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Racconti Erotici Etero

Intimità 6

By 26 Febbraio 2019Dicembre 16th, 2019No Comments

Non finì lì!

Nanà, dopo quell’esperienza, avrebbe ricordato per sempre, con piacere e con nostalgia, il pene di Giangi. Enorme, nelle sue mani, riprendeva vigore. Come un cobra rizzava la testa, gonfiando il cappuccio; diventava un salsicciotto appetitoso, tanto che lei non poté fare a meno di avvertire gli stimoli che non erano proprio della fame; lo ingoiò tutto d’un solo colpo. Sentiva ancora, a distanza di tempo, la consistenza del simil-insaccato riempirle la bocca, con sua crescente soddisfazione.

Aumentava di volume, come se volesse scoppiare. Ma, prima che assumesse dimensioni imprevedibili, lei lo ingoiava, iniziando a imprimergli il movimento a stantuffo. Le dava un senso di nausea, di rigetto, ma lo vinceva ogni volta e andava avanti, in attesa che le riempisse la bocca di quel liquido vischioso, acidulo, ma con un certo grado zuccherino che addolciva il palato, contrastando con il caratteristico odore che tendeva all’amuchina, tuttavia meno intenso.

In quella prima esperienza, le mascelle dilatate le dolsero, ma continuò stoicamente. L’agitò tanto fino al punto che un violento getto le tolse il respiro. Annaspò. Tentò di tirarlo fuori dalla bocca, ma non poteva per l’irruenza che lui imprimeva all’attrezzo. Era come se un gigante le tenesse ferma la testa, impedendole qualsiasi possibilità di fuga. Mentre la irrorava, le urlava qualcosa che la concitazione del momento non le consentiva di capire.

Un torrente tumultuoso si riversò nella gola, seguito dallo stomacante sapore acido che le dava l’urto del vomito ogni volta che cercava d’inspirare col naso. Tossì nonostante l’ingombro; lo stomaco le si rivoltava contro; annaspava. Ma lui non cedeva e la costringeva alla incomoda posizione, muovendosi sempre più rapidamente nel suo andirivieni che, le sembrò, durasse da ore. Tossendo e sospinta dai conati di vomito che le rivoltavano lo stomaco, si rese conto che la stava affogando, mentre lacrime involontarie le solcavano le guance. Atterrita si agitò freneticamente in cerca di aria. Quei lunghi istanti di disperazione si interruppero di colpo. Non ebbe più contezza di nulla.

Giangi ricordava solo di avere provato la sensazione che una sega elettrica gli stesse affettando il cazzo e aveva urlato di dolore, ma, soprattutto, di piacere, mentre spargeva il seme tutto intorno, come fosse il sangue delle sue vene. Cercava, allo stesso tempo, di contenere la ferita comprimendola con qualcosa che aveva sotto mano e che era la bocca che conteneva il suo membro assatanato dal piacere. Avvertiva solo “quel piacere”, in un crescendo che vinceva la paura di restare dissanguato in un masochistico disegno edonistico.

S’era svegliato col cazzo che sporgeva dalla bocca di lei. Nanà era esanime, sigillata al ventre di Giangi. Le estrasse la verga dalla bocca. Le dette degli schiaffi sulle guance per farla riavere, ma senza effetto. La rivoltò, le applicò le labbra su quelle di lei e, al colmo della disperazione, le praticò la respirazione bocca a bocca, impiastricciando la sua del liquido colloso di cui conosceva molto bene la provenienza.

Nanà, dopo due o tre tentativi, ebbe sobbalzò, riavendosi. Tossì, girandosi di lato; vomitò un liquido biancastro che scivolò, vischioso, per terra. Tossì ancora. Si riebbe; intontita chiese: “Che è successo?”, ma lui era scoppiato in un pianto liberatorio.

Nanà si “sollazzava” col suo pollastro, correndo il rischio di porre, accidentalmente, fine alla propria esistenza terrena, ma c’era qualcun altro che se la spassava.

“Marisa, sei dolcissima!” Roby se la stava stropicciando, seduto sul divano di casa Rampi. Le cose erano andate avanti in fretta senza sapere per colpa di chi, ma, sicuramente, per merito di chi aveva preso l’iniziativa. Marisa non s’era lasciata sfuggire l’occasione per farlo cadere nella rete e lui non era poi un santo, proteso a proteggere la propria castità in assenza della moglie. D’altronde glielo aveva pur fatto capire con quella frase sibillina. Così s’erano ritrovati a quel punto fra un drink e l’altro, una pizza e una birra.

Quando Marisa voleva qualcosa non si arrestava davanti a niente e aveva gli “argomenti” giusti per imporre la sua visione delle cose. Era bella, anche se non eccezionale; era fornita di una spigliata comunicativa che si trasmetteva al suo interlocutore con l’immediatezza di uno shrapnel inglese. Lui aveva il suo fascino, anche se la sua pecca non era la determinatezza nei propositi. Era un gregario, un bravo gregario, ma senza troppe iniziative. Insomma, si ripeteva il copione già visto con la moglie. Ma lui era contento così e seguiva sempre chi gli teneva la cavezza. Era un puro strumento di piacere e anche lui sapeva prenderne la giusta spettanza.

Dopo la partenza di Nanà, Roby aveva ricevuto la telefonata di Marisa che gli aveva proposto di uscire insieme la sera successiva, dato che era solo e, combinazione, anche il compagno di lei era fuori sede. Roby conosceva bene Marisa perché era andato varie volte in ufficio della moglie, ma una conoscenza personale non s’era mai instaurata. Ne fu piacevolmente sorpreso e, andando al seguito, acconsentì. La sottile vendetta di Marisa cominciava a concretizzarsi.

Era furiosa con Nanà perché aveva ben immaginato che quella sera si sarebbe scopata l’uomo oggetto dei suoi affanni, cioè, a cui lei aveva dedicato tanti, non troppi in realtà, anni della sua vita lavorativa. Gli faceva filarino sin da quando era entrata in quell’ufficio senza mai arrivare al concludere qualcosa e questo la innervosiva. D’altronde era quello che aveva attuato anche lei, ma con minor fortuna; e questo non le andava giù. Quella troia doveva imparare a starsene a posto suo. Marisa non aveva legami santificati da nessun vincolo, come Nanà, e poteva andare di fratta in fratta a cogliere l’erba che più le piaceva

Capiva che Giangi era un uomo sposato, ma non gliene fregava nulla, ma aveva capito che a lui non dispiaceva cedere all’avvenenza dell’eterno femminino. Voleva solo portarselo a letto perché gli piaceva. “‘Fanculo il resto!” – era il suo motto. Una o due botte a settimana le andavano bene. Ed ecco che si presentava quella “stronza” che non valeva un cazzo e che le soffiava il premio dei suoi anni di sacrificio e di duro lavoro, in tutti i sensi.

Era giusto che le rendesse la pariglia. Doveva fottersi il maritino che lei tanto adorava. Quello stronzetto, così elegantino e fichetto, l’avrebbe sedotto e abbandonato. Aveva capito che era una pecora che seguiva il capo-mandria e lei aveva le palle per attirarlo con i suoi respingenti di ultima generazione ben oliati, in grado di assorbire qualsiasi urto, per violento che potesse essere, nonché servire da gancio di trazione per i collegamenti elettrici alla motrice.

Un perfetto congegno per far sprofondare fra le sue cosce morbide e accoglienti qualsiasi fuco in amore. Il povero Roby ne sarebbe rimasto soddisfatto e lei avrebbe potuto girare il coltello nella piaga di quella “stronza”, provocando la sua gelosia. A questo avrebbe pensato dopo. Sapeva già come fare per insinuare il sospetto in lei. Ora basta, però. Doveva riempire il bicchiere e goderselo tutto, centellinando il dolce liquido della vendetta.

Lo attirò su di sé. Lui le cadde sui seni, stropicciandoli. Lei dette a vedere che si tirava indietro e lui stava per retrocedere, rispettoso. Ma lei gli si avvinghiò alla testa e gliela tenne ferma, mentre con le labbra provocava quelle di lui a piccoli scatti, a morsetti sempre più concitati, fino a stamparsi a ventosa; fino a togliergli il respiro. Rifiatò e poi gli spostò le mani sui seni. Se fossero stati di caucciù non sarebbero stati così elastici. A lui sembrava di essere arrivato in paradiso.

La camicetta di Marisa, miracolosamente sbottonata, s’afflosciava alla vita lasciandola in reggiseno, mentre lei gli alzava la maglietta, sotto la quale il petto del maschietto era nudo. Gli palpò i pettorali: meno male, solo qualche pelo! Bei capezzoli: tondi e ampi; poi scese sullo stomaco,quasi implume. Meglio così; odiava gli uomini ipertricotici, gli davano di sporco. Scese sotto la cinta, slacciandola e procedendo nell’ispezione. Lui si contorceva per il sollucchero che gli procurava. Gli offriva ancora le labbra, scambiandosi morsettini e approfondimenti linguali, mentre era intenta a ravanargli le mutande, nella macchia mediterranea che lì si trovava, alla ricerca dell’abitante solitarioodella valle incantata.

E il tirannosauro c’era, anche se non nella forma migliore. Si rizzò appena lei lo sfiorò, mentre, secondo i suoi calcoli, avrebbe dovuto già da tempo essere ritto al suo posto sulle zampe posteriori, pronto all’attacco. Ma non se ne ebbe a male. Ciascuno ha i suoi tempi. È meglio, poi, se tarda un po’ a mostrare la grinta. Poteva giostrarlo a suo piacere. Aveva già capito che non si trovava davanti a uno sciupa femmine. Lo prese per il suo verso. Mostrò d’essere piacevolmente sorpresa. Lui gongolò e ciò contribuì a ringalluzzirgli il membro, facendoglielo alzare piuttosto vigorosamente.

Marisa colse la palla al balzo, per così dire. Cominciò a sbobinarlo leccandoglielo come un cono gelato. E più gli titillava con la lingua il frenulo e più lui impazziva di piacere. Per la prima volta in vita sua sentiva di essere un uomo. Dopo averlo fatto contorcere di piacere, Marisa passò a stringergli i capezzoli e chiese che anche lui le ricambiasse il favore. Roby non riusciva a tenere a lungo la tenaglia delle sue dita sui capezzoli di Marisa, perché lei era così rapida nell’eseguire il “tirebouchon” con le mani agili e più piccole che lui minacciava di “venire” ad ogni torsione. Solo la bravura di lei evitò l’esplosione della canna fumante.

Non era mai stato così lungo e grosso come nel momento in cui Roby andò, a fiuto, alla ricerca della preda nella tana. Doviziosa, nella sua protuberanza fra le cosce, pulsava la Bernarda come se fosse fornita di vita propria e non più ridotta a un semplice organo appartenente a un corpo femminile. La proboscide di Roby si fiondò in avanti e cominciò a conficcarsi in quello stretto budello, facendosi largo con la sua testata nucleare. Entrambi sentivano lo strazio del desiderio: l’uno, di penetrare nel più profondo delle visceri, e l’altra di goderselo tutto mentre sprofondava. Spingevano e s’agitavano entrambi e, ben presto, arrivarono alla fine della corsa. Il serpe aveva preso possesso della tana.

L’andirivieni fu lungo e stressante, ma entrambi ne trassero vantaggio. Ora erano un corpo solo a due teste e quattro arti, impegnati tutti a frizionarsi reciprocamente ovunque arrivassero; a tastare e ingarbugliarsi, avvinghiandosi l’uno all’altro, destando sicuramente l’invidia dei polpi con i loro otto tentacoli. Così, ridendo e scherzando, caddero entrambi sul divano, stracchi, ma soddisfatti.

Nina Dorotea

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