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Da serva a schiava

By 1 Giugno 2018Dicembre 16th, 2019No Comments

Nave di merda.

Oggi é l’unica cosa che riesco a pensare, mentre la Santa Barbara, ondeggiando, mi fa venire il mal di mare.

Da due settimane l’unico panorama é questa distesa azzurra identica a se stessa ogni giorno che passa. Sei settimane, mi avevano detto, per arrivare in America.

Quello che non mi avevano detto é che avrei dovuto condividere questa bagnarola con la peggior feccia umana dell’europa occidentale: briganti, ex-galeotti, avidi mercanti, famiglie indebitate e disperati in cerca di futuro ‘ non importa quale futuro, uno qualsiasi.

Almeno ci sono dei soldati Portoghesi a bordo, ma non so se sentirmi protetta o minacciata dalla loro presenza.

In un paio di settimane su un legno in mezzo all’oceano hai tempo di esplorare ogni antro della nave e di conoscere un po’ tutti, sia tra la trentina di viaggiatori, sia tra la ventina di militari e marinai. Nessuno degli uomini non accompagnati dalla famiglia – chi prima, chi dopo – si é risparmiato dal molestarmi. Perciò ho deciso di passare la maggior parte del tempo con le poche donne e bambini presenti a bordo, in modo da evitare i soggetti più pericolosi.

Inevitabile é condividere la propria vita con i tuoi compagni di viaggio e così, un po’ alla volta, incalzata discretamente dalle domande di Isabel, mi sono ritrovata a raccontare per filo e per segno il mio passato.

Aspetto il futuro: per ingannare l’attesa, non ho alternative migliori al parlare.
Cereca, ossia: “Luna”, nella lingua degli Avi. Per me: “Mamma”.

Se alla Mamma chiedevi chi era il papà non ti rispondeva mai.

E allora, Mamma, chi erano i nonni?

La nonna era Demekec, che vuol dire “Luminosa”, il nonno non é mai esistito.

E i nonni della nonna? No, cio&egrave… il papà e la mamma della nonna.

Il papà e la mamma della nonna vivevano a Trapani, si chiamavano Simone Fardella – i Fardella sono i nobili di Trapani – e Tsige, che vuol dire “Rosa”. I nonni della nonna Demeck si chiamavano Leul, che vuol dire “Sovrano”, e Aregash, che vuol dire “Meraviglia”. Leul era il più nobile tra tutti gli avi: la nonna mi raccontava che era altissimo, forte, coraggioso e molto saggio. Anche se era il migliore serviva i Fardella, che erano i nobili di Trapani, perché aveva la pelle nerissima, più scura della mia e della tua messe assieme ed era stato comprato tanto tempo fa.

E allora chiedevo: Come comprato?

La nonna mi raccontava che una volta i neri si compravano e si vendevano, rispondeva la Mamma. Beh, anche adesso si comprano e si vendono le persone, solo che i neri non si vedono più tanto spesso. I mercanti partivano dall’Africa e arrivavano in Sicilia con i neri e li vendevano. Cerano tanti neri tempo fa in Sicilia: gli uomini erano obbligati a lavorare nei campi e le donne nelle case dei nobili. Beh, anche le donne più forti o meno belle le mandavano nei campi. Gli schiavi neri vivevano assieme ed eleggevano il loro re, una volta all’anno. Leul é stato Re più di cento volte, tanto era stimato.

Poi un giorno a Trapani ci fu una guerra perché una famiglia nemica dei Fardella voleva conquistare il potere. Anche Leul combatté per i Fardella, assieme ad altri cento invincibili schiavi neri, e grazie a lui i Fardella riuscirono a vincere la guerra.

Da quel momento anche Leul fu rispettato dai padroni, che lo riconobbero come capo degli schiavi.

La Mamma parlava sempre così degli Avi. Adesso che sono cresciuta, capisco che tante cose potrebbero non essere vere; da piccola mi piaceva ascoltare le storie su Leul e un po’ mi piace crederci ancora adesso. Pensare di essere la discendente di un sovrano valoroso e giusto, mi riempie d’orgoglio.

Crescendo ho capito tante altre cose, prima tra tutte che siamo sempre stati schiavi.

La Mamma non mi ha mai raccontato la sua storia per davvero: ho saputo il resto da Ferdinando, la persona che é stata la figura più simile ad un padre che abbia avuto.

Lui mi ha raccontato la verità riguardo a mia madre.

Lei é figlia di una serva mulatta, Demekec, e di un mercante di schiavi arabo, di cui nessuno ricorda il nome. Il suddetto mercante, doveva vendere Demekec e pensò bene di violentarla, prima di metterla in vendita presso i Medici. E così, la nonna Demekec iniziò a servire presso la famiglia di Ferdinando già incinta.

Mio padre si chiama Alessandro Zetti, un sorvegliante presso i Medici. Ha stuprato la Mamma e sono nata io, ma non mi ha mai riconosciuta, ovviamente. Chi vorrebbe una figlia per un quarto negra e per un quarto araba?

Alessandro Zetti non mi ha mai fatto da padre, ovviamente. Mi molestava, puniva e seviziava, segretamente, minacciando di uccidere mia madre e me solo ne avessi parlato con qualcuno.

Gli unici ricordi che ho di lui ora sono le sue violenze, corporali prima, e sessuali quando ho iniziato ad essere appetibile per lui. Si é divertito parecchio con me, penetrandomi ovunque e costringendomi a svolgere le mansioni di giornate intere con oggetti incastrati in entrambi gli orifizi. Poi, un bel giorno Ferdinando l’ha scoperto e di lui non si é saputo più nulla.

La mia compagna di viaggio Isabel mi fissa con gli occhi sbarrati: “Davvero, Chiara?”, mi chiede in Spagnolo. “E tu, come ti chiami, per davvero?”

Netsanet, che significa “Libertà”.

Cara Isabel, ora sarebbe il momento di parlare di Ferdinando, ma la sua storia la rimanderemo a domani. Questa mattina c’é calma.

Siamo finiti in una risacca, il che significa niente vento. é come se anche l’aria che mi circonda si conformasse alla noia del viaggio, smettettendo ogni movimento e facendosi pesante. C’é una zona riservata ai remi, ma nessuno dei marinai sembra essere abbastanza volenteroso da mettersi di buona lena a far andar le mani.

Solitamente questo é un mestiere da schiavi, figurarsi se dei bianchi liberi si abbasserebbero a farlo. Schiavi non ce ne sono qui per il momento: dovremo aspettare di arrivare in Africa prima di poterne stipare qualcuno a bordo.

Il capitano in ogni caso confida nella ripresa dei venti abbastanza presto e perciò l’equipaggio si concede una giornata di ozio, bevendo alcol di infima categoria caricato all’inizio del viaggio.

Nel primo pomeriggio, gli effetti della bevanda iniziano a farsi sentire e tutti quelli che avevano approfittato della sostanza finiscono tra le braccia di morfeo.

Nel mio vagare finisco sottocoperta ad osservare le panche destinate ai rematori, a cui sono collegate delle catene per bloccare i piedi. Mi perdo nei ricordi del mio viaggio fino al porto di Lisbona, mi sdraio su una panca e chiudo gli occhi, mentre con la mente spingo i miei pensieri pi’ indietro nel tempo, fino ai ricordi della mia infanzia, con la mamma e con la nonna.

Questo fino a quando non sento una presenza sopra di me. Apro gli occhi e uno dei viaggiatori mi sovrasta fissandomi a braccia conserte.

“Hai scelto il posto adatto per una negra”

Ah, s’, ora mi ricordo di lui. é il primo che mi ha molestato. La prima notte del viaggio me lo sono ritrovato sopra di me, una mano a tapparmi la bocca e l’altra a tenermi ferme le braccia. Quando mi sono svegliata avevo gi’ la gonna alzata e il suo ghigno davanti agli occhi. Mi é arrivato subito un malrovescio, che mi ha stordita non poco. Ma non é riuscito a violentarmi: non gli é venuto duro.

Mi ha dato un altro schiaffo e se ne é andato inveendo.

“Oh, buongiorno! Tu sei il frocio che non é riuscito a scoparmi l’altro giorno, vero? Mi ricordo di te. Come dimenticare quel pacchettino che ti penzolava moscio tra le gambe?”

La sua risposta é un pugno in un occhio, diretto. Perché non sto mai zitta?

Sento la testa vibrare, mi alzo e cerco di correre all’aperto, barcollando un poco. Le mie gambe incespicano in qualcosa e cado rovinosamente a terra, prona. Mi guardo indietro: Mi ha fatto uno sgambetto con un remo, il bastardo.

Non ho il tempo di rialzarmi che subito mi si siede sulla schiena e mi tira i capelli. Lancio un urlo e mi arriva uno schiaffo, che mi ammutolisce.

“Zitta troia negra. Ti far’ pagare per l’altra volta. Sta muta, o finisci in mezzo ai pesci”

Le sue mani corrono ad alzarmi la gonna, e a rovistarmi gli orifizi. Le mie unghie cercano di graffiarlo per fermarlo, ma lui quasi non si accorge.

Sento le dita che premono contro la fica e contro la mia rosellina, ma non riescono ad entrare. Sono bloccata, é impossibile che riesca a penetrarmi, malgrado cerchi di inumidire i buchi con la sua saliva.

“Puttana, apriti!” Mi intima, senza successo.

Lo sento spostarsi e sedersi sulle mie scapole. Il suo peso mi toglie il fiato e quando le sue dita finalmente mi penetrano nel culo, le grida mi si strozzano in gola.

Il dolore mi blocca completamente, gli occhi rimangono sbarrati e le lacrime iniziano a rigarmi le guance. Il bruciore mi invade la pancia, irradiandosi pulsando, mentre lo sfintere si contrae ritmicamente per impedire alle dita di entrare di pi’. é inutile, perché la sua forza é tale che pi’ stringo, pi’ le sue dita mi rovistano dentro, facendo pi’ male, rivoltando le budella.

Poi, il vuoto. “Avresti fatto meglio a farti scopare da subito”

Queste sono le sue parole, prima che un suono secco rompa l’aria e il mio sedere si contorca per un dolore improvviso e diffuso su tutta la superficie. Cerco di portare lo sguardo indietro, girando la testa e vedo il suo braccio sollevato, nella mano un remo. Mi vuole distruggere con quello.

Poi, come a rallentatore, vedo il colpo abbassarsi e digrigno i denti per prepararmi il dolore.

Continua a percuotermi con forza, una, due, tre volte, fino a quando perdo il conto. Ogni volta il mio corpo sussulta, si irrigidisce; urlo e piango di pi’, fino a quando inizio a perdere sensibilità e le mie proteste perdono di intensit’. Lui smette, si alza: Sono senza pi’ forze. Avanti, fottimi e falla finita. Tengo gli occhi annebbiati dal pianto fissi contro il pavimento, aspettando.

Poi un tonfo. Sta riniziando col remo? No, perché… Adesso la sua faccia é contro il pavimento, la lingua fuori, gli occhi semichiusi. Come? Vorrei girarmi per vedere cosa succede, ma non ne ho le forze. Sento solo silenzio per qualche minuto, percepisco degli occhi puntati sul mio corpo martoriato. Poi, delle mani, a ricompormi il vestito. Ogni tocco é amplificato dal dolore per il trattamento che ho ricevuto prima e lascio sfuggire dei gemiti e un pianto sommesso.

Riposo.

Dopo qualche istante, riesco a voltarmi e lo vedo appena, mentre si allontana per tornare all’esterno.

“ti conviene sbrigarti a tornare in mezzo agli altri”

é cos’ che ho conosciuto Jorge, il soldato.

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