti? Un’ora o altre tre?
Quando notai il sole che scompariva verso l’orizzonte, ci alzammo, pigramente, di malavoglia.
Ci lavammo nuovamente, non senza baciarci, e infine facemmo ciò che doveva essere fatto.

-Sei tornato.-, la voce di Jessica era sempre la solita monotona voce. Monocorde, priva d’interesse.
-Dove sei stato?-, chiese, petulante. Io tacqui. Con una calma quasi sopraffina e un sorrisetto presi una borsa. Svuotai gli scaffali di un armadio buttandoci dentro i suoi vestiti.
-Ehi! Che fai?! Che cazzo ti dice il cevello?!-, urlò Jessica. Rovesciai un cassetto d’intimo dentro uno dei sacchi. Vi trovai un vibratore di dimensioni non indifferenti. Ignorai la cosa.
-Rispondimi, brutto stronzo! Che cazzo fai?!-, io non risposi: passai ai libri.
Libri… I suoi non erano libri: erano riviste di gossip e altre cazzate. Libri erano ben altri. Li gettai nel secondo sacco che stavo preparando. Lei cercò di fermarmi. Mi voltai.
E a quel punto, forse Jessica iniziò a capire che qualcosa era cambiato. Che qualcosa stava cambiando. E non per il meglio per lei.
-Tu ora prenderai la tua roba, salirai sul taxi che ti ho chiamato e uscirai dalla mia esistenza. La nostra relazione è stata un errore. Un’illusione mia di cui tu hai approfittato a piene mani e senza curarti del male che hai fatto. Ma finisce qui e finisce ora.-.
-Te lo sogni, stronzo! Aspetta che chiami Miguel. Lui è un poliziotto! Tu non mi puoi sfrattare!-, ribatté lei.
-Oh, suppongo che i tuoi follower saranno così interessati a questo video…-, dissi io.
-Video?-, chiese lei, esterrefatta.
-Sì.-, dissi io, -Il video della diretta che ho avviato da remoto tramite il pc. Sono convintissimo che tutti i tuoi follower non vedono l’ora di dirti cosa pensano. Sono assolutamente sicuro che alimenterà qualche positivo e ininfluente dibattimento sul ruolo della donna e tutto il resto.-, dissi mentre ficcavo in un sacco alcuni trucchi senza davvero dar loro un qualche ordine.
Lo sguardo di Jessica individuò la webcam, accesa.
-Non lo faresti mai! Non puoi farlo, sarebbe la tua rovina! È da denuncia! Mi hai sentito? Non lo farai!-, io la fissai, stufo.
-Da denuncia, eh?-, chiesi, -E non è da denuncia il modo in cui mi hai trattato? Non sarebbe da codice penale? Da quando la legge è così parziale, eh? Vedi, cara, io sto solo facendo una scelta. Puoi accettare o rifiutare, ma nel secondo caso ti vedrò colare a picco e ti dirò che non m’importa se affonderò con te.-.
Jessica aprì la bocca. La richiuse. La riaprì e la richiuse. Io le porsi i sacchi. Due. Belli pieni.
-Voglio la tua parola che quel video di merda non uscirà da qui.-, disse infine.
-Non uscirà.-, dissi, -Ora, penso che Pietro ti stia aspettando.-.
-Pietr…?-, chiese Jessica, -Tu cosa…?-, a malapena riusciva ad articolar verbo.
-Io e la mia nuova compagna abbiamo avuto una piacevolissima conversazione. Stupefacente quanto le affinità siano caotiche, vero? Ma in fisica, come nella vita, esistono relazioni capaci di autoregolarsi. Si chiamano Affinitià Elettive e implicano la rottura di due coppie di molecole per favorire il rimescolamento e la creazione di altre due coppie. È quello che, in breve, è successo a me e a Gerda. E ora, che tu lo voglia o meno, tu accetterai questo. Forse Pietro darà inizio a una storia con te, forse no. La cosa non mi riguarda minimamente. Tutto ciò che voglio è che tu te ne vada.-.
-Pietro non… Non ti permetterà di farlo.-, disse Jessica.
-Oh, lui l’ha già fatto: io e Gerda gli abbiamo parlato. È sorprendente quanto sia stato poco accorto nel nascondere le prove della vostra relazione. In particolare il tuo completo in lingerie, che ti ho regalato.-, dissi. Fu la stoccata finale. Jessica rimase imbambolata a centro sala mentre finivo di riempire una borsa e gliela porgevo.
-Marsh.-, dissi senza particolare cattiveria. Solo allora lei parve scuotersi e prendere le borse, uscendo. Io sospirai. Aprii le finestre. Tutte. Arieggiai la casa come mai prima avevo fatto. Era appena calata la notte. Chiamai Gerda.
-È fatta.-, dissi.
-Non avevo dubbi. Ci ha davvero creduto?-, chiese lei.
-Il tuo piano è stato fenomenale. Pietro non ha fatto storie?-, chiesi.
-Non dopo che gli hai sbattuto in faccia le prove del suo comportamento..-, c’era allegria nel tono di Gerda, -Vengo da te.-.
-Così?-, chiesi io, sorpreso. Non mi aspettavo che le cose evolvessero tanto in fretta.
-Così. Pensavi che scherzassi? Voglio passarne ancora tante di giornate così, e l’estate è lunga.-.
Fissai il telefono e sorrisi. Mi scoprii a ridere mentre la sera scendeva.
-TI aspetto.-, dissi con tono più dolce di quanto ricordassi possibile.
Non riuscivo ancora a credere a quel repentino corso di eventi, ma forse era destino.
Non conoscevo Gerda, non la conoscevo quasi, né lei conosceva me. Ma una cosa la sapevo.
Morivo dalla voglia di conoscerla davvero.
E sentivo che il nostro legame era vero e saldo come nessun altro mai.
Tanto mi bastava.

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