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Esiste un detto proverbiale ancora in voga che riporta: “Se qualcosa è veramente tuo, dopo ricompare e torna sempre da te”. A distanza di tempo, dal mio agitato e travagliato percorso universitario, quando ormai quasi non me ne ricordavo nemmeno più, il passato tornò a bussare inaspettatamente alla mia porta, o meglio insperatamente il “distante e lontano passato”, intanto che seduto comodo su d’una delle poltrone di mia madre, lui stava placidamente sorseggiando di gusto un Gin Tonic. Io, entrando guardinga e incredula incrociai il suo sguardo, dato che un alieno seduto in salotto m’avrebbe di certo sorpreso di meno, sennonché lo riconobbi all’istante. Dalla risata astuta, maliziosa e sagace che vidi dietro quelle iridi di colore azzurro mare, capii che anche lui m’aveva immancabilmente riconosciuto. Il fascino e la magia del caso, il dominio e il potere del destino, la dottrina e la teoria del caos, sentendomi così come una credulona, sciocca e sempliciotta protagonista d’un film americano:

“Ecco la mia favolosa e strepitosa eccezionale bambina” – disse mia madre, avvicinandosi a me e abbracciandomi teneramente di riflesso.

Lei, in effetti, non si è mai tolta il vizio né la perversione di chiamarmi così, perché quel suo ripetitivo e amorevole monotono malcostume infatti non smetteva di esistere. In quel momento, però, giuro che non me la sarei presa neppure se m’avesse chiamato fatina o topina, tanta era la gioia e la letizia di rivedere la mia mancante, perduta e sprecata fantasia. Cercando di darmi un adeguato contegno, mescolando la sorpresa e la felicità, che rischiava di farmi sobbalzare il petto a causa degli accelerati battiti cardiaci gli porsi la mano, una mano per l’occasione naturalmente tutta appiccicosa. A questo mondo, volendo, si può mascherare e reprimere qualsiasi cosa, mentre le emozioni autentiche e sincere invece, quelle non le puoi tenere a freno, mai.

Passammo sennonché la lunga serata nel rincorrerci con gli sguardi, tallonandoci e cercando di sondarci e d’esaminarci nell’intimo, ad arrossire, a parlare nello stesso momento per poi ricadere nell’assoluto e completo mutismo, di sorpresa dominati e governati entrambi da qualcosa che neppure io francamente la comprendo, assaliti e invasi irrimediabilmente da un’inspiegabile e improvvisa quanto fuori luogo iperbolica e smodata timidezza dell’ultim’ora. C’è qualcosa di veramente beffardo, d’ironico e di schernevole in una vita che ti coinvolge, che in modo inesplicabile t’attrae e che in ultimo ti polarizza, talvolta con la naturalezza e con la spontaneità d’un veterano, in situazioni d’estremo imbarazzo che poi inspiegabilmente ti rende debole e totalmente insicura lasciandoti perplessa, nell’irripetibile occasione importante che ti capita e nell’unica cosa che avresti realmente desiderato, se soltanto avessi potuto scegliere in ogni dettaglio l’uomo o la donna dei tuoi sogni.

La serata, in conseguenza dei rispettivi atteggiamenti, portati peraltro all’estremo limite di questa chiusura, finì irreparabilmente con entrambi chiaramente di cattivissimo umore, per la totale incapacità di comunicazione e per la complessiva inadeguatezza di partecipazione. Evidentemente, in verità, il sentimento era chiaramente ricambiato, giacché io lo odiavo del tutto. Non capiva niente, dal momento che leggevo nel suo sguardo, diventato improvvisamente gelido, che ero una stronza e testa di cazzo. La situazione in fondo non doveva preoccupare né turbare nessuno dei due, perché infatti, la serata era stata combinata e unita di proposito dalla mia estrosa e geniale madre, presentandomi e proponendomi in definitiva, colui con il quale avrebbe in futuro condiviso il mio nuovo studio di libera professionista. Di certo, in realtà, saremmo stati indissolubilmente uniti nel bene e inscindibilmente nel male. Beneamata e cara mamma, come farei se tu non cercassi né perseguissi di programmare in anticipo ogni aspetto della mia vita? Sebbene di pessimo umore, io in quel frangente mi sentivo eccezionalmente magica e insolitamente irresistibile, come qualcosa d’intermedio interposto fra “Cenerentola” e la “Bella Addormentata nel Bosco”, per il fatto che andai a letto con la totale convinzione che il mio angelo custode sarebbe improvvisamente apparso, ispirandomi, indicandomi e suggerendomi la giusta ed equanime via verso il mio principe azzurro, poiché di questo andare interpretai inscenando il piano di mia madre, come un tangibile e toccabile segno del destino.

Segni della fatalità e magie a parte, non riuscivamo in definitiva a metterci d’accordo né d’essere in sintonia su niente, neppure sull’insignificante e comune carta intestata. Quando io proponevo “A” per compiacere il suo ego super maschilista vecchio stampo, lui solo per farmi rabbia suggeriva segnalando e prospettando “B”, in altre parole la proposta che poco prima avevo fatto io, ma che poi avevo saggiamente e consapevolmente scartato per accontentarlo. Insomma, un gran disordine in tutti i sensi, un enorme disservizio, uno smisurato scompiglio, in quanto lo avrei volentieri aspettato sotto un portone di notte con un tubo di ferro in mano, no, meglio con una mazza ferrata e suonargliele per bene. Un giorno, prima di scendere al bar per bere un caffè, azzardai e sbirciando dalla porta della sua stanza, esclamando con un tono alquanto neutro cercai di coinvolgerlo:

“Scendo per prendere un caffè. Posso offrirti qualcosa?”. Lui apparve sulla soglia e in modo piuttosto beffardo e sarcastico mi guardò con preminenza, mentre con un’aria d’altezzosità e d’insolente sufficienza rispondeva:

“Non sia mai, che io mi faccia pagare qualcosa da una donna” – incalzando con il suo tono pungente e derisorio, a tratti sgradevole e disgustoso d’arrogante e d’impertinente spavalda superiorità.

Cavargli gli occhi, ecco che cosa avrei voluto e bramato fare in quel momento, però non intrapresi nulla, perché voltandogli il sedere abbastanza furibonda me ne andai al bar, dove con grande sorpresa della barista ordinai in modo repentino una Grappa doppia, che peraltro deglutii in un istante. In seguito, fra attriti, disaccordi, incomprensioni e divergenze di vario genere passarono ventiquattro mesi, senza che nulla mai cambiasse, senza novità né mutamenti, due anni di dissapori, di grigiori e di malintesi, nei quali cominciai ad auto convincermi che l’individuo in realtà non mi filava per niente. Sguardi? Quali sguardi? Quelli che subito distoglieva appena io intercettavo? Telefonate? Quali? Forse quelle che mi faceva domandando stupidi numeri di fax, che senz’altro conosceva a memoria? Oppure quegl’inconsistenti indugi e quelle infondate lungaggini telefoniche, per spiegarmi qualche semplice concetto teorico, che io conoscevo già ampiamente a memoria? E la gelosia? In pratica infondata e per di più inesistente.

Lui era un soggetto talmente indifferente, insensibile e viscido da non aver alcun ritegno nel confidarmi, sì caro, proprio alle tue confidenze miravo più d’ogni altra cosa che si sarebbe “scopato” buona parte delle mie colleghe, compresa tra l’altro una mia carissima amica, anzi, quella più di tutte. Un bel giro in giostra per espressa precisazione e senza sottintesi. Vaffanculo, in tal modo lasciai stare. Abbandonai lo studio per diverso tempo usandolo unicamente come un rimpiazzo professionale, finché una sera involontariamente ci ritrovammo allo stesso insopportabile e noiosissimo seminario, peraltro in quattro. Mentre io come accompagnatrice avevo un uomo d’età media, palese che fosse un collega, la signorina che stava al suo fianco sembrava appena uscita dalla scuola dell’obbligo, oltremodo scarna e secca come un’acciuga, il suo ideale di donna per l’appunto, naturalmente l’esatto opposto di me. Mi ricordai di vari racconti dei suoi viaggi effettuati in Oriente, sennonché sbracciandosi nella mia direzione, resosi conto che non lo degnavo della benché minima considerazione, lui s’avvicinò trascinando per un braccio la biondina rinsecchita annunciandomi:

“Ciao, che gradita sorpresa vederti qui. Come stai? Tuo padre m’aveva detto che sei stata ammalata”. Mio padre? Che falso e che ingannevole commediante. Il mio sostenitore occulto di bugie galattiche, di menzogne d’altissimo livello, mentre io sorvolai sorridendo come una maschera funeraria, lui speditamente mi enunciò:

“Ti presento mia sorella Cristina”.

Il mio sorriso vacillò, però non cambiava nulla, perché lui era ugualmente un porco indolente, un infame indifferente e un ignobile insensibile, dato che il disdicevole e indecoroso meschino, occupò placidamente posto tra l’altro non invitato proprio accanto a me. Fu infatti, durante la proiezione d’una serie di monotone e di ripetitive diapositive, che sentii la sua mano sfiorare la mia. Pensai a un contatto casuale, ma la mano si ripresentò afferrandomi accuratamente il mignolo con due dita. Io rimasi ferma assaporando quel contatto così lungamente auspicato senza nemmeno respirare, con il cuore martellante e un tepore ingovernabile, che si dipanava dall’interno del petto perché ero felice. La mano risalì intrecciandosi con la mia, accarezzandola delicatamente e trasmettendomi un calore mai provato prima. Restituii la carezza rendendomi improvvisamente conto di quanto amassi quell’uomo e di quanto tempo lo avessi aspettato, di quanto l’intero mio essere desiderasse fondersi con lui. Per la prima volta in vita mia guardandolo negli occhi, mentre incurante del mondo intorno a noi mi baciava delicatamente la mano, lì capii che anche per lui assurdamente e irragionevolmente era stato lo stesso.

Terminata la serata, a casa, a questo punto pronta per andare a dormire sentii suonare il campanello d’ingresso, non domandai chi era poiché aprii e basta. Vestito con lo stesso abito della serata, con un lieve sorriso imbarazzato e turbato sul volto, entrò in casa e senza parlare mi baciò. Dapprincipio delicatamente, poi insinuando la sua lingua con sempre maggiore voracità in cerca della mia, una mano salì sotto la maglietta in cerca del seno, io ricambiando il bacio gli tolsi la giacca e la camicia. Sentivo l’intero mio corpo improvvisamente bollire, scalpitavo già, mi strinsi al suo petto nudo strofinandogli i capezzoli induriti contro i suoi e accarezzandogli l’erezione nei pantaloni, m’abbassai per prenderglielo insaziabilmente in bocca:

“Aspetta, pazienta un poco” – rispose lui, sospingendomi dolcemente verso il letto.

Allargandomi accortamente le cosce cominciò a leccarne l’interno, salendo gradualmente in un crescendo unico di sensazioni e d’emozioni straordinarie, per me lascive e alquanto inedite giammai sperimentate prima d’allora. Succhiando il clitoride m’infilò un dito nell’ano umido della sua lingua, poiché ritmicamente stimolata io venni in modo vigoroso dimenandomi notevolmente, riempiendogli in ultimo la bocca del mio fluido caldo e trasparente. In un lungo bacio appassionato, lui giocando con quell’intima sostanza e sdraiandosi su d’un fianco, m’attirò verso la patta finalmente aperta:

“Ecco, così, succhiamelo, prendilo e gustatelo tutto, lui è di proposito ed espressamente qua per te” – perché quell’ordine incalzante dettato con un filo di voce fu accentuato dalla mano, che premette ciononostante con forza sulla mia nuca.

Assaporando l’intimo aroma, inghiottii il suo cazzo al margine del possibile, stimolandolo a ogni risalita con lunghe leccate sul frenulo, insistendo là in quel punto e avvolgendo il glande con cupidigia. A ogni suo sospiro di piacere, sentivo la voglia riaccendersi inappagata dall’orgasmo d’esordio, dopo passai la lingua dalla punta alla base scivolando più giù verso il suo ano, infilai un dito senz’udire proteste, ma soltanto sentendo lunghi e libidinosi sospiri di piacere. Muovendo il dito adagio, ricominciai a succhiargli il cazzo, intanto che lui scattava in modo incontrollato, sicché m’allungai verso il comodino in cerca del mio piccolo vibratore, lo lubrificai bagnandolo con la saliva, mentre la lieve resistenza che lui m’offrì inizialmente, fu presto adeguatamente e debitamente superata. Delicatamente cominciai a stimolargli la ghiandola prostatica, a quel punto l’erezione nella mia bocca sembrò ammattire, dal momento che i suoi dissoluti sospiri erano ormai divenuti singhiozzi di un’armoniosa irragionevolezza e d’una soave libidinosa follia. Senza lasciarlo, gli pressai la mia fica sul volto, godendo in impetuose ondate dell’immediato e potente orgasmo, subentrato al solo contatto con la sua lingua.

Urlando il suo piacere fra le mie cosce bagnate, lui mi riempì la bocca del suo denso e biancastro sapore amarognolo, che lestamente e avidamente inghiottii. Incerto, leggermente precario e tremante, lui m’attirò verso la sua bocca cercando traccia di sé fra le mie labbra, in quel frangente non trovandone insinuò la lingua più in profondità intrecciandola con la mia, mentre incredibilmente l’erezione stava ricomparendo. Dopo si sdraiò sopra di me inarcando la schiena, in quel momento io provai un tuffo al cuore sentendolo penetrare all’interno del mio corpo. Scivolando in me sospirò un “ti amo” a fior di labbra, io dissennata di felicità ed esaltata di gioia lo strinsi a me, mentre una piccola lacrima mi scivolò lungo la guancia sudata e il resto fu soltanto bello, inenarrabile e inesprimibile.

Un sospiro unico fra le nostre labbra unite che sussurravano tutto l’amore, sigillati l’uno nell’altra, finché l’ebbrezza e l’estasi pura ci colse entrambi nel medesimo istante, inondandoci e sommergendoci nella quiete e nella stabilità dei sensi.

Fu molto più tardi che ricominciammo ancora, poi di nuovo e daccapo. L’indomani, in studio non ci sarebbe andato nessuno, anzi, nessuno si presentò più per un’intera settimana.

{Idraulico anno 1999}

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