Skip to main content
Racconti EroticiRacconti Erotici Etero

Giappone

By 7 Febbraio 2004Maggio 12th, 2020No Comments

Amo il Giappone o meglio amo la cultura Giapponese. Il mio lavoro mi porta
spesso in Estremo Oriente ed ogni volta cerco di scoprire sapori nuovi.
Odori nuovi. Vite nuove. Sono praticante di Karate-Do non solo con il corpo
ma soprattutto con lo spirito, questa condizione mi avvicina forse di più a
quella cultura. A Tokyo sono stato numerose volte, come ad Osaka. Città
molto grandi, ben ordinate ma anche troppo occidentali.
Per la prima volta mi capitava di passare un fine settimana in Giappone. Mi
accade raramente, Tokyo è una città che conosco abbastanza. Non avevo voglia
del solito menu fatto di colazione con il cliente/amico, giro turistico e
riflessioni sulla dimensione Internazionale del Business. L’idea tipica
della cortesia Giapponese non mi eccitava la fantasia. Sfogliando un
giornale rimasi colpito dalla fotografia della fioritura dei ciliegi. In
Giappone si tratta di una ricorrenza quasi religiosa. L’immagine era
stupenda e chiesi alla reception dell’albergo qualche informazione. Questa
celebrazione dura tre giorni, tanti quanti la fioritura. Litri d’inchiostro
sono stati versati per magnificarne la bellezza e sublimarne il significato.
Eravamo solo agli inizi della primavera, in anticipo sulla ricorrenza. Il
funzionario gentilissimo m’invitò a visitare Kyoto. In quel luogo questa
celebrazione si coniugava con il misticismo che pervade la cultura di quella
terra. L’idea mi attirava. Un’ora di volo da Tokyo e sarei arrivato sul
posto. Grazie alla cortesia del funzionario trovai dopo due ore il biglietto
aereo e la prenotazione per l’albergo. Presi l’aereo del pomeriggio, quando
arrivai in albergo erano da poco passate le sette di sera.
L’albergo era una costruzione in legno immersa in un bosco d’abeti e
appoggiata sulla collina orientale della città. Con un taxi avrei potuto
essere in centro in pochi minuti. L’albergo era gestito da una famiglia,
padre madre e tre figlie. Solo Marika, il nome Giapponese era
impronunziabile per un iteki (selvaggio straniero) come me, parlava Inglese.
Era allieva di Sho-Do, l’arte della calligrafia. Non molto alta, sebbene
superiore ala media, occhi scuri e lunghissimi capelli neri che portava
raccolti sulla nuca, quasi 28 anni sulle spalle portati come un alito di
vento. Il kimono si seta nera non mi permetteva di indovinare il profilo del
corpo, ma la sua bellezza la accompagnava in ogni suo passo.
La mia stanza era in fondo al corridoio del secondo piano, lontana dalla
sala da pranzo e dalle altre stanze. Mi assicurarono che così sarei stato
più tranquillo ed avrei potuto meditare e riposare lo spirito. Mi feci un
bagno bollente, l’acqua profumata con l’essenza di fiori di montagna. Mi
sentivo quasi a disagio con abiti occidentali, così mi offrirono un kimono
nero con bordature blu e viola. Mi sorpresi di verificare la giustezza della
taglia e della comodità dell’indumento. La cena fu speciale. A base di
Tempura e di riso cucinato in diversi modi. Il Sakè caldo mi parve un
nettare. Fuori la notte aveva avvolto il bosco e l’aria era frizzante. Dopo
una breve passeggiata nel giardino curato e pulito come mai n’avevo visti,
leggermente intorpidito dall’aria fresca della sera, rientrai.
Erano rimaste solo Marika e la sorella più piccola, la quale stava
apprendendo i rudimenti dello Sho-Do. La semplicità e l’abilità di Marika mi
entusiasmavano. Quando la piccola se ne andò Marika mi servì una piccola
brocca di Sakè che bevemmo insieme parlando dello Sho-Do e di Karate-Do.
Parlando dello spirito che accompagna tutti i praticanti di queste arti così
antiche. Erano quasi le undici quando decidemmo di andare a dormire. Salendo
le scale vidi che Marika mi seguiva con lo sguardo, mi voltai per sorriderle
e per vederla scomparire dietro la porta della sua stanza. La mia stanza era
sufficientemente comoda, mi sedetti vicino alla finestra da dove potevo
vedere la luna alta nel cielo. Mi accesi una sigaretta e presi il libro che
avevo iniziato a leggere in aereo. La luce della lampada da tavolo regalava
una penombra incantevole ed il legno delle pareti trasmetteva calore. Mi
resi conto che non avrei potuto leggere molto. La mia mente scivolava sul
viso di Marika. Sulle sue mani affusolate e bianche. Sulle sue labbra velate
appena dal rossetto, il suo viso decorato con un lievissimo trucco. Cercavo
di immaginarla, cercavo di immaginare come fosse il suo seno, come fossero
le sue gambe. La sua dolcezza ed il suo sorriso mi avevano catturato la
mente. Fumai un’ultima sigaretta, sdraiato sul futon, ed il pavimento di
legno riscaldato profumava di sandalo. Chiusi gli occhi sperando che il
sonno mi portasse il sogno di Marika.
Non saprei dire quanto avevo dormito. Credo poco più di un paio d’ore. Dalla
finestra vedevo la luna che stava già percorrendo la trattoria che porta
dalle tenebre alla luce dell’alba. Con la mano cercavo il pacchetto di
sigarette, quando un leggero fruscio catturò il mio sguardo. Il fruscio era
Marika, scivolata dentro la mia stanza. La penombra creata dalla luna mi
permetteva di vederle il volto. Si avvicinò e s’inginocchiò al mio fianco.
Forse esistono milioni di parole da recitare in questi momenti. Forse il
silenzio della notte è la migliore parola mai scritta. Con gesti delicati,
misurati e precisi la vidi sciogliersi la fascia che le chiudeva il kimono.
La posò con precisione sul pavimento arrotolandola. Poi si tolse il kimono
di seta nera, che posò con cura a fianco della fascia. Ora la veste bianca
in cotone mi permetteva di vedere meglio le sue forme. Le presi una mano e
lei si avvicinò, mi sollevai per posarle un bacio sulle palpebre e lei
sorrise di questo gesto. Si alzo per un attimo, solo per far salire la veste
candida all’altezza delle ginocchia. Sempre con delicatezza se la sfilo
dalla testa, la ripiegò e la depose di fianco al kimono. La sua pelle bianca
quasi risplendeva alla luce della luna. Il reggiseno bianco di pizzo
finissimo non le nascondeva i capezzoli, rosati e molto grossi. Anche il
seno era insolitamente formoso per una Giapponese. Voltandosi leggermente di
lato m’invito a toglierlo. Lo vidi cadere sul pavimento e poi vidi quei due
seni sodi e bianchi spingersi vicino al mio viso.
La abbracciai e con la lingua iniziai a seguire il contorno dei suoi
capezzoli, esplorando il solco del seno per passare da uno all’altro.
Avvertii la sua mano indugiare sulle mie gambe per poi afferrare gentilmente
il mio membro ormai già pieno di vita. Cercai la sua bocca e fui sorpreso
dalla violenza con cui la sua lingua s’intrecciò con la mia. Scorrendole i
fianchi con le mani scesi ad incontrare l’elastico delle sue mutandine, di
seta bianca finissima. Avvertivo il calore della sua gioventù e l’umido
della prima eccitazione. La sua pelle profumava di rosa ed era come velluto
sotto le mie dita. La feci sdraiare di fianco a me. Poi inginocchiato
cominciai a scorrere la lingua sul suo ventre, sempre più in basso fino ad
incontrare di nuovo le sue mutandine. Con la punta della lingua le frugai la
fessura, cercando la clitoride. Tra il suo piacere e il mio ardore un velo
di seta, reso sempre più sottile dagli umori. Le afferrai le mutandine sul
davanti, in modo da renderle una striscia che le sfregavo gentilmente contro
le labbra interne, mentre con la punta del dito le martirizzavo la
clitoride, resa sensibile dalla pressione e dall’attrito del tessuto. Il suo
corpo era abbandonato sul futon, come incapace di una qualunque reazione. I
gemiti soffocati mordendosi le labbra, gli occhi chiusi come se stesse
facendo in un sogno. Quando le sfilai le mutandine il suo corpo divenne
contratto, le sue mani strette su quel letto di lana. Lo feci con una
lentezza estenuante. Ogni centimetro di seta che scendeva scopriva un
centimetro di pelle e di soffici peli neri. Che io baciavo solo sfiorandoli
con le labbra. La sua impazienza saliva, i suoi fianchi accompagnavano i
movimenti delle mie dita. Finalmente tutta la bellezza del suo corpo si
mostrava al mio sguardo. Il colore rosa della sua fessura contrastava con il
nero del suo bosco. Con le dita aprii leggermente le labbra, tracciando il
sentiero per la mia lingua. Impaziente di assaporare il gusto della sua
gioia. La punta della mia lingua come una lancia di guerra affondava dentro
di lei, risalendo poi a colpire la clitoride. Per aumentare il suo piacere
la penetrai con il dito indice, capace di muoversi all’interno di quella
grotta di carne, sfiorandone le pareti, scorrendole dentro con decisione e
lentezza. Il suo corpo era agitato dal piacere. Come le fronde di un albero
colpite dal vento. I suoi gemiti soffocati diventavano rantoli. Le sue mani
ora afferravano la mia testa e la mia mano. Come se volesse che tutto il
corpo si fondesse dentro il bocciolo del suo godimento. Feci una pausa, le
mascelle quasi doloranti ma felici di servire per quello scopo. La feci
girare e mettere prona. Le sollevai i fianchi fino a quando le sue ginocchia
potessero sorreggerla. Il suo sedere era la luna di quella stanza. Le carni
bianche. Ben tornite e frementi. Con le mani le aprii dolcemente le natiche
fino a scoprirle il fiorellino dischiuso sopra la sua fessura e la fessura
stessa, aperta come la corolla di un fiore a primavera. Affondai la mia
lingua, a cercare ogni segreto del suo mondo. Con le dita stuzzicavo la
clitoride ed il bocciolo che immaginavo mai dischiuso al piacere. La sua
eccitazione era tale che non poté trattenersi oltre. Mi meravigliai dell’
abbondanza dei suoi fluidi e dell’intensità del suo orgasmo. Più la mia
lingua godeva dei suoi sapori più il suo orgasmo continuava. Con uno scatto
improvviso si sollevo e si girò. In ginocchio di fronte a me. La mia lingua
allora incrociò i suoi capezzoli, mentre le mie dita continuavano ad
agitarsi dentro di lei. La testa leggermente abbandonata all’indietro, quasi
a spingere i suoi seni contro di me. Le mie carezze scorrevano sul velluto
della sua pelle. Si strinse i seni, creando così un solco profondo tra di
loro che la mia lingua esplorò, baciò, penetrò. Una seconda ondata di
piacere la pervase. Meno intensa e più breve della prima. Si lasciò andare
distesa sul futon. La sua pelle imperlata di sudore. Migliaia di goccioline
che brillavano alla luce della luna. Il suo respiro mosso dal piacere appena
passato. Mi chinai su di lei baciando l’aria del suo respiro. Per un attimo
i nostri corpi restarono distesi, la sua testa appoggiata al mio petto.
Potevo respirare il profumo di ciliegia dei suoi capelli. Lentamente la sua
testa scivolò verso il mio pene. Con la mano liberò la cima dei miei
pensieri, lasciando che il porpora della mia estremità si levasse silenzioso
come un antico guerriero. Le sue labbra rosa si unirono al mio io, formando
un colore ancora più intenso. La bocca leggermente dischiusa, le labbra
avviante intorno a me, mentre la lingua sembrava turbinare intorno a me. Con
la mano accompagnava i movimenti della sua lingua, regalandomi un piacere
nuovo. Proprio mentre le afferrai la testa il mio controllo mi abbandonò.
Lento ma inarrestabile il mio piacere stava risalendo per scatenare la
fontana della mia lussuria. Feci solo in tempo a sollevarmi un poco che la
sua bocca fu colma di me. Bevve ogni lacrima del mio piacere. Senza smettere
il suo movimento, Quasi come se la sua bocca, la sua lingua e la sua mano
fossero possedute da una melodia sconosciuta. Il mio orgasmo non si era
placato. Continuavo a vivere come dentro una nube di piacere. Godevo come
ormai avevo dimenticato. Volevo possederla, ma ero incapace di sciogliere
quelle catene. Si sollevò. In piedi sopra di me. Le sue gambe erano come
torri da scalare. Presi a carezzarle le caviglie. Poi mi sollevai a sedere e
piano le baciai le ginocchia. Poi le cosce. Poi l’inguine. Poi il suo mondo.
Sollevandosi sulla punta dei piedi accompagnava i miei movimenti. Baciavo
avidamente la sua carne ora più arrossata e più sensibile. Afferrandomi per
i capelli mi costrinse a mettermi in piedi. Poi si aggrappò con le mani al
mio collo. Con un piccolo balzo le sue gambe divennero una anello sui miei
fianchi. Il suo peso era lieve. Con passi incerti mi avvicinai alla parete,
così che la sua schiena avesse un supporto. Piegandomi un poco passai le mia
braccai sotto le sue cosce e la penetrai. Rimasi sorpreso non per la
facilità con cui trovai la via ma per come lei si avvolse intorno a me,
aderente al mio io. Potevo avvertire le sue pareti di carne adattarsi a me,
perfettamente. Quasi come se neppure l’aria potesse liberarsi da quell’
abbraccio. Accompagnando i miei movimenti era come se stessimo danzando. Una
danza leggera e lenta, fatta di passione e di desiderio. Il suo respiro
divenne più veloce, le sue labbra socchiuse e le sue dita che si
aggrappavano alla mia carne.
Affondai il mio movimento, come a volerle donare tutto il mio corpo. Ma le
gambe cedettero e crollammo sul futon. Ero sopra di lei e quasi il suo corpo
scompariva sotto di me. Le sue gambe non avevano mollato la presa, come se
temesse una mia fuga. Volevo toccarle e baciarle il seno così, con fatica,
riuscimmo a girarci. Lei era lì. Seduta sopra di me. Io dentro di lei. Lei
introno a me. Afferrandole si seni dettavo il ritmo dei suoi movimenti. In
pochi secondi capii dal suo mordersi le labbra che era prossima ad un nuovo
traguardo del suo piacere. Liberai la mia mente completamente, per unirmi a
lei nel piacere massimo di godere insieme. Fu lunghissimo e stupendo. La sua
pelle fremente, i suoi seni duri come marmo e cali come lava. Avevo al
sensazione che il mio nettare fosse un fiume inesauribile. Stravolta si
abbandonò sopra di me. Le baciai i capelli, prima di scostarla per stenderla
al mio fianco. Con gli occhi chiusi, ancora avvolto dall’oblio del piacere
da poco consumato mi abbandonai e mi addormentai.
Il mattino successivo un raggio di sole entrando dalla finestra mi carezzava
il viso. Non ricordo un risveglio tanto dolce e piacevole. Istintivamente la
cercai, ma lei non c’era. Mi sollevai e vidi ai piedi del futon una piccola
Ikebana (composizione di fiori), appoggiata sopra ad un foglio di carta di
riso. Il simbolo Giapponese mi era sconosciuto.
Dopo la doccia indossai il kimono nero e scesi a fare colazione. Il foglio
di carta di riso arrotolato ed infilato nel risvolto del kimono. Tutta la
famiglia sembrava attendere me. Così è infatti, Il cerimoniale non può
essere infranto e l’ospite è trattato come un principe. Notai una gentilezza
ed una premure che se possibile erano ancora più evidenti della sera prima.
Marika era splendida, avvolta da una veste rossa come il fuoco. Il trucco
nascondeva sul suo viso i segni della passione di quella notte. Mi versò il
te e la madre mi offrì delle frittelle fatte con farina di riso e mandorle.
Il mio appetito era vertiginoso.
Dopo colazione il padre mi volle accompagnare nel giardino e parlando con la
lingua universale dei gesti mi mostrò un bonsai meraviglioso. Un oleandro
educato dal suo trisavolo. Una pianta di quasi 130 anni. Quella pianta aveva
conosciuto centinaia di ospiti e decine di eredi. Matrimoni e funerali.
Nella sua dimora di terra e torba, tra alberi secolari e nuovi ramoscelli.
Marika mi spiegò più tardi che il padre aveva il rammarico di non avere
avuto un figlio maschio, cui affidare la cura della pianta. Il padre sperava
che lei potesse avere presto un figlio per mantenere viva la tradizione.
Il resto della mattinata lo passai facendo una lunga passeggiata nel bosco.
Il verde della natura era in pieno risveglio, l’odore del muschio si
miscelava a quello delle violette e dei fiordalisi. Poteva essere un bosco
qualsiasi delle nostre parti. La mente poteva volare su ognuno dei miei
sogni, attraversare tempi remoti e futuri lontani. Camminando e pensando
giunsi alla sommità del colle. Lo sguardo poteva perdersi nell’immensità del
panorama, tanto che la linea azzurra dell’orizzonte poteva essere il mare
oppure il cielo. Con calma tornai sui miei passi, era prossima l’ora di
pranzo e mai avrei voluto fare tardi, sarebbe stata una mancanza di rispetto
per le regole della casa che mi ospitava. Giunto a poche centinai di metri
dall’albergo vidi i due coniugi con la figlia minore salire in auto ed
allontanarsi, senza fretta, con un rituale compassato e ripetuto, come se
ogni gesto fosse lo stesso da mille anni. Mai avevo sentito così distanti le
luci ed i suoni di Ginza.

Ogni sabato scendevano in città a visitare amici e parenti, rendere omaggio
alle anime dei parenti estinti al piccolo tempio dall’altro lato della
cittadina. A turno ogni sabato erano accompagnati da una figlia. Come sempre
avrebbero fatto ritorno quando le ombre della sera invitavano a rientrare
nelle case per sedersi intorno al tavolo della cena.
In sala da pranzo trovai Marika con Haru (la sorella di quattro o cinque
anni più giovane). Le due ragazze erano intente a preparare la tavola per il
pranzo. Haru stava finendo un ikebana fato di fiori azzurri e arancioni.
Quella piccola opera d’arte era molto simile a quella che avevo trovato il
mattino, in fondo al mio futon. Sul tavolo, di quelli bassi ai quali si deve
sedere a terra, c’erano vari piatti, verdure cotte al vapore, sushi, riso
aromatizzato con del ginger, costine di maiale in agrodolce e gamberetti al
vapore. Un pranzo notevole, troppo cibo per sole tre persone. Nel pieno
rispetto della tradizione toccava a me scegliere per primo il cibo. Nessuna
della due ragazze avrebbe assaggiato un boccone da un piatto che io per
primo non avessi toccato. Haru si occupava sistematicamente di versarmi del
te o del sakè. Si alzava, prendeva la brocca e si avvicinava a me. Poi
inginocchiandosi mesceva la bevanda, con la lentezza che solo gesti
millenari, misurati e precisi possono trasformare in rito.
Durante il pranzo scambiammo poche parole, Haru non parlava Inglese, quindi
Mariko doveva fare da interprete. Sebbene la cultura Giapponese mi
consentisse di interrompere il suo pasto, la cultura latina m’imponeva la
buona cortesia di lasciarla mangiare. Probabilmente l’incontro di queste due
tradizioni così lontane, ma non come siamo soliti pensare, era la ragione
per cui il clima tra di noi superava quello della cortesia. In tutta la
stanza si poteva avvertire un legame solido, fatto di sguardi e di pensieri.
In effetti il pranzo era squisito, oltre che abbondante. Ci volle parecchio
sakè per aiutare tutti i bocconi nel loro percorso e quella leggera ebbrezza
aiutava lo spirito a sentirsi ancora più leggero.
Dopo pranzo riposai in veranda per un’oretta. Con gli occhi chiusi lasciavo
che il vento leggero mi portasse odori e rumori del bosco. La mente
sorvolava il mondo come in una giostra, ero lì ed al tempo stesso lontano
anni luce da lì e dal resto. Quasi non sentivo la voce di Mariko che mi
chiamava per annunciarmi che il bagno era pronto. All’interno di una grande
sale vi erano due vasche quadrate inserite nel pavimento. Grandi circa un
metro mezzo di lato. A occhio la dimensione era giusta per ospitare la
famiglia. Il vapore di quella con acqua calda era così intenso da creare un
leggera nebbiolina e coprire le vetrate di condensa.
I giapponesi hanno un’idea quasi maniacale dell’igiene, inoltre ritengono
che il massaggio dell’acqua possa tonificare oltre al corpo anche lo
spirito. Avevo già fatto molte volte quell’esperienza. La particolarità è
che uomini e donne si lasciano andare insieme dentro vasche colme di acqua
calda e poi fredda. Un leggero velo copre le nudità ed il pudore. Entrando
nell’acqua si lascia scivolare il velo a terra, quindi l’acqua diviene l’
unica barriera tra i corpi immersi. Non c’è come da noi il falso moralismo,
il corpo nudo è la normalità, occorre solo vincere la morbosità della nostra
cultura. Questo tipo di bagno è assolutamente rilassante. Come se mille e
più mani carezzassero gentilmente ogni parte del corpo. Mariko mi ricordò
che Haru era apprendista di Shiatsu, tecnica di massaggio piuttosto nota in
tutto il mondo. Si tratta di un massaggio energico, che stimola tutti i
centri nervosi. Si può restare sorpresi dall’energia che una giovane
fanciulla può mettere nelle mani. All’inizio pensavo che si trattasse di una
semplice informazione, tanto per parlare. Poi Haru uscendo dall’acqua m’
indicò la porta in fondo alla stanza del bagno. La vista del suo corpo mi
catturò per un istante. Più bassa di Mariko ma molto ben proporzionata.
Fianchi tondi, vita sottile, seni sodi e alti, addirittura più grandi di
quelli di Mariko. Le gocce d’acqua che le scorrevano lungo il corpo
disegnavano un mosaico dalle forme perfette. Credo che Mariko si accorse del
mio sguardo, sorridendo m’invitò a raggiungere la sorella. Mi sentivo
imbarazzato e curioso. Uscendo dalla vasca cercai di coprirmi con il velo
che subito s’inzuppò d’acqua, diventando solo una barriera per il mio pudore
più che per la loro vista. Anche lei usci dall’acqua e si arrotolò nel velo.
La vista del suo corpo mi agitò immediatamente, il ricordo della passione
della notte prima divenne quasi una sensazione palpabile. Con dolcezza mi
prese la mano e mi guidò verso la stanza del massaggio.
Una finestra alta, dalla quale potevo vedere un pezzo di cielo orlato dalle
cime degli alberi. Un futon posto sul pavimento riscaldato. Un mobiletto
basso pieno di piccole ampolle e vasetti. Specchi velati sulle pareti e una
luce soave che usciva da una lampada poggiata a terra.
Appena entrato Mariko mi tolse il velo e con un telo piuttosto grande e
ruvido mi asciugò. Le sue mani scorrevano rapide e precise sul corpo.
Concentrandomi sulla mia stessa essenza cercavo di prevenire un’erezione che
cercava di diventare la protagonista della scena. Mi fece sdraiare, pancia
in sotto, le mani abbandonate sul pavimento sopra la mia testa. Con un tocco
leggero mi carezzò la nuca e mi salutò. Vidi con la coda dell’occhio mentre
usciva dalla stanza e richiudeva la porta alle spalle.
Chiusi gli occhi e mi abbandonai nelle mani di Haru. Le sue mani unte d’olio
di mandorla mi scorrevano gentilmente lungo la spina dorsale. Mi versò dell’
olio di mandorle e del latte di cocco, che mi spalmò con cura, in modo che
neppure un millimetro di pelle restasse asciutto. Questo è essenziale per
evitare che lo sfregamento delle mani sulla pelle potesse causare ustioni,
inoltre queste essenze hanno proprietà terapeutiche. Mentre le sue mani
frugavano i muscoli della mia schiena sempre più energicamente sentivo il
suo respiro rompersi ed una sensazione di pace pervadere il mio corpo e la
mia mente. Per oltre venti minuti fui strapazzato con dolcezza. Poi mi
allargo le gambe e frugando con la mano mi afferrò il pene, spostandolo dove
poteva essere libero. A pancia in sotto avevo controllato la mia erezione,
ora la posizione era la stessa ma non potevo più nascondere nulla. Le sue
unghie mi scorrevano gentili sui fianchi e sulle natiche. Ondate di brividi
mi percorrevano la schiena. Prese un unguento, credo olio di sandalo, e lo
versò a filo sull’attaccatura delle natiche. Sentivo quel liquido denso e
profumato scorrere verso il basso. Fino a raggiungere la sacca delle mie
fonti di vita. Con le due mani distribuiva quell’unguento su di me, le mani
giunte come in preghiera avevano imprigionato il mio membro avvolto dal
calore del suo corpo e dell’unguento.
Avrei voluto voltarmi e rendere pace alla mia erezione, ma la sapienza delle
sue mani era tale che nessuna bocca avrebbe potuto fare di meglio. Sentivo
le sue unghie stimolarmi l’interno delle cosce ed appena il brivido risaliva
lungo la schiena eccola imbrigliarmi tra le sue dita. Un gioco dolce, che
allungava il senso di piacere e faceva crescere il desiderio. Finalmente mi
fece girare, supino. Ero lì sdraiato con tutto il corpo concentrato dentro
un’erezione che mi stupiva. Come se il mio io non esistesse prese a versarmi
unguenti sul petto e sulle gambe, ripetendo lo stesso inesauribile ed inteso
rito che la mia schiena aveva già vissuto. La mia erezione era calata, anche
se ogni volta che le sue mani sfioravano l’inguine sentivo la testa del mio
pene sollevarsi a rivendicare una qualche attenzione. Anche questa volta il
mio corpo subì per oltre venti minuti l’energia delle sue sapienti mani.
Mi abbandonai a quel massaggio fino al punto che quasi mi addormentavo.
Allora Haru si sollevò ed il suo velo le scivolò a terra, liberando un corpo
scolpito dalla generosità della natura. Mi allargò le gambe e s’inginocchiò
davanti a me. Tirandomi per i fianchi fece scivolare le sue ginocchia sotto
di me, sollevando il mio addome verso il suo petto. Versò a filo l’olio di
sandalo su tutto il rifugio del mio piacere. Con le mani aperte e movimenti
rotatori mi sparse l’olio ovunque, poi afferrando l’erezione tornata
violenta, mi scopri il glande e con le dita lo copri d’unguenti, con
movimenti veloci e precisi. Unendo le mani come in preghiera mi avvolse e
con tutto il corpo seguiva la danza, un su e giù lento, quasi esasperante,
che aumentava a dismisura la mia eccitazione. Tirandomi più su prese il pene
tra i seni, che ora sembravano inghiottirmi. La stessa lentezza, la stessa
sensazione aumentata dal calore del suo corpo. Chinando il capo poteva
poggiare le sue labbra sulla punta violentemente rossa del mio io nascosto.
Quando i seni scendendo scoprivano una parte di me, la bocca se ne
impadroniva, per ritrarsi quando i seni risalivano. Provavo sensazioni che
non saprei come spiegare. Non provavo il desiderio di penetrarla, di
possederla. Ero io ad essere posseduto e l’unica cosa che volevo era che
quel gioco non avesse fine. Quando avvertiva la contrazione dei miei
muscoli, prima avvisaglia di un orgasmo orami prossimo, mi liberava e
lasciava che riposassi nelle sue mani. Appena il mio corpo si rilassava i
suoi seni mi riprendevano e le sue labbra mi accoglievano. Un gioco crudele,
allungare il piacere fino a quando la mente stessa si fonde con se stessa,
fino a quando l’io scompare dentro se stesso. Decise lei quando, il mio
corpo nelle sue mani, il ritmo lento dei seni e delle labbra divenne
progressivamente più rapido, fino a quando una corrente impetuosa si
sprigionò dalle viscere dl mio corpo. I miei succhi erano ovunque, sul suo
viso, sulle sue labbra, sui suoi seni, miscelati agli unguenti con cui così
sapientemente aveva poco prima modellato ogni muscolo del mio corpo.
Stringendomi tra i suoi seni sapeva come allungare il mio momento di
godimento estremo, mentre le labbra avide raccoglievano l’essenza del mio
orgasmo. Occorse qualche minuto prima che gli spasmi della lussuria si
placassero. Mi abbandonai per un attimo, mentre lei con un piccolo telo
intriso d’acqua di rosa si ripuliva e mi ripuliva.
Mi sentivo in debito per il piacere unico che aveva saputo regalarmi, volevo
offrirle una ricompensa, così mi sollevai e ceraci le sue labbra. Quasi
disturbata si ritrasse. Con le dita mi fece un cenno di diniego. Ma la luce
nei suoi occhi era di desiderio. Le sfiorai la fessura e ciò mi confermò la
sua passione soffocata. Nella sua lingua mi disse dolcemente qualcosa che
non capivo. La strinsi tra le braccia e la baciai. Le sue labbra prima
contratte si dischiusero ed io potei gioire del suo sapore. La feci
sdraiare, le carezzai prima i seni e poi il ventre. Volevo ripetere il
rituale che poco prima mi aveva condotto alle soglie dell’estasi. Haru si
lasciava andare, il rifiuto di poco prima divenne ricerca delle mie mani e
delle mie labbra. Tutta la lentezza e la dolcezza si erano trasformate in
frenesia. Feci solo in tempo a posare le mie labbra sulla sua clitoride che
un’ondata di lussuria mi riempi, quasi togliendomi il respiro. Come un fiume
troppo a lungo tenuto a freno da una diga aveva rotto gli argini del
piacere. Si dimenava forsennatamente, gemendo ed urlando. I suoi succhi
copiosi colavano lungo le mie guance e lungo le sue cosce. A causa dei corpi
completamente ricoperti dagli unguenti oleosi non potevo tenerla ferma. Mi
scivolava tra le dita, alla scoperta di un mondo che le appariva solo ora.
Il mio desiderio era grande quanto il suo, quei profumi, quel corpo
vibrante, quel calore. Tutto rendeva quel momento unico ed inebriante. Ero
posseduto dal desiderio di lei, i miei baci non saziavano la sua voglia di
vita e facevano crescere dentro di me una bramosia del suo corpo. Mi sentivo
totalmente rapito. Il mio respiro si univa al suo, le nostre vite appese
allo stesso anello. Quello che stava accadendo trascendeva il piacere
sessuale. Eravamo sospesi nell’oblio di quelle sensazioni. I nostri corpi
avvolti, le nostre lingue che cercavano ogni angolo esplorabile dei nostri
corpi. Indugiavo con la lingua dentro di lei, assaporavo la delizia del suo
piacere. Poi mi staccavo per risalire la china dei suoi fianchi e
raggiungere i suoi seni. Il mio viso immerso nell’attaccatura del suo seno,
mentre le mie mani scivolavano a carezzare le sue natiche e poi la sua
bellezza acerba.
Ero sopra di lei, pronto ad entrare in lei. Pronto a dividere con lei l’
attimo fuggente in cui due piaceri si fondono in un solo intenso sussulto.
Proprio nel momento in cui nulla può fermare un uomo una mano s’impadronì
del mio dardo infuocato. Marika. Quell’attimo improvviso permise a Haru di
voltarsi e mettersi di fronte a me, sospesa sulle ginocchia, dischiudendo il
suo bocciolo alla mia vista. Marika mi guidò verso quell’apertura. Gli
unguenti e gli umori resero semplice il sentiero che separava il mio
desiderio dalla sua culla. Entrai in lei. Avvertivo i suoi muscoli
rilassarsi per permettermi di entrare più a fondo, richiudendosi poi quasi a
rendermi prigioniero. Marika sdraiata sotto di noi alternava i movimenti
della lingua. Ora a scorrere il mio pene che entrava ed usciva dal bocciolo,
ora dentro la fessura della sorella, sola e pulsante. Il solo pensiero della
lingua di Marika dentro la sorella mentre io riempivo la seconda metà del
piacere mi sconvolgeva. Haru raggiunse l’orgasmo mentre Marika s’impegnava a
raccogliere gli umori ora copiosi. Marika si spostò e si mise di fianco, con
una mano martirizzava la fessura della sorella, con le dita dell’altra
accompagnava il mio movimento. Era com’essere dentro due mondi e non solo
uno. L’orgasmo di Haru continuava ed io sentivo il mio scorrermi lungo la
schiena, come se partisse dalla base del collo. Il mio movimento era sempre
più forte e veloce. Il traguardo vicino. Marika avvertì il momento, mi
afferrò con la mano e mi fece uscire da quel rifugio. La sua bocca si
sostituì al bocciolo della sorella. Era in possesso di un’abilità unica, la
sua bocca si stringeva intorno a me, era la sua bocca ma era come se fosse
lei. Haru ancora persa nel suo piacere si era sollevata e contendeva alla
sorella il boccone del mio sogno. Avevo la testa piegata all’indietro, nello
sforzo sovrumano di controllare le mie passioni ed allungare quell’attimo.
Inutile. Dopo pochi istanti le gambe quasi mi cedettero, la testa piena di
ronzii ed il corpo contratto come una arco in procinto di scoccare la
freccia. Esplosi, con forza nella bocca di Mariko. Haru allontanò la sorella
e volle tutto per se il nettare della mia lussuria. Due bocche si
contendevano un solo frutto. Come possedute da un invisibile demone le due
sorelle non smettevano di contendersi il mio unico io di quel momento. Le
gambe cedettero e mi ritrovai in ginocchio, ancora prigioniero di quelle due
bocche, di quelle labbra, di quelle carni.
Mi occorsero alcuni minuti per riprendermi. Lentamente la ragione riprendeva
possesso della mia mente, le figure ora non erano più confuse in un vortice.
Le due sorelle allungate al mio fianco. Nessuno di noi disse nulla per
alcuni interminabili minuti. Haru fu la prima ad alzarsi e scomparire oltre
la porta della stanza. Mariko rimase più a lungo. Non disse una parola, si
alzò, mi passò un telo e con gesti calmi rimise ordine nella stanza. Mi
sentivo sfinito e sereno come non mai. Con passo non del tutto sicuro
guadagnai la via della mia stanza. Dopo una doccia interminabile mi lasciai
cadere sul futon. Dall’oblio dei sensi passai al sonno. Ed al sogno.
Con un tocco leggero Haru bussò alla mia porta. Su di un piccolo vassoio in
legno di ciliegio una tazza da te e la teiera. Un piccolo mazzo di violette
avvolto a mo’ di corona dava un’allegra nota di colore. Posò il vassoio a
terra, poi s’inginocchiò e mi versò il te. Con un sorriso mi annunciò che la
cena sarebbe stata servita entro pochi minuti.
Dopo avere sorseggiato il te, come se potesse restituirmi forze ed energie
mi rivestii. Volevo essere perfetto, così impiegai tutto il tempo a curare
il mio kimono.
Quando entrai nella sala da pranzo fui sorpreso di trovare oltre a tutta la
famiglia anche una coppia d’anziani con un giovane. La famiglia Watanabe. La
tavola era preparata a festa, come per le grandi occasioni. In questi casi
il cerimoniale deve essere rispettato in ogni sfumatura.
Gli uomini seduti al centro di ognuno dei quattro lati. Le rispettive mogli
al fianco. Io con al fianco Mariko ed il giovane Watanabe con al fianco
Haru. Dire al fianco non è coretto, le donne si siedono leggermente
defilate, poi a turno si alzano. Per versare sakè o per offrire le pietanze
più lontane, Intuivo i loro discorsi molto formali. Il giovane parlava un
poco d’Inglese. In una situazione simile, a tavola con persone con le quali
potevo comunicare a fatica mi sarei annoiato a morte. Quella sera invece il
solo osservare i riti, i movimenti e gli ossequi che seguivano ogni dialogo
mi rendeva partecipe di una situazione a me totalmente estranea.
La luna era ormai alta quando la famiglia Watanabe usci dalla casa. Il
giovane si trattenne qualche istante con Haru. Vederli mano nella mano
infondeva una gran tenerezza. Le immagini di Haru nella mia mente, nuda e
vibrante si fondevano con la vista di lei, così gentile ed apparentemente
innamorata.
Ero stanco e così mi ritirai nella mia stanza. Non riuscivo a prendere
sonno. Poi cullato dal rumore del vento che penetrava il sottile vetro della
finestra mi abbandonai tra le braccia della notte ed il riposo del sonno
giunse a rilassarmi le membra.
Il mattino seguente mi svegliai di buon’ora, il sole appena alto nel cielo
invitava ad una passeggiata. Avrei dovuto preparare i bagagli, nel
pomeriggio un volo mi avrebbe riportato a Tokyo. Mi trovai invece nel
giardino e subito dopo dentro il bosco, verso la cima della collina, da dove
si poteva godere di un panorama splendido, come può esserlo quello della
natura a primavera, quando la terra si risveglia.
Uscendo avevo fatto piano, per non svegliare nessuno, dovevo ripartire ma
non n’avevo voglia. Avevo trovato una dimensione ideale, fuori dal tempo e
dal rumore.
Seduto sopra una roccia mi rigiravo tra le mani quel foglio di carta di
riso, quella perla di calligrafia che tentavo inutilmente di decifrare. Il
sole allungava su di me i suoi raggi e il tepore del suo tocco a poco a poco
si portava via l’intorpidimento dell’aria fresca del mattino.
Assorto nei miei pensieri non avevo udito i passi leggeri di Mariko. Un
alito di brezza mattutina mi aveva portato il suo profumo. “Cosa significa
?” chiesi mostrandole quel foglio.
Invece di rispondere Mariko mi abbracciò e mi diede un bacio caldo quanto
appassionato e violento. Le sue labbra premevano sulle mie, la sua lingua
turbinava velocemente intorno alla mia. Insinuandole le mani sotto il kimono
potevo avvertire la carne pulsare, afferrandole le natiche scoprii che non
portava nulla sotto il kimono. Sentivo crescere il desiderio. Senza
staccarsi dalle mie labbra dischiuse il kimono, ormai solo chiuso in vita, i
seni turgidi per l’aria fresca sembravano pianeti da esplorare, le gambe
leggermente aperte, ma ben piantate per terra, erano un invito perché le mie
mani esplorassero il suo mondo.
Con una mano la afferrai da dietro, come a spingerla verso di me, con l’
altra avevo cominciato ad accarezzarle il caldo spazio tra le cosce, la
bocca chiusa a ventosa ora su un capezzolo ora sull’altro. Mariko piegò la
tesa all’indietro così da offrirmi meglio i seni, sentivo i suoi gemiti
trattenuti. Doveva mordersi il labbro per non gemere troppo forte.
Le mie mani e la mia bocca. La mia lingua. Una frenesia insospettata, come a
voler consumare quel momento, come se la gioia di godere di quel corpo non
potesse aspettare. Afferrandola per i capelli la feci inginocchiare.
Afferrai il mio pene e lo infilai nella sua bocca. Guidavo la sua testa, ora
contro di me, fino a scomparire in lei, ora lontana. In modo che potessi
vedere il mio glande scivolarle sulla lingua prima di entrare nella sua
bocca.

Non volevo possederla. Cioè non volevo solo possederla. Volevo godere di
lei. Volevo che il suo corpo fosse lo strumento del mio piacere. Le girai la
testa di lato. Così che la sua bocca diventasse come uno scalmo per il mio
remo. Vedevo i suoi occhi socchiusi da sotto il mio pene. La punta della
lingua contendeva alle labbra tutta la carne del mio piacere. Poi di nuovo
le penetrai la bocca. Ora la sua testa era tra le mie mani. I suoi capelli
avvolti tra le mie dita. Aiutandosi con le mani mi afferrò tra i seni, era
costretta ad una posizione innaturale per contenermi ed al tempo stesso
prendermi tra le labbra. Mi alzai in piedi e lei li, in ginocchio, intenta a
fare con la lingua e con le labbra ciò che mille mani non potrebbero fare.
Sentivo l’essenza della mia vita risalire dall’estremità dei miei organi più
nascosti. Trattenevo il mio orgasmo per allungare il piacere di quel
momento. La scostai leggermente, quindi le afferrai la testa con la mano
sinistra mentre con la destra afferrai il mio strumento di vita. Con la
punta sospesa sulle sue labbra inizia a masturbarmi, pochi secondi ed il
piacere mi avvolse come in un turbine. Mi ritrassi leggermente, mentre la
fontana del mio piacere le inondava il viso, spruzzandole gli occhi, le
guance e le labbra. Avvertivo le gambe molli, per l’inteso godimento. Colta
da una frenesia quasi rabbiosa cominciò a leccarmi, succhiarmi, come sa
avesse voluto prendermi anche l’anima. Qualche goccia del mio nettare le
colava sul collo, con un dito la raccolsi e lei avida si succhiò anche
quello. Ci volle qualche istante perché mi riprendessi da quell’oblio.
Mi sedetti a terra, appoggiato alla roccia, mentre Mariko si mise a
cavalcioni sopra di me. La sua bocca cercava la mia, la sua lingua cercava
la mia. Le afferrai i seni, tanto bastò per risvegliare il mio desiderio.
Anche lei lo comprese e cominciò a sfregare la fessura sul mio pene. Prima
con movimenti lenti, poi quasi con rabbia. Godette così, con la mia bocca
incollata ai suoi seni e le mie mani che le artigliavano le natiche.
Sentivo il calore del suo orgasmo colarmi lungo le gambe. Un attimo. Si mise
in piedi di fronte a me, allargandosi bene il kimono. Poi mi afferrò la
testa e se la spinse verso il suo desiderio. Appena la mi lingua incontrò la
sua clitoride un gemito sordo e quasi rauco le usci dalla bocca. Sollevò un
piede appoggiandolo alla roccia, così che io potessi esplorare meglio le sue
intimità. Con la lingua aperta, le scorrevo la fessura dal basso verso l’
alto, indugiando poi con la punta indurita nel triangolino da dove il suo
grilletto spuntava avido d’attenzioni. Tutta la zona era ormai bagnata,
tanto che con facilità il mio dito medio poté trovare la strada del suo
bocciolo, mentre l’indice era già a casa sua, dentro la grotta della
passione. Con movimenti ritmati e continui le mie dita scorrevano dentro di
lei, mentre la mia lingua raccoglieva i suoi umori sempre più copiosi.
Godette, con violenza, contraendo la schiena per non perdere neppure un
istante del contatto con la mia lingua. Sentendo il suo orgasmo affondai in
lei con più vigore. I gemiti erano ora urla soffocate. Il suo orgasmo non
si placava, mi sollevai mi misi dietro di lei. Con la mano feci in modo che
si poggiasse in avanti, poggiandosi alla roccia, mentre il tondo del suo
profilo si mostrava a me nella sua magnificenza. Fu facile entrare in lei,
il mio dito aveva aperto la strada ed il suo bocciolo era ora una corolla di
fiore dischiusa al sole. La penetrai più a fondo che potevo, afferrandole i
fianchi. Marika cominciò a muoversi, assecondando il mio movimento, mentre
con una mano i appoggiava alla roccia e con l’altra si masturbava. Godeva
ed io con lei. Ansimava ed io con lei. Mi ritrassi per penetrarle la fessura
che trovai caldissima. Una tana. Un rifugio caldo per il guerriero stanco.
Quel calore, quei gemiti, quel desiderio. Pochi secondi ed esplosi dentro di
lei. Più sentivo la mia essenza risalire e più affondavo i colpi. Eravamo
entrambi alla soglia del dolore. Un dolore nuovo che aumentava il nostro
piacere. Rimasi fermo per un istante, dentro di lei, tanto da sentire i
nostri respiri rotti dal piacere e le nostre carni rilassarsi dopo la foga
dei nostri orgasmi.
Mi abbandonai al suolo, rivolto verso il sole, accecato dalla sua luce e
perso dentro le sensazioni che avevo appena provato. Occorse qualche minuto
prima che la ragione si riappropriasse di me.

“Cosa significa ?” chiesi mostrandole ancora quel foglio con quel simbolo.
“Se un giorno tornerai qui, tra queste colline, sarà perché avrai capito da
solo il significato di quel simbolo” questa la risposta di Mariko, le ultime
parole che la sua voce, con un inglese aggiustato, mormorò per me.

Leave a Reply