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Romita è l’antica villetta silente,
arretrata dalla strada: una cancellata
a cintarla, muro e ferro, graticci incrociati;
isolata dal rumore del traffico;
il citofono libera il clic, all’ingresso,
del cancelletto sul viale contorto e stretto,
nascosto dal ciondolio di alberi incolti, eppure
con un fascino rude, timidamente maschio;
una porta a vetri, dall’uscio a due ante
l’interno traspare. Cigola la stretta
vetrata, dagli anni d’usura; manifesti appesi
all’interno: vari argomenti, da insulse
istruzioni a réclame programmatiche di eventi
ormai datati. Il plexiglas taglia la stanzetta;
ricava l’accettazione nello spazio ridotto,
asfittico quasi, essenziale peraltro: un computer,
una casellario di chiavi con penduli bracciali.

“Quanto calzi?”, chiede, distaccato, asciutto,
il receptionist che accerta il diritto all’ingresso,
moderno Caronte nell’anonimo inferno d’emozioni.
Due pianelle a infradito, un bracciale che regge
una chiavetta piovono sul banco dal seminudo
omino solerte. Scompari dietro una porta dal pomo
che ruota (ti pare di sentire la vocina che dice :”Ahi!
Mi fai male!”, prima di sprofondare nel tunnel
di Alice). S’apre l’esiguo, vuoto corridoio senza porte,
a due sbocchi. Da un lato il freddo spogliatoio: a parete
e al centro, filari di grigi armadietti su due piani,
chiusi ossari, custodiscono i vestiti dei soci/clienti.
Scarpe, dilatate dall’uso, aprono la bocca sotto
il vano a giorno; attendono, malinconiche, il padrone.
Lontano, maschi discinti, coperti da un telo dalla cintola in giù,
al punto esiziale, ciabattano; s’avvicinano. Uno entra.

Lo sguardo in tralice scruta, valuta la nuova pastura,
mentre inizia a soppesare la consistenza dell’ arrivato.
Dissimula indifferenza, il visitatore, ma apprezza in silente apatia;
attende che si denudi, come fosse un pacchetto
regalo da scartare, fingendo l’armeggio con l’armadietto.
Non è un adone, ma il suo fascino deriva dal fatto ch’è lì.
Entra un altro, mentre il telo è proteso a proteggere le pudenda
che già violate sembrano dall’occhiuto famelico esame.
Gli sguardi s’incendiano; accarezzano; provocanti, stimolano
le parti più intime nascoste; erotizzano, invitano
a concupire; di libidine pieni, trasmettono la dannata voglia
che s’incarna in struggenti momenti di trepida attesa
che si concluda la trattativa con reciproco gradimento.

Quindi, in tacita processione, verso l’alcova vanno, inquieti,
i promessi amanti, incerti sull’esito finale, se soddisfatti saranno.
Di sicuro c’è la voglia, l’uzzolo pungente di accettare
tutto ciò che, all’ammucchiata, dal consimile proviene.
Salgono le scale che portano al labirinto oscuro dove
amore si fa più maturo e il desiderio si tende aprendosi
al reciproco dono, sfamando appetiti crescenti;
ritrarsi più non possono. La carne è carne e i famelici
lupi sono pronti all’azzanno. Buie stanzette, celle minuscole,
ove si scontano pene, accolgono gli agognanti ospiti.
Luce soffusa di rosso; una panca di un metro e settanta,
una mensola sospesa nell’angolo, un rotolone di carta da cucina;
lo spray disinfettante, il cestino, a raccogliere i copiosi
secreti degli intimi ripetuti, incontenibili scambi.

Il gancio che serra la porta scatta a fine corsa del fondale
della favola breve che si narra nell’intima stanza.
L’oscurità avvolge, incelofanando i desideri più arditi.
Ma, presto, il fievole barlume come faro indica la strada
da seguire per giungere al tortuoso, anelato orgasmo.
E, così, giacciono, sdraiati su quel nudo giaciglio a tastare
reciproche protuberanze. Leccano petti, capezzoli, tuberi
eretti, stimolano le carni; drudi perfetti, soddisfano
fameliche bocche, poi, giù,di colpo a prendere il sesso
che, dritto, s’imbocca di suo. Lente, labbra distendono
membri affamati; elastica pelle si estende, si tende,
mentre sbuffi d’affanno accompagnano
il moto continuo che procede a stantuffo; inserti l’uno nell’altro
ora, più veloci, precipitano verso lo scontro fatale che pure
pretendono l’uno per l’altro, convinti che nulla più li separi.

Frenetico si fa l’incontro; diventa uno scontro tra bulli
che impongono la loro prestanza. Una mano scorre sotto
l’inguine e afferra quel turgido, indurito cilindro e lo guida,
sicuro, verso la porta del piacere. Veloce lo innesta e preme
contro quel corpo estraneo che tenta la penetrazione.
Ora suda , ma fermo lo indirizza, tiene la barra.
Chi comanda? Chi subisce? Entrambi attori; entrambi spettatori
di quel carnascialesco spettacolo che tanto li coinvolge,
che li spinge a succhiare dall’altrui bocca il proprio desiderio;
che li inchioda su quel tavolaccio di gommapiuma; che
li fa sembrare un intreccio di braccia e gambe e sessi;
che li preme e li opprime, che fa tremare e fremere come
due foglie al vento, che li sfibra e li esalta. Mani s’intrecciano,
lingue leccano tutto ciò che incontrano; vibrano all’unisono
due corpi avvinghiati che formano una sola materia.

Fino all’ultimo colpo che esplode nei due cervelli,
come un Bang finale, potente, di luminarie pirotecniche
che nessuno vorrebbe sentire esplodere, da entrambi
agognato. Così, svuotati, stanno, affannati l’un su l’altro
[accartocciati.

Nina Dorotea

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