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Caterina, la natura e…

By 30 Aprile 2016Dicembre 16th, 2019No Comments

Caterina, così si chiamava, era una ragazza minuta, quasi gracilina, se non fosse stato per i seni che, con il giungere della maturità, si erano fatti abbondanti, gonfi, ma pur sempre eleganti, mantenendo quella sodezza che si addice alla migliore età.

Caterina aveva un viso d’angelo, o piuttosto da monella, con quegli occhi verdastri e quelle lentiggini che dal naso si stendevano a contornare gli zigomi, e una fessurina, centrale all’arcata dentale superiore, che spartiva la sua bocca, quasi simmetricamente, a metà.

Ci eravamo fidanzati al liceo, conosciutici durante una lunga pausa ricreazione, ed era subito nata una certa complicità. Complicità che poi diruppe in amore, e in un bacio dato nei bagni della scuola durante una pausa tra una lezione e l’altra. Caterina era più piccola di qualche anno, inesperta, ma con una voglia di scoprire, di avventurarsi verso l’amore, verso i primi baci, verso le prime carezze.

Fu una domenica d’aprile che, posati i motorini lungo la strada, ci inoltrammo in un boschetto, dove un ruscello dolce intonava splendide melodie a noi, che facemmo la prima volta l’amore, Fu dolce, come lo &egrave la prima volta, e romantico: rimanemmo abbracciati per ore.
Da quel giorno ci davamo appuntamento ogni pomeriggio, o quasi, tempo e vita permettendo, per andare nel nostro angolo di quiete, e, denudati, dedicarci l’uno all’altro. Così, piano piano, Caterina divenne sempre più brava nelle arti dell’amore, e incominciò a cimentarsi non solo nell’amore, ma nelle scopate: a smorzacandela, o poggiata su un albero offrendosi da dietro, o nell’acqua del ruscello, dove la sensazione del fango, tra le dita dei piedi, rendeva tutto ancora più eccitante, ella si offriva a me. E così Caterina cresceva, all’inizio cresceva con me, diventevamo grandi insieme; la vidi crescere sempre di più, e diventare più libera, e sbarazzina, e anche un po’ più maliziosa, forse più di me.

Iniziò anche a frequentare casa mia, certi pomeriggi con la scusa di studiare; e successivamente passava con noi anche alcune domeniche, quando andavamo in cascina.

i miei nonni stavano, infatti, fuori paese, e noi nipoti, con zii e genitori, andavamo la domenica a trovarli; oppure, quando le ferie lo permettevano, o d’estate, si stava lì qualche giorno, a vivere la vita di campagna, selvaggia e libera. Quando si era più piccoli ci si avventurava in giri esplorativi, o si dava sfogo alla propria creatività costruendo capanne sugli alberi, spade, archi e frecce. Ora, che si era un po’ più cresciutelli (e andavamo per i diciotto), non c’era più quella voglia e quella magia nel fingersi avventurieri. Ma, dell’infanzia, una cosa era rimasta: una capanna, costruita da noi ragazzi e poi rinforzata dalla benevolenza di nostro nonno, in cui spesso andavamo a passare i pomeriggi, spesso accampandoci lì anche per la notte.

Un fine settimana d’estate decisi d’invitare Caterina dai miei nonni.

Zaino in spalla, pantaloncini quasi inguinali e camicetta bianca, la prelevammo da davanti casa con la macchina dei miei e partimmo. Ero lieto di quella giornata da passare in campagna con i miei affetti.

Giunti sul posto, trovammo ad aspettarci zia Elvira e i miei cugini Stefano e Silvia, all’incirca coetanei miei, Stefano più grande di qualche anno.
Stefano, dei cugini, &egrave stato sempre quello più attaccato ai nonni, e alla campagna: buona parte della sua gioventù la passò lì in cascina, crescendo come un vero contadino: sapeva, a differenza mia, mungere le mucche, o tirare il collo a una gallina; spesso andava a pesca di rane. Il suo carattere, rispetto al mio, era più rude: niente giri di parole, orpelli o altro, Stefano badava alla sostanza delle cose. Avventurarsi con lui era sempre un piacere, e anche quel giorno partimmo in avanscoperta: prima tappa lo stagno delle rane.

– Guardate come si fa, e vediamo se siete capaci – disse Stefano, lanciandosi, coi pantaloni alzati fino al polpaccio, in acqua, tra le canne, e subito si tuffò nella melma, con le mani chiuse a campana, catturando una ranocchia. Alice, la sorella, un po’ schifiltosa come carattere, si vide colpire da uno schizzo di fango dritto in una guancia:
– ma tu guarda che roba, che schifo dai, non si può far neanche una passeggiata in santa pace! – e detto questo, nervosa più che mai, si diresse verso casa, con l’intenzione, intuimmo, di non uscire più. Caterina, invece, euforica, si lanciò anch’ essa in quella caccia, provando un iniziale ribrezzo per quegli animali viscidi, ribrezzo subito vinto dall’allegria:
– ne ho presa una! guarda che… ops! – e la rana si rituffò in acqua. Nella foga la camicetta bianca si era un po’ insozzata, e tra i rivoli di fango la parte bagnata rivelava un capezzolo e l’assenza di reggiseno. Doveva essersene accorto Stefano, che di tanto in tanto, mentre lei era intenta nella sua pesca, si aggiustava il cazzo nei pantaloni osservandola, ignorando completamente la mia presenza (e ne fui abbastanza scocciato, senonché non volevo rovinare l’atmosfera d’allegria). A un certo punto Caterina irruppe in un grido: – adesso sì, adesso l’ho presa! Yuppyyyyyy!!!! – e subito Stefano, approfittando del momento le corse vicino: -bravissima cuginetta, sei della famiglia adesso! – e così dicendo l’abbracciò a sé (era da un po’ che mirava, secondo me, a stringersi quei capezzoli sul petto) alzandola da terra. L’abbraccio durò un po’ più di quel sarebbe bastato, ma Caterina non sembrava far molto caso a questi dettagli, anzi, euforica, ricambiava di gusto.

Catturate un buon numero di rane, ci si diresse alla capanna dei ragazzi, lontana un po’ di metri dalla casa, da cui era divisa da alcune fila d’alberi. Si accese un fuoco e, infilzate ad uno ad uno le rane su un bastone, mio cugino iniziò a cuocerle.
– Non ho mai provato le rane, ma sono davvero curiosa di assaggiarle. Tu le mangi, amore? -, si rivolse Caterina a me.
– Beh, certo… Oddio, non le ho mai mangiate con gusto, però… mi sforzerò…

Caterina sorrise, contenta, abbracciandomi.
Così cenammo, noi tre, attorno a quel fuoco, sbranando a morsi quelle rane, accompagnate da una bottiglia di vino e da un pezzo di pane, opportunamente fatto pervenire dalla casa dei nonni. Si parlava e si scherzava.
– E tu, Stefano, non ce l’hai la fidanzata? – chiese Caterina
– No, non me ne faccio nulla della fidanzata, solo noie per me… Voglio divertirmi, se ho voglia di fare all’amore chiamo certe amiche della zona… Si viene qui alla capanna, si fa quel che si fa, e poi ognuno per la sua strada! –
Caterina rise, brilla: – e hai ragione caro il mio Ste, chi te lo fa fare! la vita va goduta!
– E ti assicuro che me la godo, e la faccio godere pure a chi gode con me! – disse Stefano, portandosi la mano callosa sul pacco e modellando i pantaloni in pile sul suo cazzo, piuttosto grosso.

Cambiai subito discorso, iniziando a parlare delle stelle. Così ci sdraiammo a guardare il cielo, finendo quasi per assopirci accanto al fuoco oramai spento. Dopo circa dieci minuti Stefano ci svegliò:
– eh, qui ci si prende un malanno, l’aria &egrave umida, io me ne entro in capanna.
Dissi a Caterina di tornare alla cascina.
– Ma no, dai, non ho voglia di far strada. E poi qua &egrave più bello, restiamo a dormire pure noi nella capanna. Ci stringiamo un po’.
– Beh, se proprio vuoi, facciamo così.
La capanna aveva un solo ambiente, dove, a mo’ di giaciglio, Stefano aveva portato della paglia, coperta da un telo in cerata. Non era proprio il massimo della comodità, soprattutto per tre persone. Mi misi io tra mio cugino e Caterina, la situazione non mi piaceva, ma facevo buon viso a cattivo gioco, e poi non mi andava di fare il geloso: dopotutto, quello, era mio cugino.
Ci addormentammo, così, e fu un sonno profondo. La giornata era stata lunga, eravamo tutti stanchi. Dopo qualche ora, però, il cugino Stefano si sveglio e si alzò, scavalcandoci.
– Devo pisciare -, ci disse.
Quando tornò, assonnati noi, diede una lieve spinta a Caterina, e le disse di farsi più in là. Caterina mi fece mettere più vicino al muro in assi di legno della capanna. Era ora lei al centro.
Da quel momento, non dormii più. Un sospetto mi teneva all’erta, i miei sensi accesi e attenti alla minima vibrazione. Tendevo l’orecchio per sentire. Ma nulla.
Stavo quasi per riaddormentarmi.
D’un tratto, lo sentii.
Un fruscio, lieve. Un muoversi di tessuti,
Un mugolio. Poi un lieve suono, come di bocca che muove la saliva. Non riuscivo bene a decifrare i suoni.

Ma capivo.

Si era uscito il cazzo, il porco.
Se l’era uscito e, quatto quatto, si stava segando.
Ebbi un moto di imbarazzo: eppure non ero io che dovevo provarlo.

Ebbi più che un sussulto quando poi, però, Caterina, che fino ad ora dormiva a pancia in giù, si girò di fianco, la testa rivolta a mio cugino, Mi dava le spalle.
Altri fruscii.
Intravedevo, nell’ombra, il braccio di lei muoversi, armeggiare un po’. Subito, poi, il suono di un lento andare su e giù, della cappella umida che sfregava con l’acquosa pelle del prepuzio. Poi la mano di lui, lei che alza una gamba, per accogliere, in mezzo a loro, le mani callose di mio cugino. Il panico in me.

Il panico, e subito, improvvisa e vergognosa, un’erezione. Ero fremente, attento ai loro movimenti. Sentivo l’odore forte del cazzo agreste del cugino, e lei, Caterina, troia, che iniziava a mugolare. Non era più la ragazzetta con le lentiggini con cui avevo scoperto l’amore. O forse sì. Solo un passo più avanti rispetto a me.

Ormai disinteressati totalmente a dissimulare, Stefano si alzò, sulle ginocchia, e abbassò i pantaloni alla mia Caterina, che lo aiutò inarcando il culo. Subito lui si mise tra le sue gambe, e piantatogli il cazzo nella fichetta (senza preservativo! non l’avevamo mai fatto senza preservativo!) iniziò, energico, ad affondarsi dentro lei, che, con la schiena, era poggiata sempre più su di me. Vibrava il suo corpo e potevo sentirne ogni fremito, ogni affanno. Latrava, come una cagna, un desiderio e un eccitazione che non aveva, probabilmente, mai provato con me, gentile nelle carezze. Sempre più veloci, i suoi colpi, preannunciarono l’orgasmo di entrambi. Fu lei che venne per prima, tremando tutta e sussultando, finendo per alzarmi la maglietta e scoprirmi la pancia ad ogni colpo da lui inferto. Infine lui, uscito dalla fica di lei, diresse, per sborrare, il suo cazzo più in basso. E li sentii il getto caldo di sborra coprire la mia pancia. Colava, fin dentro il mio ombelico, e l’odore acre saliva fino al mio naso. Umiliazione massima terribile: ma perché ne provavo tanto piacere?.

Venni nelle mutande, aiutato dal contorcersi di Caterina incollata a me. Probabilmente sarei comunque venuto da solo.

L’umiliazione era tale che non trovai nulla di meglio da fare che fingere di dormire. Finsi tutta la notte.

Quando riaprii gli occhi, era mattina inoltrata, dovevo essere crollato.

Li vidi già svegli, far finta di nulla, cordiali come sempre. Possibile che credevano che non mi fossi accorto di nulla?

– amore, dai, andiamo alla cascina, c’&egrave il latte caldo per fare colazione! – mi disse Caterina.
– V.. Vengo – diss’io. Non potei fare a meno di osservare la mia pancia. Una chiazza biancastra si stagliava sulla maglietta, che aveva assorbito tutto il succo dei lombi di Stefano.
– Questi vestiti vanno lavati! sembri un bimbo selvaggio! – mi disse sempre lei.

La giornata trascorse tranquilla, come la giornata appena passata. Solo io sembravo ricordare ciò che era successo?
Sul tardo pomeriggio mia nonna ci disse – le stanze son tutte pronte, scegliete quelle che volete!
Ma subito ribatté Caterina: – lei &egrave gentilissima, nonna, ma a me piace tanto dormire alla capanna! Vedere le stelle tra le assi di legno, &egrave così struggente! –
– Ah beh, tesoro, fa’ come meglio ti pare: qui sei come a casa tua!
Un nodo in gola, al sentire quelle parole, mi si era formato! Non potevo crederci: voleva tornare lì, dormire di nuovo insieme a mio cugino!

Finita la cena, fu lei che m’accompagnò, tenendomi per mano, alla capanna.
– sei troppo silenzioso, oggi, cosa c’&egrave che non va!
– beh, mi sembra inutile fingere. Mi sono accorto di tutto, stanotte. Ho visto quello che hai fatto.
– Lo so, sciocchino!
– E allora perché mi chiedi cos’ho? Dovresti chiedermi cosa non ho, perché non ti prendo a schiaffi e ti mollo qua!
Lei si fece sinuosa e sensuale, e mi disse, con un tono di voce caldo: – Ma a quanto mi &egrave sembrato di capire, ieri, ti &egrave piaciuto! non ho mai sentito il tuo cazzo così duro! Mi premeva sulla schiena… Ho sentito anche quando venivi…
Avvampai di vergogna.
– Ma che fidanzata sei! Che fidanzati siamo! non &egrave normale tutto ciò!
Lei mi portò una mano sulla bocca. – Ssst. Non hai alcun bisogno di parlarne, ne di rimuginarci. Io ti amo. Eravamo insieme. Quello che ho fatto io non l’ho fatto da sola, ma insieme a te, che col tuo non far nulla, mi hai dato il beneplacito. Abbiamo goduto insieme. Lui &egrave solo uno strumento di piacere. Noi siamo l’amore –
e detto questo mi baciò, a lungo, e io mi sciolsi, inebriato, inebetito dalle sue parole.
Giungemmo alla capanna, e, come la sera prima, ci ritrovammo distesi tutti e tre su quel letto. Stavolta Caterina si trovava già nel mezzo.
Iniziarono a muoversi, sinuosi, subito che le luci furono spente. Io, in silenzio, tentavo di indovinare i loro movimenti.
I gemiti, stavolta, erano più forti, incoraggiati dal mio oramai palese assenso.
– prendilo in bocca – disse Stefano a lei. E subito lei, abbassatigli i pantaloni della tuta (un po’ sudici, a dir la verità), si prese in bocca il suo cazzo e cominciò a succhiarlo, lentamente. La cosa doveva essere molto piacevole: Stefano grugniva, quasi come un maiale.
– Basta – disse lui, la fece alzare e la fece impalare su di sé, mentre lei, con la bocca odorosa del suo cazzo sudato, mi prese e mi baciò, un lungo bacio con la lingua, dolcissimo e eroticissimo.

Il bacio fu interrotto da lui che la fece alzare, se la mise a pecorina e le infilò, in un sol colpo, secco, il cazzo in fica. Lei gridò un po’. Ogni tanto, per spronarla, lui le dava certe manate sul culo, che diventava rosso, anzi viola. Vidi che Stefano accelerava il ritmo, quando mi prese per la collottola e mi lanciò sotto di s&egrave, facendomi sdraiare sotto loro due.
– Vieni qua – e afferrandomi la testa per la nuca, uscì il cazzo dalla fica di Caterina, sborrandomi sulla faccia. Caterina, assatanata, non in sé, scese col suo viso all’altezza del mio volto e iniziò a lapparmi a colpi di lingua, raccogliendo e ingoiando il suo sperma, e poi baciandomi; mentre io, sbottonandomi i pantaloni, infilavo subito il mio cazzo dentro lei, venendo immediatamente. Esausti, ci rimisimo a letto, così com’eravamo.
– E bravo il mio cuginetto – disse Stefano, ghignando. Prese Caterina e se la abbracciò da dietro.
– Ora che sappiamo i tuoi gusti, vedrai che ci divertiamo. Alla tua fidanzata, qua, ci penso io. Caterina sorrise.

Ora che &egrave passato tanto tempo, ripenso a quegli anni, a com’ero ingenuo, alla paura che provai: sensazioni oramai lontane. Ora tutto mi &egrave più chiaro: Caterina era diventata una Donna, una vera Donna. Ed ora, che la vedo, vestita di bianco, percorrere la navata centrale, avvicinarsi sempre più a me, qui, in piedi sull’altare, accompagnata a braccetto dal buon Stefano, ne ho la certezza:

io quella donna la amo, voglio che sia la mia sposa. .

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