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Nelle puntate precedenti:
Francesca credeva di aver sconfitto Linda fuori dal campo della gara di pompini corrompendo i giudici con il suo corpo, quando, come una doccia gelata, scopre che la stronza non solo ha risposto al suo attacco, ma ha addirittura usato il proprio culo per ritornare nella competizione. Francesca non sa cosa la sconvolga maggiormente: Linda che dimostra di essere disposta davvero a tutto per strapparle la vittoria? Il fatto che Daniele, il bel Daniele, il giudice di cui è innamorata, possa aver goduto maggiormente tra le chiappe di Linda che tra le sue cosce o le sue labbra? Che lei stessa non abbia il coraggio di dare il culo per raggiungere i propri sogni?
Nel frattempo, il rapporto tra Tommaso e Tania si sta incrinando sempre più: il ragazzo non vuole che lei lo lasci dopo che ha allontanato Linda, ma quello che il suo orgoglio ha ordinato sembra che il suo cuore non abbia affatto accettato. Sa che la colpa è tutta sua se si ritroverà di nuovo solo, e sa anche che questo lo distruggerà.
Dopo essere stata sverginata analmente con una brutalità che la disgusta, ormai Linda prosegue la gara di pompini senza più trasporto, spinta solo dall’inerzia, animata solo dall’ombra del furore che l’aveva portata a vincere la semifinale. La sua vita ormai ha raggiunto un livello deprimente che nemmeno quando era la vittima dei bulli avrebbe immaginato, e solo il sogno di poter tornare con Tommaso le dà la forza di alzarsi la mattina.

Capitolo 22

Tommaso controllò per l’ultima volta il contenuto dello zaino, quindi strinse i lacci e bloccò le cinghie.
– Siamo a posto? – domandò Tania, che sembrava impaziente di fare sfoggio dell’abbigliamento sportivo che indossava: un paio di pantaloncini corti rossi e arancioni ed una maglietta in goretex verde che, come al solito, aveva comprato una taglia o due troppo piccola. Il grosso seno era poi messo ulteriormente in risalto dall’azione degli spallacci di uno zainetto che non sembrava contenere molto. – Non è che dobbiamo andare nella giungla per una settimana.
Il ragazzo sollevò il proprio zaino, mettendoselo sulle spalle. – Non si sa mai.
– Senti, mi dispiace di averti promesso che saremmo andati in Val Morelli a mangiare al rifugio, – disse per la terza volta la ragazza, scusandosi, – e adesso andiamo solo in Val Sosio.
Tommaso fece mostra di un sorriso di accondiscendenza. – Non preoccuparti, Tania: apprezzo comunque la tua volontà di portarmi in montagna anche solo la mattina. Non è colpa tua se nel pomeriggio devi andare a sostituire un collega al lavoro.
– Già, bisogna mangiare. – rispose lei, annuendo. – Un’altra volta faremo un gran bel viaggio, magari un finesettimana alle Dolomiti, che ti piacciono tanto.
Lui la abbracciò e la baciò. – L’importante è che ci sia tu, poi ogni posto va benissimo. – le disse.
Tania sorrise felice, accarezzandogli dolcemente l’inguine, sebbene attraverso il tessuto tecnico dei pantaloni.
Tommaso non lo diede a vedere, ma mentre pronunciava quelle parole, per qualche motivo, si sentì morire. Per nascondere un eventuale, incontrollabile smorfia che avrebbe svelato alla ragazza il suo reale stato d’animo si avvicinò alla porta, l’aprì e precedette Tania all’esterno, la via del paese illuminata dalla luce quasi orizzontale dell’alba.
– Andiamo con la mia auto. – propose la ragazza, trotterellando al suo seguito, e prendendo da una tasca la chiave della Fiesta rossa di seconda mano accanto alla Punto di Tommaso. – Così ci fermiamo a fare benzina.

***

Seduta sul suo motorino parcheggiato un paio di metri più in là rispetto alla volta precedente, terminando una sigaretta che aveva rollato un paio di minuti prima, Francesca si chiese se ci fossero davvero sempre così pochi clienti nel bar Griso o se l’impressione fosse dovuta al parcheggio davvero ampio, che un tempo aveva ospitato anche le automobili dei clienti di un paio di altre attività commerciali che erano state chiuse ormai da tempo. In alcuni angoli, probabilmente quelli dove venivano lasciate meno macchine, l’asfalto era crepato e tra le strisce bianche ce n’erano altre verdi con un paio di macchie gialle.
La ragazza era arrivata presto, con un buon venti minuti di anticipo, intenzionata a voler vedere di nuovo il luogo tra l’edificio del bar e quello che doveva essere stato in passato un’officina meccanica dove era stata scopata contro un muro da Mauro, come se questo avesse potuto esorcizzare la volta successiva che, quella mattina, si sarebbe di nuovo trovata quella trave di carne nella sua povera fica. Perché era certa che si sarebbe di nuovo trovata accanto alla pila di pallet puzzolenti, con quello stronzo che spingeva dentro di lei nemmeno dovesse sfondare una porta con un ariete…
– Finchè si limiterà al buco davanti… – cercò di consolarsi, me l’idea di ritrovarsi a novanta gradi come Linda, ma con un cazzo sovradimensionato che le avanzava lungo l’intestino le causò un senso di nausea che risalì al volto nella forma di una smorfia di dolore.
Invece di andare nel vicolo, che comunque ci sarebbe stata ugualmente più tardi, approfittando anche del fatto che non ci fossero molti clienti, gettò il mozzicone della sigaretta a terra e, dopo aver controllato i suoi fondi trovati nelle tasche, fece un salto veloce nel bar, dove ordinò un cappuccino e prese una brioche.
Dieci minuti dopo e alleggerita di una banconota di cinque euro ma con un pacchetto di caramelle alla menta in tasca, Francesca uscì di nuovo, pronta ad affrontare qualsiasi scopata adesso che aveva una colazione calda nello stomaco. E doveva ammettere che, pur non essendo il bar più bello o alla moda di Caregan o nelle vicinanze, il Griso non era poi così pessimo quanto lo ricordava.
Tornò a sedersi al motorino, sentendosi più tranquilla, desiderosa di una seconda sigaretta, ma il risultato di lunghe sessioni di squat fece appena in tempo a toccare il sedile che una Subaru blu luccicante e tirata a lucido sobbalzò rumorosamente svoltando dalla statale ed entrando nel parcheggio. Il riflesso occhieggiò un paio di volte sullo spoiler posto sopra il baule mentre i freni facevano stridere le gomme a poco più di un metro dalla ragazza.
Il finestrino oscurato del guidatore si abbassò mostrando il volto disgustoso di Mauro, che le piantò gli occhi sul seno generoso. – Ciao, bella figa. – disse, prevedibile quasi più del sorgere del sole a oriente.
Francesca aveva respirato a fondo per rilassarsi già quando aveva riconosciuto l’automobile, ma il cuore batteva comunque all’impazzata, e non era quel battito felice che aveva accolto ogni apparizione del bel Daniele. – Ciao, Mauro. – disse lei, cercando di non mostrare nessuna emozione. – Ho bisogno del tuo aiuto.
– Lo so, bella figa. – rispose lui, appoggiando un braccio nel vano del finestrino. – E tu sai cosa voglio io.
Questa volta Francesca non riuscì a celare un’espressione di disprezzo sul suo volto. Scivolò dal sellino del motorino e, guardando Mauro gli disse: – Ti aspetto nel vicolo. – “Lurido pezzo di merda” riuscì a pensarlo soltanto senza farlo uscire dalla propria bocca. – Quando sarai in tiro troverai il posto dove infilarlo.
L’uomo mostrò quel sorriso sghembo che lo rendeva ancora più – Oh, no. Oggi niente vicolo.
Francesca, che aveva percorso quasi un paio di metri, tornò indietro. L’idea di farsi fottere in un vicolo non le piaceva, ma, in quel caso, una variazione di cosa temeva quasi la terrorizzò. – Cosa?
– Sali in macchina, bella figa. – le ordinò Mauro, indicando il sedile del passeggero con un cenno del capo. – Andiamo in un posto migliore.
Francesca non apprezzò molto la proposta, la sua mente che ripescava ogni possibile problema collegato alla sua presenza su un’auto da sola con quel pervertito, che non avrebbe avuto problemi ad allungare le mani e metterle ovunque.
E poi odiava fare sesso su un’auto, soprattutto su quella.
Ma, nonostante questo, dopo qualche istante trascorso a pensare, non vedendo alternative, decise comunque di accettare la proposta di Mauro. Girò attorno al cofano, aprì la portiera e salì a bordo.
Fu stupita nello scoprire quanto fosse pulita l’auto, nemmeno fosse uscita mezz’ora prima dalla concessionaria: non c’era un pezzo di carta a terra o una particella di polvere sulla plastica della plancia. Evidentemente, quando Mauro non era a scuola a fare il coglione, o a cercare di impalare qualche “bella figa” con il suo cazzo sovradimensionato, si prendeva cura della sua auto. Cura maniacale della sua auto, più esattamente. Il sedile era uno di quelli da rally, che avvolse la ragazza fino a causarle un senso di claustrofobia, scomodo più di quanto si fosse aspettata. Però, pensò, tutto sembrava indicare che, almeno, non avrebbero fatto sesso in auto: di certo, l’uomo non avrebbe voluto sporcare gli interni di sborra o bava.
– Legati, bella figa. – le ordinò Mauro, impaziente di partire.
Francesca controllò a destra, ma non vide l’ancoraggio pendere dal telaio. Confusa si guardò intorno, notando solo in quel momento che il pilota indossava una cintura da rally, a quattro punti.
“Dannazione” pensò, avendone indossati un paio in precedenza, e trovandoli inutilmente scomodi. Sollevando una spalla dopo l’altra, afferrò e fece scivolare davanti al suo corpo le due metà della cintura, bloccandole davanti all’ombelico infilando la fibbia nell’ancoraggio con un sonoro click. Se le cinture normali delle auto le davano fastidio perché le si infilavano tra i grossi seni, queste, simili a bretella, le premevano i capezzoli dolorosamente.
La macchina fece un balzo all’indietro, Mauro che nemmeno si sporse per vedere attraverso il lunotto ma controllando la repentina manovra dallo specchietto retrovisore esterno ed interno, quindi, ancora prima che l’auto riuscisse a fermarsi del tutto, scattò in avanti, la mano del piotache sembrava non avesse finito di riposizionare l’asta del cambio.
Francesca si lasciò scappare un grido di spavento, afferrando con una mano il lato del sedile e con l’altra la maniglia sopra la portiera. – Non correre! – lo implorò.
L’uomo ridacchiò, poi si immise nella statale senza nemmeno assicurarsi che non giungesse qualcuno. L’auto scodò, quasi volesse scagliare il bagagliaio oltre la strada, poi, con qualche movimento di assestamento, la Subaru si raddrizzò, procedendo a grande velocità lungo la striscia asfaltata. In pochi istanti gli edifici e gli alberi che affiancavano la statale cominciarono a sfrecciare ben oltre il limite di velocità riportato sui cartelli rotondi bianchi e rossi.
– Mauro… rallenta, per favore. – lo implorò Francesca. Si sentiva come se lo scomodo sedile la volesse fagocitare come le amebe facevano con batteri più piccoli nei filmati che aveva visto nelle ore di scienze.
Lui sogghignò a quelle parole. – Quale favore volevi, bella figa?
Lei non distolse un istante lo sguardo dalla strada che, a quella velocità, sembrava dovesse terminare da un istante all’altro. Il camion che passò sull’altra corsia e che lanciò una strombazzata di clacson in risposta alla guida folle sembrò una macchia sfuocata visto dal finestrino del guidatore. – Io… oggi pomeriggio tu devi… ehm, dovresti fermare Linda e vietarle di arrivare alla vecchia segheria e… – lanciò un grido quando il lato destro del sedile le balzò addosso, la macchina perse aderenza sull’asfalto e iniziò a ruotare su sé stessa e…
Poi, con un sospiro di sollievo, Francesca si rese conto che, in realtà, Mauro aveva fatto una svolta ad alta velocità, facendo stridere le gomme nemmeno stessero imprecando, e ora la Subaru sobbalzava lungo una strada sterrata in mezzo alla campagna, tra prati che si perdevano verso le montagne a sinistra e si infrangevano contro un bosco a destra. Una nuvola di polvere si alzavano dietro di loro mentre i copertoni sembravano litigare con i sassolini della strada, gettandoli a manciate ovunque.
Con la medesima grazia dimostrata nell’uscire dalla strada statale, Mauro frenò accanto ad uno spiazzo sulla carrareccia, facendo sovrasterzare l’auto e palesando a Francesca per quale motivo la sua Subaru fosse equipaggiata con quelle particolari cinture, nonostante sembrava volessero conficcarle i capezzoli all’interno delle tette. I battiti cardiaci della ragazza avevano raggiunto livelli sperimentati poche volte fuori dalla palestra.
La polvere sollevata dalla frenata impiegò qualche secondo ad essere sospinta via dal vento, le sospensioni che finivano di dissipare l’energia accumulata durante il testacoda facendo dondolare leggermente l’auto.
– Cosa mi dicevi, bella figa? – domandò Mauro, dopo aver tirato il freno a mano e slacciato la cintura. Si sporse verso la ragazza.
Francesca ebbe bisogno di qualche istante per riprendere il fiato e lasciare che il suo cuore rallentasse, osservando, senza guardare, l’ambiente oltre il parabrezza che iniziava ad affiorare dalla polvere in aria. Si chiese chi avesse avuto la folle idea di dare una patente di guida a quello stronzo, poi ricordò che il padre era un politico e probabilmente, dopo una telefonata, la foto e i dati anagrafici di Mauro erano stati stampigliati su una tessera di plastica rosa senza che qualcuno avesse fiatato.
Vide una mano di Mauro avvicinarsi a lei: si aspettò che le palpasse una tetta, ed invece posò un dito sulla placca in metallo sul suo ventre, percependo la costrizione della cintura allentarsi. Ma subito dopo la mano le afferrò davvero un seno, stringendo un po’ e muovendolo.
Se fosse stato chiunque altro, Francesca gli avrebbe piantato una gomitata in faccia, ma Mauro, nonostante tutto, le incuteva terrore. Davanti a tutti si comportava come un coglione prepotente, ma la ragazza temeva che, lontano dalla vista delle altre persone, potesse essere anche peggiore, e, al pari di una fiala di nitroglicerina, non voleva che esplodesse facendolo agitare.
Nonostante ciò, quella mano sembrava le stesse stringendo il cuore, provocandole un senso di fastidio che faceva fatica a contenere. Dovette trattenersi dal colpire quel braccio quando disse, chiudendo gli occhi per non vedere l’eccitazione sulla faccia di Mauro: – Questo pomeriggio c’è la finale della gara di pompini, e ti chiedo, per favore, di impedire a Linda di raggiungere la vecchia segheria per tutta la durata della finale. – Aggiunse anche il percorso che aveva scoperto aveva seguito la bionda la volta precedente e l’ora di inizio dell’esibizione.
La mano di Mauro continuava a tastate il seno, quasi volesse mungerla. – Ok, bella figa.
– E nessuno deve sapere che te l’ho chiesto io.
– Ok, bella figa. – ribatté divertito. – Pensi che sono stupido da dire che mi hai mandato tu?
Francesca ritenne più salubre non rispondere. Aprì gli occhi quando finalmente il suo seno si trovò libero da quella morsa. Vide Mauro aprire la porta e mettere un piede fuori, poi voltarsi verso di lei.
– Scendi anche tu, bella figa.
Francesca lo fissò per un istante, poi guardò fuori dal finestrino e dal parabrezza la campagna attorno a loro. Di colpo, la macchina non le sembrò così scomoda e ciò che li circondava le apparve come un luogo remoto in mezzo al nulla, disperso in una pianura russa con le civiltà a centinaia di chilometri di distanza. Se Mauro l’avesse picchiata a morte nessuno avrebbe sentito le sue grida, e il suo cadavere abusato sarebbe stato ritrovato anni dopo, un mucchio di ossa sbiancate dal tempo sotterrate nella terra del bosco lì vicino.
Francesca pensò che la sua fantasia stesse correndo un po’ troppo, rendendosi conto che erano forse a venti minuti a piedi dal bar Griso, e, comunque insicura, scese dall’auto. Venne accolta da un’aria frizzante e gli unici suoni che le giunsero alle orecchie furono il canto degli uccelli, nascosti nelle frasche degli alberi che contornavano lo spiazzo di ghiaia.
Si avvicinò a Mauro passando davanti alla macchina. – Hai scelto un gran bel posto per un picnic. – disse, cercando di usare dell’ironia per nascondere il suo nervosismo. – O per fottere. Ma in entrambi i casi, preferirei sdraiarmi sopra un plaid.
Mauro rise. – Ma non serve che ti sdrai, bella figa.
Le sopracciglia della ragazza si sollevarono mostrando la curiosità che quelle parole avevano prodotto.
– Mi hanno detto – continuò l’uomo, – che hai fatto una bella gara, e che sei brava a fare i soffocotti. – Si slacciò il bottone dei jeans e abbassò la zip. Un attimo dopo aveva in mano il suo cazzo sovradimensionato, la cappella rossa minuscola rispetto all’asta. Una goccia di precoito scivolava fuori dal meato, luccicando al sole. – Questa volta voglio che mi dai la tua bocca come hai fatto con Daniele.
Francesca lo osservò con profondo disgusto, la figa che già le doleva al ricordo di quanto era accaduto l’ultima volta che quel cazzo era scomparso nel suo corpo. Sentì la necessità di fuggire crescere in lei come quel mostro cresceva nella mano di Mauro. Questa volta lo voleva nella sua bocca… cazzo, che schifo. E magari lo stronzo avrebbe preteso pure che si bevesse la sua sborra…
Un angolo della sua bocca si abbassò all’idea, ma cercò di consolarsi pensando che, almeno, non lo voleva nel suo culo. Forse poteva considerarsi fortunata, dopotutto.
Mauro le lanciò uno sguardo pieno di impazienza e questo le fece comprendere che non poteva più tentennare, temendo il suo cazzo e la sua rabbia ben più del suo cazzo e basta. Meglio prenderlo in bocca così che con le ossa rotte.
– D’accordo. – disse con un filo di voce. Si avvicinò a lui e si sedette sui calcagni davanti al cazzone e al suo pene. Se prima era sembrato grande, da quella visuale appariva mostruosamente esagerato: alla ragazza vennero in mente quelle foto di pornostar che, per mostrare le dimensioni del cazzo gigante che stavano per fottere, vi avvicinavano l’avambraccio. Nel suo caso sarebbe servita anche la lunghezza della sua mano, constatò mentalmente, e la cosa non la rassicurò affatto.
Lo afferrò, accorgendosi per la prima volta quanto fossero piccole le sue mani. E corte le sue dita, notando che il pollice, stringendo l’asta del cazzo, non sfiorava nemmeno la punta dell’indice o del medio.
– Togliti la maglietta, bella figa. – disse Mauro. Per qualche motivo, a Francesca non sembrò tanto un ordine quanto un consiglio.
Lei alzò lo sguardo verso di lui. – Vuoi vedere anche le mie tette? – esclamò, cercando di trattenere la rabbia che improvvisamente era esplosa in lei.
Lui annuì. – Toglitela, bella figa, che è meglio. – ripeté. – Fidati.
Francesca fu sul punto di ribattere, ma lo sguardo dell’uomo le fece vedere con gli occhi della mente sé stessa tramortita e piena di escoriazioni e sporca di sangue, sdraiata su un fianco in mezzo a quello spiano, i pantaloni e le mutande a metà delle gambe, con lui che le sfondava il culo. – Va bene. – rispose. Lasciò il cazzo, prese il fondo della maglietta nera che aveva indossato proprio per non mostrare troppo i capezzoli, e se la sfilò. Le grosse tette sobbalzarono al movimento del tessuto e alla propria, improvvisa libertà.
La ragazza non riuscì a trattenere uno sguardo di sfida all’uomo, il quale stava contemplando il capolavoro che era appena apparso sotto il suo cazzo, che non commentò verbalmente, ma era sufficiente l’espressione della sua faccia per comprendere quanto apprezzasse.
Francesca si voltò, scoprendo un alberello a meno di un metro da lei. Lanciò nella sua direzione la maglietta e un ramo la prese, lasciandola dondolare nel leggero vento che scivolava nella campagna.
Tornò a concentrarsi sul suo lavoro, stringendo di nuovo tra le mani il cazzo. Appoggiò le labbra sulla cappella, rabbrividendo all’idea di cosa stesse facendo: l’odore che si sollevava dall’inguine era forte, muschiato, non esattamente quello che sperava di trovare in un uomo che avesse l’abitudine di lavarsi almeno un giorno su due. Le mani cominciarono a muovere la pelle lungo l’asta in movimenti alterni, mentre la lingua scivolava, piatta, sul glande dal gusto salato. Fece un giro completo della cappella, poi dovette trattenere la nausea.
Non andava bene, pensò. Mauro si sarebbe aspettato qualcosa di meglio di quello, ma non aveva intenzione di mettersi il cazzo tra le fauci. Solo all’idea provava un senso di acidità in bocca, dietro la lingua, e non si sarebbe meravigliata se, prima di raggiungerla, si fosse zangolato pensando al loro precedente rapporto, senza poi pulirsi: in effetti, non si sarebbe meravigliata se quel sapore strano non fosse altro che spermatozoi morti qualche ora prima.
Doveva fare comunque qualcosa, anche solo per smettere di vedere il suo corpo martoriato che si muoveva spinto dai colpi d’inguine di Mauro perché non l’aveva soddisfatto. Poi la brezza che le accarezzava le tette le fece venire un’idea che considerò passabile: si sollevò un po’, senza lasciare il cazzo con le labbra, e abbracciò l’asta con le bocce. Se lui aveva il cazzo gigante, lei aveva delle tette maestose, e queste ultime avrebbero battuto qualunque nerchia.
Mise le mani sulle tette, stringendole, sentendo il cazzo bollente di Mauro scaldargliele, il battito cardiaco dello stronzo che si propagava nel grasso delle sue bocce, come se i loro cuori dovessero battere allo stesso ritmo, pensiero che al contempo la fece sorridere ed inorridire. Cominciò a muovere su e giù le bocce, masturbando Mauro come probabilmente non gli era mai successo. Alzò lo sguardo verso l’uomo, che sorrideva lascivo.
Lei gli restituì il sorriso con lo sguardo, poi riprese e a succhiare il glande, facendo scivolare la lingua sotto la parte che sporgeva. La cosa fu un errore perché le lasciò un sapore disgustoso, qualcosa che probabilmente si poteva trovare solo leccando le griglie dei pozzetti di scolo dei bagni delle palestre. Nonostante questo, emise un paio di gemiti di approvazione.
– Brava, puttanella. – mormorò Mauro, mettendo una mano tra i capelli scuri della ragazza. – Lo so che fai tanto la difficile, ma vuoi il mio grosso cazzo.
“Meglio se taccio” pensò la ragazza, chiedendosi quanto donne, dopo la prima esperienza, volessero tornare con Mauro. Probabilmente qualcuna poteva esserci, ma evidentemente lui non l’aveva mai trovata.
Passò quasi un minuto in quella condizione, Francesca che si chiedeva quanto ci avrebbe impiegato Mauro a venire. Di solito, i ragazzi che si portava a letto e a cui faceva una pompa duravano poco, trenta secondi al massimo, nemmeno dovessero vincere una gara di velocità. Ovviamente, non si faceva illusioni e sapeva di essere lei a eccitarli troppo con il suo corpo perfetto, e solo pochi avevano la capacità di resistere un minuto o addirittura due. Mauro, si chiese, quanto sarebbe durato? Ancora a molto? L’ultima volta non aveva dimostrato di avere la resistenza di un maratoneta, pensò la ragazza con sollievo.
E, soprattutto, avrebbe dovuto bere la sua sborra? Odiava farlo, la disgustava, per quanto con Daniele fosse stato differente. Ma Mauro? In altre condizioni non l’avrebbe fatto, inorridendo all’idea di inghiottire qualcosa che era stato nei coglioni a macerare, ma Mauro… sputare il suo seme sarebbe equivalso a farsi prendere a botte fino a…
Improvvisamente, la mano che aveva appoggiata sulla testa divenne più pesante, quasi come un macigno, e il cazzo scivolarle in bocca. La cappella superò le labbra, e dovette lasciarlo con le mani o avrebbe inghiottito anche quelle. Sbarrando gli occhi, urlando, per quanto emettesse suoni inarticolati privi di senso, alzò le mani, afferrando il polso di Mauro. Subito si rese conto che non sarebbe riuscita a fare nulla per fermarlo.
– Ferma, puttanella. – disse Mauro, la voce che sembrava voler far accettare a Francesca il suo squallido destino. – Voglio fottermi la tua bocca fino in fondo.
A quelle parole Francesca andò nel panico, urlando ancora più forte, ma ben presto l’avanzata implacabile del cazzo nella sua bocca le oltrepassò le tonsille e le si infilò nella gola, facendola impazzire completamente. Sentiva la mascella aprirsi completamente e la lingua appiattirsi alla pressione dell’asta del cazzo, che era quasi ancora più disgustosa della punta. La mano la afferrò per i capelli, tirandoglieli.
Percepì la gola gonfiarsi per accogliere la cappella che era scesa fino in gola, poi la sentì retrocedere. Per un istante la ragazza sperò fosse finita lì, che glielo tirasse fuori, ma poi un colpo di bacino dell’uomo glielo fece sprofondare di nuovo nell’esofago. Iniziò a piangere, pensando contemporaneamente che quel pezzo di merda la stava uccidendo con il suo cazzo e all’idea idiota di soffocarsi infilandosi in gola un grosso wurstel che fosse caduto e rotolato per terra.
Si sentiva mancare il fiato e cercare di spingere con la mano libera contro l’inguine di Mauro non serviva a nulla. I suoi colpi si susseguivano e sembravano continuare in eterno, o almeno fino a quando non fosse morta per mancanza di ossigeno.
Poi, all’improvviso, l’uomo lanciò un grido di piacere, mollò uno schiaffo in faccia a Francesca e lei sentì il cazzo nella sua bocca vibrare, contrarsi e rilassarsi, quindi un liquido caldo schizzarle nell’esofago e un odore disgustoso riempirle le narici.
“Adesso che sei venuto lasciami!” lo implorò con la forza del pensiero, mentre il cazzo restava in fondo alla sua gole, quindi si accorse di qualcosa che fino a quel momento, data la disperazione, non aveva notato: un senso di nausea le stava montando dentro a una velocità mai provata prima.
Sentì lo stomaco contrarsi dolorosamente una volta, poi una seconda ed una terza ancora più forte. Con il suo sommo disgusto, sentì la colazione, distrutta in parte dagli acidi, risalirle lungo l’esofago e riversarsi nella bocca, ora in parte libera poiché il cazzo stava uscendo velocemente, probabilmente ritirato da Mauro che aveva una certa esperienza nella cosa.
Ma il cazzo si fermò appena prima di uscire completamente dalle labbra e, come un tubo dell’acqua con un dito a bloccare parte dell’uscita fa spruzzare più lontano, Francesca si ritrovò a schizzare vomito ad alta pressione ovunque fuori dalle labbra e, non potendo riversare tutto attraverso la bocca, parte della brioche, del cappuccino e della sborra raggiunsero l’esterno attraverso le narici.
Quando Mauro la lasciò, Francesca cadde a terra, sconvolta al punto tale da piangere strillando. Percepiva un sapore acido, orribile in bocca, e la gola le bruciava. Se non fosse stato per il fatto di aver appena rigettato tutto quanto aveva mangiato, il disgusto l’avrebbe fatta vomitare di nuovo. E l’aspetto che più la inorridiva era aver vomitato dal naso: quello andava molto, molto oltre ogni possibile umiliazione avrebbe voluto sperimentare.
– Brava, puttanella. Ottimo lavoro. – commentò Mauro, osservando il suo cazzo e le sue gambe sporche di chimo semidigerito. Si afferrò il pene con una mano alla base, lo fece risalire fino alla punta e, con una mossa rapida del polso, gettò il vomito raccolto lontano, poi si sollevò i pantaloni. – Se vuoi godere di nuovo così, chiamami.
– Vaffanculo! Vaffanculo! – gridò la ragazza, le parole rotte dal pianto, ma lui non la sentì: la portiera si era chiusa con un tonfo e la macchina era ripartita sollevando ovunque ghiaia.
Francesca rimase per quasi dieci minuti in posizione fetale, prima piangendo, poi limitandosi a lacrimare, maledicendo tutto e tutti. Voleva vincere quella gara per farsi un futuro e invece sembrava stesse gettando alle ortiche la sua dignità.
Alla fine, si alzò più per il timore che passasse qualcuno e la vedesse in topless e sporca di vomito che per altri motivi. Si domandò cosa avrebbero pensato scovandola in quella condizione, e allora sarebbe finita a livelli di popolarità inferiori a quelli di Linda quando era solo una sfigata. Di certo farsi rompere il culo per tornare in una gara sarebbe stato socialmente più accettabile che farsi spompinare fino al vomito per pagare uno psicopatico ad agire contro una ragazza di diciotto anni.
Si guardò le tette, sporche di colazione disciolta dagli acidi dello stomaco, e una nuova ondata di nausea si presentò. Con una smorfia si trattenne dal rigettare di nuovo. Di certo non avrebbe potuto tornare a casa in quelle condizioni.
Lanciò uno sguardo alla maglietta pulita, che pendeva dal ramo. – Di certo quello stronzo non è nuovo a queste cose. – mormorò. La prese con una mano che controllò essere pulita e attraversò la strada, conscia che i prati in direzione del bosco erano tagliati a metà dal ruscello della valle in cui si trovavano. Li avrebbe potuto lavarsi un po’ il seno, sciacquarsi la bocca e poi tornare al bar per recuperare il suo motorino. Si ricordò della confezione di mentine che aveva in tasca e decise che l’avrebbe consumata tutta prima di provare a parlare con chiunque.
Si ripromise che non avrebbe mai più chiesto aiuto a Mauro per nessun motivo al mondo. Piuttosto la morte, si disse.

CONTINUA…

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