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La Caduta, atto 1. Della depravazione di Septimo Nero, del Sacrilegio e dell’Esilio di Alexander Varus.

By 18 Giugno 2020Febbraio 7th, 2021No Comments

Invero, quella mattina fu una come tante: su Roma il sole brillava alto nel libero cielo ed invero non pochi lo ritennero segno fausto. Chiamatemi pazzo, ma io, fissando l’orbe di Helion che benediva la terra con i suoi raggi, pensai il contrario.
Un segno funesto, pensai. Pessimi e terribili presentimenti mi squassavano l’animo.
La capitale era fiorente e a migliaia percorrevano le vie. Filosofi, conestabili, sacerdoti e privati cittadini. Il mercato era invero ben rifornito e giungevano notizie che la Decima Legio Arditas avesse trionfato sulle forze di Aristarda Nera nella Hiberia Inferior. All’epoca, io ero uno studioso, figlio di Licanei e ligio alle tradizioni antiche seguivo gli insegnamenti di Socrax, sommo fra i sapienti e precettore dello stesso Imperator in Roma, Septimo Nero.
Questi era il primo, e il legittimo, tra i pretendenti all’Imperiale Trono.
Invero, egli era uomo licenzioso e spietato ma dal brillante acume militare, lo dimostrava la scelta di fare legati uomini di merito e non parenti di sangue.
La guerra civile che attanagliava l’Impero di Roma, che vedeva le moltitudini in balia dei capricci di signori della guerra, era ormai inoltrata. Si sapeva di rivolte in Numisia, Cilicia, Hiberia e si vociferava in mille altri luoghi. Tuttavia, nonostante il conflitto interno, i confini erano ben sicuri e nessun barbaro invasore era riuscito a sfondare il limites, penetrando nel sacro territorio imperiale.

Quel giorno, mi recai alla Curia Senatoriale. Ivi, i Senatori, di porpora ammantanti, tenevano consiglio e l’Imperator sottoponeva loro leggi e decisioni. Invero, il potere del Senato era molto diminuito, dacché l’esercito ora eleggeva coloro che riteneva degni del lauro imperiale.
Il Senato, un tempo rispettata guida e concilio di saggi venerandi, si rivelava ora inutile orpello.
Arrivai a riunione già iniziata, riuscendo a entrare.
All’interno, tra schermi ololitix e diverse notevoli tecnologie da tempo recuperate dalla perduta Licanes, l’Imperator ascoltava i rapporti dei suoi generali.
-Nobile Imperator! Aureliano Velisefrio, Legato della Quinta Legio Justitia é morto durante la battaglia di Briziate. L’Hiberia Tarragonensis non é più degli insorti.-, disse il Legato Proserpio Rufio. Questi era un uomo altero e volitivo, il viso affilato e gli occhi grigi penetranti.
Era anche uno degli strateghi scelti dall’Imperator in persona.
-Abbiamo catturato circa duemila prigionieri, mio signore. Si rimettono al mio giudizio, ed io al vostro.-, detto ciò, il Legato chinò il capo, in attesa.
Io sapevo bene che Septimo era uomo crudele ma pragmatico e ben capivo come sarebbe finita.
-Invero, siano essi giustiziati e i loro corpi esposti sulle principali vie dell’Hiberia Tarragonensis!-, esclamò Septimo, la voce tonante malgrado il fisico magro e gli occhi spiritati, -Così che sia chiaro: nessuno, nessuno mai avrà pietà o perdono per aver sfidato l’Imperator!-.
Proserpio annuì, fece il saluto imperiale portando il pugno chiuso al petto e infine chiuse la comunicazione. L’oloschermo rimase spento. Nessun’altro rapporto, per oggi.

-Mio signore… Ciò é ingiusto. L’Impero soffre di questa guerra e tua sorella, sebbene sicuramente povera di possessioni e terre, gode del favore del popolo e delle sue Legioni. Forse dovresti considerare l’ipotesi di estenderle una mano, certamente l’Impero ne beneficerebbe, o Augusteo.-.
A parlare fu il mio maestro. Socrax. Questi era uomo pragmatico, altero ma dal viso scavato dalle privazioni. Filosofo di vecchio stampo e sacerdote al servizio degli Déi antichi tra cui, preminente nelle sue devozioni, vi era Gnosis, Dio della Conoscenza.
Precettore dell’Imperator sin dalla sua più tenera età, era il solo nell’aula a osare dargli del “tu”.
-Invero, forse dovrei, Socrax.-, ponderò Septimo con un ghigno, -Ma solo se la mia tanto caritatevole sorella sarà così umile da fare il primo passo.-.
Era una trappola e lo sapevamo tutti: Aristarda Nera era tutto fuorché umile.
Era stato l’orgoglio a convincerla a disconoscere la legettimità del fratello. Non si sarebbe mai piegata, mai. Tuttavia, Socrax non cedette.
-Imperator, ti prego. L’Impero langue in questo stato deplorevole da ormai ben due anni. I nemici si ammassano alle frontiere, il popolo soffre e noi sprechiamo risorse in guerre che si potrebbero evitare…-, disse, -Son certo di non essere il solo a volere la fine di questo periodo di militante anarchia.-. Si guardò attorno. E come per magia, un senatore si alzò. La pelle scura, quasi nera, lo classificava come un discendente del popolo dei Cimanei.
-Io, Attio Publio Levansio mi dichiaro concorde con Socrax Justiniano Severio.-, dichiarò.
-Anche io.-, disse una voce di donna. Costei era Julia Quinta Maximinia, una nobildonna ascesa alla porpora senatoria grazie agli influenti amanti e ai soldi.
Nessun’altro disse nulla. L’Imperator sorrise, beffardo.
-Invero, ben pochi vedono il vantaggio della pace! Questa guerra é giusta. L’Imperator dev’essere uno solo. Non vi possono essere diarchie o triarcati o altre forme di governo comune. Io sono l’Imperator, io sono Roma. E voi sapete bene che é così. E schiaccerò qualunque pretendente, sia esso mia sorella, mia madre o un perfetto estraneo!-, esclamò.
-Imperator… In verità ti dico che nessun regno ha mai tratto beneficio alcuno da lotte intestine se non indebolimento e decadenza.-, disse Socrax. Gli occhi dell’Imperator si piantarono in quelli del vecchio uomo, che non indietreggiò né esitò.
-Come gli antichi sostenevano… c’é sempre una prima volta. Ma sicuramente, io veggo che ti tremano le mani, o nobile anziano.-, ribatté. Si avvicinò con fare affabile. Mi spaventò quella vista.
Pensai che non avrebbe osato, che non avrebbbe ucciso o decretato la morte di Socrax.
Avevo ragione: non lo fece. Gli posò paternamente una mano sulla spalla.
-Questi dibattiti politici sono sfiancanti per me, quanto sfibranti debbono essere per te, mio sommo insegnante!-, esclamò dolente. Notai che però i suoi occhi ridevano.
Mi sentii male. Avevo davanti un uomo che non avrebbe mai ceduto, che non si sarebbe arreso. Che avrebbe stretto le redini del potere sino alla morte a qualunque costo.
-In tutta onestà, Augusteo…-, iniziò Socrax. L’Imperator strinse appena la spalla, provocando un dolore fugace al vecchio e costringendolo a tacere.
-In tutta onestà, Socrax, io ritengo che tu ti sia guadagnato il diritto di ritirarti a vita privata nella tua villa di Pons Milvio.-, ci fu un altro sorriso, -E ritengo che quanto prima lo farai, meglio sarà.-.
L’assemblea ammutolì. Socrax fissò l’Imperator con un certo disprezzo, misto a sofferenza.
-Imperator, io mi ritirerò. Ma ti prego di prestare orecchio alle mie parole: l’uomo che si eleva sui suoi simili invero cade da altezze ben maggiori dei suoi sottoposti. Ti prego e ti scongiuro: cerca la pace con tua sorella. Negozia una tregua con i pretendenti eletti dall’Esercito.-,  mormorò.
L’Imperator sorrise e strinse di nuovo la spalla di Socrax.
-Farò ciò che va fatto.-, disse. Si voltò. Socrax mi vide tra la folla che osservava l’assemblea.
Capimmo entrambi, con un solo sguardo che pensavamo la stessa cosa: Septimo Nero, Imperator per diritto di nascita era ormai fuori da ogni controllo.
Socrax si alzò e marciò verso l’uscita, i venerabili anziani che si alzavano per fargli spazio.
-Imperator, vi sarebbe la questione dei tributi provinciali… La guerra civile ha reso l’erario molto povero.-, disse il Senatore Mitusio Kenax. Costui era di nuova nomina, furbo e scaltro come pochi.
-Svaluteremo la moneta imperiale. Ciò ci permetterà di arginare la crisi. Ne conieremo di nuova con l’acciaio preso dalle armi e le armature dei nostri nemici morti!-, dichiarò.
Vi furono moderate ovazioni. Io mi affrettai a uscire.

Socrax camminava lungo la via. La schiena, prima dritta era ora curva, sotto il peso di quella che a tutti gli effetti era stata una sconfitta, l’ultima battaglia persa per ridirigere l’Impero verso una pace e la tranquillità per cui quell’uomo pregava gli déi da anni.
-Socrax.-, mi affrettai al suo fianco.
-Alexander. Hai visto?-, chiese. Annuii.
-Come debbono adirarsi i nostri fondatori! I loro sacri valori umiliati da folli e maniaci, da omuncoli indegni dell’Alloro Imperiale!-, esclamò. La gente lo fissò ma nessuno disse nulla.
-Lo so. Ma non possiamo fare nulla. Solo pregare che gli Déi abbiano misericordia.-, dissi.
-Li prego ogni giorno… Ma non vi é risposta. Vuoi un consiglio, mio alunno?-, chiese Socrax.
-Ti prego.-, dissi io. Lui sorrise, tristemente.
-Vattene. Lascia Roma, lascia l’Impero. Vattene. Appena puoi.-, disse.
-Dove?-, chiesi io, inorridito dall’idea di lasciare la mia patria, i suoi valori, ciò che mi rendeva fiero e lieto del mio lignaggio e del retaggio dei miei avi.
-Dove vorrai, il mondo é invero vasto. Ma vattene poiché l’Impero é condannato.-, rispose Socrax.
-Maestro…-, mormorai io. Sentii le lacrime agli occhi. Guardai Roma, stupenda e bellissima attorno a me. Mezzi civili e militari che partivano e tornavano. Terrestri, navali e aerei.
-Davvero, Alexander. Vattene. Qui forse credi vi siano onore e tradizione ma tutto questo sprofonderà nel baratro. I barbari si riprenderanno queste terre. Vattene prima che accada.-, disse Socrax. Ora anche lui versava lacrime. Si asciugò gli occhi nella toga.
-Siamo condannati! Abbiamo disatteso il mandato del cielo, e ora pagheremo il prezzo della nostra disobbediente arroganza…-, Socrax si guardò attorno, -Invero io non riesco a riconoscere la gloria di Licanes e la nobiltà di valori dei nostri avi nel nostro presente.-, mormorò.
Io lo scossi per le spalle, -Maestro… ti prego, torna in te. Non disonorarti oltre!-.
-E cosa importa? Il buono in mezzo al male non può certo convertire tanta iniquità in giustizia, no?-, chiese Socrax con ironia decisamente tagliente.
-Ma maestro… tu stesso hai detto che i Monaci Zen-Shura insegnavano l’importanza di distaccarsi da sé e dal mondo, accettando l’inevitabilità del fato.-, sussurrai io.
-Sì, ma c’é un limite! Secondo te perché hanno abbandonato l’Impero?-, chiese.
Non risposi. Sapevo bene che quell’esodo, avvenuto all’inizio della Grande Tribolazione era stato un presagio funestissimo da tutti temuto e per lungo tempo lo stesso Septimo aveva fatto digiuno e implorato perdono agli Déi, per poi decidere di non curarsi del loro giudizio. Eppure, quello stesso giorno, Nimandeo Feral fu eletto Imperator dalle sue armate.
-Se ne sono andati perché sapevano cosa sarebbe accaduto. Se sei saggio, anche tu lascerai l’Impero. Ti prego, Alexander, promettimi che ricorderai le mie parole.-, disse Socrax mentre il Locomotor (un trasporto pubblico adibito a trasportare fino a quaranta persone) atterrava poco distante. Scese della folla. Io notai che molti guardavano Socrax. Era noto e amato.
-Maestro… tu cosa farai?-, chiesi mentre lo accompagnavo sino al trasporto.
-Ciò che devo fare. Pregherò gli Déi perché ci concedano la clemenza che l’Imperator sembra aver scordato.-, rispose lui.
-Comprendo, magister.-, disse usando un titolo antico e onorifico, -Possa tu trovare pace.-.
-Anche tu, Alexander. Possano gli dei serbarti e che Gnosis non ti neghi mai i suoi doni.-, detto ciò, Socrax voltò le spalle e salì sul Locomotor.
Fu l’ultima volta che parlammo da cittadini di Roma.

(Manco dell’esperienza diretta per descrivere quanto accadde dopo ma ho ricostruito i fatti secondo coscienza. Possa Gnosis perdonare il mio probabile errore e la mia sicura arroganza).

Septimo Nero ascoltò quanto disse il Senato, prese decisioni, tornò a palazzo.
Il Palazzo Palatino era edificato su uno dei colli che circondavano la città ed era il più bell’edificio di tutto l’Impero. Architetti e specialisti erano giunti da tutto il territorio imperiale e oltre per portarvi la loro arte e contribuire a quella mirabile opera. Marmi e graniti erano di prima qualità.
Soavi diffusori sonori cantavano inni sacri alla Dea delle Amazzoni del Kelreas, sposa di Amon Zeus, Re degli Déi di Licanes. Incensi bruciavano. L’Imperator diede ordine che gli inni cessassero.
Aveva mal di testa. Invero stava male fisicamente. Preoccupazioni. Sua sorella, che gli déi la maledicessero!, era ancora viva e gli altri usurpatori, possano le loro ceneri essere disperse ai quattro venti e i loro nomi dimenticati!, incalzavano su più fronti.
-La pace…-, mormorò Septimo mentre entrava nei suoi quartieri privati.
La Guardia Palatina lo lasciò passare. Le lance a energia si aprirono per lui.
-La pace.-, sussurrò. La sola parola lo faceva star male. Davvero? Era questo che doveva fare?
Fare pace con sua sorella? E perché? Era lui l’Imperator per diritto. Lei, la primogenita, era stata ignorata in favor suo. Era così e lei avrebbe dovuto accettarlo, invece era fuggita in Hiberia ed aveva iniziato la sua rivolta. Aveva iniziato lei! Non si fosse ribellata…
Forse neppure gli altri due bastardi acclamati dai loro legionari lo avrebbero fatto!
-Pace!-, esclamò abbattendo il pugno su un tavolino, dono del Governatore Belito della Ferencia Cisalpina. Crack! il legno si spaccò e il tavolino, più opera d’arte che mobile, cedette.
-Mio signore?-, chiese Asiatico. Era un giovane addetto alle pulizie di palatto, uno dei duecento. Bello, più di molti altri. Septimo non c’aveva mai fatto nulla, invero.
-Va tutto bene. Portami del vino.-, disse l’Imperator. Asiatico annuì e sparì.
Ritornò due minuti dopo con un calice dorato di vino rosso. L’Imperator bevve. Meglio.
-Mio signore, c’é vostra sorella.-, disse Asiatico.
-Mia sorella?-, chiese Septimo, confuso. Veramente Aristarda Nera era giunta sino a Roma? No…
No, doveva essere l’altra sorella. Dursillia Exima Nera, figlia bastarda di suo padre. Si era da tempo dimenticato di lei.
In realtà era anche una bella giovane per come la ricordava lui.
-Sì, mio signore. Chiede di poter conferire con voi.-, disse Asiatico.
-Falla entrare. E lasciaci soli.-, rispose Septimo, -E prima di andare porta altro vino, per entrambi.-.

Socrax non dormì. Ghermito da ricordi orribili, si sedette e prese a pregare. Era stanco. Stanco e stravolto dalle troppe emozioni eppure il dio del sonno non gli faceva la grazia del riposo.
Si mise nella postura dei Monaci Zen-Shura e cercò di centrarsi. Improvvisamente, un altro dio gli concesse il proprio dono. Vide qualcosa di orribile. Qualcosa riguardante l’Imperator!
Rapidamente si levò in piedi, ignorando il dolore dovuto alla staticità e si vestì. Uscì nella notte.
-Autistas!-, esclamò fermando un veicolo di publica utilitas.
-Dove?-, chiese il guidatore, un grassone dal viso rubicondo.
-Il Palazzo Palatino! In fretta!-, esclamò.
-C’é traffico, temo.-, disse il guidatore, costernato. Socrax imprecò, cosa che non gli accadeva dalla giovinezza. Doveva muoversi! Se quello che aveva visto era vero… Oh dèi!!! Misericordia!
-Ti pagherò il triplo, ma conducimi là quanto prima!-, esclamò il vecchio. Sentì il cuore dolere.
“Non ancora. Non ancora, vi supplico!”, pregò. Doveva impedirlo, doveva impedirlo!
Poi poteva anche crepare.

Dursillia Exima Nera fece il suo ingresso nelle stanze dell’Imperatore, la toga bianca che la fasciava come un guanto, conrastando con la pelle ambrata, eredità della madre, una guerriera discendente dalle Amazzoni del Kelreas. Aveva capelli lunghi e castani, fluenti sino alle reni.
Il viso era stupendo, a sola eccezione del naso, leggermente camuso. Septimo sorrise vedendola.
-Sorella mia! Quale piacere vederti in questo giorno! Cosa ti porta a disattendere il tuo sacro compito di guardiana?-, chiese. Come tutte le altre Sacerdotesse della Dea Madre, anche Dursilla Exima aveva giurato di conservarsi casta per quarant’anni, vegliando sul sacro fuoco della Dea del Kelreas che doveva perennemente ardere.
-Fratello! È per me un piacere vederti! È il dovere a portarmi qui. Il Tempio della Dea necessita di riparazioni. Ho richiesto carta e penna per poterti spiegare.-, disse lei.
-Hanno mandato te o ti sei proposta?-, chiese Septimo avanzando verso di lei di un passo.
-Invero mi proposi io. Mi mancava la tua voce.-, ammise lei.
“Ben altro ti manca, vero sorella? Vent’anni e più senza il membro di uomo tra le cosce e la consapevolezza che gli uomini, finanche quelli del tuo stesso ordine ti muoiono dietro…”, pensò Septimo. L’idea era blasfema e orribile, ma… Déi, Dursilla era bella.
-Ti prego, prendi un calice di vino con me, sorella.-, disse porgendolo.
-Ringrazio, fratello. Immagino che nostra sorella non abbia ancora accennato alla resa, vero?-, chiese Dursilla. Septimo scosse il capo, sforzandosi di non far trasparire la rabbia.
-Invero no.-, ammise. Dursilla annuì. Bevve appena un sorso. Septimo fece altrettanto.
-Oh, ecco i progetti.-, disse la sacerdotessa della Dea. Srotolò un papiro sul tablinum, mostrando la pianta del Tempio. In rosso erano cerchiate alcune zone.
-Qui si necessiterebbe di ristrutturazione. Una parte é cadente. Qui invece c’é un’infiltrazione d’acqua.-, china sulla carta, la giovane non si accorgeva che lo sguardo di Septimo indugiava ben più sulle sue forme che sulla planimetria, ignara di ciò lei indicava i punti bisognosi di attenzione nell’antica struttura.
-Comprendo.-, sussurrò lui, -Sei tesa, sorella.-.
-Vegliare é un compito sacro, seppur stancante.-, ammise lei.
-Permettimi…-, appoggiò le mani sulle spalle di lei e prese a massaggiarla. Dursilla gemette di soddisfazione. Quel suono fece indurire il membro dell’Imperator. Septimo sorrise.
Sì, Dursilla Exima era bella, e forse ci sarebbe anche stata! Nessuno lo avrebbe mai saputo!
Continuò a manipolare i muscoli della giovane, appoggiandole il membro sul sedere che sentiva sodo contro il ventre. Lei s’irrigidì.
-Fratello… Può bastare…-, sussurrò.
-Sorella, ritengo tu sia troppo tesa. Rilassati.-, disse Septimo.
-Io…-, sussurrò lei, protestando debolmente.
-Sì?-, chiese lui. In quel preciso istante la giovane sospirò.
-Niente.-, disse. Septimo sorrise. Il vino era afrodisiaco. E lui si era accertato che Asiatico versasse una generosa dose di spezie afrodisiache nel calice dato a Dursilla Exima Nera. La vestale s’illanguidì, sporgendo le natiche contro il membro dell’uomo.
-Fratello… Mi sento strana.-, mormorò lei, -Ho caldo.-.
-Forse occorrerebbe che prendessi aria. Insomma, é estate e fa caldo…-, disse lui accarezzandole la schiena. Lei gemette. Lui arrivò sino alle reni. Le afferrò una natica.
-O forse… ti servirebbe altro…-, disse. Lei scosse il capo.
-Non devo… la Dea vede… Mi punirà.-, replicò.
-La Dea non ti punirà. Cada su di me, piuttosto, la vedetta divina.-, disse lui sicuro. Prese a stringere il gluteo, facendo scivolare la mano tra le gambe della giovane. Non portava mutande. Naturale: le Vestali dovevano possedere il minimo: la toga e il pugnale votivo.
-Non devo… sono vergine. Consacrata…-, sussurrò lei. Septimo si avvicinò, prendendole il viso tra le mani, fissandola negli occhi. Notò che quelli di lei luccicavano di lussuria a stento contenuta.
-Non lo saprà nessuno, Dursilla. Via, sorella. Già da bambina fosti molto bella e il tempo clemente ha solo accresciuto la tua beltà.-, disse, -Scommetto che in molti ti desiderano e tu desideri loro ma sei vincolata ai tuoi voti. Cedi, almeno una volta.-.
-Io…-, le parole di lei s’interrupero quando Septimo posò le labbra su quelle della giovane.
Strinse la sacerdotessa a sé, sentendone il corpo sodo contro il suo. La voleva. Ora. Accarezzò l’intimità rovente di lei da sopra la stoffa.
-Fa caldo.-, sussurrò staccandosi da lei.
-È vero…-, Dursilla ansimava. Septimo sapeva bene che non si sarebbe mai ribellata.
Lo voleva tanto quanto lui voleva lei.

-Più veloce!-, esclamò Socrax, -Per gli déi e i demoni tutti, più veloce!-.
-Si calmi! Non posso rischiare un incidente!-, esclamò il tassista.
-Invero, se non ti muovi rischierai ben di più! Io sono Socrax Proximo Savio, fui precettore dell’Imperator e di sua sorella Aristarda, fui tre volte Edile, Tribuno della Plebe e Pontefex Urbis per due anni prima di divenire il precettore dell’Augusteo, quindi esigo che tu infranga quelle leggi, ne va dell’Impero e della sua salvezza!-, ringhiò Socrax.
-Per gli déi!-, esclamò il grassone. Esitò solo un istante. Poi, innescando molteplici reazioni di aperta ostilità, compì una virata in una via laterale e, sollevando il veicolo ad altezze non consentite se non ai mezzi militari, sfrecciò verso il Palazzo Palatino.
Socrax sospirò. Il cuore pareva dover esplodere in petto, pregava di essere ancora in tempo.

I veli erano caduti. Dursilla Exima Nera era stupenda sotto quell’abito. Le cosce erano modellate, il vello del pube riccioluto, il petto supremo, i capezzoli irti e grossi, sfiorati dai capelli castani.
Il tempo ancora non aveva mostrato il suo tirannico appetito, divorandone la bellezza. Septimo Nero si avvicinò. Era turgido e dritto, il membro.
-Sorella mia amatissima…-, sussurrò, baciandola con la lingua e accarezzandola e scendendo sino al seno. Prese ad accarezzare i seni, -Permettimi di venerarti come la dea che servi e di cui saresti la miglior rappresentatnte.-, disse.
-Blasfemo.-, sussurrò lei gemendo mentre le dita di lui le accarezzavano l’intimità ancora sigillata dall’imene. Dursilla gemette. Accarezzò il petto villoso del fratello, scendendo poi sino al pube e al membro. Soppesò i testicoli, accarezzando il pene in modo dilettantesco. Septimo non commentò il fatto che finanche la più umile sgualdrina di Roma avrebbe saputo far di meglio.
-Fratello…-, esalò la giovane quando le dita di lui presero ad accarezzarle il clito più isistentemente. Le parole divennero gemiti, la bocca aperta, gli occhi semichiusi.
In piedi, Dursilla Exima assaporava di quel frutto proibito, le mani che accarezzavano goffamente la virilità e il petto del fratello. Stava godendo e lo sapeva. Le piaceva, lo bramava. Lui si chinò, leccandole seni, stomaco, pube, vulva e cosce.
Dursilla lo spinse contro il suo sesso, gemendo e godendo.
-Sorella… concedimi di omaggiarti con il mio sesso.-, disse lui sollevandosi dopo qualche minuto. Lei sorrise. Si distese sul tablinum, le gambe aperte e il viso ebbro di piacere, avendo avuto già un primo orgasmo.
-Prendimi fratello. Fammi tua!-, esclamò lei.
Lui appoggiò il pene alla vulva e spinse. Vi fu solo una breve resistenza, un gemito dolente. Poi l’imene di Dursilla Exima Nera cedette e Septimo entrò in sua sorella.

In quel preciso istante, nel Tempio consacrato alla Dea Madre del Kelreas, le quattro vestali di guardia al fuoco, inginocchiate come voleva la tradizione, videro la fiamma spegnersi e morire.
Non rimasero neppure le braci ardenti, neanche un tizzone. Solo cenere e legno semi-combusto.
Le sorelle la osservarono, mute di sgomento. Sapevano cosa dovevano fare.
-Invero, siamo maledette.-, mormorò quella piazzata a Ovest.
-La Luce della Dea ci abbandona.-, proferì quella ad Est.
-Il nostro vegliare non é servito.-, sussurrò quella a Sud.
-Abbiamo fallito.-, proclamò quella a Nord.
-Sventura! Sventura e perdizione su di noi!-, esclamarono tutte assieme estraendo i pugnali a foglia d’ulivo, -Sventura e perdizione su di noi, non sulla nostra gente, o Dea! Possa tu accogliere il nostro sacrificio espiatore!-.
Detto ciò, si pugnalarono, morendo. Fino all’ultimo, le sorelle sperarono, implorarono che la fiamma riprendesse ad avvampare. Morirono nella disperazione, abbandonate dalla Dea.
La fiamma non riapparve.

Socrax irruppe nel palazzo imperiale scansando diplomatici, ancelle e guardie. Giunto dinnanzi alle camere imperiali aveva il fiato corto. Sentiva qualcosa. Gemiti?
-Fermo!-, esclamarono le Guardie Palatine. Socrax scosse il capo.
-Fatemi passare! Per il fato dell’Impero!-, esclamò a sua volta.
Una delle guardie fece per attaccarlo vedendolo avanzare. Socrax semplicemente colpì alla gola.
La guardia si afflosciò tossendo. L’altro perse un istante. Il colpo alla mascella lo mise k.o.
Socrax aveva praticato per tutta la sua vita le arti del combattimento, pur non fregiandosene mai.
Aveva inflitto colpi non letali, le guardie si sarebbero riprese. E lui avrebbe scontato la sua pena.
Quel che importava ora era essere ancora in tempo.
Entrò. E ammutolì. Riconobbe la toga abbandonata a terra, riconobbe l’Imperatore mentre affondava nella giovane e riconobbe il viso di lei. Sentì le gambe cedere e cadde in ginocchio.
-Déi…-, sussurrò. Era tardi, era arrivato tardi. Aveva fallito.
-Sciagurato!-, gridò, -Sciagurato pazzo! Hai osato profanare colei che era consacrata alla Dea!-.
L’Imperator si girò, incurante della sua nudità. Dursilla Exima Nera cercò di coprirsi, scoppiò in lacrime. Septimo aveva il viso corrugato dalla rabbia. Ma a Socrax non importava. Non più.
-O folle! Tu corteggi la distruzione! Hai osato prendere una vestale! Hai osato profanarla!-, lacrime di sgomento e rabbia colavano ora lungo le gote del vecchio precettore, -La tua lussuria ha maledetto l’Impero! Se tu avessi un minimo di buonsenso, oseresti offrire la tua vita in espiazione e anche la sua!-,  gridò piangendo. Sentì dietro di sé le guardie ma non se ne curò. Aveva fallito.
Che altro importava? L’Impero era lordato, maledetto da quell’atto che mai, in seicento anni di regno, alcun regnante aveva osato commettere!
-Hai attirato su di noi l’ira degli Dei! Hai osato fare ciò che neppure i tuoi più dissoluti predecessori osarono! Tutti, finanche i barbari dell’Est e dell’Ovest, sanno bene che le Vestali della Dea sono sacre e inviolabili! Morte! Morte su di noi e sventura!-, detto ciò, Socrax chinò il capo in lacrime, piangendo. Le guardie, armi puntate a lui, guardarono l’Imperator. Dursilla singhiozzava a sua volta. Improvvisamente e oscenamente consapevole della profanazione che aveva compiuto, doppiamente grave e doppiamente punita.
Sapeva bene come Socrax che la aspettava una morte espiatrice. Ma sapeva anche che nessuna espiazione poteva cancellare ciò che aveva permesso, ciò che aveva fatto.
-Invero, Socrax… Tu hai firmato la tua condanna. Ma io sono clemente e ti offro il mio massimo perdono e la libertà se giurerai sugli Déi che nulla di ciò che hai visto é accaduto.-, disse Septimo.
Socrax lo fissò. Percepì la calma dell’Imperator, la trepidazione di Dursilla, l’indifferenza delle Guardie Palatine. Scosse il capo.
-Io non mi presterò a questo tuo sacrilegio, Imperator. Vado verso la mia morte con gioia.-, disse.
-Invero, così sia.-, a un gesto del regnante, Socrax fu sollevato dalle guardie.
-Ma ti chiedo una grazia.-, disse egli, -Che sia anche il mio ultimo dono per te, degenerato tra i miei allievi e mia somma vergogna!-.
-Chiedi.-, proferì Septimo Nero, rimettendosi la toga.
-Chiedo che Alexander Varus riceva la mia eredità e che venga esiliato dai territori a te soggetti.-.
-Perché?-, chiese l’Imperator, suo malgrado curioso.
-Per mia volontà.-, rispose Socrax, -Dopodiché sarò lieto di sottopormi a qualunque supplizio tu abbia pianificato per me.-.
L’Imperator tacque. Dursilla Exima Nera raggiunse la sua toga e se la rimise, senza avere il coraggio di guardare alcuno. Sangue le colava dalle cosce. Il simbolo della purezza immolata.
-E sia. Ma poi ti darai la morte, come gli antichi martiri.-, decretò Septimo Nero, il furore placato nella consapevolezza della prossima morte del suo ex mentore.
-Così sia.-, sussurrò Socrax. Fu portato via dalla Guardia.
L’Imperator guardò Dursilla e lei guardò lui. Piangeva sconvolta.
-Cos’abbiamo fatto?-, chiese. Septimo non rispose. Non vedeva motivo di parlare.
-Cos’abbiamo fatto?! Oh Dea! Mater Magna quid nos omnibus creavit! Miserere mihi!-, esclamò.
Parlava nella versione più arcaica della Lingua Licanea Primigena. Septimo fece per avvicinarsi.
Dursilla indietreggiò.
-Sei il Male! Mi hai corrotta! E hai corrotto tutto ciò che restava di buono a questo mondo!-, ringhiò la giovane. Afferrò lo stilo da scrittura.
-Desideri uccidermi?-, chiese Septimo, -E dire che ti piaceva…-, mormorò, venefico.
-Sei ripugnante! Non posso credere che nelle nostre vene scorra lo stesso sangue! Se solo… Se solo avessi il coraggio di ucciderti!-, sbraitò la sacerdotessa. La Guardia Palatina si piazzò davanti all’Imperator, per proteggerlo.
-Ma non ce l’ho. Sono una donna disonorata, spoglia di ogni dignità davanti alla Dea e priva di redenzione. Questo però ti dico, Imperator,-, e quanto venefico il suo tono in quella parola!, -Tu non rimarrai tale a lungo. Invero, anni turbolenti giungeranno. Carestia, malattia, guerra e morte. I vivi invidieranno i trapassati. Crolleranno invero i divini simulacri e tutta Roma sarà inghiottita dall’ecatombe!-, dopo questa frase rivolse lo stilo da scrittura verso di sé.
-Ma io non vedrò tutto ciò. Ti aspetterò nell’Ade, ove dimorano i fedifraghi presso gli Dei!-.
Detto ciò, si pugnalò al petto.

(Qui termina la ricostruzione)

Mi svegliai e fatti i miei esercizi mi apprestai alla colazione. Pane e una bevanda erbacea salutare furono il mio desco mattutino. Ero a metà del pasto quando li vidi arrivare.
Arbitrarii, i custodi della legge.
-Per ordine dell’Imperator, devi venire con noi.-, mi dissero. Obbedii.
Mi scortarono sino al Carcere. Sino a una cella. All’interno era un vecchio pesto e mal messo.
Lo riconobbi con un tuffo al cuore, chinandomi davanti a lui.
-Socrax! Mio magister! Cosa ti ha fatto questo mondo?-, chiesi. Lui scosse il capo.
-Alexander… Non temere che io ho già un piede oltre il fiume dei morti. Non aver tema per me ma preparati, ti verrà dato l’Abraxia. Lascia l’Impero di Septimo Nero. Vai dove desideri ma lontano, il più possibile. Custodisci le nostre tradizioni, se puoi insegnale ai barbari, insegna loro ciò che noi sappiamo affinché l’umanità non perda la luce che Roma avrebbe dovuto rappresentare.-, sussurrò.
-Maestro… cosa dici? Cosa accade?-, chiesi. Piangevo per quell’uomo che per me era come un padre e che non riuscivo a comprendere. Egli si chinò su di me.
-Invero, Septimo ha profanato una Vestale. Il fuoco della Dea si é spento nel Tempio. Non hai visto i palazzi. Tutti espongono fasci neri, fasci di lutto. L’intera città é maledetta, ormai ignorata dagli Déi.-, sussurrò. Io tacqui, inorridito. Eravamo perduti! Seicento anni di storia, di conquista e di bellezza e ora… Ora eravamo come morti pur essendo vivi. Era orribile!
-Porta quella lama via da qui, Alexander. Sarai dichiarato esule, persona non grata nel territorio di Septimo Nero. Vattene, non fare parola con nessuno di tutto questo perché farlo sarebbe la tua morte. Rifiuta onori e privilegi e vai con la benedizione dei pochi déi che ancora credono in noi, se ve ne sono.-, disse Socrax prendendomi per le spalle.
-E tu maestro?-, chiesi io. Lui chinò il capo. Io annuii, capii. Si stava sacrificando per permettermi di fuggire, di vivere.
-Non dimenticare. E non divenire ciò che ora odi. Ricorda: vivi retto, all’ombra del divino.-, sussurrò Socrax. Mi mostrò una boccetta.
-Cicuta?-, chiesi. Lui annuì.
-L’Imperatore ha ordinato che la bevessi. La berrò. Innalza una preghiera a Yneas perché mi conceda una vita degna e guardi la mia anima nel passaggio tra i mondi.-, disse il vecchio.
Annuii di nuovo. Socrax aprì la boccetta e sedutosi, bevve.
-Ora ti prego di lasciarmi, Alexander. Quanto accadrà sarà un dialogo privato, tra il Dio dei Morti e il sottoscritto. Non credo si gradiscano terzi incomodi.-, disse.
-Comprendo maestro.-, dissi uscendo.

Mezz’ora dopo, Socrax morì. A me fu consegnato l’Abraxia, l’arma che Layla stessa aveva brandito, eppure ormai quasi dimenticata dal mito se non da pochissimi eletti, secondo Socrax. I secoli non ne avevano in alcun modo scalfito la lama. Lo presi.
Divenni intimamente conscio che il mio maestro aveva ragione. L’Esilio mi attendeva.
-Addio, o Roma che fosti accolta tra le stelle del firmamento!-, esclamai.
Dopodiché, radunai le mie poche cose, pochi aver essenziali, balzai sulla mia biciclia personale, il mio mezzo di trasporto a due ruote adatto a tutti i terreni e partii.
Lasciai dietro di me il cuore nero dell’Impero di Septimo Nero.

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