Skip to main content

SERA

Interno della discoteca, ore 22:30


     Se all’esterno la musica era forte, all’interno era quasi una sensazione fisica dolorosa, almeno per Eleonora che non era abituata. Ogni colpo di basso sembrava un pugno nel suo stomaco e il fragore era tale da darle le vertigini. Si era immaginata un luogo buio con qualche faretto che si muoveva convulsamente sul pubblico che ballava, e invece il grande locale era quasi illuminato a giorno, con un centinaio di persone che si dimenava. Guardandoli, si domandò se fossero tutti vip.

     Da come li nominava Miriam, sembrava di sì. Elencava calciatori, giovani imprenditori, attori e cantanti, una manciata di artisti e altra gente che la bionda, a differenza della rossa, non sapeva incasellare in un lavoro o professione. Di certo, se avessero sedotto il più scarso dei presenti, avrebbero potuto spassarsela per il resto della loro vita senza dover lavorare ancora un giorno.

     Il tour con vista sui famosi non durò a lungo, interrotto solo un momento, quando si fermarono alla richiesta della Flores che li aveva raggiunti correndo. Aveva parlato con quello che sembrava il capo delle guardie che le stavano scortando; questo sembrava stupito all’inizio, poi annuì e disse qualcosa al resto del gruppo di guardie usando quello che sembrava un loro linguaggio in codice.

     Pochi istanti dopo, sospinte com’erano da quei tre addetti alla sicurezza, ripresero il cammino, attraversando la sala lungo un lato poco illuminato, in cui pareva non sostasse nessuno. Sembravano piuttosto dirette ad un paio di doppie porte su cui era posto un cartello con la scritta “privato”. Un filo di inquietudine crebbe in Eleonora, che divenne maggiore quando notò che l’uomo che teneva per un braccio Cristina aveva cominciato ad allontanarsi dal resto del gruppo, muovendosi verso un’altra porta. Che volessero dividerle? L’inquietudine divenne terrore.

     – Dove stai andando? – domandò Miriam quando anche lei si accorse di Cristina e della sua destinazione differente.

     – Ci vediamo, sfigate! – rise la ragazza un attimo prima di essere inghiottita dalla porta, anch’essa con la scritta che ne vietava l’accesso.

     – Dove… dove la portano? – domandò Eleonora all’uomo che la stava tenendo.

     L’uomo sogghignò. – Lei è quella fortunata – rispose.

     La ragazza non seppe dire se fosse serio o meno.

     Superarono le doppie porte che si aprirono automaticamente quando le guardie si avvicinarono, probabilmente grazie a qualche dispositivo nelle loro uniformi. Il corridoio che si trovarono ad attraversare aveva le luci soffuse e, una volta chiusi i battenti, il frastuono della musica crollò, come se avessero percorso centinaia di metri di distanza con pochi passi. C’erano diverse porte a lati del corridoio, con uno stile al contempo semplice ma piacevole alla vista, in metallo ma con lavorazioni pregiate. Accanto ad ognuna c’era un piccolo display, illuminato di rosso, giallo o verde. Da una, con il display illuminato di giallo, uscì una donna spingendo un carrello con delle coperte sopra. Lanciò loro un’occhiata ma sembrò non dare molto peso alla loro vista, chiudendo la porta e andandosene verso una di fattura diversa, probabilmente usata per operazioni di servizio.

     Fu quella sul fondo del corridoio, dove la luce era minore, ad attrarre l’attenzione di Eleonora: aveva un battente in legno, lavorato perché sembrasse avesse dovuto subire lo scorrere del tempo e apparisse sporca e rovinata. Una morsa la strinse al petto quando comprese che erano dirette lì.

     Nell’ombra, compariva sopra la porta un cartello, anch’esso dall’aspetto volutamente vecchio e di pietra, con dei caratteri disegnati bizzarramente, con dei teschi grotteschi, piccoli e dall’aspetto curioso. Le ci volle un attimo per comprendere che doveva essere una simulazione dell’arte mesoamericana precolombiana, maya o azteca. Fu soprattutto la parola che compariva e che richiese un istante per essere letta a portarla a quella conclusione: Tempio di Tlazolteotl.

     Eleonora ignorava chi o cosa fosse un Tlazolteotl ma, da quanto sapeva delle civiltà dell’antico Centro America, c’era poco di cui essere tranquilla. Non riuscì a trattenere un singhiozzo di terrore.

     Accanto alla porta in legno c’erano altre due guardie che, all’avvicinarsi dei quattro, aprirono i battenti. Eleonora lanciò un grido quando scorse cosa celavano, le gambe che le cedettero e solo l’intervento dell’uomo che la teneva per un braccio le impedì di cadere a terra. Miriam a quel grido si voltò verso l’amica, poi, comprendendo cosa l’avesse spaventata, guardò anche lei. Il fiato le si mozzò, gli occhi le si sgranarono: oppose resistenza, ma le guardie sembrarono spostare dei pupazzi di stoffa più che delle ragazze.

     Le gettarono quasi letteralmente nella stanza, che, ora che era completamente visibile, si dimostrava ancora più spaventosa: piante tropicali che crescevano dal pavimento si alternavano a colonne squadrate di pietra bianca su cui volti scolpiti sembravano fissarle dove non c’erano strani geroglifici o qualcosa che doveva ricordare un grosso serpente ricoperto di piume. Al centro della stanza, cinque grandi parallelepipedi grigi con grossi anelli di metallo che sembravano arrugginiti erano messi uno accanto all’altro.

     – No! No! – urlò Eleonora, impazzita, quando li riconobbe come riproduzioni delle pietre sacrificali su cui venivano immolate le vittime sui templi per propiziare la benevolenza di qualche divinità azteca.

     – Finiscila… – sibilò la sua guardia, strattonandola.

     Miriam aveva gli occhi sgranati e respirava rumorosamente con il naso, rattrappendosi come per scomparire alla vista.

     – Spogliatevi – ordinò quello che sembrava il capo delle guardie. Fissò la rossa, e nel suo sguardo non c’era nemmeno un’ombra di cupidigia ma solo di determinazione. Mosse la testa come per farla muovere, ma dopo due secondi che ancora indossava gli abiti, bloccata come una cerbiatta illuminata dai fari di un’automobile che corresse nella sua direzione, il nuovo gesto del capo fece entrare in azione la guardia che la teneva e quella più vicina.

     Miriam sembrò risvegliarsi da un sogno, spaventandosi per le quattro mani che avevano afferrato il suo abito da sera. – No, cosa cazzo fate? Io…

     Le parole sembrarono spezzarsi come il suo vestito che si aprì con uno strappo rumoroso, lasciandola in mutandine e reggiseno. Mosse istintivamente le mani per coprirsi, ma non fermò quelle delle guardie che le strapparono di dosso anche l’intimo, lasciandola nuda. Si mise ad urlare, terrorizzata, piegandosi su se stessa per nascondere le proprie vergogne.

     Evidentemente, le guardie, a furia di lavorare in una discoteca, sembravano non sentire le grida di una donna, spostando l’attenzione su Eleonora, bloccata dalla paura. Solo le pupille si mossero per indicare che non era la statua dedicata al sogno erotico maschile, spostandosi dall’amica nuda al capo delle guardie.

     – Pensi di riuscire a spogliarti da sola o…

     Lei annuì, poi il suo corpo passò dall’urlare terrore al dichiararsi sconfitto. Senza farla troppo lunga, alzò le mani alle spalline, le spostò e si lasciò calare a terra l’abito, che si afflosciò attorno ai suoi piedi. Il disagio prese posto alla paura quando si accorse che tutte e quattro le guardie la stavano guardando con attenzione, come se non avessero mai visto prima una donna. Abbassando lo sguardo si calò le mutandine e poi, con uno sforzo di volontà tale che avrebbe smosso le montagne, anche il reggiseno.

     Sentì perfettamente i presenti trattenere il fiato quando la quarta di seno di Eleonora fu libera, i capezzoli dalle larghe aureolE che calamitarono l’attenzione di tutti, anche quella di Miriam che sembrò dimenticarsi di essere intenta ad urlare per avere salva la vita. La bionda non ebbe alcun pensiero per la sua passera ma entrambe le braccia cercarono di celare le grosse tette.

     Pure il capo delle guardie, che di fronte alla rossa non aveva battuto ciglio, alla presenza della magnificenza di Eleonora ebbe bisogno di un secondo per riprendersi. – Legate le due… le due troie alle pietre.

     Due mani presero ogni ragazza per la vita e le trascinarono ad altrettante riproduzioni di are sacrificali, facendole urlare di terrore. Provarono a dimenarsi, a fuggire, ma non poterono nulla contro la forza delle guardie.

     – La bionda legatela a tette in su, che quelle meraviglie devono essere ben esposte, – ordinò il capo, sarcastico, – mentre l’altra puttana prona, che mi sembra avere un bel culo appetitoso.

     Corde di qualche materiale vegetale, precedentemente che pendevano dagli anelli, vennero usate per bloccare polsi e caviglie delle ragazze, che si trovarono a gambe e braccia aperte, con l’inguine sul bordo mentre le teste restavano per metà appoggiate e per metà oltre la pietra di plastica. Guardando alla sua destra, Eleonora vedeva il viso di Miriam bianco per il terrore, un contrasto spaventoso con i suoi capelli color fuoco.

     – Ottimo lavoro – disse il capo, quindi gli uomini lo seguirono per andarsene.

     Rimaste sole, le due ragazze non fiatarono per diversi secondi, finché Miriam non disse, la voce che tentennava: – É… è tutto uno scherzo… vero, Ele, che… che è tutto uno scherzo… vero?

     Eleonora non ebbe il coraggio di rispondere. Se fosse accaduto quello che temeva, avrebbe capito perché la guardia aveva sostenuto che Cristina era quella fortunata…


Stanza di Eduardo Jiménez, ore 22:40


     Cristina non sapeva se essere estasiata o delusa: non avrebbe mai immaginato potesse esserci tutto quel lusso in una stanza da letto, ma al contempo si sarebbe aspettata di vedere una jacuzzi od una piccola piscina oltre una porta, o quadri dal valore di qualche milione di euro in quella di uno con i soldi come Jiménez. Nonostante questo, solo il letto doveva valere più di quanto costasse tutta la stanza che occupava a casa dei suoi genitori, compreso televisore e impianto stereo: la testiera e la pediera sembravano fatte di platino e le coperte di lino o qualche altro cazzo di tessuto prodotto con i peli di animali che vivevano a cinquemila metri di quota o in via d’estinzione. Entro poco, comunque, avrebbe scoperto com’era scoparci sopra un milionario…

     La guardia che l’aveva in custodia la condusse nei pressi del letto. – Spogliati – le ordinò.

     Cristina lo guardò con un sorriso di scherno. – Che c’è? Vuoi vedere com’è fatta una bella figa? Sono di proprietà del tuo capo, adesso – aggiunse, sogghignando.

     – E “il mio capo” ti vuole trovare nuda – ribatté l’altro, dimostrando ben poco interesse allo spettacolo che si stava prospettando.

     Cristina iniziò ad ancheggiare e a muoversi le mani sul corpo, fissando la guardia negli occhi e mettendosi la lingua tra i denti, intenzionata a togliersi la soddisfazione di sedurla mentre si spogliava. La ragazza trattenne un moto di rabbia nel notare che l’uomo la guardava con lo stesso interesse che avrebbe avuto verso un appendiabiti.

     Gettando gli abiti sul letto, in meno di un minuto la bionda si ritrovò nuda. La guardia si limitò a osservarla come a controllare che non avesse null’altro addosso, poi le ordinò di porsi davanti alla pediera.

     – Adesso che fai, mi scopi mentre aspettiamo lui? – provò ancora a provocarlo, ma non ebbe altra risposta che veder comparire nelle mani della guardia un paio di manette. La ragazza fu stupita quando lui le chiese un polso e, una volta ottenuto, i due anelli si chiusero e Cristina si trovò ammanettata al letto.

     – E… – cercò di domandare, ma non seppe cosa aggiungere tanto era confusa.

     – Aspetta qui – disse l’uomo, indicando con un dito il tappeto ai piedi del letto. – Qui – ribadì, facendo credere alla ragazza che non fosse la prima volta che faceva qualcosa del genere e che ripetere il concetto fosse meglio.

     Cristina lo vide voltarsi e uscire senza aggiungere una parola, lasciandola sola.

     Si sedette sul tappeto a gambe incrociate, nuda, sbattendo le palpebre confusa. – Che cazzo… – si domandò, chiedendosi cosa stessero facendo le altre due. Di certo non si potevano trovare in una situazione tanto assurda.


Tempio di Tlazolteotl, ore 22:40


     Miriam l’aveva ripetuto tante di quelle volte, ormai, da essersi convinta che quello era uno scherzo. Non poteva essere altrimenti: nel giro di qualche minuto, Jiménez, la vecchia e le guardie sarebbero entrate applaudendo e ridendo, dicendo che quella era la prova da superare e che lei ed Eleonora avrebbero ricevuto una Golden Card ciascuno, un vestito nuovo e avrebbero passato la notte a bere Dom Pérignon o qualche altra cosa che bevevano i ricchi.

     Anche Eleonora voleva crederci, ma quando si guardava attorno non poteva evitare di pensare che nessuno costruiva la riproduzione di un tempio azteco per uno scherzo, per quanto immaginava che qualunque storico avrebbe storto il naso nel vedere quella stanza. – Miri, io credo che…

     In quel momento la porta di legno cigolò, bloccando le parole di Eleonora in gola.

     Miriam provò a guardare verso la porta, ma la vista era letteralmente bloccata dal suo corpo. – Sono loro, Ele? – domandò, sebbene suonasse più come una preghiera.

     La bionda provò ad alzare il capo, ma le sue dannate tettone erano proprio davanti alla porta. Solo dopo qualche secondo si rese conto che era entrato un uomo. Qualcuno che aveva già visto, ma non era una delle guardie, e nemmeno il calciatore… era… era un attore, si ricordò. Aveva girato un film qualche tempo prima e aveva vinto un premio per la…

     I suoi pensieri svanirono quando si accorse che l’uomo, l’attore, non indossava i vestiti e il suo uccello, che stava menando, era in erezione.

     Aprì la bocca per dire qualcosa, ma si scoprì tanto sconvolta che le fu impossibile spiccare parola.

     – Ele, cosa sta succedendo? – domandò l’amica, allarmata dall’espressione della bionda.

     Furono le parole dell’attore a risuonare nel locale. – Ma che due belle troiette che abbiamo, questa volta – disse, sorridendo. – La rossa, poi, è davvero un incanto.

     Il panico fece breccia nell’anima di Miriam. – Ele! Cosa sta succedendo? Ele! – gridò, terrorizzata, poi una sberla la colpì ad una chiappa, strappandole un urlo di dolore, poco distante da quella che gli aveva assestato il direttore del negozio.

     – Brava, troia, urla, eccitami! – esclamò l’uomo dietro di lei.

     Un attimo dopo la rossa sentì qualcosa di caldo e grosso scivolarle con violenza nella passera. – No! No! No! – Ma l’implorazione divenne un urlo di dolore dopo pochi secondi: Eleonora vide una mano afferrarla per i capelli e tirarli, sollevando la sua amica dalla pietra di plastica fino a staccare il seno dal piano.

     – Miriam! Miriam! No! – urlò a sua volta, e solo dopo un attimo si accorse che un secondo uomo era entrato nella stanza, e questa volta avvicinandosi al suo, di inguine.

     La ragazza riprese a urlare, dimenandosi come se questo potesse strappare le funi che la bloccavano, ma questa volta per proteggere sé stessa. Inutilmente, però.

     Il secondo uomo, che una briciola di mente ancora lucida della ragazza riconobbe come un cestista, la guardò muoversi, sorridendo soddisfatto. Disse qualcosa in una lingua che Eleonora non conobbe, poi afferrò le grosse tette che sembravano budini impazziti, che si muovevano da un lato all’altro del petto della ragazza, stropicciandoli, saggiandone la morbidezza, dimostrando con la lascività che era comparsa sul suo volto quanto apprezzasse.

     – No! Ti prego, no!

     Come se questa volta l’avesse compresa, l’uomo lasciò i seni, ma questo solo per afferrare le cosce della ragazza e sollevarle i glutei dal piano. Eleonora era troppo sconvolta per capire cosa stesse succedendo, ma quando percepì un oggetto caldo e umido contro il suo ano trattenne il respiro, incredula. Un attimo dopo i suoi occhi si spalancarono mentre l’uomo entrava nel buco che il suo ex amava tanto possedere quando la scopava, schiaffeggiandola sul seno e dicendole che era una lurida tettona.

     Il cazzo del suo ex, però, non era nemmeno lontanamente delle dimensioni di quello che stava scivolando nel suo retto.


Stanza di Eduardo Jiménez, ore 23:00


     Cristina si guardava attorno, annoiata, aspettando che il calciatore arrivasse e le permettesse di dimostrarle che lei era la donna dei suoi sogni. Aveva provato a fare l’inventario di quanto vedeva attorno, ma non aveva idea di quanto costassero gli oggetti nella stanza. Parecchio, comunque, anche solo guardando quanto fossero brutti i quadri di arte moderna che erano appesi ai muri.

     Quello avrebbe saputo disegnarlo anche lei, si disse, cercando di distrarsi, con una tela, un pennello appoggiato sopra ed uno starnuto un po’ potente. Anzi, forse sarebbe venuto pure meglio.

     Aveva provato a strattonare la manetta ma, per quanto non ne avesse mai viste dal vivo, sembrava vera, per lo meno più di quella del suo cuginetto che usava quando giocava a Tex Willer e si divertiva a correre dietro a…

     Finalmente la porta si aprì e la ragazza assunse una posizione più eretta con la schiena mentre restava inginocchiata sul comodo tappeto peloso. Sorrise al fatto che finalmente l’attesa era finita, pronta a fare il suo dovere per avere un futuro pieno di soldi e comodità. – Eccoti, Edu… – ma il nome le morì sulle labbra mentre le sopracciglia si arcuavano in un cipiglio di sorpresa.

     Quello che era entrato non era affatto il calciatore: l’uomo era più grosso, un filo più basso, e vestito approssimativamente. Eppure, gli assomigliava parecchio…

     Non ci volle uno sforzo, comunque, a Cristina per riconoscerlo: era Lazaro, il fratello nullafacente di Eduardo, la tipica piattola che in ogni famiglia ricca campa dei soldi di qualcun altro, vivendo ben oltre lo status di povertà che dovrebbe appartenergli. Che cosa ci faceva nella stanza del calciatore?

     “Sarà venuto a prendere dei soldi”, fu il primo pensiero della ragazza, ma si accorse che l’uomo non stava guardando in giro, in cerca di un portafogli o cose simili: da quando era entrato, non aveva tolto lo sguardo da lei, come se avesse saputo che era lì.

     Lo vide avvicinarsi, porsi davanti e sogghignare. Senza dire una parola, si aprì i jeans e prese fuori il cazzo in erezione, la cappella già fuori dalla pelle. Cristina lo fissò senza il minimo disgusto: al confronto del taxista di quella mattina, sembrava un capolavoro, sebbene non fosse più di quindici centimetri. Forse nemmeno quelli. Sentì un tuffo al cuore quando si chiese se quella fosse la dimensione tipica della famiglia Jiménez…

     L’uomo non si stava facendo problemi sulle dimensioni del suo uccello. Notando che la ragazza non si era lanciata su di lui, le mise una mano dietro la testa e la avvicinò.

     Cristina si chiese cosa fare. Non che si facesse problemi a spompinare qualcuno per un guadagno anche minimo, ma, cazzo, era lì per il calciatore, non quello stronzo di Lazaro. Esitò un momento, ma, se non voleva la cappella in un occhio, le sarebbe stato più utile aprire la bocca. Forse, pensò, mentre il fratello dell’uomo che voleva entrava in lei, era usanza di famiglia spompinare prima i parenti… dopotutto, era ammanettata nuda ad un letto, e questo non le sembrava molto più normale.

     Tanto valeva approfittarne: magari Lazaro avrebbe elogiato le sue capacità con la bocca a Eduardo, si disse la ragazza.

     Ma non ebbe la possibilità di dimostrare la sua bravura. L’uomo non sembrava avere interesse ad un lavoro di fino con lingua e labbra, ma esclusivamente di venire: bloccando la testa di Cristina con entrambe le mani, cominciò a scoparle la bocca, spostando avanti e indietro il bacino, picchiandole la pancia prominente sugli occhi e infilandole i peli del pube nelle narici.

     Non ci volle molto, per la fortuna della bionda, che capì che Lazaro stava per venire quando lui smise di spingere avanti e indietro ma le tenne la faccia contro l’inguine e si lasciò scappare un sospiro rumoroso. Un attimo dopo, un paio di fiotti di sborra salata schizzarono in gola alla ragazza. L’uomo, evidentemente per assicurarsi di svuotarsi tutto nella bocca, diede un altro paio di colpi, mentre le ultime gocce di seme scivolavano fuori dal suo meato.

     Soddisfatto, uscì da Cristina con il cazzo, lo rimise nei pantaloni e, con un sorriso di complicità, si portò un dito alle labbra, facendo “shhhh…”, quindi si girò e se ne andò dalla porta.

     La ragazza, inghiottendo inconsciamente la sborra che le era rimasta in bocca, lo guardò confusa, scuotendo la testa come se questo avesse permesso al suo cervello di trovare un senso a tutto questo.

     – Ma che cazzo… – mormorò, – sono finita in una puntata di “Ai confini della realtà”? Sono sicura che le altre due zoccole, invece, si stanno divertendo e…

     Un paio di secondi dopo che la porta si era chiusa, eccola che si riapriva. Cristina interruppe il suo soliloquio, rimettendosi in posizione, assumendo sul volto l’espressione che usava per dimostrare, o almeno far credere, ad un uomo che era felice di vederlo, meglio ancora se nudo e pronto a possederla.

     Ma il viso passò in un attimo all’esprimere sconcerto quando notò che l’uomo che entrò non solo non era il calciatore, ma non era nemmeno ispanico: un nero basso e dall’espressione svagata entrò, indossando un completo tra il blu e il viola che sembrava fatto per una persona con un paio di taglie in più.

     – E questo chi diavolo è? – si domandò la ragazza, ma non ebbe bisogno di chiedere cosa volesse perché le si mise di fronte, il cazzo in tiro, non molto più grande di quello di Lazaro, sebbene più grosso.

     Al suo confronto, però, Lazaro era sembrato un dolce amante: il nuovo arrivato le afferrò la testa con entrambe le mani e, invece di fotterle la bocca muovendo il bacino, si trovò lei spinta avanti e indietro con forza e ad un ritmo serrato. Le parve di prendere a testate l’addome rilassato del nuovo amante, i capelli biondi che balzavano avanti e indietro quasi frustandole le spalle, le mani dell’uomo serrate sulla sua nuca.

     Al pari di Lazaro, il nuovo venuto non dimostrò una resistenza da competizione, più adatta ad una sveltina da scopata in un vicolo puzzolente con una puttana vestita male che chiedeva quattro spiccioli per svuotarti i coglioni.

     Cristina cadde quasi a terra, con il mondo che sembrava stesse andando letteralmente a rotoli, quando finì di sbatterla avanti e indietro. Solo il fatto di essere ammanettata al letto le impedì di crollare sul pavimento, ma non al cazzo di uscirle di bocca mentre spruzzava sperma come una manichetta antincendio e il suo volto, i suoi capelli e il suo piccolo seno stessero andando a fuoco.

     – Merda… – sbottò la ragazza, confusa, nauseata, – vaffanculo.

     Il nero non disse nulla. Mentre metteva via il suo uccello se ne andò come se non fosse accaduto nulla.

     – Che cazzo… – esclamò Cristina, ma già un altro stava entrando nella stanza. Non fu sorpresa nello scoprire che non era Eduardo nemmeno questo…

CONTINUA…

Per contattarmi, critiche, lasciarmi un saluto o richiedere il racconto in PDF, scrivete a william.kasanova@email.it

Leave a Reply