Mischiai le lame, lentamente, con estrema calma.
La donna, davanti a me, pareva in attesa. Trepidante.
Era una bella femmina: carnagione color caffélatte, appena più scura, occhi scuri, duri e forti.
La veste che indossava, tipica dei popoli del deserto, era di fine seta, color verde chiaro. Un capolovaro, quasi quanto le trecce che scendevano verso le reni della donna, scure come uno stormo di corvi.
A far capire il suo rango erano le vesti, bordate di filigrane dorate, i gioielli che portava (una cavigliera argentea e dei bracciali dorati) e per finire i tatuaggi che emergevano lungo le braccia, scomparendo e riapparendo a ogni movimento, coperti dalla seta dell’abito.
La vedevo fissarmi, ma in quel momento, non aveva alcun potere. Fuori poteva muovere carovane, anche eserciti, ma non dentro quest’altro spazio e questo tempo, qui lei è in attesa del mio pronunciarmi. E sapeva di non potermi forzare.
-Dunque?-, chiese. La ignorai. Tagliai il mazzo, rimescolando nuovamente. Lei mi fissò. Impazienza, forse rabbia trasparivano dai suoi occhi. Inspirai ed espirai. La sala era poco arredata: un tavolino, due pouf morbidi in cui sprofondare, un letto.
Era la mia stanza. La mia prigione.
-Sai che non ho molto tempo.-, disse.
La fissai. Con una freddezza che giungeva dalla sicurezza.
-Mia signora. Tu hai tempo. Hai tutto il tempo del mondo. Hai richiesto una lettura, ma simili cose non vanno affrettate.-, dissi. Lei snudò i denti.
-Vuoi che ti faccia frustare?-, chiese.
-Potresti. E potrei morire. E morendo perderesti i tuoi soldi. È questo che vuoi?-, chiesi. Lei tacque. Colpita, seppur arrabbiata. Avevo vinto quel piccolo scontro.
Ero vestito solo di un dothi grigio, un panno avvolto in vita. Era l’unico indumento che avevo. In realtà non era neppure mio.
Perché ero uno schiavo. Merce, pura e semplice. La Confederatio Licanea non aveva mai abolito la schiavitù nei regni dell’antica India e Arabia, limitandosi a tentare di condannarla in Africa ma finendo con l’abdicare al tentativo, preferendo accettare che essa permanesse.
-Non dimenticare il tuo posto.-, ammonì.
-Non lo dimentico. Io sono lo schiavo, l’oggetto. Tu la padrona. La mano che mi muove.-, dissi.
-Non ti ho comprato per farmi spazientire.-, sibilò lei. Diedi un’ultima mescolata al mazzo.
-No. E neppure per altro. Mi hai comprato per queste. Per la mia capacità di leggerle.-, dissi.
Mesi prima.
La mia città era in fiamme. Combattere era inutile: i predoni avevano sfondato a mezzanotte. Supportati da armi ben più tecnologiche, facevano piovere rovina, uccidevano e depredavano.
Combattei con la forza della disperazione, ma non ero un guerriero. Non lo ero mai stato.
E ricordai le carte. Il Mondo, la Torre, l’Appeso.
Le mie tre carte. Le carte predettemi da Juhadirhastra, sommo veggente. Lui disse che io possedevo la vista. Io dissi che si sbagliava. Dimostrò il contrario. Mi insegnò. Appresi. Sino a prendere il suo posto alla sua morte.
Le carte non avevano un nome, ne avevano moltissimi. Erano temute e apprezzate, così come me.
All’età di vent’anni, la mia professione divenne quella. All’età di trenta, avevo visto molti luoghi e parlavo sia il Paharasi e che la lingua di Licanes. Le carte non avevano mai smesso di accompagnarmi.
E quando combattei, erano con me. E quando infine fui scagliato a terra, dopo aver ferito due predoni, furono con me.
E quando si sparsero sul suolo, fu uno dei predoni a ordinare, in un dialetto poco comprensibile, l’alt ai suoi pari.
“Questo qui lo vendiamo.”, aveva decretato. Attorno a me solo sangue e rovina. Andati erano i giorni lieti del passato.
Tre settimane prima.
Mi avevano curato, nutrito. I predoni si erano assicurati che vivessi. A ogni costo. Intendevano sfruttarmi, ma non per il mio dono. Tanto meglio. Le carte avevano parlato chiaro.
Nessuno di loro sarebbe vissuto tanto a lungo da poter godere dei frutti della mia vendita.
Tale era la fine di coloro che costruiscono la propria fortuna sulla rovina d’altri.
La cosa non mi dava alcun piacere: le loro morti non mi restituiranno la mia città, i miei amici o la vita che avevo prima che si abbattessero su di noi. I loro mezzi a levitazione superano rapidi il deserto, oltrepassano città e villaggi minori. I pochi superstiti della mia patria si chiusero nel mutismo, alcuni aggrappandosi disperatamente alla vita, altri lasciandosi travolgere dal nichilismo. Io ondeggiai tra i due estremi, decidendo infine di vivere, perché non era ancora finita.
Giunti infine a Radamah, nel Golfo Arabico, fui ceduto a un mercante di schiavi.
L’uomo, grasso, untoso e laido, mi squadrò, contemplandomi da ogni angolazione dopo che i predoni se ne furono andati.
-Un fisico gracile, ma muscoloso in alcuni punti. Se non ti vogliono per quelle…-, indicò le carte, -Potrò sempre venderti come schiavo per qualche casa di piaceri.-, valutò.
Tacqui, preferendo tacere. Mi ordinò di sedermi a un tavolo.
-Ora prendi le tue carte. E leggi per me.-, ordinò.
Lo feci. Estrassi tre lame dalle maggiori.
L’Imperatore. Il Carro. La Morte.
-Sei giunto da una famiglia ricca, e sei il degno figlio di tuo padre. Hai guadagnato molto e tuttavia non sei appagato. Ti aspetta la fine di ogni uomo, quella che forse non vuoi ma a cui non puoi fuggire. La morte è una porta. Per te, come per tutti. Cambia solo il modo in cui la si varca.-, dissi fissandolo.
Il mercante annuì. Sorrise oscenamente mostrando i denti macchiati di betel.
-Sei bravo a raccontarle. E ci hai preso sul mio passato e sul mio presente. Notevole. Questo vuol dire che posso venderti a un prezzo ancora maggiore!-, esclamò. Io lo fissai. Non capiva. Non avrebbe capito. Non gli interessava farlo.
Una settimana prima.
Shalim Rufik, così si chiamava il mercante, tenne fede alla sua parola. Ogni volta mi esponeva, ma il pubblico a cui si rivolgeva prediligeva giovani schiave, spesso e volentieri appena maggiorenni, per soddisfare i propri appetiti sessuali e nerboruti uomini da usare come bestie da soma.
A chi poteva interessare un veggente? Solo a qualcuno che avesse necessitato di conferme. Di certezze.
Ma la verità non si limitava a ciò: erano spaventati. Esistevano due tipi di veggenti.
Il primo erano i ciarlatani. Si facevano sborsare i soldi, tanti, per sciorinare predizioni gloriose e favorevoli, brevi e semplici.
Io appartenevo al secondo tipo, coloro che sanno. Coloro che, anche a rischio della propria testa, diranno il vero.
Piacevole o meno.
Il mercato degli schiavi stava concludendosi e Shalim scosse il capo.
-Per la miseria! Nessuno sembra volerti! Beh, potrò sempre parlare di te a Jubal. Ma lui è uno che… non bada molto al lato nascosto delle cose.-, disse. Contò le monete. Erano davvero molte. Su venticinque suoi schiavi, venti erano stati veduti.
-Non sei appagato.-, notai. Mi era concessa più libertà di altri. Mangiavo meglio e venivo curato. Ero merce pregiata, per ora. Shalim mi fissò, con rabbia.
-No. Non lo sono. Ma lo sarò. La tua vendita mi renderà schifosamente ricco!-, esclamò.
-Lo farà?-, chiesi, -E ciò ti appagherà?-.
-Stai zitto!-, ringhiò Shalim. La sua sicurezza si era incrinata rivelando tutte le sue fragilità.
-È questo il punto. Nessuno vuole un veggente che dica il vero. La verità voi la odiate.-, dissi.
-È la tua sicurezza di essermi indispensabile a permetterti l’insolenza! Ma se credi che non abbia il fegato di farti fustigare a sangue, ti sbagli di grosso!-, minacciò lui. Lo fissai, espirando appena. Estrassi piano una carta dagli arcani maggiori.
-La Ruota.-, dissi. Lui la fissò, lo sguardo bovino e il silenzio rivelavano la sua incapacità di tradurre in conoscenza ciò che vedeva.
-Tutti gli esseri seguono la Ruota.-, dissi riponendo la carta e mischiando il mazzo. Sorrisi.
-Sono io che decido il mio destino.-, replicò Shalim.
-Sì. Come tutti. Ma le nostre decisioni non sono assolute. Non scongiurano il fato. Mai.-, dissi.
A quella, il mercante non rispose.
-Spero di venderti quanto prima.-, sibilò, -Dovessi anche cederti per un pugno di monete.-.
-Oh… non temere. Non rimarremo insieme a lungo.-, risposi. Lui bofonchiò una risposta.
-Puoi scommetterci.-, disse.
Tre giorni prima.
La folla era composta dal solito codazzo di nobili di second’ordine.
-Cinquanta!-, esclamò un grassone obeso su una portantina a levitazione.
-Sessanta!-, rilanciò una donna dal viso particolarmente brutto e magra.
-Settanta!-, ragliò un vecchio con l’ausilio di un vox amplificator.
-Ottanta!-, alzò il grassone.
-Ottanta! Chi offre di più?-, chiese Shalim, entusiasta. Titubanze, silenzio.
-Ottanta e uno! Ottanta e due! Ottanta e tre!-, esultò il mercante.
-Venduta a Mhuadj al-Barhahni!-, esclamò indicando il vincitore dell’asta che, scortato da due guardie, fece avanzare la lettiga a grav per arrivare a prendere la catena. Tirò verso di sé, costringendo la giovane all’altro capo a caracollare incespicando verso di lui.
Quando la giovane, dalla pelle di porcellana, i capelli corti neri e gli occhi a mandorla tipici dell’Asia, crollò carponi, lui sorrise. Allungò una mano palpando un gluteo attraverso la veste.
-Oh, mi divertirò moltissimo!-, esclamò. Gli altri presenti lo fissarono con disgusto malcelato, o proprio apertamente manifesto. Tranne una.
Espirai ancora. Presto sarebbe toccato a me.
-E ora, il prossimo soggetto.-, dichiarò Shalim.
Avanzai sul palco in legno, sentendo la superficie ruvida sotto le palme dei piedi.
-Il prossimo articolo non è per tutti, anzi.-, esordì il mercante mentre la folla mi squadrava.
-Come vedete, non è particolarmente forte, né particolarmente attraente. Ma ha una particolarità, che da sola lo rende infinitamente più prezioso di tutti gli altri.-, disse.
Pausa, uno stacco per acuire l’attenzione. Shalim era sicuramente abile a creare pathos.
-Quest’uomo, di trentadue anni, è un veggente!-, esclamò mostrando il mio mazzo di carte.
Le razioni esplosero, tutte assieme e varie.
-È una bufala! Non ci credo!-, esclamò la vecchia brutta.
-Uno così porta male. L’Altissimo non guarda di buon occhio uomini che praticano simili cose.-, ammonì un altro.
-Come facciamo a essere sicuri che sia un veggente?!-, domandò un altro.
-Signori, signori. Credete forse che non oserei portarvi un veggente se non fossi arcisicuro che sia autentico?!-, chiese Shalim, fingendo oltraggio e sdegno.
-Provamelo!-, esclamò un uomo. Pareva un ufficiale dell’esercito. Aveva una corazza riccamente ornata e una spada curva, una scimitar.
-Certamente, nobile generale!-, Shalim fece un gesto, come per incitarmi.
Fissai il generale. Aveva un viso aquilino, un profilo duro e severo, tipico di chi era uso a farsi obbedire. Estrassi le lame. Tre.
La Forza, la Luna, il Sole, girato.
-Sei un uomo forte. Provieni da una stipre di guerrieri. Ciò che ora vivi son tempi turbolenti, e le tue capacità non sono come un tempo utili, anzi, vieni visto di malagrazia da nemici e invidiosi che attendono un tuo passo falso. Cammini un sentiero difficile dove ogni distrazione pare letale, ma il futuro ti riserva alleati e gloria. Ma attento: anch’esse sfuggiranno presto. Tu sei un guerriero, e sai bene che la vittoria di oggi può preparare la disfatta di un domani.-.
Silenzio. Shalim mi fissò con timore e rabbia in pari misura. Temeva che avessi offeso quell’uomo. Dal canto mio, non lo degnai di uno sguardo.
-Allora, Generale Dhajiin?-, chiese una voce. Una donna dalla pelle scura, abiti ricchi da mercante, fissava il palco e me, ma parlava all’uomo cui avevo appena parlato.
-È… vero. Insomma, è tutto vero.-, ammise infine Dhajiin.
Shalim batté le mani, nello stupore dei più.
-Visto? Vi ho portato un veggente! Alla sua vista non si cela nulla! La base d’asta per lui è di… duecentottanta denari!-, dichiarò, entusiasta.
Era una cifra bella grossa. Ma il generale annuì.
-Trecento.-, disse con un cenno del capo.
-Quattrocento.-, rilanciò la nera mercante dall’angolo della piazza.
-Cinquecento.-, disse lui, non senza esitare.
-Cinquecento e uno… Cinquecento e…-, Shalim si bloccò quando la nera alzò la mano.
-Millecinquecento.-, disse lei. Il generale si lanciò in una salva di improperi in dialetto rivolti alla donna e alla sua più ristretta cerchia familiare, che, contrariamente a lui, pareva tutt’altro che turbata.
Shalim, di contro, pareva sull’orlo di un colpo: sudava sorridendo estaticamente, sembrando quasi preda di un attacco di qualche tipo.
-Mille… Mille cinque… cento…-, esalò. Pareva quasi star assaporando quelle parole. Emise un mugolio che mi fece pensare che il solo pensiero di una simile ricchezza l’avesse portato al godimento fisico.
-È quello che ho detto.-, annuì la mercante, in tono totalmente distaccato e fermo.
-È follia!-, esclamò qualcuno. Lei non parve curarsene.
-Millecinquecento e uno!-, esclamò Shalim. Nessuno osò avanzare proposte.
-E due!-, ancora silenzio.
-E tre! Venduto!-, esultò il mercante di schiavi con una risata.
Ero stato probabilmente l’affare più dannatamente redditizio di tutta la sua carriera.
La mercante annuì. Si mosse. Era aggraziata nel suo movimento, ma quando passò accanto al generale parve lanciargli un occhiataccia di puro scherno.
-Mia nobilissima signora…-, Shalim s’inchinò faccia a terra.
-Libera il veggente.-, ordinò lei. Eseguì. I ceppi ai miei polsi caddero. Mi massaggiai la pelle irritata dal contatto col metallo. Il sole sopra di noi batteva alto e forte.
La nera estrasse un sacchetto di monete. Lo consegò a Shalim per poi farmi un cenno.
La seguii senza voltarmi.
Due giorni dopo.
Il viaggio dalla città di Abnara a quella di Soqora fu breve, ma non funestato da novità. Shalim era morto per mano di assassini, forse uomini pagati dal generale.
In quel breve tempo, il viaggio a dorso di cammello fu rapido, quasi piacevole.
La donna, il cui nome ancora non sapevo, mi fece curare, mi fece portare del cibo, insomma, si premurò che arrivassimo a Soqora senza intoppi e, soprattutto, che fossi in salute.
Mi fu assegnata una stanza. Non avevo avuto ancora modo di parlare con lei.
Ma l’avrei fatto. Presto.
Mi lavarono e mi tagliarono capelli, barba e unghie. Lasciai fare, ringraziando persino.
Avevo nuovamente un aspetto umano. Ed ero pronto a fare ciò per cui ero stato acquistato.
Ora.
-Mi hai chiesto di leggere per te, mia signora.-, dissi, gli occhi fissi sulla donna.
-L’ho fatto. Non credo di aver investito male i miei soldi, vero?-, chiese.
-Assolutamente, mia signora.-, dissi, -Dunque…-.
Estrassi le tre lame dal mazzzo.
-Passato, presnte, futuro.-, dissi. Lei si fece attenta. Gli occhi parevano non perdere un mio movimento. Era bella. I tatuaggi che aveva sulle braccia non parevano avere qualche signficato particolare.
Il Bagatto, la Forza, il Diavolo.
-Dunque?-, chiese la nera. Annuii.
-Sei giunta sin qui con le tue forze e null’altro. Non hai avuto una vita facile, né sei nuova a sacrifici e sfide.-, esrodii indicando il Bagatto, che aveva le sembianze di Alexander Varus all’inizio del suo viaggio agli albori della fine dell’Impero. Lei annuì appena, ascoltando.
-Ora sei forte della forza di chi ha saputo creare la propria strada, il coraggio di osare e non il timore di perdere ciò che si ha.-, continuai indicando la carta della Forza, con una donna, Layla del Mito di Licanes che affondava una mano tra le fauci di un Leo Regis.
-Continua.-, ordinò la mia padrona, iperscrutabile.
-Il Diavolo è la carta della trasgressione. È l’antica nemesi. Lilith, la notte più nera laddove solo la nostra volontà ci può traghettare.-, dissi. Silenzio in risposta.
-Spiegati meglio. Vedo che sei edotto ai miti antichi-, disse. Fissava la carta del Diavolo. Quello era raffigurato come l’antico demone Baphomet, testa di capro nera su un corpo munito di seni e di un sesso maschile inturgidito ed eretto, brandiva una torcia. Non stava a m
-Il Diavolo è il nostro lato oscuro. Le nostre brame inconfessabili, gli odi irrazionali, tutto ciò che non riusciamo a spiegarci e di cui non possiamo liberarci.-, dissi.
Lei inclinò il capo, curiosa.
-Tu vedi questo in me?-, chiese.
-Non solo in te, mia signora. In ogni uomo nato da donna.-, dissi.
-Come si collega al resto?-, chiese. La fissai.
-Il Diavolo è all’antitesi della lucidità, del ragionamento e della morale. È il primitivo aspetto della totalità. Caos. Che bisogna contemplare laddove fuggirlo o cercare di combattere non serve.-, dissi. Lei mi guardò nuovamente. Gli occhi neri parevano volermi scavere dentro.
-Ripeto: come si collega al resto?-, chiese.
-In diversi modi. Iniziative illogiche o addirittura irrealistiche, sesso, passioni per l’occulto, adulterio, sbandate. Il crollo del…-, lei m’interruppe.
-Del controllo.-, annuì, – Sì. Capisco.-.
-Sei stato bravo, veggente. Mi assicurerò che tu abbia cibo e acqua.-, decretò alzandosi.
-Mia signora.-, dissi io con un cenno rispettoso del capo.
-È bizzarro quanto tu sappia di me senza avermi mai vista né parlato. Ora so che i miei soldi sono stati spesi bene. Molto. Ritornerò quando avrò bisogno dei tuoi servigi.-, disse lei. Uscì.
Passarono tre giorni durante i quali ebbi modo di esplorare la tenuta della mia signora.
C’erano guardie armate quasi ovunque. Sebbene mi fosse stata lasciata libertà di uscire dalla mia stanza notavo che non mi perdevano di vista. Le loro armi erano piccole mitragliette a proiettili solidi, armi che però non parevano ruderi destinati a qualche faida. Parevano appena uscite dalle fabbriche e gli uomini e le donne che brandivano quelle armi parevano in grado di usarle ottimamente. Mi sembravano tutti ex militari, ma non potevo esserne certo.
La proprietà era divisa nella dependance degli schiavi, sopra la quale si trovava la mia abitazione, una serie di magazzini e l’abitazione vera e propria della mercante.
In realtà era tutto molto ben organizzato e curato, ben meglio di quanto avessi visto nella mia città. Veniva da credere che la mercante avesse lavorato a lungo per arrivare a un simile risultato.
Non era ben chiaro in cosa commerciasse: durante quei giorni non ebbi modo di vedere merci o animali, quindi non potei comprendere come avesse accumulato quella fortuna, o come la gestisse.
La verità era che non ne sapevo molto. Comunque, il lato sicuramente positivo in tutto ciò fu la tranquillità. La sicurezza, era stata per lungo tempo un miraggio, inarrivabile.
Ora ero al sicuro, almeno da minacce immediate. Non libero, ma tutelato.
Era già qualcosa. Potevo fuggire? Soprattutto, mi sarebbe convenuto provarci?
A giudicare dal numero di guardie, non sarebbe stato facile. E anche ponendo che fossi fuggito, dove sarei andato? Come avrei potuto evitare di essere catturato e punito, magari anche con l’esecuzione?
Tornai alla mia stanza. L’indomani nel pomeriggio mi feci un bagno. L’acqua era stata un lusso nel deserto, ma non a Soqora. La stanza da bagno attigua alla mia era più grande del mio vecchio appartamento nella mia città natale. Ero intento a lavarmi quando, sentendo entrare qualcuno mi volsi verso la porta. La giovane che era entrata aveva una pelle chiara, gli occhi bassi, una veste smanicata rossa e un viso fanciullesco, piacevole. Doveva essere araba, o magari persino di uno dei popoli della Confederatio.
-Chi sei?-, chiesi.
-Samara.-, disse. Aveva capelli castani ondulati, liberi e un seno appena accennato,
-La signora vuole che io mi occupi del tuo corpo.-, aggiunse. I sottointesi in quella frase erano enormi. Allusiva come poche. Probabilmente lo sapeva.
Senza che gliel’avessi chiesto, si avvicinò e prese a cospargermi la schiena di olio. Il suo tocco era piacevole, ma era anche il primo tocco di donna che potevo dire di assaporare dopo tanto, tantissimo tempo. Il mio sesso prese a ergersi, rapido.
Intenta a massaggiare lungo i dorsali, Samara probabilmente l’aveva visto. Lentamente, spostò le mani sul petto, come abbracciandomi. E fu lì che lo sentii.
Non indossava più la veste: i suoi piccoli seni con i capezzoli puntuti mi premevano sulla schiena nuda. Fu quasi uno shock, ma mi eccitò noteovlmente.
-Ti piace?-, chiese. Le presi le mani, dolcemente. Mi voltai a fissarla. Era nuda. I capezzoli scuri puntavano verso di me. Lei mi guardava, incerta. Gli occhi castani parevano divorarmi.
La baciai appena. Lei rispose. Se l’avevo sorpresa, si riprese in fretta. Mi ghermì il sesso.
-Attenta…-, mormorai. Lei scivolò in ginocchio. Mi accolse nella sua bocca rovente.
Ci volle uno sforzo erculeo per non venire subito e dovetti allontanarla un istante.
Inspirai ed espirai, sforzandomi di non venire subito. Samara sorrise appena. Mi controllai, avvicinandomi e baciandola piano, scendendo lungo il collo, lungo i seni e infine, arrivando a lambire lo stomaco e il pube depilato con la lingua.
La vulva di Samara era già lubrificata. Difficile dire se fosse stata opera di Madre Natura o di qualche lubrificante, ma tant’era. La carezzai piano, sino a strapparle dei gemiti e degli spasmi. Poi mi alzai. Lei si addossò al muro. Si stava offrendo.
La accontentai penetrandola piano, afferrandola per le anche mentre m’immergevo nella sua vulva calda e rorida. Samara emise un gemito, lungo. Si agitò contro di me.
Non avrei retto a lungo: affondai sino in fondo, due volte, poi mi sfilai ed eiaculai brutalmente con tre schizzi sulle natiche di Samara.
La ragazza si voltò sorridendomi come una bambina birichina beccata a rubare dolcetti.
Doveva avere diciotto anni o poco più, calcolai.
Mi baciò, castamente stavolta. Riprese a massaggiarmi il petto e le gambe, incluso il sesso che ormai si stava rapidamente ritirando. Ripulì il tutto, deponendo un ultimo bacio sul glande, di fatto riprendendolo in bocca. Fu giusto un istante, poi si asciugò e infilò la sua veste uscendo. Rimasi lì, finendo di lavarmi. Evidentemente, la padrona di casa voleva che mi sentissi vezzeggiato. Missione riuscita, potevo dire.
Fugacemente mi chiesi quale altro fine poteva esserci dietro a quell’insperata gioia.
Poteva essere che Samara avesse agito di sua iniziativa?
La domanda rimase con me sino al mattino del giorno seguente.
Il mattino dopo la colazione fu frutta fresca . Piacevole. In realtà, durante il mio soggiorno sin lì, avevo avuto cibo di ottima qualità. Non mi sorpresi dunque, quando vidi la padrona giungere. Stavolta indossava una sorta di giubba senza maniche che le fasciava il seno superbo lasciando scoperto l’ombelico e dei pantaloni da cavallerizza scuri.
-Mia signora.-, dissi con un inchino breve, accennato.
-Spero tu abbia dormito bene-, disse.
-Oh, sì. Ho dormito molto bene.-, risposi con un sorriso.
-E suppongo che la mia ospitalità ti sia stata gradita.-, continuò la nera.
-Sì. Samara è stata… molto devota al suo compito.-, dissi.
-Sì, è estremamente docile. Un’ottima schiava. Io cerco solo il meglio.-, rispose la mercante.
Dentro di me mi chiesi se quell’apprezzamento non provenisse da esperienze di prima mano come quella da me avuta con la giovane.
-Immagino tu sia qui per chiedermi un’ulteriore lettura.-, tirai a indovinarei.
-Immagini giustamente.-, rispose lei sedendosi su uno dei cuscini.
-Mia signora, se posso osare, io ancora non so il tuo nome.-, osservai.
-Il mio nome arriverà, veggente. Non temere.-, mi rassicurò, -Ora… l’ultima volta hai parlato del Diavolo…-. Io annuii a quella menzione, ricordavo perfettamente il nostro dialogo.
La mercante mi fissò, gli occhi che parvero trapassarmi.
-Voglio che tu mi dica di più. Voglio capire cos’è che posso trovarmi davanti.-, decretò.
-È difficile, mia signora.-, dissi. Lei mi fissò, iperscrutabile. Fredda. Non chiese. Non serviva.
-Le carte spesso e volentieri non “riprendono” una lettura, capisci?-, chiesi.
-Non pienamente. Mi stai dicendo che non puoi darmi altri dettagli?-, domandò la nera.
Percepivo contrarietà. Non era una che amava i “no”.
-Non con il sistema di lettura che ho usato.-, dissi, -Ma ce ne sono altri.-. Lei sorrise.
I denti bianchi che aveva facevano contrasto con la pelle scura del viso. Era il sorriso di una donna abituata a ottenere ciò che chiedeva.
-Procedi, dunque.-, disse. Annuii. Mischiai le lame. Spezzai il mazzo. Stavolta lei attese.
Estrassi il Diavolo. Era la carta prima. La posi al centro.
Il Baphomet mi fissò, lo sguardo carico di ferocia e lussuria in pari misura.
-Per questo schema, mi serviranno altre quattro lame. Le scelgo dagli Arcani Maggiori.-, dissi.
-Non usi mai le altre del mazzo?-, chiese lei. Scossi il capo.
-Servono ad altro. Potrei usarle, ma la verità è che sono più… immediate. Tu non vuoi queste risposte, lo vedo. Cerchi una conoscenza più profonda di quella che potrebbero offrirti. Non t’interessa solo sapere cos’è che ti arriverà addosso, vuoi sapere il perché.-, replicai.
Lei sorrise, di nuovo.
-Davvero acuto. Stai rivelandoti sorprendentemente attento, veggente.-, disse.
Mischiai un ultima volta.
-Quattro carte, oltre a questa.-, dissi. La nera annuì. Estrassi la prima.
-Una a sinistra, ciò che non vedi, o non vuoi vedere. Una a destra, ciò che sai e che vedi. Una in basso per rappresentare ciò che soggiace a questo, una in alto per ciò in cui muterà.-, spiegai mentre giravo la prima mettendola alla sinistra del Diavolo.
-La Ruota.-, dissi mostrandola. Era raffigurata come l’antica ruota del Dharma dei Monaci Zen-Shura, -Il fato ti ha portata sin qui. E ti traghetterà altrove.-.
-Se io lo vorrò.-, disse lei, -Continua.-. Annuii. Estrassi.
-L’Imperatrice. La tua volontà. Forte, fiera, indomita. Però… a che prezzo?-, chiesi.
La nera non rispose. Fissava la carta che raffigurava Aristarda Nera in vesti da governante.
La posizionai alla destra del Diavolo. Presi la successiva.
-La Temperanza, capovolta.-, dissi. La donna che versava l’acqua da una coppa all’altra era Draupadi, la monaca-esule dell’isola dei Lotofagi, incontrata da Janus durante il suo peregrinare tra i mari. La donna travasava dell’acqua da un vaso all’altro, l’espressione neutra.
-Immagino non sia un buon segno.-, disse la mercante.
-Non proprio, no. Indica un controllo che slitta, in balia di forze più oscure. Appunto, il Diavolo.-, spiegai. Lei annuì. -Manca l’ultima.-, disse con tono neutro ma teso.
Annuii. Estrassi. Gli Amanti.
Janus, l’Esule si trovava al bivio tra due strade. Su una vi era Layla, la Cimanea, che protendeva una mano verso di lui, le lame a riposo nei foderi alla cintola. Sull’altra vi era Maghera, l’Amazzone del Kelreas, l’arco appoggiato contro la gamba insieme alla faretra e le mani tese verso l’uomo.
-Uhm.-, feci. Pensoso. Osai. -Permettimi una domanda: non hai un amato, qualcuno che ami, vero?-, chiesi.
-No.-, rispose la nera, -Ho pochi amanti occasionali.-.
-Già. Lo supponevo. Collocai la carta sopra il Diavolo.
-Cosa significa?-, domandò la mercante.
-Signfiica che il tuo controllo sta slittando, mia signora. La tua volontà è forte, ma sotto di essa si agitano comunque forze primarie, istinti, energie che non si possono semplicemente ignorare o soggiogare in eterno. Ora, qualcosa da sotto sta spingendo per uscire. Qualcosa sta mettendo a dura prova il tuo controllo. È destino. Gli Hindi direbbero che è Karman. Anche i Monaci Zen-Shura lo direbbero. L’effetto segue la causa. Gli Amanti sono la carta finale e simboleggiano una scelta. Che dovrai fare. Una scelta tra una via e l’altra, consapevole che sarà definitiva.-, dissi.
Parve pensierosa. La osservai. Doveva avere trentacinque, forse quarant’anni al massimo, portati decisamente bene. In quel momento però la vedevo riflettere.
-Mia signora…-, iniziai. Lei alzò una mano.
-Aspetta.-, disse. La vidi immersa nella riflessione finché non mi fece cenno di parlare.
-Mia signora, forse ciò che dovreste fare è rivedere il vostro corso d’azione.-, dissi.
Lea mercante scosse il capo, il viso indurito, come forse il cuore.
-No. Non posso. Ciò che è fatto non sarà disfatto.-, ribatté.
-Capisco.-, annuii, servile. La nera mi fissò, con serietà.
-Qual’è il tuo nome?-, chiese.
-Il mio nome…-, era passato molto da quando l’avevo dovuto usare. Mi accorsi di non volerlo dire, -Significa “protettore di uomini”.-, dissi.
-Quindi, in lingua Licanea, sei un Alexander a tua volta. E sia, Alexander. Questo sarà il tuo nome, mio consigliere.-, decretò. Suonò una campanella.
Samara entrò, facendo un profondo inchino.
-Porta delle vesti a quest’uomo. Da ora non è più solo uno schiavo, ma è un mio consigliere.-, decretò la mercante. La schiava s’inchinò di nuovo.
-Mia signora, sono onorato. Ma ancora non conosco il tuo nome.-, dissi.
-Il mio nome è Awua.-, si presentò lei, -Usalo con estrema parsimonia. Non amo vederlo sciupato.-. Si alzò e uscì mentre Samara giungeva con delle vesti.
Samara fu professionale, quasi distaccata. Si concesse appena pochi sorrisi e un “Sei bellissimo”, a opera finita. Mi lasciò dopo avermi rivestito di seta.
Abbigliato con vesti decisamente eleganti, mi sentivo elevato a una dignità mai conosciuta, tuttavia, spinto dal desiderio di comprendere, estrassi tre lame, per me.
L’Appeso girato, il Diavolo, il Giudizio.
Osservai le lame estratte. L’Appeso, raffigurante Proximo Lario nell’atto di subire il supplizio per mano dei boia di Septimo Nero, era una carta di sofferenza, autoimposta se dritta o inflitta se capovolta. Fuor di dubbio, rappresentava le sofferenze che avevo dovuto patire.
Il Diavolo, il Baphomet mi osservò, intensamente severo, inesplicabilmente lubrico.
“La carta delle tentazioni, del lato selvaggio della mente”, pensai.
La tentazione in quel momento, qual’era? Samara? Lei era stata fantastica, certo, ma non potevo dire di provare per lei sentimenti così alti da mettere in pericolo la mia lucidità.
-Davvero un bell’enigma.-, dissi infine mentre spostavo la mia attenzione sull’ultima carta.
Il Giudizio: la forma di Yneas avvolto nelle vesti da giudice dei defunti, spada in una mano e scettro nell’altra, le anime di infinite moltitudini che al suo cenno si dividevano tra la nuova vita, i Regni Superiori e l’Ade.
Il Giudizio rappresentava una conclusione e una rinascita, era una carta di puro potenziale.
Rappresentava un taglio netto con tutto il passato.
Fissai il Dio della Morte e della Rinascita con un cipiglio corrucciato. Significava forse, in congiunzione col Diavolo, che sarei fuggito? Non avevo al momento motivo di farlo.
Oppure rappresentava un cambiamento più lato? Non lo sapevo.
Passai al lato psicologico delle carte.
L’Appeso: sofferenza che non potevo evitare, perché non era una mia scelta, un dolor maggiore.
Il Diavolo: lussuria, emozioni grezze, sciamanti sotto la superficie, prossime a esplodere.
Il Giudizio: un cambio di mentalità, un mutamento interiore talmente potente da cancellare quanto c’era prima dandoci un taglio netto. Volontà applicata per rinascere, in senso caratteriale o mentale, più che fisico.
-Vedremo.-, dissi mentre raccoglievo le lame rimescolandole al mazzo.
Passarono ben tre giorni, Awua non si fece viva ed ebbi molto tempo libero.
Io ne approfittai per esplorare la tenuta, ma le guardie non si rivelarono particolarmente inclini alla conversazione. Erano professionali, estremamente riservati.
Probabilmente la mia padrona li pagava profumatamente per la loro discrezione.
I magazzini che avevo inizialmente visto potevano ospitare qualunque cosa, ma la sorveglianza era più massiccia attorno ad essi e ciò mi portava a pensare ci fosse roba di valore là dentro.
Gli schiavi furono ben più ciarlieri. L’idea iniziale fu anche solo di tentare di conoscerne qualcuno. Samara fu abbastanza conversativa quando mi portò il pranzo. Mi disse che era stata venduta dai suoi genitori a un mercante che poi l’aveva venduta a un ricco che aveva pagato Awua con lei come parte del pagamento di un debito di diverse migliaia di Calus.
Era nata in terre poco distanti, Hazeria, si chiamavano. In realtà le sue origini erano poco chiare persino a lei stessa.
Un altro schiavo, un tale Vurna, un omone dalla pelle abbronzata e barba nera come i capellii, si rivelò un autentico chiacchierone. Veniva da una zona della Confederatio ma, dopo un brutto incontro, lui e i suoi compagni erano finiti prigionieri di alcune bande di predoni.
Essere stato venduto all’asta tuttavia lo aveva visto venire acquistato da Awua, la quale lo usava principalmente per lavori di fatica.
Blaterò di carichi, di lavori, di turni massacranti e concluse con una serie di imprecazioni da far arrossire una statua. Tuttavia, compresi che lui era uno degli uomini di fatica della mercante e che aveva contribuito a riempire il magazzino così attentamente sorvegliato, ma su cosa ci fosse stato nelle casse che vi aveva portato non ci fu modo di avere risposta.
La padrona, spiegò Vurna, aveva tassativamente vietato di aprirle.
Annuii. Capivo. Qualunque cosa ci fosse stata là dentro, pareva essere così importante da meritare la più totale discrezione, assoluta segretezza.
Cominciai a domandarmi se quella merce non fosse stata illegale, ma intuivo che, oltre un certo grado, la legalità o meno di una data cosa dipendeva largamente dai soldi che giravano attorno ad essa. Nonostante la Pax, simili traffici prosperavano ancora.
L’incontro più interessante però lo ebbi il giorno successivo: durante una passeggiata lungo il cortile m’imbattei in una donna dalla carnagione ambrata, tipica del Kelreas.
Era avvolta in vesti fini, che creavano un interessantissimo gioco di vedo-non vedo, decorate e lei stessa pareva studiare le proprie movenze in modo da esporre a occhiate fugaci la sua bellezza. Il viso era un ovale quasi perfetto, decorato con un trucco che pareva polvere dorata, geometricamente disposta a impreziosire le gote della donna. I capelli neri erano sciolti e gli occhi erano color azzurro chiaro, una mescolanza rarissima, persino per le figlie del Kelreas.
Le labbra erano poco più scure della pelle, piacevolissime a vedersi. Il suo sorriso poteva rivaleggiare con quello della mia padrona.
Era difficile darle un’età precisa. Attorno ai venticinque, trenta al massimo. I seni erano liberi sotto il vestito e a tratti, potei intravederli a causa del movimento della donna che, se non lo stava facendo apertamente apposta, non parve curarsene.
Era magra, ma non priva di muscoli. Non riuscivo davvero a immaginarla come un’amazzone.
-Ah, tu devi essere il nuovo acquisto della padrona!-, esclamò vedendomi e aprendosi in un sorriso. Mi squadrò con interesse, senza curarsi di celarlo.
-Dicono che sei un veggente. Uno capace, finalmente.-, disse.
-Dicono? E “capace, finalmente”?-, chiesi. Due domande in una sola frase. La nuova arrivata rise, fu un riso breve, ma in qualche maniera piacevole.
-Oh sì! I veggenti che deludono la padrona non fanno belle fini.-, disse.
-Lo immaginavo. Come suppongo che tali voci ti siano giunte da parte di qualcuno del nostro stesso rango.-, dissi educatamente.
-Il nostro rango è differente. Tu indossi vesti ben migliori degli altri schiavi, e così anche io. Diciamo solo che la dolce Samara mi ha voluta informare.-, rispose la donna.
-La dolce Samara…-, ripetei. Così, quella donna doveva conoscere assai bene quella giovane.
“Intimamente?”, mi chiesi. Sapevo che in Kelreas molte donne non disdegnavano i rapporti lesbici, Quella donna pareva il tipo da indugiarvi.
-Intanto… con chi ho il piacere e l’onore di conversare?-, chiesi.
-Surya.-, disse lei con un sorriso. Gli occhi azzurri parevano bruciare di un fuoco che non mi lasciava indifferente.
-Alexander.-, dissi usando il nome datomi da Awua. Il mio vecchio nome, e la mia vecchia vita, erano per ora un mero ricordo, in un cassetto della mia mente. Porsi la mano. Lei la strinse.
La sua mano terminava con unghie particolarmente elaborate. Tutt’altro che spiacevoli.
-Ah, Samara mi ha detto che hai favorevolmente impressionato la nostra signora.-, disse Surya con un sorriso smagliante, -Un impresa non da poco. Anche il tuo acquisto non è stato certamente una scelta a cuor leggero. La nostra signora esige solo il meglio.-.
-Questo mi era stato detto.-, annuii, -E suppongo che questo valga per ogni ambito.-.
-Esattamente. Per ogni ambito.-, rispose lei. La sua lingua fece capolino dalle labbra. Rosata, un paio di volte. Cercai di restare concentrato.
-La ricchezza della nostra signora è sicuramente imponente, per potersi permettere simili spese.-, dissi. Surya sorrise ancora. Mi fece cenno di seguirla mentre camminavamo.
La giornata era tersa, calda.
-Non ama che se ne parli.-, disse a mo’ di avvertimento, -Non importa quanto tu sia in alto.-.
-Sarò attento allora.-, promisi. Lei sorrise.
-Sarai morto, allora. Però sei un bel giovane. Quanti anni?-, chiese.
-Trentadue.-, dissi. Surya sorrise, compiaciuta.
-Mh-mh.-, fece, -Un’ottima età. Non ancora così vecchio da essere decrepito o stanco, ma non più così giovane o ingenuo da essere meramente un bamboccio.-.
-Mi stai valutando?-, chiesi. Mi vedeva come un diversivo? Un amante? Una via di fuga?
O era una trappola? Chi era quella donna?
-Sto solo considerando.-, rispose la dama. Pacata, tranquilla e persino soave.
-Ed esattamente tu di cosa ti occuperesti?-, chiesi.
-Piacere.-, rispose lei, -Sono colei che delizia la nostra signora nelle notti senza luna, colei che allieta le sue mattine, colei che lenisce il suo tormento quando esso colpisce.-.
La sola frase scatenò un’immagine ben precisa nella mia mente. Lei e Awua distese su un letto a rotolarsi tra le coltri, madide di umori… L’idea mi fece avere un principio di erezione.
-Suono diversi strumenti, tra cui l’arpa kelrea, il liuto licaneo e i tamburi della perduta Cimanes. Danzo, canto e amo sublimemente uomini o donne.-, disse Surya.
-Sei un’Etera.-, dissi. Le Etere erano intrattenitrici professioniste. A differenza delle meretrici, non si limitavano al sesso e non erano obbligate a cedere il proprio corpo. Erano acculturate e capaci di discorrere di diversi temi. Era loro insegnanto a padroneggiare numerose arti affinché fossero idonee a intrattenere gli ospiti di alto rango tanto nella Confederatio quanto nelle nazioni esterne ad essa.
Ovviamente, oltre a tutto ciò, le Etere erano anche estremamente abili nelle arti dell’amore: erano addestrate sin dal raggiungimento della maturità sessuale in tali vie, e non era esagerato dire che alcune di loro potevano vantare guadagni astronomici per una notte passata con un uomo che le desiderasse a tal punto. A Furhas, poco distante dalla mia città, l’Etera Physahi causò un duello tra due contendenti, vedendoli perire entrambi. Si dice che, a seguito della morte dei due amanti, i quali non avevano saputo fare a meno di lei, si fosse rasata il capo per divenire monaca.
-Lieta che tu riconosca la mia professione. E vedo che le mie parole hanno incominciato a fare un certo effetto.-, disse lei fissando il mio sesso che, tradito dalla seta attillata dell’abito, si palesava visibilmente gonfio. Non mi disturbai a negare.
-Se avessimo il tempo, potrei persino decidere di dedicarmi al tuo piacere. Certo, ciò comporterebbe un pagamento. Ma sappiamo entrambi quale sarebbe.-, disse lei.
Mi accorsi di respirare rapdiamente. Surya mi accarezzò appena una guancia.
-Purtroppo, la nostra signora mi reclama per questa sera. Odia attendere, dunque dovrò essere presentabile e pronta per lei. Se può consolarti, se ti stai immaginando me amoreggiare con lei o Samara, sappi che è accaduto. E potrebbe accadere ancora.-, disse.
-Io…-, iniziai. Avevo il sesso pulsante. Mi accorsi che ero eccitato, parecchio.
-Potrai sfogarti da solo pensando a ogni carezza, a ogni bacio, a ogni gemito… e magari, se la tua immaginazione te lo permette, potrai immaginare di essere tra di noi. Con noi…-, sussurrò Surya. Poi si voltò, di scatto. I suoi capelli parvero drappeggiarle le spalle d’inchiostro fluido.
-Ma temo che dovrai accontentarti di questo.-, disse a mo’ di commiato, -Per ora.-.
Arrivato al mio appartamento mi denudai. Fissai il sesso, inturgidito. Le parole di Surya mi attraversavano la mente. Mischiate a immagini lubriche di lei, e Awua, e me, fantasie che ci vedevano avvinghiati in modi indescrivibilmente eccitanti.
La mano parve partire da sola: strinse il sesso e prese a muoversi piano.
Liquido preseminale già lubrificava il glande. Continuai, gemendo appena. Addossato alla porta, stavo per concludere, perso nel vortice dei sensi.
Poi mi fermai. Udii qualcosa. Passi pesanti.
Mi rivestii. Fu una buona idea, perché sentii bussare poco dopo.
-Chi è?-, chiesi. Una parte di me sperava fosse Samara. Forse lei avrebbe potuto dare sollievo alle mie voglie. Di fatto, non mi era parsa contraria all’idea.
-Vurna.-, disse la voce dell’uomo. Fine delle mie fantasie sessuali. Espirai.
Aprii dopo essermi sistemato. Lo schiavo entrò.
-Ho bisogno che tu legga per me.-, disse senza preamboli.
-Cosa chiedi?-, domandai. Lui mi fissò.
-Cos’accadrà.-, disse.
-Non funziona così. Non posso dirti esattamente cosa accadrà.-, spiegai. Vurna si accigliò.
La risposta non gli era piaciuta.
-Falla funzionare.-, sibilò. Era minaccioso. E grosso.
-Tre carte.-, sospirai.
Estrassi. Il Giudizio, la Forza, la Morte.
La Morte era rappresentata da Yneas, nel suo aspetto più feroce: una falce in pugno e una clessidra appesa al bracciale che portava al polso, per simboleggiare il tempo che passava inesorabile e la caducità dell’esistere.
-Che significano?-, chiese Vurna.
-La schiavitù per te è stata una rinascita. La tua forza ti sostiene ora, ma inevitabilmente, giunge il termine di ciò che conosci.-, dissi.
-Vedi la mia morte?-, chiese lui, inquieto.
-Non funziona così.-, ribattei, -Ma è pur vero che tutto ha una fine.-.
Vurna si alzò, scurotendo il capo. Era perplesso. Incapace di capire.
“Per alcuni, le carte sono amiche, per altri nemiche, per altri ancora non sono né l’une né le altre, poiché non possono venir comprese, restano ignare.”, aveva detto il mio mentore.
Guardai Vurna andarsene. Mi sentii male per lui.
Sospirai. Mi alzai riponendo le carte. Ricordai la mia, di lettura, quella a mio carico.
Il Diavolo… era per Surya che nutrivo quell’attrazione sregolata?
Di certo era stata più che in grado di accendermi…
E quell’attrazione, avrebbe dovuto in qualche maniera guidarmi fuori strada? O mi avrebbe riportato in rotta, verso la rinascita. Quale rinascita, poi? Tutto ciò che conoscevo era andato, distrutto, salvo le carte. Quelle sole mi avevano accompagnato sin lì.
La mia riflessione continuò per lunghi minuti, erodendo ogni altro pensiero, salvo infine chiudersi con l’arrivo di un servitore che mi portava la cena.
Il terzo giorno, Awua si mostrò. Sedette senza particolari cerimonie, fissandomi risoluta.
-Ho bisogno del tuo consiglio, Alexander.-, disse chiamandomi con il nome che mi aveva dato. La fissai di rimando.
-Penso tu abbia consiglieri a sufficienza.-, dissi, -O vuoi una lettura.-.
-Ne esiste una che permetta di comprendere se una scelta è corretta?-, chiese la nera.
Vestiva un abito verde acqua, stavolta, sempre decorato e simile a quello con cui si era presentata a me la prima volta. Molto bello e soprattutto, valorizzava la sua figura e un corpo che non doveva temere gli assalti dell’età.
Ancora, ripensai a Surya e a lei… Mi riscossi, fissandola.
-Quindi?-, chiese la mercante, -Si tratta di partire da qui, per andare a Thama, a sbrigare affari.-, precisò. Annuii.
-Sei carte.-, dissi, -Due per la questione, il visto e il non-visto, due per il vantaggio e due per lo svantaggio.-. Era un sistema nuovo. Lei annuì appena. Mischiai il mazzo, tagliai, e pescai.
Al centro, la questione: il Carro e l’Imperatrice, dritti.
A destra, il vantaggio: le Stelle e il Sole, dritti.
A sinistra, lo svantaggio: il Diavolo (di nuovo!) e la Torre, quest’ultima capovolta.
-Ancora il Diavolo.-, sospirò Awua.
-Sì. Un nodo che ancora non hai sciolto, mia signora.-, dissi io.
-Dunque….-, dissi apprestandomi a iniziare. Indicai il Carro, la figura di Nimandeo Feral assiso sul carro, conquistatore vittorioso. In realtà, quella carta non rispecchiava la realtà, ma coloro che avevano creato quel mazzo avevano giustamente deciso di utilizzare quella figura per ciò che rappresentava in barba alla realtà storica.
-Il Carro rappresenta un successo. È un eccellente carta, per iniziare.-.
-Uhm..-, annuì la nera. Mi fece un cenno di continuare mentre Samara, richiamata pochi istanti prima, posava un vassoio con dei bicchieri d’acqua ed una brocca accanto a noi sul tavolo. Si eclissò subito, temendo evidentemente di disturbare.
-L’Imperatrice.-, dissi fissando l’immagine di Aristarda Nera. La carta era buona di per sé, indicava una volontà capace, magari attendista, prudente, ma vera,
Awua ascoltò senza parlare. Passai al vantaggio.
-Le Stelle.-, dissi, -Rappresentano più il nostro inconscio, i sogni profetici, l’intuito, il filo rosso che ci lega al divino.-. La carta rappresentava Draupadi nell’atto del versare acqua da due vasi che reggeva nelle mani. Nonostante la carta fosse ispirata ad antichissimi disegni su carte ancora più antiche, l’autore non aveva voluto privarsi di raffigurarvi un’eroina e martire del Mito di Licanes.
-Mi stai dicendo che sono guidata da potenze superiori?-, chiese la nera.
-Sto solo dicendo che l’intuito talvolta può più di quanto la ragione osi.-, spiegai.
Lei mi fissò, ma non dissi altro, preferendo continuare sull’altra carta.
-Il Sole.-, dissi incrociando le braccia. Sotto il possente disco dell’astro solare, figure di uomini parevano uniti da legami di fratellanza.
-Alleati fedeli, amici fidati. Tutto questo sicuramente ti sarà di aiuto, mia signora.-, dissi.
Lei annuì, lo sguardo fisso sulle altre carte, quelle dello svantaggio.
-Questa però è ricomparsa, ancora. Parli di un nodo da sciogliere. Credevo non avrebbe inficiato i miei affari. Ho motivo di credere che mi sbagliavo?-, domandò la nera fissando il Diavolo. Il Baphomet ricambiava lo sguardo, spietatamente autorevole dall’alto della sua oscena maestà. La fissai a mia volta. No: le carte erano chiare da quel lato, l’affare di Awua, quale che fosse, si sarebbe rivelato un successo, ma non senza considerare quelle ripercussioni che parevano legate a lei personalmente piuttosto che a ciò che riguardava meramente il commercio.
-Non riguardano strettamente l’affare, mia signora, ma un pericolo di diversa natura.-, dissi.
Picchiettai sulla Torre. Essa rappresentava una torre abbattuta da un fulmine, un castigo per i superbi, un monito per coloro che si credono al sicuro da ogni possibile ripercussione delle proprie azioni ma anche e soprattutto un esplosione di energia primeva volta a unificare ciò che è duale.
-Di che cosa parli?-, chiese Awua fissandomi con occhi duri.
-Mia signora… ricordi la carta che estraesti a suo tempo? La Temperanza girata?-, chiesi.
-Sì. Ricordo cosa mi dicesti. È qui che arriverà l’errore? Il mio controllo slitterà quando più mi serve? Sarà questo a causare la catastrofe?-, chiese la nera fissandomi.
Nell’aria sentivo il suo profumo, non solo quello naturale della sua pelle, ma anche un’essenza piacevole, sicuramente anch’essa molto costosa. Non mi curai di identificara oltre in necessario: mirto e altro, forse incenso o magari qualche effulvio più sottile.
Era gradevole, e di fatto per un istante mi sorpresi a considerare Awua come una donna, non come la mia padrona o colei che poteva disporre della mia vita, ma come una semplice femmina. Una bellissima femmina, in realtà.
-Forse.-, dissi, -O magari questo svantaggio rappresenta altro.-, aggiunsi, -Qualcosa che non si è ancora verificato e che forse non lo farà durante il viaggio.-.
-Un’ombra incombente.-, disse lei, -Questo intendi.-.
-Sì.-, ammisi io.
-Quindi, in ultima analisi, tu sostieni che io debba andare?-, chiese. Riflettei brevemente.
-Sì.-, dissi infine, -Perché ad eccezione della Torre, le altre carte sono positive.-.
-Ottimo.-, sorrise lei. Nel suo sorriso c’era qualcosa una traccia di autoritaria leggerezza, di crudele beffa, che mi fece improvvisamente temere di averla fatta adirare.
-Perché tu verrai con me.-, decretò alzandosi.
-Come desideri.-, risposi chinando il capo, deferente.
Il viaggio sarebbe stato lungo, a dorso di cammello e, in una parte, via nave.
Thama era in Africae, fuori dalla giurisdizione della Confederatio, e soprattutto ben distante dalle usuali rotte commerciali. Una buona domanda sarebbe stata perché andarci, e non persi tempo a farla, sapendo che Awua non mi avrebbe risposto.
Già che mi avesse spiegato dove fossimo diretti, era un mezzo miracolo.
Al momento della partenza, eravamo in dieci. Io, Awua, Surya, un uomo che pareva un contabile e che non ebbi occasione di conoscere in precedenza, Vurna e un altro schiavo originario dell’Africa per i lavori di fatica e la bellezza di quattro guardie, tutte ben armate con lame e armi da tiro a proiettili solidi. Fidati e capaci. Partimmo al mattino, dirigendoci al porto di Soqora, tra le vie di una città con alti edifici, in attività non indifferente.
In realtà, durante la prima parte di viaggio fummo alquanto comodi. Nessuno aveva modo di colpire Awua lì, nel suo feudo. Ben diverso sarebbe stato fuori, a Thama.
Attraversammo le vie di Soqora, con la gente che rispettosamente cedeva il passo. Per la prima volta dopo settimane, ero fuori dalla villa della mercante, ma soprattutto, per la prima volta in assoluto, ne vedevo l’effettivo potere. La gente si scansava, evitava d’intralciare,si fermava. La temevano. La verità era quella.
-Sembrano avere molto rispetto, mia signora.-, osservai, neutro.
-Molto. È dovuto a ciò che ho fatto per loro. Soqora era un’isola squallida prima che vi giungessi io con i miei affari. E inoltre, loro sanno che contraddirmi non è una buona idea.-, spiegò la nera con un sorriso che pareva persino crudele.
Fissai la gente. Non erano malnutriti, ma sui loro volti colsi il segno di una paura talmente evidente da superare finanche il senso di timore reverenziale che mi ero aspettato di vedere.
A dorso di cammello, arrivammo al porto. Qui tra diverse navi mercantili, ve n’era una che pareva attenderci.
Spalancai tanto d’occhi. Più che una nave, pareva un’opera d’arte. Era fatta in materiali polimerici argentei, scafi ultramoderni, probabilmente un prodotto della Confederatio Licanea. Lo scafo, sottile e slanciato, terminava sormontato da una struttura che ospitava due vele e relativi alberi. A lunghezza doveva misurare circa un seicento, settecento metri.
Non c’erano ordini di remi. Awua fissò la mia espressione, apparentemente compiaciuta.
-Ah, eccola qui. La Sherazhade.-, disse, -Il mio orgoglio. Il non plus ultra delle navi civili. Velocità di crociera doppia rispetto a quella delle altre navi vendute dalla Confederatio. Armamenti debitamente occultati e, come da logico, un equipaggio sublimemente preparato.-. Parlava non senza una vena di orgoglio.
Stavolta non riuscii davvero a dire nulla se non una frase semplice, per quanto banale.
-È magnifica…-, sussurrai.
-Assolutamente. E atrocemente costosa, aggiungerei.-, disse l’uomo che pareva un contabile e che sembrava molto meno incline alla contemplazione di quel capolavoro di barca.
-Il meglio, Tariq. Solo il meglio, ricordi?-, chiese Awua, tagliente. Lui annuì. Servile e domo.
-Naturalmente, mia signora. Vogliamo imbarcarci?-, chiese la nera. Surya sorrise, deliziata.
Non mancavano, in quella nave, tutta una serie di comodità che non facevano assolutamente sorgere la nostalgia della mia precedente sistemazione.
La cabina che mi fu assegnata era poco più piccola del mio alloggio alla villa ma compensava con notevoli migliorie a livello di comfort: i pavimenti erano in legno d’ulivo, le coperte in lino sirico, e la doccia pareva uscita da qualche palazzo dell’antica Licanes, con getti ad alta pressione e riproduzioni di marmi antichi.
-Salperemo tra pochi minuti.-, annunciò Vurna mentre mi ambientavo, -La padrona ha voluto donarti un cambio d’abiti. La stanza è a tuo utilizzo. Il pranzo sarà servito tra due ore. Navigheremo a vela, senza attivare i motori. Ordini della padrona.-.
-Non ha fretta di raggiungere l’Africa?-, chiesi. Vurna scosse il capo.
-No. Sembra anzi voglia fare con calma.-, disse. La cosa mi lasciava perplesso, ma annuii.
Dopo che Vurna fu andato, mi dedicai un istante a osservare il mare. Il vasto specchio d’acqua separava Soqora dall’Africa, specificatamente dalla regione nota come Aethyophiae.
Là, il popolo fieramente indipendente del regno di Re Menelik XVI aveva rifiutato l’alleanza con Roma ai tempi della Guerra Civile tra Septimo e Aristarda e ancor più sdegnosamente aveva preferito evitare di accogliere l’invito nella Confederatio Licanea sorta dalle ceneri dell’Impero.
Il mio mentore mi aveva parlato del mondo. Era stato a Roma, e persino a Madridia, aveva viaggiato lungo una vasta parte del mondo conosciuto.
Conosceva tutto ciò per esperienza diretta, non per studi o impressioni di terzi, e quando parlava del mondo, ricordavo bene il luccichio dei suoi occhi, quelli di un uomo che aveva voluto vivere una vita, non venirne vissuto.
L’Aethyophiae era abitata da africani fedeli alla Chiesa di Lalibela, la cui dottrina parlava di un uomo definito figlio di un unico dio, salvatore degli uomini. Non potevo dire se tale fede fosse una mera escamotage politico elevato a religione o se invece il credere di quel popolo fosse genuino, fatto stava che, a detta del mio maestro, la fede permise loro di restare uniti e coesi sotto il loro capo, il Negus, così era il titolo con cui era noto il loro re.
Sospirai, pensando che paradossalmente, da quando la rovina si era abbattuta senza preavviso sulla mia città e sulla mia gente, avevo visto più popoli e terre straniere di quanti ne avessero veduti molti viaggiatori.
Fu dopo una doccia che mi cambiai d’abito. Eravamo intanto salpati. Sotto di me il movimento dello scafo era appena percettibile.
Uscii fuori dalla camera, uscendo sul ponte. Non ero il solo: anche Surya era lì, e pareva godersi l’aria salmastra e il sole, avvolta solo da un reggiseno e un perizoma, sdraiata su una lettiga. Le gambe erano lisce e ben modellate, così come il ventre, piatto. Non aveva trucco dorato sul viso. Era evidentemente rilassata.
-Salve, veggente!-, esclamò vedendomi.
-Salve.-, sorrisi io. Era bellissima e non potevo negare che in quella situazione la sua bellezza pareva ben maggiore.
-Primo viaggio in mare?-, chiese l’intrattenitrice.
-Già. È… piacevole.-, ammisi.
-Mh-mh. Il tempo è bello, nessuna tempesta all’orizzonte. Arriveremo in Africa tra un giorno, due al massimo.-, disse lei, -Intanto abbiamo tempo… per rilassarci.-, si stiracchiò sulla lettiga con un movimento voluttuoso che mi causò un aflusso di sangue al bassoventre.
-Sì… c’è tempo.-, dissi. Non ero sicuro che stesse spudoratamente provandoci con me, anche perché onestamente non ritenevo avesse motivo di provarci: avrebbe solo dovuto dirmi chiaramente che mi voleva e sarei caduto ai suoi piedi come un frutto maturo.
La sua risata, cristallina e chiara, fu come un fulmine a ciel sereno.
-Su, veggente! Rilassati! Non mordo… almeno, non sempre!-, esclamò divertita.
Scoppiò nuovamente a ridere. Io sorrisi appena, come sciolto.
-Esattamente… come sei finita qui?-, chiesi. Non mi spiegavo quella sua costante presenza: di solito le Etere erano libere di andare e venire come e dove volevano.
-Ah! Intendi su questa lettiga?-, chiese lei con palese espressione divertita. Tornò seria.
-Il Kelreas non è un regno ricco, né tantomeno interessato alla Confederatio Licanea. Il mondo è in pace, ma la povertà esiste comunque, da molto tempo.-, disse l’Etera.
Annuii. Era una verità conclamata.
-In Kelreas, la carestia giunse come un flagello mandato dalla Dea Madre. La regina Uphari decretò che avremmo dovuto razionare i viveri. Mia madre aveva già due figlie. Io… fui di troppo. Venni abbandonata. Sarei dovuta morire, ma una donna ricca, Ghetlia, mi adottò. Mi istruì nelle arti delle Etere, trovò il modo di farmi raggiungere la città libera di Pahsbari, fuori dal regno e da lì poi, giunsi nelle terre arabe.-, raccontò. Io annuii, ascoltando con attenzione.
-Gli uomini vedono una bella donna e pensano subito al sesso. È così sempre e da sempre.-, decretò Surya mentre si girava sulla schiena dando una meravigliosa visione delle sue natiche sode. Mi vergognai ad ammettere di averle guardate. Mi fissò, gli occhi azzurri implacabilmente divertiti.
-Vedo che neanche tu sei immune da tutto ciò.-, disse.
-Ammetto di no. Ma continua, ti prego.-, la esortai. Lei sorrise.
-T’interessa davvero?-, chiese. Annuii.
-Da quando sono stato catturato da dei predoni, mi sono spesso chiesto quanti altri sventurati hanno subito questo fato.-, dissi.
-Innumerevoli. Io non fui tra quelli: un’epidemia m’impedì di guadagnare adeguatamente per un mese e infine, secondo il diritto di quella regione, fui venduta come schiava.-, spiegò Surya. Io la guardai, sorpreso.
-Credevo che tutte le comunità degne di esser dette civili accordassero perpetua libertà alle Etere!-, esclamai.
-Oh mio stolto veggente!-, esclamò lei scuotendo il bel capo, -Sappiamo bene entrambi che non è così, nevvero?-, chiese. Mio malgrado, annuii.
-Un’Etera vale molto, a volte il suo peso in oro. L’usuraio cui dovevo i soldi non ci pensò due volte a proporre un baratto: dovevo procurargli una cifra sufficiente a ripagare il mio debito con un ingaggio. Il debito assommava a ottomila dinari.-, disse Surya. Il suo sguardo pareva distante, perso nel tempo.
-Ma è una somma abominevole!-, esclamai, oltraggiat, -Neppure Thaidea, la Prima Etera, avrebbe potuto chiedere una cifra simile per la propria compagnia!-.
-Infatti l’usuraio lo sapeva assai bene. La sua speranza era che nessuno mi ingaggiasse per quella cifra, a quel punto, secondo la legge del luogo, avrei dovuto servirlo. Piuttosto, mi sarei ammazzata.-, lo disse con tale veemenza che non ne dubitai per un solo istante.
-Immagino che qui entri in gioco Awua.-, dissi con un presentimento.
Il volto di Surya si sciolse in un sorriso.
-Non è forse andata così per tutti noi, Alexander?-, chiese.
Annuii. Awua era apparsa nella mia vita con una rapidità e una forza non indifferenti.
-È una donna notevole.-, ammisi. Surya sorrise.
-Sì. Sotto molti aspetti. In Kelreas m’insegnarono l’arte di leggere i volti. Lei è decisa, forte, fiera.-, commentò, -Come una leonessa delle sabbie. Sarebbe stata un’ottima amazzone.-.
-Ti ingaggiò?-, chiesi. Lei scosse il bel capo.
-Non proprio. Mi offrì un patto: la miglior sistemazione possibile in cambio della mia esclusiva compagnia al suo servizio. Avrei avuto tutto: i cibi migliori, i letti più comodi e tutto ciò che avrei richiesto, ma non avrei mai dovuto abbandonarla finché non fosse stata lei a congederami.-, rispose.
Guardai l’intrattenitrice con una domanda inespressa.
-Da allora sono passati otto mesi.-, chiarì lei. Annuii.
-Non ti pesa?-, chiesi. Mi fissò, con durezza.
-Abbiamo parlato abbastanza. Se non ti spiace, ora desidero prendere il sole.-, ribatté.
Mi ritirai verso il ponte, osservando la distesa d’acqua riempire la visuale e la costa allontanarsi sino a svanire mentre l’equipaggio manovrava le sartie e le vele.
La quiete della sera nella mia stanza venne infranta da un bussare.
Entrò l’uomo. Il contabile. Aveva la pelle scurita dal sole, abbronzata, occhi scuri e capelli castani, ma l’aspetto e il portamento denotavano qualcuno che non veniva né dal Kelreas, né dall’Asia né tantomeno dall’Arabia. Mi fissò.
-Sei il veggente.-, disse. Annuii, anche se non era una domanda.
Lui si sistemò degli occhialini sul naso.
-Il mio nome è Licinus. Sono un contabile. Voglio che tu legga per me.-, disse. Annuii.
-Sei il contabile della padrona?-, chiesi. Lui mi fissò, senza rispondere.
-Chiedi qualcosa in particolare?-, domandai.
-Sì. Voglio sapere della mia ricchezza. Aumenterà o diminuirà?-, chiese.
Dentro di me pensai che era esattamente il tipo di domanda che mi facevano quelli che non sapevano con esattezza cosa chiedevano. Come potevo spiegare loro ciò che non erano pronti a udire? Mi sedetti al tavolo mentre Licinus si appropinquava all’altra sedia lasciandovisi cadere piano. Non era grasso, ma intravedevo una persona pigra, e altezzosa.
-Quattro carte.-, dissi mischiando le lame, -Una per ciò che non vedi, una per ciò che vedi, una per il soggiacente e una per la meta.-.
Lui mi fissò mentre tagliavo le ventidue lame e le rimescolavo.
-Non usi il mazzo intero.-, disse. Scossi il capo.
-Non sono solito farlo, no.-, ammisi. Estrassi.
La prima carta. Il non visto, in questo caso l’Imperatrice, capovolta.
-Che significa?-, chiese. Io lo fissai. Attesi un istante prima di parlare.
-L’Imperatrice indica la volontà, capvolta ne indica la mancanza all’origine. E in questo caso, potrebbe rappresentare una figura di potere donna, in realtà a te avversa.-, dissi.
-Procedi.-, ordinò lui, secco. Non era interessato a dibattere del significato o a chiedere spiegazioni. Voleva le risposte, e solo quelle. Girai la lama a destra, il visibile.
-Il Carro.-, dissi, -Dritto. Trionfi, ricchezza. Ma esse ci sono, e tu già sai.-.
-Sì. Sono un uomo molto ricco. La ricchezza di Awua viene anche da me.-, sorrise lui con un ghigno. Evitai di ribattere. Gli arroganti, lo sapevo bene, non duravano. Mai.
-Il soggiacente.-, dissi girando la lama, -La Giustizia.-. Era capovolta.
Essa era raffigurata come l’antica regina del Kelreas del Mito di Licanes, Athlia.
La Regina delle Amazzoni aveva lo sguardo inflessibile, duro e arcigno della giudice, anche se il Mito era ben chiaro al riguardo: Athlia s’invaghì di Janus, egli la abbandonò per seguire il suo destino e lei, mortalmente offesa, lo maledisse. Impugnava i simboli del potere, libra e lama.
Il fatto che l’autore di quel mazzo avesse scelto Athlia per tale parte era simbolico: entro un certo livello, a dispetto di ogni chiamata del destino, nessuno sfugge alle conseguenze del proprio agire, tale era il monito di quelle carte.
-La Giustizia implica equilibrio, retribuzione. E non è positiva.-, dissi.
-Non ho mai commesso reati di sorta.-, sbuffò Licinius.
-Non ho parlato di giustizia penale.-, dissi. Lui mi fissò, con scetticismo palese.
-Parli di giustizia divina? Non è mai esistito nulla di simile.-, sibilò.
-Come desideri. Allora proprorrei di continuare con l’ultima carta.-. Girai.
La Torre. Capovolta. Licinius scosse il capo.
-Non è buona, vero?-, chiese l’uomo. Mi fissò, con stizza, con rabbia.
– Sei uno iettatore! Non ci sarei mai dovuto venire qui, a farmi raccontare fandonie!-, esclamò alzandosi. Rimasi impassibile, nonostante temessi un’aggressione.
Lo guardai uscire, scuotendo appena il capo quando sbatté la porta dietro di sé.
Si era aspettato predizioni fulgenti, assolutamente benevole, conferme di speranze, e invece riceveva quell’enorme delusione.
Fissai la Torre capovolta. Significava rovina, non semplicemente una sconfitta minore, ma con la devastazione totale. Quello era il significato più triviale, ma parlando a livello esoterico e spirituale, la Torre era il corpo dell’uomo e l’esplosione che la vedeva scoperchiata, l’energia che erompeva, potente e libera da costrizioni, ma non era ciò che sentivo il significato per Licinius. Le carte erano state lapidarie, impossibile ignorare o confondere il loro messaggio.
Rimescolai gli arcani nel mazzo.
La cena a bordo fu piacevole, ma frugale.
Zuppa di verdure e pane. Tagli di carne magra e pesce.
Fu servito persino del vino, ma non ero chissà quale estimatore degli alcolici e me ne astenni.
Uscii lungo il ponte, passeggiando mentre digerivo. La notte era scura, poche nuvole velavano il cielo notturno. Udiì i passi prima di sentire la voce.
-Piacevole, vero?-, chiese Awua.
-Sì, mia signora.-, risposi con un sorriso.
-Immagino tu non abbia mai viaggiato molto.-, disse.
-Esattamente, mia signora. Sino al sacco della mia città sono rimasto relegato in quella che era la mia quotidianità, senza deviare da essa.-, confermai.
-Affascinante. Immagino che tu abbia appreso a usare i tarocchi in giovane età.-, speculò lei.
-Sì. Ero… temuto da alcuni.-, ammisi io, -I veggenti lo sono spesso.-.
-Già. È comprensibile. La gente teme ciò che non comprende. Licinius mi ha detto che gli hai predetto rovina e guai con la giustizia…-, disse lei. L’atmosfera parve raffreddarsi.
-Sì. L’ho fatto. Ho interpretato le carte. Lui non ha apprezzato.-, ammisi.
Awua tacque un istante. Pensosa, lo vedevo. Fissava un punto in lontananza.
-Licinius non ama credere a ciò che non può controllare. Sai, Alexander, penso che tu sia stato uno dei miei acquisti migliori, se non il migliore. Mi faccio vanto di avere al mio seguito solo il meglio, e debbo credere che le predizioni che mi furono fatte a suo tempo sull’eccelleza, abbiano avuto un fondo di verità.-, disse.
-Hai consultato un altro veggente, mia signora?-, chiesi, incuriosito.
-Quando avevo quattordici anni. Era un vecchio e sapeva che sarebbe morto presto.
Mi disse che avrei dovuto lottare, e l’ho fatto. Mi parlò di ricchezza e gloria, e le ho ottenute. E poi mi parlò di un uomo. Che avrebbe saputo vedere. Mi disse che potevo fidarmi.-, raccontò. Mi stava fissando. Trasse un sorso di vino dal calice che aveva con sé.
-Mia signora, io…-, inziai, -Credo di capire di essere quell’uomo. Ma non ne sono certo.-.
-Neanche io. Ma ti ascolterò finché lo riterrò necessario, Alexander.-, sussurrò lei.
Alzai lo sguardo. La luna, miracolosamente esposta, gettava la sua luce su di noi.
Era calante. Preso sarebbe svanita dal cielo, per ricomparirvi.
-Splendida notte.-, disse Awua.
-Davvero. Una notte molto piacevole.-, dissi, -Ma avrei una domanda, mia signora.-.
-Chiedi.-, disse lei.
-Cosa stiamo andando a fare a Thama?-, chiesi. Silenzio.
-Ho degli affari laggiù. Al momento opportuno ti chiederò consiglio. Sappi solo che non saranno affari semplici. Bada a non allontanarti troppo da me e andrà tutto per il meglio.-, rispose infine la nera. Non ribattei mentre lei si congedava. Mi voltai a fissare le acque che sciabordavano pigramente contro la fiancata.
Il giorno successivo mi vide sveglio poco dopo l’alba.
Osservavo le onde, e infine, vidi la terra. L’Africa. Lentamente, una città si delineò all’orizzonte. I marinai di bordo manovrarono la nave sino all’arrivo in porto, attraccando rapidamente presso un molo. La città si chiamava Bahra.
-Andiamo.-, ordinò Awua. Vestiva pantaloni scuri, compresi di una corta gonna marrone con fregi argentei. La parte superiore del suo abito era essenziale, una sorta di chitone verde acqua, privo di maniche e allacciato lungo i lati sino ai calzoni. Notai che portava una spada. Una scimitarra, per la precisione. Le sue guardie brandivano armi da tiro rapido e portavano pugnali alle cinture. Surya, poco distante, avanzava con la sua usuale veste, un pugnale curvo appeso alla cintola. Dal canto mio, non portavo armi e indossavo le vesti fornitemi.
Oltrepassammo rapidamente gli uffici portuali sbrigando rapidamente le formalità, poi acquistammo alcuni cammelli, portando con noi il necessario per procedere verso Thama.
Le case e le costruzioni a Bahra erano perennemente di color ocra, parevano avere mille anni. La poca tecnologia presente era una pallida ombra di quella che si sarebbe potuta trovare anche solo a Soqora. C’erano diverse guardie, ma poche armi a energia e i mezzi a levitazione erano ancora meno. Moltissimi circolavano a dorso di cammello, o di asino comune e c’erano numerosi mendicanti, assiepati lungo i viali, addossati ai muri, in cerca di elemosine.
-Bahra è una città molto antica.-, spiegò Awua, -I suoi abitanti originari erano nomadi che, ben prima del Cataclisma, furono obbligati a vivere qui. Con il Cataclisma, questo posto fu abbandonato, ripreso, distrutto, ricostruito. Infine, Menelik XV conquistò la città insieme a gran parte dei territori limitrofi. Da allora, appartiene al suo regno.-.
-Non sembra un posto molto ricco.-, osservai. Notai un palco. Un banditore cercava di magnificare le doti di alcuni schiavi che non parevano esattamente un affare eccelso. La nera passò oltre senza quasi guardarli. A rispondere fu Licinius.
-Non lo è. Due carestie, tre rivolte, altrettante invasioni di popoli nemici e stranieri… Bahra non si è mai veramente ripresa da questa serie di devastazioni. Come se questo non bastasse, il terremoto avvenuto vent’anni fa ha quasi completamente devastato i pochi edifici rimasti. La Confederatio Licanea ha offerto degli aiuti, ma i maggiorenti di Bahra ci hanno messo poco a farli sparire nelle proprie tasche. L’invasione di Menelik da quel lato non ha cambiato granché.-. Passammo oltre una moschea dove una pletora di fedeli si prostravano sui tappetini invocando il Dio dei loro padri. Erano tutti africani di pelle scura, alcuni più di altri. Nessuno pareva ricco. Il predicatore pareva paradossalmente più povero del suo gregge.
Era visibile da fuori perché l’edificio era stato ristrutturato senza però riedificare le pareti. Gran parte della cupola della moschea era visibile da fuori. Uno spettacolo veramente desolante, quasi quanto il resto della città.
-Non capisco: non potevamo attraccare a Berbera?-, chiese Surya.
-Avremmo potuto. Ma voglio evitare attenzioni sgradite. Berbera è piena di… conoscenti che preferirei evitare sapessero del nostro arrivo. Bahra non è altrettanto battuta.-, rispose Awua.
Superammo un incrocio stradale, arrivammo a un recinto con cammelli accanto a una casa.
-Benvenuti! Ahmad è lieto di vedervi!-, esclamò un tizio gioviale dal sorriso guasto e l’espressione da furbetto. Lo fissai. Non mi piaceva.
-Lo sono anche io. I cammelli sono pronti?-, chiese Awua, secca.
-Potente signora, il prezzo delle bestie è stato mal calcolato. Credo comprenderai che…-, Awua scosse il capo, troncando l’invettiva del furbastro.
-Non tentare di fregarmi. Non è una mossa furba.-, sibilò, -Ho già pagato per quelle bestie, Ahmad. Il tuo degno compare, Mhufid, lo sa bene. Se lui si è intascato i soldi senza lasciartene, dovresti prendertela con lui, non cercare di imbrogliarmi.-.
La mano della nera era distintamente poggiata sull’impugnatura della spada, un’impugnatura forgiata in modo che il pomolo del codolo somigliasse alla testa di un’aquila.
-Mia signora… non intendo certamente farvi un torto, ma…-, iniziò untosamente Ahmad.
La mercante non si scomodò a rispondere: fece appena un cenno con la sinistra mentre con la destra estraeva l’arma puntandola alla gola del farabutto con un gesto talmente casuale e rapido da apparire invisibile.
La guardia di Ahmad, un nero con un randello, fece per metter mano alla clava, ma le tre bocche da fuoco delle guardie di Awua lo paralizzarono. Minaccia sufficiente.
-Io ora mi prendo i cammelli, Ahmad. Tu puoi darmeli gentilmente, a un terzo del prezzo che ho già pagato, e lasciarmi andare per la mia strada. Oppure può rifiutare. E me li prenderò comunque, passando sul tuo cadavere.-, disse Awua, la voce priva di ogni traccia di simpatia.
Ahmad non fiatò per un lungo istante, prima di crollare.
Lasciammo Bahra su animali di buona qualità, forse i migliori che la città avesse avuto da offrire. Awua conduceva la colonna, preceduta da due delle guardie, mentre le altre due chiudevano il gruppo. Procedemmo nel deserto, lungo piste poco battute.
-Thama, quanto dista?-, chiesi.
-Almeno un giorno, se non ci sono problemi.-, fece Surya, -Ci toccherà accamparci…-.
-È tutto predisposto.-, commentò Licinius, asciutto. Si passò una pezzuola sulla fronte madida di sudore. Non pareva a suo agio.
Si riferiva al seguito di servi che si trascinava appresso il necessario per far campo.
-Ci accamperemo oltre questa duna.-, sancì Awua. La mercante non pareva minimamente infastidita dall’idea di dover trascorrere una notte nel deserto.
Fare campo non fu difficile, e mi sorpresi a notare che la tenda che Awua aveva fatto portare per sé era ben grande, mentre le nostre erano più simili alle tende monoposto usate nelle antiche campagne militari dell’Impero.
La cena fu preparata rapidamente e sapientemente. Era comunque del buon cibo, pur mancando leggermente di spezie. Mangiammo bevendo del thé caldo, alla maniera dei popoli del deserto. La sera stava già incombendo.
Avrei voluto solo dormire, ma il deserto e un senso di agitazione che non mi era chiaro, mi tennero sveglio.
Furono domande e timori a togliermi il sonno. Era impossibile per me scostarmi da un presentimento non lieto. Fu quello a farmi abdicare all’idea di addormentarmi e portarmi a uscire dalla tenda, avvolto da una veste per difendermi dal freddo della notte.
Il campo era semplice: un fuoco al centro, la tenda di Awua a nord, la mia a ovest, quella di Licinius ad est e diverse tende per gli schiavi a sud. Le guardie erano ben deste, ognuna con la propria arma a portata di mano. Notai che molti di loro avevano con sé qualcosa per tenere a bada la sonnolenza. Sicuramente tutti loro sapevano di essere la prima e l’ultima difesa.
Mi misi accanto al fuoco. Lo scoppiettare del focolare era piacevole ma non contribuì a placare i pensieri che non mi stavano certamente aiutando.
Mi alzai, prendendo a camminare, piano, per non turbare il sonno di Awua.
E mi bloccai quando sentii un verso completamente estraneo alla quiete del deserto, appena prima che il fuoco emettesse uno schiocco. Mi volsi verso la tenda della mercante, improvvisamente conscio di un altro verso uguale al precedente, solo appena più pronunciato. Era un suono noto, ma così improbabile…
Come se i miei passi non fossero stati realmente i miei, mi diressi verso l’ingresso della tenda.
Era aperto, non spalancato, appena socchiuso. Vi gettai un occhio all’interno.
Quel che vidi portò il mio cuore a battere furiosamente e il mio sesso a irrigidirsi come quello di un adolescente davanti a qualche vid erotico. Le luci erano fioche, ma bastavano a distinguere la scena con tanta perfezione da renderla quasi dolorosa.
La forma scura di Awua, nuda, scivolava lungo il corpo ambrato di Surya, la bocca intenta a suggere e baciare punti sensibili mentre l’Etera ricambiava, una mano intenta ad accarezzare la schiena della nera sino alle reni, l’altra impegnata tra le di lei gambe, a dare piacere alla sua amante. Anche le mani di Awua non era certo ferme: una carezzava piano un seno, mentre l’altra affondava a ritmo, piano e con spietata lentezza tra le cosce di Surya.
Fissare quella scena mi stava eccitando non poco. Le due si davano piacere piano, come se avessero l’intera notte, come infatti era. Distese sulle pelli che costituivano il pavimento della tenda, si avvinghiavano come pantere della sabbia.
Improvvisamente, Awua volse gli occhi nella mia direzione. Fissò dritto verso di me, la bocca semiaperta a mormorare qualcosa a Surya. La mano tra le cosce della nera si mosse più rapida. I gemiti rochi di Awua aumentarono. I suoi occhi non lasciarono i miei.
Anche Surya sembrava subire una sempre maggiore stimolazione: le due donne stavano giungendo all’orgasmo insieme, ed almeno una di loro sapeva che io stavo guardandole.
Era una situazione atrocemente eccitante.
Mi ritrassi, lentamente. Dentro di me sentivo un turbinio di emozioni.
Desiderio, paura delle conseguenze, eccitazione selvaggia, e sul fondo, la consapevolezza che le mie domande su Surya avevano trovato risposta, almeno in parte.
Cercare di riaddormentarmi fu pressoché impossibile: avevo la mente piena di quelle scene, e di altre fantasie che non erano quel che si poteva dire caste.
L’urgenza mi avrebbe spinto a masturbarmi, ma in un mezzo a tutto ciò, ripensai a quel presentimento. Quell’immane senso di una sventura incombente. Un’agitazione che velava anche la lieta immagine delle due donne avvinghiate nella passione.
Che cos’era?
Mi alzai. Presi le carte e mischiai. Volevo una risposta, ma sapevo già che interrogare gli arcani su qualcosa di così nebuloso poteva essere tutt’altra che grato.
Eppure, era l’unica.
-Una lama.-, dissi, -Una sola.-.
Era l’ideale per iniziare. Se ciò che stava per accadere non era definibile, allora anche i dettagli che potevo ottenere al riguardo sarebbero stati meno. Ragionevole. Estrassi.
La Ruota. Fissai l’immagine mentre pensavo al suo significato più profondo, alla sua verità essenziale. Il Destino. Il fato che ci attende al varco. Per quanto si cerchi di eluderlo, esso è sempre presente. Per tutti, senza eccezioni, vi è un trittico di gioie e dolori.
Rimasi a domandarmi se quella carta signifcasse qualcosa solo per me, o se invece il suo messaggio fosse per altri. Non trovai risposta. Ma non avrei interrogato le carte più a fondo.
Non era saggio. Me l’aveva spiegato il mio maestro tempo prima: le carte sono in grado di darti risposte sensate, se usate con parsimonia. Se se ne abusa, non si trae alcuna saggezza, ma si ottiene solo confusione e risposte a casaccio, prive di qualunque significato che non faranno altro che aumentare l’inquietudine di chi chiede.
Fu poco dopo l’alba che vidi Awua. La mercante si avvicinò a me mentre stavo preparandomi a partire. Mi fissò, impossibile dire con quale sentimento.
-Ieri notte stavi spiandomi.-, disse.
-Non fu intenzionale, mia signora.-, dissi, -Ho sentito un rumore e…-.
-E hai pensato bene di guardare.-, concluse lei, secca. Se era arrabbiata, stavolta dubitavo che finanche il mio talento come veggente avrebbe potuto evitarmi una punizione.
“Sarà questo?”, mi chiesi, “Sarà questo l’errore finale di Awua? La mia morte?”.
Mi accorsi di essere spaventato, quasi da tremare, ero teso.
-Mia signora…-, iniziai cercando di mantenere un tono di voce neutro e controllato.
-Sei rimasto a guardare. Anche dopo che ti ho visto. Sei rimasto a spiare.-, disse lei.
-Sì!-, esclamai, la paura che mi strappò ogni rimasuglio di contegno. Inutile negare.
Silenzio. Improvviso. Notai che le mani di Awua non erano sulla spada.
-Capisco.-, disse infine. Lo disse con assoluta, totale calma.
-Mia signora… io…-, iniziai nuovamente. Giustificarmi, o difendermi mi parve inutile, e patetico, ma sentii di doverci ugualmente provare.
-Tu sei un uomo. E da uomo agisci e pensi.-, disse Awua, con espressione impassibile.
-Sì…-, riconobbi, abdicando infine a qulaunque pretesa di difesa.
-Mi auguro almeno che ti sia piaciuto ciò che hai visto.-, concluse lei.
Si voltò senza attendere risposta. Ripartimmo poco dopo.
La gola di Aswer era uno dei luoghi più desolati che avessi mai visto.
Sapevo che l’Africae era stata divisa, spezzata in due a seguito del Cataclisma.
Evidentemente, guardando la strettoia in cui stavamo muovendoci, spoglia e rocciosa, arida e fessurata, veniva da credere che l’intero continente fosse stato artigliato, sfregiato da un dio irato. Ovviamente, attraversare la gola era la via più breve per Thama. Awua voleva raggiungere la città, al più presto, ma non fu incauta: ordinò a tutti di tenersi pronti a un attacco. Persino i servitori furono muniti di armi per respingere un eventuale attacco.
C’inoltrammo lungo la strettoia non senza un filo d’appressione. E fu lì che lo vedemmo.
Un uomo, uno solo, vesti scure da deserto. Pareva attenderci.
-Salam alaikum, Awua.-, disse.
-Alaikum Salam, Ahri.-, rispose lei con un cenno del capo. Non scese dal cammello.
-Ci erano giunte voci che saresti tornata in queste terre per affari.-, disse l’uomo. Lo fissai meglio. La sua carnagione era chiara, tipica degli abitanti della Libia, o persino dell’Hiberia, o magari era un Licaneo che aveva adottato nomi e cultura del posto per sfuggire alla giustizia della Confederatio. Impossibile dirlo.
-Se permetti, avrei un po’ di premura. Se sei qui per fare affari, temo che dovrai accompagnarci sino a Thama.-, disse la nera la voce ferma e chiara.
Ahri scosse il capo. Si sciolse il turbante mostrando un viso sfregiato da una cicatrice che gli attraversava il viso miracolosamente serbando gli occhi, il cranio calvo.
-Mi addolora, ma temo che ciò non sia possibile.-, disse.
-Non è saggio contraddirmi.-, ribatté la mercante. A un suo cenno, non meno di sei bocche da fuoco puntarono il viandante che, di contro annuì appena, rilassato.
-Non è saggio minacciare in casa d’altri.-, rispose lui. Alzò le braccia come qualche antico profeta della sua gente. Improvvisamente, la strettoia si animò. La gola mi si strinse in un’angoscioso spasmo mentre anche Surya emetteva un verso di spavento strozzato, e Licinius fissava stralunato e smarrito i nuovi arrivati. Non erano due o tre.
Erano almeno una trentina. Beduini in abiti lunghi, color deserto, con armi a proiettili solidi vecchie quanto la loro famiglia ma anche armi a energia, sicuramente frutto di commerci non leciti con le industrie di Licanes.
Notai che lungo le pareti della strettoia si erano appostati numerosi tiratori, armi puntate sul nostro gruppo, persino un paio di mitragliatrici. Ci avrebbero falciati.
-Ahri…-, iniziò Awua, suo malgrado più irata che spaventata.
-Giusto per mettere in chiaro le cose, Awua. Io non tollero minacce sul mio territorio. Sarai anche la mercante più ricca dell’intero Golfo Arabico, ma quaggiù sei una viandante, e io invece sono a casa mia.-, sibilò l’uomo. Non si sentiva muoversi un singolo granello di sabbia.
-Sei stato chiaro.-, disse la mercante, -Ma se avessi voluto ucciderci, l’avresti già fatto.-.
Ahri annuì, senza fretta. Sorrise predatorio.
-So che tra i tuoi associati c’è un tale Licinius, un Licaneo. Il suo nome completò è Licinius Quinto Varano. Consegnamelo, e ti scorteremo sino a Thama.-, disse.
-È una follia! Io non lo conosco, quest’uomo!-, esclamò Licinius. Scese da cammello avvicinandosi ad Awua, -Non sono mai stato qui!-.
-No, naturalmente. Non come Licinius, quantomeno. Ma come Antario Urio Verano. Sei stato bravo, ma non abbastanza.-, lo derise Ahri estraendo una pistola, puntandogliela al petto.
-Cos’ha fatto, esattamente?-, chiese Awua. Altri dei guerriglieri rumoreggiavano.
-Lui e la sua compagine hanno razziato le coste della regione per mesi. Erano una banda di “pacificatori”, dicevano. Si recavano a dare la caccia ai banditi che colpivano le carovane mercantili… A parte che molte carovane furono comunque razziate.-, gli occhi di Ahri parevano capocchie di spillo, la voce era pregna d’odio venefico.
-Sono calunnie! Awua, tu non puoi credere davvero a quest’uomo!-, esclamò Licinius.
Ripensai alla carta del destino, alla Ruota.
-I tuoi compagni furono molto meno abili di te. Più sfrontati. Una razzia in più, qualche altra donna da stuprare, qualche altro schiavo da vendere ai mercanti di Yuhsi…-, disse Ahri.
-Non è vero… sono tutte balle!-, scosse il capo l’accusato.
-Ci volle poco a trovarli. Sivario, Julio, Fragius, Retierus… L’ultimo che mancava eri tu, Antario. Il “contabile”. Immagina la mia sorpresa al sapere che eri al servizio di Awua, la mercante più ricca dell’intero Golfo Arabo. Ho aspettato così tanto che tornassi qui, nella mia terra. Ho disseminato le città costiere di miei informatori… Mi è costato un capitale, ma era un prezzo che ho pagato ben volentieri, e vedo che l’investimento ha dato i suoi frutti!-, continuò con tono avvelenato che grondava un piacere non indifferente.
-Ho aspettato così tanto… e ora, esigo che quest’uomo mi venga consegnato!-, dichiarò Ahri rivolto alla nera. La mercante lo fissò, lo sguardo che si spostava da lui a Licinius e ritorno.
Dietro il beduino, gli altri guerriglieri rumoreggiavano, esigendo la consegna del reo.
-Non posso consegnartelo, Ahri.-, dichiarò infine Awua.
Ahri si strinse nelle spalle. Licinius si volse verso Awua, con stupore lieto. Aprì la bocca.
La lama di Awua gli aprì il petto, un fendente perfetto e pulito. L’espressione di Licinius passò dal trionfo all’orrore, alla sorpresa più totale. Accadde così in fretta che tutti sussultammo.
-Per… Perchè?-, chiese mentre si accasciava ai piedi del cammello della mercante.
Questa ripulì la lama nella stoffa di un fazzoletto, l’espressione dura, risoluta.
-Non ve lo avrei consegnato perché non accetto imposizioni, ma le accuse erano dimostrate in modo chiaro. Ho preferito giustiziarlo io. Giustizia è fatta, Ahri?-, chiese Awua.
L’uomo la fissò. Mi accorsi di star trattenendo il fiato.
-Giustizia è fatta.-, disse Ahri fissando il morto. Si voltò verso i suoi ripetendo la frase in un dialetto gutturale a cui fece eco l’esultanza dei fanti.
Mentre superavamo il corpo di Licinius, mi accorsi di come tutto era avvenuto. Fato, destino.
La rete si era chiusa su quell’uomo che aveva arreccato tante sofferenze a quella gente.
Spostai lo sguardo verso Awua. La mercante fissava davanti a sé, la spada rinfoderata.
Non sembrava minimamente turbata all’idea di aver dovuto uccidere un suo collaboratore.
Probabilmente lo aveva considerato il prezzo per una risoluzione conflittuale, nonché l’unico modo di uscirne vivi senza al contempo vedersi minata la propria autorità.
Surya, gli occhi sbarrati, mi fissò.
-Dea Madre… cos’ha fatto?-, chiese guardando il corpo del morto.
-Ciò che doveva…-, dissi io. Eppure, anche nella mia voce avvertii qualcosa. Un senso di timore, per la prima volta. Quella stessa determinazione ferrea che guidava la mercante portava dentro sé i semi dell’ira, della superbia.
La sua ricerca per l’eccellenza ne aveva pompato l’ego a dismisura, ma dirglielo sarebbe stato ben difficile. Notai che l’intrattenitrice ancora fissava il corpo supino a terra.
-Non guardarlo.-, dissi a Surya, toccandole appena la spalla.
Lei distolse a fatica lo sguardo dal corpo di Licinius.
Arrivammo a Thama senza più parlare, scortati da Ahri e i suoi sino alle pianure desertiche che precedevano la città vera e propria. Poi, Ahri si accomiatò, ma non prima che Awua ebbe avuto modo di contrattare una scorta per il nostro rientro verso Bahra.
Entrammo in città attraverso una delle porte sotto lo sguardo vigile di postazioni di guardia con cui Awua mercanteggiò per pochissimi e brevi istanti.
-Alloggeremo nel quartiere N’gonondo.-, annunciò, -Ho già fatto predisporre i nostri alloggi.-.
Annuii. Appena arrivammo notai che erano decisamente spaziosi. Si trattava di una sorta di villetta cintata, dove la mia camera era decisamente grande ed aveva annesso un bagno con relativi servizi e c’era persino un Hamman, una sala dov’erapossibile esporsi a erogazioni di vapore caldo, usanza ben precedente al Cataclisma.
I servitori si affrettarono a scaricare le bestie e Awua scese dalla propria con agilità e grazia mentre io scesi massaggiandomi le reni dopo un’intera giornata in arcione.
-Domani faremo un giro al mercato, per iniziare.-, dichiarò Awua, -Mi servirà un nuovo contabile, e Thama ha il mercato più grande di questa parte d’Africa.-. Thama era a tutti gli effetti un crocevia commerciale molto ambito da tutti i mercanti dell’Africae Superior.
Il suo sguardo era quasi illuminato da un bagliore di eccitazione mentre parlava.
“Neanche una parola su Licicnius.”, notai. L’uomo era morto ed era già dimenticato.
-Il nobile Tacho Amshari ci offre la sua ospitalità con sublime impegno.-, si compiacque la mercante mentre osservava il cibo fornitoci. Verdura e frutta, ma anche piatti tipici della tradizione dei figli del deserto. Niente carne. C’erano diverse ciotole di pistacchi e noci.
-Indubbiamente sollecito. Un cliente?-, chiesi io. La nera distolse lo sguardo dalle darrate per guardarmi, con un sorrisetto. Annuì.
-Un cliente e a volte un socio in affari.-, confermò, -Sono ansiosa di incontrarlo.-.
-Mia signora, se mi è concesso….-, iniziai.
-Ti è concesso ritirarti, ma non prima di avermi letto le carte. Voglio sapere come andrà il nostro soggiorno qui a Thama. La morte di Licnius è stata un fastidio, nulla più.-, disse lei.
Annuii. Mi sedetti al tavolo, estrassi gli arcani e mischiai le lame.
-Estrai anche dalle altre.-. La voce della mercante mi pareva strana, atona.
-Mia signora?-, chiesi, stranito.
-Estrai anche dagli arcani minori.-, insistette lei, la voce nuovamente forte e decisa.
Anniii. Mischiai i due mazzi. Non lo facevo quasi mai, e a ragion veduta.
Gli Arcani Maggiori erano carte risalenti a un passato infinitamente più antico del Cataclisma la cui storia si perdeva negli abissi del tempo. I Minori erano originariamente nati in un altro modo. I primi erano mistici, i secondi erano usati per quattro aspetti, ognuno corrispondente a un seme che aveva quattro figure e dieci carte che andavano dall’Asso alla decima.
-Quattro carte.-, sancii, -Una per ciò che non è visibile, una per il visibile, una per il soggiacente e una per l’evolvere.-. La mercante non parlò.
Estrassi la prima, la carta del non visto. La girai direttamente. Era una carta già vista.
-La Ruota.-, dissi, -Le carte sono coerenti, mia signora.-. Lei tacque.
-Il fato è all’opera. Lo era anche quando la tua spada si è abbattuta su Licinius.-, continuai.
-Tu condanni la sua morte per mano mia?-, chiese lei, lo sguardo duro. Riflettei brevemente.
-No.-, risposi infine, -Anzi, sono certo che tu abbia agito per il meglio: se l’avessi consegnato ti saresti mostrata debole, e se non l’avessi fatto saremmo morti. Hai scelto una terza via, evitando un conflitto che non avremmo potuto vincere e senza sacrificare la tua autorità. Licinius non era innocente. Meritava di pagare per i suoi crimini.-.
Lei annuì. Mi fece cenno di proseguire. La seconda carta era un otto di denari.
-È molto fausta, mia signora. Ti attendono guadagni non indifferenti. Questo viaggio sarà proficuo, ma l’otto è l’arcano minore che precede il nove e il dieci. L’evoluzione del seme dei Denari è nella sua natura il passaggio dal materiale allo spirituale.-, dissi.
-Mi stai dicendo che aggiungerò altra ricchezza al mio patrimonio?-, chiese lei. Annuii.
Girai la terza carta. L’Arcano privo di nome, Yneas con la falce.
-Il Dio dei Morti di Licanes?-, chiese Awua.
-Sì. In realtà può rappresentare anche un mutamento incruento e diverso, ma in questo caso si può interpretare sia come una fine, il termine di una via, che come la morte, ma in tal caso non la tua.-, spiegai.
-Ritieni che sia la morte di qualcuno a me vicino?-, domandò la nera. Gli occhi che mi fissavano ora ospitavano dubbi, scintille di timore.
-Forse. Ma è il soggiacente… No. La mia ipotesi è diversa, mia signora: la morte non riguarda te, o qualcuno a te vicino, ma sarà forse causata da qualcos’altro, forse…-, puntai la carta dei Denari, -Dalle tue azioni.-. Awua tacque.
-Continua.-, mi esortò. Io annuii.
Girai l’ultima carta. Il Diavolo. Di nuovo. Il Baphomet ci fissava, impenitente.
-Ancora lui.-, sibilò la mercante. Chinò appena il capo, come pensierosa.
-In questa posizione rappresenta un evolvere. Un evoluzione…-, dissi.
-È semplicemente assurdo che sia un’evoluzione se è già apparsa.-, ribatté lei.
-Allora è una costante lungo il cambiamento, mia signora.-, dedussi.
Awua tacque, per un lungo istante, poi mi fissò, improvvisamente apparendo in quelche misura stanca, provata.
-Ho cercato di… purgarla… questa carta.-, disse infine, -Ho cercato di farlo.-.
-Mia signora?-, chiesi. Non capivo.
-Surya. Quando ci hai viste insieme. Ho creduto che se avessi bruciato la mia lussuria con lei, questo presagio si sarebbe risolto.-, spiegò. Rimasi a bocca aperta.
-Mia signora…-, inziai. Ero ammirato, da un lato, e spaventato. Awua aveva davvero creduto che il Diavolo rappresentasse la sua lussuria? Poteva essere anche altro! Di certo aveva affrontato la cosa con un approccio ben più saggio di molti altri trovatisi nella stessa situazione. Le passioni andavano comprese, non represse, secondo il mio maestro.
-La lussuria non c’entra, vero Alexander?-, chiese la nera.
-No mia signora.-, risposi, -Potrebbe non avere alcuna parte in questa carta. Potrebbe essere che il Diavolo sia solo un richiamo ad altri lati del tuo carattere.-. Lei tacque.
Prese alcuni pistacchi da una ciotola vicina e li portò alla bocca. Masticò e inghiottì.
-Il tuo carattere è forte, mia signora, ma c’è anche orgoglio. L’orgoglio è un’indulgenza pericolosa.-, dissi. Awua mi fissò, indecifrabile.
-La tua schiettezza è ammirevole, veggente. Altri la definirebbero offensiva, ma non io.Iil mio è l’orgoglio di chi ha sfidato il fato e vinto. La mia prosperità viene dalla mia forza, non da altri. Di certo non dal cielo.-, proclamò, -Ho costruito la mia ricchezza con le mie mani.-.
-Non dubito di questo, mia signora. Ma ti esorto a non tramutare la tua sicurezza in superbia. Non ne verrà del bene.-, dissi mentre rimescolavo gli arcani tra loro.
-Lo terrò a mente.-, rispose lei. Si alzò. Io sospirai. Presi a mia volta una manciata di pistacchi.
Quel viaggio era stato indubbiamente sfibrante. Fortunatamente, ora che eravamo giunti a Thama, avremmo potuto muoverci a piedi, e soprattutto riposare.
Mi diressi in camera. Espirai appena riponendo le carte.
La cena fu in un salone a parte dove, seduti a tavoli bassi o sprofondati in cuscini, ci dilettammo ad ascoltare Surya che cantava accompagnandosi con l’arpa licanea.
Era una voce stupenda, magnifica. Mi sorpresi a sentire un senso di struggente emozione che portò i miei occhi a inumidirsi.
La cena fu molto piacevole, speziata. Notai che Awua discorreva con un uomo riccamente abbigliato, un mercante, o forse l’Amir della città, il governatore.
La mercante mi presentò con un cenno della mano.
-Costui, mio nobile signore, è Alexander. Un autentico veggente.-, disse.
-Un veggente?-, l’uomo dalla pelle scura e la barba curata mi squadrò, interessato.
-Sì. Forse può occorrere una dimostrazione?-, chiese la nera.
-Graziosamente! Prego, veggente, parlami del mio rapporto con mia moglie!-, esclamò l’uomo. Lo fissai. Annuii.
-Sei carte. Tre per te, e tre per lei. La prima per ciò che si vede, la seconda per ciò che non si vede, la terza per ciò che cambia.-, dissi estraendo le lame.
Le disposi: due colonne in verticale. Girai la prima. Un bellissimo Re di Spade, Socrax.
-Sei un uomo dalla mente acuta, educato e capace nelle arti come nelle scienze, mio signore. La tua mente non teme confronto.-, dissi.
-Questo già lo sapevo.-, disse lui. Girai la prima di sua moglie. Una Regina di Bastoni, raffigurata come Ctea, amazzone del Kelreas del Mito..
-Tua moglie è una donna passionale, non pare interessata a mentalismi e astrazioni.-, dissi.
L’aria dell’uomo si fece attenta. Girai la sua seconda carta. L’Innamorato.
-Sei dilaniato da un conflitto. Hai sposato una donna, pur amandone un’altra, vero?-, chiesi.
-Io… come…-, la sicurezza dell’emiro si frantumò.
-D’altronde anche tua moglie non sembra felice con te.-, dissi notando la carta successiva della moglie. Era l’Appeso, -Vede il suo matrimonio come un dovere imposto, sociale.-.
-Questo è…-, iniziò l’uomo, -È inaudito!-, esclamò infine.
-E per finire…-, esordii procedendo, -Ci sono le ultime carte.-.
Girai. Per lui era il Giudizio. Per lei, l’Eremita. Il viso di Ausper, indovino al servizio di Calus, sommo conoscitore di verità, solitario e austero, emergeva a mezzo dal cappuccio calato sugli occhi.
-Solitudine per lei, rinascita per te. Sii lieto, mio signore. Non dovrai tollerare quest’infelice unione in eterno. Le vostre strade si separeranno presto…-, dissi.
-Basta!-, esplose l’uomo. Indietreggiai, spaventato dallo scatto d’ira.
-Queste sono tutte ciance!-, esclamò, -Awua, ti facevo dotata di maggior acume!-.
La mercante prese appena un sorso dal proprio calice, senza parlare.
-Ti sei fatta irretire da questo ciarlatano! Ma dice il Libro che non ti dovrai arrogare la presuzione di conoscere il fato, poiché vi è solo una mano a scriverlo e un occhio solo a vagliarlo!-, strepitò l’uomo.
-Sì.-, disse Awua, -Ma si dà il caso, che quello stesso fato sia ben chiaro: tu hai bisogno delle mie merci. La tua città ne ha bisogno. E io te le fornirò, dietro un pagamento cospicuo.-.
-Ovviamente…-, sibilò l’uomo. La nera sorrise, i denti bianchi che spiccavano sulla pelle scura. Bevve di nuovo con un cenno come per brindare.
Dopo che il nostro ospite se ne fu andato, Awua mi sorrise.
-Gli hai detto il vero. Mezza città sa che il suo rapporto con sua moglie non è dei migliori. Lui tradisce lei, e lei tradisce lui. Ha solo paura dei giudizi degli altri, per questo non osa lasciarla.-, spiegò.
-Non pareva molto contento della mia lettura.-, dissi.
-No. È spaventato dal fatto che tu possa dire in giro quel che hai letto. E forse ne ha ben donde.-, commentò la nera. Mi sorrise, di nuovo.
-Molti mercanti e anche politici sono dei codardi, Alexander. Fanno tanto i puri ma sono profondamente marci, spesso più di altri perché si affannano a nascondere difetti assolutamente accettabili. Sarebbe molto meglio se abbandonassero la pretesa di ergersi a pladini della mortale, non credi?-, chiese.
-Credo, mia signora, che si sentano investiti del dovere di dimostrare alla loro gente che esiste la possibilità di essere migliori.-, commentai, -Ma è vero: in alcuni casi sono ipocriti.-.
-Esattamente. È questa la differenza tra me e loro.-, la nera si protese appena verso di me, come a volermi sussurrare un segreto gelosamente custodito, -Io non fingo. Non mento.-.
-Comprendo, mia signora.-, dissi. Lei sorrise di nuovo, gli occhi che parevano brillare.
-Amir Buhfi non può rifiutare la mia offerta neppure volendo. Ma ha voluto alzare la testa. Era necessario rimetterlo al suo posto. Sei stato bravo, Alexander. Le mie merci ora sono molto più care per lui, e lui sa di non avere scelta. La tua predizione era corretta: questo viaggio mi arricchirà enormemente.-.
-Mia signora, se posso chiedere…-, iniziai.
-Vuoi sapere cosa vendo.-, indovinò lei. Annuii. Lei sorrise ancora. Stavolta però non era un sorriso gioioso, ma pareva predatorio.
-Te lo dirò. Ma sappi che se lo dirai ad anima viva, né gli uomini né i tuoi déi ti salveranno.-.
-Manterrò il massimo riserbo.-, promisi, accorgendomi del brivido che risaliva lungo la schiena. Awua annuì, soddisfatta.
-Armi.-, disse, -Non quelle che usano i banditi o i predoni. Armi all’avanguardia. Il meglio.-.
Annuii. Ora tutto, ma proprio tutto, si spiegava.
-Servono a difendere la città.-, dissi.
-Anche. Ma non solo. Buhfi non lo ammetterà mai, ma suo fratello Muhiz intende prendere il potere e potrebbe farcela. Il vincitore sarà quello con le armi migliori. E ovviamente, io mi assicurerò che entrambi abbiano il meglio sulla piazza, al giusto prezzo.-.
-Mia signora… perché?-, chiesi. Lei mi sorrise di nuovo, con l’indulgenza di un’insegnante paziente dinnanzi alla cocciuta ignoranza di un allievo imbelle.
-Foraggiare entrambe le parti garantirà che il conflitto continui e ciò richiederà altre armi e munizioni che potremo vendere. Inoltre, indipendentemnte da chiunque emergerà vincitore, io avrò modo di vendere i miei prodotti alla fazione vincitrice. Patteggiare per l’uno o per l’altro è da miopi idealisti.-, spiegò.
Ammutolii. Capivo ora il perché del viaggio. Ecco da dove sarebbe venuta la sua ricchezza e il sangue versato per essa. Non potevo fare molto per evitare una simile serie di eventi. Potevo solo cercare di parlarle, persuaderla a desistere. Forse. Non mi pareva proprio il genere di persona intenzionata a ripensare alle proprie scelte.
-Mia signora, tutto ciò avrà conseguenze.-, mi sentii in dovere di dire.
-I miei nemici sono già molti. E per quel che riguarda le conseguenze per la mia anima, se poi esiste… Diciamo solo che quelli a cui vendo le armi troverebbero il modo di massacrarsi a vicenda anche senza il mio intervento. E ti ricordo che, dai proventi delle vendite, è venuta la ricchezza che ha risollevato Soqora dal suo squallore.-, concluse lei.
Io tacqui. Non avevo modo di ribattere. La mercante non sembrava interessata a parlarne.
-Non parliamone più.-, sussurrò con tono insolitamente dolce. Si diresse verso altri due invitati, uno dei quali tanto grasso da apparire ridicolo, mettendosi a parlare fittamente con essi, lasciandomi ai miei dubbi morali. Neppure il canto soave di Surya fu in grado di strapparmi a tali pensieri.
Rfilettei nuovamente sulla lettura fatta ad Awua. Il Diavolo era la costante, sicura.
Se solo avessi avuto modo di capire cosa rappresentasse? La sua amorale rapacità?
O magari era altro? Cos’altro poteva essere?
La nera aveva candidamente ammesso di trafficare armi, di venderle a più parti in conflitto, e di avere una filosofia che la portava a prediligere l’allungamento dello scontro alla possibilità di concluderlo rapidamente e senza troppe vittime. Era una prospettiva egoista e malvagia.
Ma dietro tale veduta, dovevo riconoscerlo, c’era anche altro: non aveva argomentato in modo errato il proprio agire. Mi presi la testa tra le mani: da un lato era esecrabile e semplicemente orribile, ma dall’altro, la sua tenuta e l’isola di Soqora erano divenute prosperi esempi di armonia e ricchezza.
Come potevo mettere su una bilancia le vittime di un conflitto e la prosperità di un altro popolo?! Respirai profondamente. Non mi piaceva quel che ora sapevo, e non avevo idea di come rapportarmi con esso.
-Stai bene, mio signore?-, chiese un servitore di passaggio con una brocca di vino etiope.
-Ho… mal di testa.-, mentii, -Mi ritiro nelle mie stanze.-.
Ma anche lì, rimasi seduto e poi sdraiato, a sentire il vuoto assoluto, a cercare una risposta che continuava a sfuggirmi, finché non presi le carte.
Mescolai le lame. Per la prima volta, sentii le mani tremare. Le posai, feci dei respiri, mi calmai, le ripresi. Tagliai il mazzo.
“Cinque lame. Una per il mio visto e non visto. Una per il suo visto e non visto e una per ciò che…”,. M’interruppi. Non riuscivo a formulare quell’ultima parte.
Ciò che ci legava? Ciò che ci separava? Ciò che avrei dovuto fare? Che sarebbe dovuto avvenire? Scossi il capo. Riposi la mia fiducia nelle carte e nella mia conoscenza.
Estrassi. Disposi le lame davanti a me. Girai la mia, la prima.
L’Appeso. Ma capovolto. La mia sofferenza, imposta dalle parole e dalle azioni di Awua.
Fissai Proximo Lario. Sospirai. Sì: soffrivo e non per scelta mia.
Girai la prima carta per Awua. Denari. Otto. Ricchezza. Materiale, però. Non spirituale.
Girai la mia seconda carta, il mio aspetto celato, finanche a me.
La Forza. Il Coraggio dell’eroe. Scossi il capo. Non ero un coraggioso. Non ero un eroe. Ero un servo, uno schiavo dignificato per meriti non interamente suoi.
La seconda carta di Awua era, senza troppe sorprese, il Diavolo. Di nuovo.
Sospirai: cos’era quel Diavolo?! Cosa lo portava a ricomparire di volta in volta?
Infine l’ultima carta. Inspirai ed espirai, piano. Girai.
Gli Amanti. Mi accigliai. Cosa significava? Ripescai i suoi significati più esoterici dalla mia memoria. Poteva voler dire che avrei dovuto scegliere tra vizio e virtù? Se supportare Awua o se invece allontanarmene? O era lei a trovarsi sulla cuspide di un bivio morale e a dover dunque scegliere l’uno o l’altro sentiero? Oppure l’interpretazione era più semplice e triviale e si basava sul rapporto tra me e lei, o tra me e Surya, o tra me e le due donne?
Fissai gli arcani e sospirai una volta ancora.
“Maestro. Tu avresti saputo rispondere?”, chiesi al nulla. Domanda vana: il mio mentore era morto molto tempo fa, lasciandomi quel mazzo come ultimo dono, come conferma del mio essere il suo successore.
L’indomani, dopo la colazione, ci recammo al mercato di Thana.
Quando Awua aveva parlato di questa città come di importante snodo commerciale, avevo semplicemente creduto intendesse che nella regione era la sola a ospitare un mercato vasto e variegato. La verità mi si palesò davanti appena mettemmo piede nelle vie del mercato.
Al confronto con Thana, i mercati che avevo precedentemente visto impallidivano davanti a quello spettacolo: vasti bazar occupavano intere vie e piazze, acquirenti contrattavano a gran voce e merci venivano spostate ora qua ora là. L’ampiezza del mercato era tale che intere carovane mercantili rivendicavano vie per esporre le proprie merci o contrattare, salvo poi ripartire ad affari conclusi.
Era un’autentica babele di lingue. Colsi brandelli di frasi in Shwahilia, dialetto del Golfo, lingua licanea e idiomi vari. Era un tale confusionario insieme da dare il mal di testa, eppure la sua bellezza stava proprio in una simile congiunzione di popoli.
Non si poteva ignorare neppure la quantità di palchi eretti a presentare le merci da parte di numerosi affaristi. Awua si avvicinò ad uno di essi. Vendeva schiavi.
La mercante rimase in attesa per un buon cinque minuti, salvo poi voltare le spalle al palco.
Si diresse oltre. La seguii, insieme alla sua scorta.
-Mia signora, usate cautela, vi prego…-, osò uno dei guardaspalle.
-Non temere: tutti sanno chi sono. Se anche solo osano pensare di aggredirmi, l’Amir li farà scuoiare vivi.-, replicò la nera.
Contrattò a viva voce con un mercante e infine strappò un prezzo tutt’altro che basso per i cammelli che ci avevano accompagnati sin là.
-Mia signora… se posso osare chiedere…-, inziai. Lei sorrise. Indicò l’uomo che pareva attenderla, appoggiato a un muro.
Awua si avvicinò, la spada in vista e il viso aperto in un sorriso.
-Salam, Mashbahk.-, disse.
-Salam, Awua.-, disse l’uomo, -Hai la merce?-, chiese.
-Hai i soldi?-, chiese lei di rimando, inflessibile e decisa.
-Sì. Ma prima la merce.-, impose lui.
-Prima metà dell’importo.-, controbatté la mercante. L’uomo, la braba color antracite e il viso solcato da rughe seminascosto sotto una kippah, la fissò.
-Donna, la tua ostinazione è a metà tra l’ammirevole e l’irrispettoso.-, sibilò.
-Fatto sta che io ho la merce, io decido il prezzo.-, rispose lei, pacata.
-La metà.-, disse l’uomo lanciandole un sacchetto di monete. Lei lo prese al volo. Lo infilò nella bisaccia.
-Non le conti?-, chiese l’uomo.
-So che non sei così stupido da tentare di fregarmi. Muhiz ti farebbe rimpiangere di essere nato.-, ribatté la nera, sicura.
-Quindi?-, chiese lui. Awua temporeggiò giusto qualche istante, come per sancire la sua supremazia in quella trattativa.
-Tra due ore, fuori dalla città. Vieni da solo.-, ordinò lei.
L’esterno di Thama era brullo, ostile. Lontano a sufficienza dalla città, era stato facile per Awua radunarvi le scorte.
Mashbahk era arrivato. Era da solo, come previsto.
-Allora?-, chiese vedendoci arrivare. Awua aprì una delle casse, scansando il coperchio ed estraendo un’arma. Un fucile a energia, Numa-617. Arma tremendamente efficace.
-Ce ne sono cinquanta.-, disse impungandolo e caricandolo con la cella energetica.
-Meraviglioso! Faremo ottimi affari insieme!-, esclamò lui. Io lo fissai. Basso, trachiato, sorridente e viscido. Non mi piaceva per niente.
-Oh, ma io ho già fatto i miei affari.-, disse Awua, l’arma puntata innocentemente verso il suolo. Mashbahk non ebbe modo di capire. Ebbe appena tempo di assumere un’espressione preoccupata che improvvisamente, Ahri e i suoi apparvero da oltre la duna.
-Che cosa significa?-, chiese Mashbahk, sorpreso e spaventato.
-Un piccolo cambio di piani. Quel che succede quando il pagamento non è come pattuito. Delle duecento monete d’oro che mi hai dato, centocinquanta sono di rame.-, spiegò la nera.
-Bastarda! Avevi detto che sapevi che non ti avrei fregato!-, esclamò Mashbahk mentre due nomadi di Ahri lo immobilizzavano.
-Esattamente. Sapevo che tu non avresti osato farlo. Ma ovviamente, Muhiz non è stato altrettanto furbo.-, commentò la mercante.
-Ti farà sbudellare! Morirai piangendo!-, minacciò Mashbahk mentre veniva costretto in ginocchio davanti a lei.
-Non credo proprio. Conosci la mia regola, no?-, chiese Awua.
-Mai tentare di fregarmi e sperare di farla franca.-, concluse la nera sparando un singolo colpo energetico che trapassò il petto di Mashbahk. Estrasse il sacchetto di monete.
-Amir Buhfi sarà contento.-, disse Ahri con un sogghigno.
-E, morto il suo negoziatore, Muhiz dovrà ricorrere a qualcuno meno sprovveduto, pagando un prezzo anche maggiore per la sua doppiezza. Come ti sembra, Ahri?-, chiese Awua mentre svuotava le monete in bocca al morto. Un messaggio chiaro per chi avrebbe trovato il corpo.
-Perfetto, se posso osare. Thama ha bisogno di un cambio al vertice. Mi meraviglia che Bhufi non sia stato tanto sveglio da accaparrarsi le armi quando poteva.-, disse lui.
-Muhiz ora avrà il vantaggio che aspettava. Ma non come se lo sarebbe aspettato. Come sapevi che il suo socio ti avrebbe tradito?-, chiese Ahri. Awua indicò me con un cenno.
-Le carte sono state chiare, mia signora.-, dissi riferendomi alla lettura fatta appena un’ora e quaranta minuti prima. Tre carte: un tre di Denari rovesciato, la Morte rovesciata e il Bagatto rovesciato. Ahri annuì appena, tributando un inchino ad Awua e a me.
-Fortunato è colui che può vantare un simile aiuto.-, disse il beduino. Lui e i suoi uomini stavano prendendo possesso della cassa. Muhiz avrebbe avuto la sua guerra.
Awua li fissò andarsene. Abbandonammo il corpo di Mashbahk alle fiere.
La sera stessa, ricevemmo nuove da Bhufi. L’Amir aveva accettato il prezzo.
Il risultato mi era chiaro: Thama stava per vivere un cambiamento tutt’altro che incruento.
La guerra sarebbe arrivata presto. L’idea mi rodeva le viscere.
Non trovavo giusto un simile avvenimento. La mia lettura aveva preservato Awua, le aveva permesso di evitare un tradimento e un raggiro, e lei aveva dato inizio a una catena di eventi che avrebbe portato a una guerra civile a Thama.
Poco importava che fosse durata due giorni o due mesi, sempre sofferenza sarebbe giunta.
Guardai gli arcani. Mi ero ripromesso di usarli per il bene, affinché gli altri potessero trarre da essi insegnamenti e aiuti contro le sfide della vita…
Ero forse destinato ad agire a quel modo? O stavo permettendo ad Awua di avere la meglio sui migliori angeli della mia indole?
Estrassi una lama. La Ruota, di nuovo.
Allora tutto ciò era semplicemente destino? Ero semplicemente destinato ad accettare?
A sopportare l’intollerabile?
Avevamo lasciato il mercato dopo poche rapide contrattazioni al termine delle quali, Awua aveva assunto un nuovo contabile, un nero chiamato Juba.
Mi permessi di riflettere nuovamente sulla questione delle armi. Thama stava vivendo un impasse, quel conflitto era inevitabile. Su quello, la mercante aveva avuto ragione.
Ma ora c’erano due fazioni, se non persino tre, in campo. Buhfi, Muhiz e Ahri. La regione avrebbe assistito a un rovesciamento come non ne vedeva da anni.
Per quanto tutto ciò sembrasse un bene perché avrebbe purgato Thama dalla corruzione, mi pareva semplicemente un prezzo troppo elevato da pagare.
Sospirai. Mi diressi verso l’Hamman. Il bagno definito turco (in realtà apparteneva a numeorse civiltà post Catasclisma, talmente tante che la definizione “Bagno Turco” era vista come riduttiva, aulica e in ultimo luogo, dispregiativa).
In realtà, l’Hamman non era neppure un bagno, più una sorta di ambiente di purificazione, anche se in gran parte del mondo conosciuto non aveva più tale funzione.
Mi spogliai nell’apposita cabina e, avvolto da un telo, entrai nell’Hamman.
Il vapore offuscava la visione. Mi sedetti su una delle panche in marmo.
Cercai di non pensare, avvolto dal calore del vapore. La porta si aprì in quel momento
-Ma guarda chi si vede…-, sussurrò una voce nota. Surya.
-Ben trovata, Surya.-, dissi. Lei sorrise, incantevole, anche senza il trucco dorato.
-Gli affari sono andati bene. Presto ripartiremo. E la signora mi ha detto che l’hai salvata.-, disse, -Un vero colpo di mano dal fato! Sicuramente Muhiz non apprezzerà la morte del suo messaggero.-. Sedette accanto a me, avvolta nel suo telo.
-Sapeva a cosa sarebbe andato incontro…-, commentai, laconico. Non volevo parlarne, era palese ed evidente. Surya annuì. Mi si avvicinò, l’asciugamano stretto alla seno.
-Già. Lo sapeva. Ah, quanto sanno essere stolti certi uomini…-, sospirò lei, -Altri invece sanno essere decisamente furbi.-, aggiunse fissandomi.
-Non ho manipolato il fato. Io interpreto, nulla di più.-, dissi, piccato.
-Oh, ma tu ti rendi conto dell’enorme potenziale che hai in mano? Mio caro amico… tu ora tieni Awua per la gola!-, esclamò.
-Io… cosa?!-, chiesi mentre assorbivo il peso di quella rivelazione. Con nonchalanche, Surya si sistemò una ciocca di capelli, senza curarsi che nel movimento l’asciugamano si era abbassato leggermente, portando alla mia visione l’aureola scura di un capezzolo.
-Certo! Non credere: lei si fida di te. Se tu volessi, potresti usare questa fiducia… a tuo vantaggio.-, chiarì l’intrattenitrice. Mi mise provocatoriamente una mano sulla gamba, appena sopra il ginocchio. Il suo tocco mi fece improvvisamente ergere il sesso.
Lei non poteva non accorgersi del mio desiderio, ma le sue parole successive furono altre.
-Immagino che per te sia uno shock, vero? Ma la verità è che voi veggenti avete sempre avuto questo potere. Potete controllare gli altri, dirigerne pensieri e azioni… Siete infinitamente più influenti di quanto pensiate… E tuttavia non sfruttate quest’apertura…-, continuò.
-Ho… fatto un giuramento.-, dissi, lottando per non pensare a lei avvinghiata ad Awua.
La mano salì, di pochissimo, verso il mio sesso eretto.
-Già, è così anche in Kelreas: le veggenti della Dea Madre pronunciano il sacro voto di dire solo il vero senza fare i propri interessi, quand’anche ciò le conduca alla morte. Nobile, ma imperfetto. E lo sai anche tu, Alexander.-, disse Surya. La sua mano salì ancora. Si appoggiò con assoluta flemma al mio sesso. Sussultai, incapace di nascondere la mia reazione alle sue manvore. L’intrattenitrice mi fissò, gli occhi spietatamente chiari che mi trapassavano.
-Il potere, come anche il sesso, è di chi se lo prende.-, disse afferrandomi il pene eretto.
-Surya…-, iniziai. Lei si alzò. L’asciugamano le cadde.
La donna che avevo davanti era semplicemente stupenda. Un capolavoro scolpito da esercizi volti a creare un corpo da sogno senza sacrificare la femminiità per la forma atletica.
I capelli scuri, umidi di sudore, scendevano sino a metà schiena su un corpo dalla carnagione ambrata. I seni dai capezzoli scuri, sfidavano la gravità, il pube depilato non nascondeva del sesso che si annidava tra cosce tornite e prive d’imperfezioni. Magnifica.
-Mi vuoi, vero?-, chiese lei. Avevo la bocca secca. Annuii.
-Vieni a predermi.-, mi sfidò Surya. Mi alzai, sentendo l’asciugamano cadere. Lei sorrise.
-Decisamente ben messo.-, sussurrò guardando il mio membro.
Fugacemente mi ricordai che forse, tale confidenza era stata merito di Samara.
Le presi la nuca, cercando di non essere brutale. Le nostre labbra s’incontrarono. Surya scese piano verso il mio collo, ogni suo bacio mi faceva fremere, le mie mani le accarezzarono i seni, e il ventre piatto. Le baciai il collo, assaporando quella pelle vellutata che profumava in un modo tanto inebriante da cancellare tutto il resto.
Surya gemette appena, scendendo lungo il mio corpo e coprendomi di baci petto e ventre. Quando si trovò il mio sesso davanti al viso, non esitò.
Emisi un gemito bestiale: un simile trattamento mi era intollerabile e l’amazzone del Kelreas stava dimostrando tutta la sua diabolica abilità nello stimolare i punti più sensibili.
-Surya…-, ansimai. Stavo per venire. Lei sorrise. Si sfilò il sesso di bocca. Indicò la panca, perentoria. Mi stesi sul marmo. Surya si sedette sul mio viso, pigiandomi la scura e rorida fessura della vulva sul volto. Presi a leccare, con tutta la mia abilità, assaporando il nettare della sua intimità che grondava sempre più. Sentivo la donna muoversi contro di me, come a voler spingere la mia testa dentro il suo sesso quando mi concentrai sul clito carnoso.
Le mie mani giocavano con i suoi seni, scendevano sulle natiche, palpavano e stringevano.
-Sssssì!-, gemette Surya staccandosi un attimo dal mio sesso, -Cosiiiiì!-, esclamò.
La porta si aprì, ma non ero nella posizione di vedere chi fosse, tanto più che non udii voci né altro, ma Surya invece emise un risolino.
-Ti aspettavo…-, sussurrò languida. Sentii le sue mani muoversi, un telo cadde.
E improvvisamente, seppi che Surya stava suggendo il membro di qualcun altro, lo intuii dai suoi movimenti. Rapidamente, senza altro scopo se non farlo godere. I rumori di risucchio e umidi versi frammisti a imprecazioni sussurrate e smozzicate della donna spinsero ulteriormente la mia eccitazione a nuovi picchi, mai mi era capitata una situazione simile, in cui una femmina diviene oggetto di piacere in modo tanto completo.
Surya emise un gemito strozzato e sentii il viso bagnato dei suoi umori. Al contempo, il nuovo venuto emise un verso che culminò in un lungo ringhiò selvaggio. Doveva aver goduto.
Surya si alzò dopo qualche istante a manipolarmi il sesso. Voltai il viso verso la porta e verso il nuovo vedendo però solo una schiena bruna avvolta da un telo all’altezza delle reni.
-È durato poco…-, commentò l’intrattenitrice, asciutta. Un filamento di smegma perlaceo le lordava il viso dal labbro allo zigomo sinistro. Si mise a cavalcioni, impalandosi sul mio sesso, -Tu invece sei al limite…. Godi con me.-, sussurrò impalandosi sino in fondo. Fu troppo: i movimenti dei muscoli più segreti di Surya e l’eccitazione di quel momento mi condussero ad un orgasmo sensazionale nell’intimità della donna. Fu qualcosa di trascendentale: venni schizzando come un adolescente imberbe, inarcandomi contro di lei, che sorrise muovendosi appena accogliendomi ancora sino quasi alla cervice, mentre scendeva ad appoggiarsi a me e io finivo di svuotare un’eccezione troppo a lungo trattenuta, ogni mia scarica sottolineata da un suo gemito.
-Ah, è stato bellissimo! Sei stato fantastico…-, sussurrò. Io espirai appena. Sentivo la testa così leggera. Persino l’incursione dello sconosciuto mi era quasi irrilevante. L’aria pareva più pesante, pregna di effulvi di sesso.
-Pensa, pensa come sarebbe stato se ci fosse stata anche Awua…-, mormorò l’amazzone mentre scendeva da me e si dirigeva al rubinetto che apriva l’acqua fredda. Si ripulì rapidamente, essenzialmente, senza perder tempo.
-Surya…-, iniziai di nuovo. Non trovai le parole.
-Awua pende dalle tue labbra, veggente. Puoi distruggerla… o asservirla. Io lo farei.-, concluse lei mentre si riavvolgeva nel telo e usciva.
L’amplesso era stato devastante, mi aveva svuotato, ma né quello né la successiva doccia mi diedero modo di trovare risposta alle mie domande.
Il mio maestro mi aveva insegnato a interpretare gli arcani, a leggere tra le righe dei loro significati antichi e nuovi, triviali ed esoterici, palesi o celati.
Non mi aveva mai insegnato a reagire alla tentazione di usarli così, per ergermi a giudice.
Specialmente, non dopo ciò che avevo visto.
Le parole di Surya mi trapanavano il cervello. Awua punita per la sua avarizia, il suo orgoglio rovesciato, la sua fierezza domata e asservita… Asservita a uno schiavo!
Sarebbe stato un simile trionfo! Per un istante il desiderio si palesò in tutta la sua esplosiva forza, scansando qualunque altro pensiero.
Ricordai la lettura che avevo fatto per me. Il Diavolo… era quello?
Era il mio cedimento? O la mia decisione a non cedere? O magari era stato l’amplesso con Surya a rappresentare il Diavolo, e in tal caso mi chiedevo cosa c’entrasse la stessa carta con Awua. Domande, a migliaia, una ridda. Espirai, cercando di calmare la mente.
Surya era stata così chiara nel suo ragionamento, brutale quasi. Non potevo darle torto.
Ma sapevo anche che usare gli arcani per il mio guadagno personale, per un mio desiderio di rivalsa era sbagliato, immorale.
La decisione in quel senso poteva anche essere giustificata dall’idea di voler mettere fine a una spirale di violenza, ma sempre una sovversione del fato restava.
La mia precedente lettura, su di me e su Awua, aveva evidenziato come mio aspetto nascosto La Forza, una carta rappresentante il coraggio, certo. Ma quale coraggio? Quello di tollerare?
Privo della Forza, l’Appeso non si consegnerebbe serenamente al proprio maritrio…
D’altronde… era pur vero che proprio lo stesso principio di coraggio richiedeva agire.
Mi stava venendo mal di testa, davanti all’enormità di quella questione.
Sarebbe stato più semplice, molto più semplice, seppellire quei dubbi nell’alcool, nello stordimento. Sarebbe stato infinitamente più semplice. Non potevo farlo.
“La mente di un veggente dev’essere cristallina, non adulterata, non influenzata, in modo da vedere davvero.”, aveva detto il mio maestro a suo tempo.
Espirai, sedendomi a terra, davanti al mazzo. Avrei potuto estrarre. Avrei potuto, e forse dovuto. Mi sentii stanco, come non ero stato mai. Fissai le carte.
-Siete state la mia guida, le mie compagne, in questo viaggio sino ad ora…-, dissi.
-Tre carte. Una per il presente, una per il soggiacente, una per l’evolvere.-, dichiarai.
Estrassi.
La prima carta era la Luna.Capovolta.
La Luna era una carta particolare. Poteva avere accezione negativa, ma in realtà, a un livello iniziatico si rifaceva agli stadi finali del cammino. Tuttavia, stando in ambito profano, significava proprio solo questo: una via perigliosa, da percorrere con cautela, circondato da amici ignori e nemici sotto mentite spoglie.
NEMICI SOTTO MENTITE SPOGLIE!!!! Il mio cervello registrò la nozione mentre estraevo la carta successiva.
La Ruota. Non capivo. Poteva voler dire un percorso che non controllavo. Unita alla Luna poteva significare che tutto ciò era scritto, inutile stare a cercare di alterarlo.
-Dove conduce, questo cammino?-, chiesi ad alta voce.
Estrassi l’ultima carta. Esitai a girarla. Un istante, due, tre. Ero ben consapevole della tensione che sentivo. Le carte non servivano a predire il futuro, non solo, almeno.
I più pensavano servissero a quello. In realtà, io in quel momento avrei voluto la risposta, quella vera, quella che si annidava nel mio inconscio. Girai. Gli Amanti.
-Invero, questo dubbio allora mi accompagnerà ancora un po’, vero?-, chiesi a nessun’altro che me stesso e il mazzo.
Frustrato, posai il mazzo. La mano però non fu ferma. Una carta si separò dalle altre, cadendo sul pavimento, rivolta verso l’alto. La Forza. La fissai, a lungo, prima di riunirla alle altre.
L’indomani, la colazione fu una prima e breve avvisaglia di ciò che sarebbe arrivato.
Yogurt di latte di capra e pane raffermo. Le nostre provviste sul posto stavano finendo?
Probabile. Come probabile era che Awua non volesse rinnovarle.
Mangiai senza lamentarmi. Poi la vidi. Surya. Mi sorrise, con un cenno di saluto discreto.
Nulla di compromettente, nulla che lasciase presagire la passione condivisa il giorno prima.
L’altro ospite era il contabile, un nero muscoloso che mostrava una barba ben curata. Mangiava della frutta con soddisfazione non dissimulata. Pareva così diverso da Licinius…
Ed era il nuovo contabile della mercante, nonché l’uomo che ieri aveva brevemente goduto delle attenzioni di Surya. Mi rivolse un breve cenno di saluto salvo poi tornare al suo pasto.
Mi domandai perché avere tanta fretta a sostituire il defunto. Tant’era che il grosso dei libri contabili non era fisicamente presente a Thama, avrebbe dovuto aspettare sino al ritorno a Soqora per mettervi mano.
-L’aria che tira in città non mi piace.-, commentò Surya sedendosi accanto a me.
-Che vuoi dire?-, chiesi. Lei mi fissò, gli occhi azzurri penetranti. E spaventati.
-Non lo senti? Qui sta per scoppiare il finimondo. Penso che anche la nostra signora se ne sia resa ben conto. In effetti, non mi meraviglia che non sia qui: starà certamente organizzando la partenza.-, disse.
“Se non se ne è già andata.”, ponderai, ma ne dubitavo. Awua aveva investito in ognuno di noi, non mi pareva tanto avventata da mollarci così.
-Anche se iniziasse un conflitto, penso che le parti in lotta sappiano che nuovere a noi significa perdere il supporto di Awua.-, osai dire. Surya mi fissò.
-Pensi davvero che gli importi? Hanno quello che volevano. Ora si faranno a pezzi per vedere chi erediterà la terra.-, commentò con voce cinica, priva di speranza.
-In queste terre, la ferocia detta spesso legge.-, disse il nero.
-Non è forse così ovunque?-, chiesi alzandomi. Porsi la mano, -Alexander.-, mi presentai.
-Juba.-, sorrise lui. Sorrisi a mia volta. Pareva simpatico. Non accennai alla sua piccola incursione in sauna, oltrettutto Surya era uscita dalla stanza, senza farsi notare.
-Sei un contabile, vero?-, chiesi.
-Ho studiato per cinque anni, sì.-, ammise lui. Parlava bene la lingua franca, ma intravedevo anche una certa intelligenza dietro i suoi occhi.
-Awua ha bisogno di un contabile.-, annuii io.
-E dunque tu non lo sei. Qual’è il tuo ruolo? A parte…-, l’espressione dell’uomo divenne giocosa, divertita. Io mi accigliai, poi capii, poi sorrisi, per poi scoppiare a ridere apertamente.
-Ah, quello! Beh, in realtà la prima mossa l’ha fatta lei…-, dissi, infine.
-Già. Mi aveva detto che mi aspettava nell’Hamman, ma non pensavo che sarebbe finita con un trio…-, commentò lui con un sorrisetto. Entrambi ci fissammo, seri, in silenzio un istante.
-Non sono tipo da robe così.-, disse Juba. Suonava come un’ammisssione di vulnerabilità.
-Neppure io.-, ammisi, -Evidentemente però lei lo é.-. Il nero si strinse tra le spalle.
-Sembrerebbe. Comunque, tu di cosa ti occupi?-, chiese, tornando concentrato.
-Sono un veggente.-, dissi, -Leggo le carte.-. Lui mi fissò con uno sguardo stranito.
Conoscevo quel genere di sugardi: era a metà tra il curioso e il timoroso.
-Non mi occupo di predire il futuro, se questo chiedi.-, dissi.
-Pensavo fosse quello che fanno i veggenti.-, commentò lui. Annuii.
-Un errore comune, Juba. Sebbene le carte possano essere interpretate così, io le uso a un altro livello, in ambito psicologico.-, spiegai, -Per aiutare chi chiede a conoscere sé stesso.-.
-Conoscere sé stesso…-, ripeté il nero. Annuii appena.
-Non credo che ti chiederò di aiutarmi. Mi conosco già molto.-, ammise, -Senza offesa.-.
-Nessun’offesa, Juba.-, dissi finendo la colazione. Mi alzai.
-È stato un piacere.-, disse lui terminando il frutto e lasciando il torsolo su un piatto.
-Il piacere è stato interamente mio.-, dissi uscendo.
Surya non c’era neppure all’esterno, nel piccolo cortile della tenuta.
In compenso le guardie di Awua erano totalmente sul chi vive, gli schiavi portavano merci e casse da un punto all’altro.
La verità impattò contro di me alla velocità del suono. Stavamo preparandoci a partire.
Gelo. Puro gelo, ecco cosa sentii. Un senso di minaccia, di timore.
“Non a partire.”, pensai, “A fuggire.”. Stavamo di fatto fuggendo da un conflitto prossimo.
-Qualcosa ti turba, Alexander.-, disse Awua. Era arrivata al mio fianco, avvolta nelle usuali vesti da mercante.
-Sì, mia signora.-, ammisi, -Stiamo scappando.-.
-Preferiresti restare? Non credo che i locali avranno particolari riguardi.-, disse lei.
La fissai. In quel momento avvertii un misto di emozioni, una miscela di rabbia, dolore e paura che mi portò a sentire lo stomaco gravato dal piombo. Awua mi rvolse uno sguardo severo.
-Nessun cambiamento giunge senza sacrifci. Di certo, lo sai anche tu.-, disse, -Puoi disapprovare, ma credimi: ho agito esclusivamente per il bene di questa città.-.
-Ti sei arrogata il diritto di scatenare una guerra.-, dissi, consapevole che le mie emozioni erano ben chiare dal tono. Gli occhi della nera s’indurirono.
-Una guerra che era necessaria. E che sarebbe comunque giunta, per mano mia o di altri. Te l’ho già detto. Ora, mi serve una tua lettura, veggente.-, disse.
-Non sono sicuro di essere intenzionato ad assecondarti, mia signora.-.
Ecco. L’avevo detto. Avevo veramente detto quella frase. Awua sbatté gli occhi, due volte, sorpresa. Poi sorrise appena, in modo crudele, gli occhi che però non sorridevano.
-Non dimenticare il tuo posto.-, sibilò.
-Non lo dimentico, mia signora. Ma voi, forse, state dimenticando il vostro.-, replicai.
Da dove mi giungeva quell’incoscienza?! Non era possibile che quelle parole fossero uscite dalla mia bocca. Gli occhi di Awua erano capocchie di spillo, il viso contratto dalla rabbia.
-Obbedirai. O ti farò fustigare.-, sibilò. E stavolta l’avrebbe fatto sul serio. La fissai.
-Obbedirò.-, dissi, -Ma non perché temo le tue frustate, ma bensì perché è quello che devo fare. E prego che la mia lettura possa guidarti laddove le mie parole non possono.-.
Awua mi volse la schiena, entrando. La seguii.
Ancora non riuscivo a capacitarmi di ciò che era accaduto.
-Dunque, veggente?-, chiese lei poco dopo. Eravamo davanti al tavolo, nella mia stanza.
Tagliai il mazzo. Senza parlare.
-Cosa chiedi?-, domandai infine quando ebbi mischiato a sufficienza. Lei parve pensosa.
-È da qualche giorno che faccio un sogno ricorrente. Una bilancia, un sacco d’oro su un piatto e una corona d’alloro sull’altro. E io… osservo l’ondeggiare dei piatti.-, disse infine.
-La Giustizia, dunque.-, dissi io estraendola e rimschiando, -Il simbolismo è quello.-.
-Quindi siamo passati a questo?-, domandò la mercante, -Non più il Diavolo?-.
-Quello…-, dissi esitando e infine scegliendo di parlare, -Potrebbe esser già passato.-.
-Potrebbe. Non ne hai la certezza.-, dedusse lei.
-Le carte non hanno un tempo, mia signora, siamo noi a darglielo. Spesso sbagliando.-, spiegai, -Sono atemporali.-.
-Il che le rende spaventosamente imprecise e volubili.-, commentò la donna.
Posai la Giustizia davanti a me.
-Quattro carte. Una per il visto, una per il non visto, una per il soggiacente, una per l’evoluzione.-, dissi.
Estrassi la prima. Denari. Ancora. Stavolta una Regina di Denari.
-Mi pare evidente che sia io.-, annuì Awua. Sì, lo era, ma… come?
Estrassi la seconda. Regina di Spade.
-Beh, se la prima sono io, la seconda chi è?-, chiese la mercante.
-È possibile che sia sempre tu, ma un aspetto diverso di te. È una parte della tua volontà, fiera e possente, una mente indomita…-, dissi.
-Oppure?-, chiese Awua.
-Oppure sono donne, una tu e l’altra… una donna di mente. Manipolatrice forse. Ma non opposta a te, nel qual caso sarebbe uscita capovolta.-, spiegai.
-Ed è ciò che non vedo…-, rifletté la donna.
-Precisamente.-, annuii io. Awua mi fissò. -Estrai.-, disse.
Lo feci. E non provai sorpresa quando lo vidi. Il Diavolo, di nuovo.
-Perché è ancora qui?-, chiese la mercante con un’espressione sconfortata.
-Perché evidentemente non l’hai ancora risolto mia signora. Rappresenta qualcosa, forse un desiderio inconfessabile, qualcosa che ti turba… Che sfugge al tuo controllo. Magari riguarda la tua ricchezza o forse il modo in cui te la procuri, magari dovresti…-, non ebbi modo di finire la frase. Il ceffone arrivò tanto repentino da strapparmi un verso di dolore e stupore.
Awua mi fissava, furente.
-Non osare mai più dirmi cosa devo o non devo fare, sono stata chiara?-, chiese con un tono che pareva il ringhio di una pantera. Mi massaggiai la guancia.
-È questo che temi, mia signora? Di perdere la tua libertà?-, domandai. Parve passare un filo, di pura tensione tra noi. Per un istante mi vidi trafitto dalla lama che portava alla cinta.
Ma infine sorrise, con mia sorpresa.
-Sì, veggente. È questo che temo. Più di ogni altra cosa, temo di tornare a non valere nulla.-, ammise infine. Le credevo. Mi fissò, senza più animosità, forse anzi con un’ombra di consapevole pentimento per il suo atto.
-Ti prego… continua.-, mi esortò. Mi ricomposi. Avrei continuato. Era il mio compito.
-Molto bene.-, dissi. Estrassi l’ultima carta. Gli Amanti, di nuovo.
-Cosa… cosa vuol dire?-, osò chiedere Awua.
Anche io fissai le carte. Non capivo. Non riuscivo a capire, o meglio, intravedevo qualcosa ma non osavo suggerirlo. Eppure, la pressante, silente curiosità della mercante ebbe la meglio.
-La tua ricchezza non è che il frutto della tua mente, di pensieri e schemi attenti, ma sotto tale forza si annida un lato oscuro, che ora è emerso e con cui dovrai fare i conti.-, dissi massaggiandomi la guancia nuovamente. Awua mi fissò. Forse, per la prima volta, la vidi davvero timorosa.
-Io… sono in controllo.-, disse. Colsi qualcosa di stonato in quella frase.
-Certo.-, annuii io, -Non dubito che tu lo sia. Allora, attenendoci a una diversa lettura, possiamo parlare di una persona, forse una donna… può essere alleata o nemica, mi viene da dire, ma la scelta finale è tua soltanto.-.
Passò il silenzio. Un secondo, due. Tre. Infine Awua parlò.
-Tu mi disprezzi, Alexander.-, disse. Non era una domanda.
-Odi che io sia ricca così, vendendo armi.-, sussurrò.
-Odio il fatto che tu ti erga ad appropriarti il destino di altri.-, corressi. Provavo stanchezza, ma allo stesso tempo era come se la mia improvvisa ribellione di prima e il ceffone che Awua mi aveva tirato avessero annichilito il senso di inibizione che avevo provato. Non la temevo.
-Se lasciate a sé, le masse sono prive di guida.-, obeittò lei.
-Ah, ora stiamo parlando di civica?-, chiesi, -Perché in tal caso, lascia che te lo dica, dietro a questo istinto di guidare gli altri si è dato inizio a orrori inenarrabili, indimenticabili.-.
Awua mi fissò. La fissai, senza più paura.
-Non sei ancora un mostro, Awua. Non ancora.-, dissi, -Puoi ancora scegliere diversamente. La scelta c’è, per tutti.-, dissi sollevando la carta degli Amanti.
-La tua ricchezza ha fatto anche del bene, certo. A Soqora, e può farlo anche altrove. Non c’è bisogno che si alimenti sulla sofferenza.-, dissi infine. Lei non parlò. Si alzò.
-Perché, Alexander?-, chiese infine, -Perché vuoi a tutti i costi essere la mia coscienza?-.
-Perché non sei solo la mia padrona. Sei una donna la cui ricchezza può fare moltissimo per il mondo. Ho visto come agisci, non hai i tratti di chi ha abdicato la propria coscienza. Non sei ancora come un Septimo Nero, o come Athlia del Kelreas.-, risposi. Parve colpita.
-Non hai bisogno di divenire più di quel che già sei. Sei libera, padrona del tuo destino. In passato eri schiava? È stato terribile ma ora è finita. La guerra è finita, Awua, ma tu ancora vaghi con l’armatura addosso, la spada tra le mani, in cerca di nemici, pronta a difenderti spietatamente da un assalto che non arriverà mai.-, continuai, -La tua volontà di arricchirti sempre più continua a spingerti sempre oltre, per questo. C’è un nome per questa cosa. Hubrys. È il nome del mostro che divora uomini e imperi.-.
-Stai per dirmi che divorerà anche me, vero?-, chiese la nera.
-Sì, se non ti fermi. È il Moloch dei popoli antichi. Il Dio Divoratore.-, annuii io.
Lei fece appena un cenno secco del capo. Indecifrabile, come sempre.
-Preparati: partiamo tra dieci minuti.-, disse uscendo.
Lasciammo Thama sotto scorta, su mezzi mobili, non cammelli.
Erano mezzi rapidi, scoperti e veloci, più dei cammelli, sicuramente.
Tuttavia il viaggio non mi piaceva: nonostante ci fossimo lasciati Thama alle spalle in un tempo alquanto breve, la sensazione di essere ancora sotto tiro era una costante.
Quei mezzi erano sicuramente ben più rapidi delle cavalcature dell’andata, ma bastò una buca a bloccare uno dei mezzi.
-Fermi!-, ordinò Awua. La colonna si fermò e in diversi scesero per aiutare a tirar fuori il mezzo incidentato dal solco nel terreno, me compreso. Era pomeriggio inoltrato, ma eravamo ancora distanti da Bahra.
Fu con grande fatica che riuscimmo a rimettere il mezzo in carreggiata, e ormai era sera.
-Ci accampiamo.-, decretò Awua. Io annuii.
Montammo il campo, rapidamente, come all’andata.
Non mi sorpresi quando Awua mi mandò a chiamare. Era nella sua tenda, intenta a osservare alcune carte, il viso corrucciato.
-Veggente.-, disse. Io mi avvicinai al tavolo che aveva approntato.
-Hai una domanda.-, dissi.
-Risponderai?-, chiese lei. La fissai.
-Hai pagato per avermi. Certamente, ti aspetti che lo faccia.-, risposi, fermo. Saldo.
-Sì. Ti rifiuti di farlo?-, chiese lei.
-No. Onorerò i miei giuramenti. Chiedi, Awua.-, dissi. La nera mi sorrise. Mi indicò di sedermi.
-Hai coraggio, Alexander. Una forma di coraggio non comune. Pochi mi contraddicono e non subiscono la mia ira. Ancor meno ottengono il mio rispetto.-, disse.
Restai in silenzio. Le parole di Surya mi rimbalzavano in testa.
“Tu puoi asservirla. Io lo farei…”, così aveva detto. Era così semplice?
Notai che la nera non aveva la spada con sé, essa riposava su un appoggio apposito, poco distante. Si fidava di me, fino a quel punto.
-Ho il tuo rispetto, mia signora?-, chiesi, sinceramente scettico.
-Io ho il tuo?-, domandò lei, -Ritengo sia un sentimento mutuale: io rispetto chi mi rispetta.-.
-Il rispetto è una cosa, la sudditanza è ben altra. Il timore altra ancora. Tu quale vuoi, mia signora?-, chiesi. Estrassi le carte dalla bisaccia, mischiandole piano.
-Buona domanda. Tu cosa credi che io voglia?-, chiese Awua. Mi fissò intensamente.
Riflettei, solo un istante. Ero certo di conoscere la risposta.
-Credo tu voglia rispetto, ma esiga sudditanza. Credo tu brami verità, ma ricevi spesso comode risposte che non sempre son vere. Credo che tu voglia qualcuno di cui poterti davvero fidare, perché sai di essere circondata da nemici.-, dissi infine.
Silenzio. Assoluto. Il cuore mi rimbombava sin nelle tempie. Avevo osato troppo?
Lei si alzò, per un istante, stirandosi. I tatuaggi che aveva sulle braccia scoperte dalla veste parevano impreziosire la sua bellezza.
-Sono nata in una tribù dell’Africa. Non ero… ben vista. Mia madre sparì dopo la mia nascita, mio padre era un mercante dappoco. Avrebbe voluto un figlio. Mi avrebbe venduta a qualche casa di piacere, o data in sposa a un uomo più vecchio di me.-, disse.
-Ma avevo un dono: l’intelligenza. Lo usai per migliorare gli affari di mio padre, fino a che non presi a farne al posto suo, e, quando morì, ereditai tutto ciò che avevo costruito.-.
-Ma fui imprudente. Mi tolsero tutto. Assaporai la schiavitù, la sofferenza. Cose che tu già conosci, Alexander.-, disse.
-Le conosco. Persi la mia città, i miei amici e la mia libertà per mano di predoni. Sono vivo solo grazie a queste.-, dissi alzando le carte.
-Allora immagino che tu sappia cosa significa non voler tornare a essere inerme. Dimmi, Alexander, hai visto il loro futuro?-, chiese. Annuii.
-E non l’hai impedito.-, commentò lei. Non era una domanda. Non risposi.
-Hai pensato fosse giusto. Il fato ti ha vendicato.-, commentò Awua.
-E tu, mia signora?-, chiesi.
-Anche nel mio caso fu il fato a uccidere chi mi oppresse.-, ammise, -L’uomo che mi schiavizzò morì d’infarto. E fu poco dopo che mi feci leggere le carte la prima volta.-.
-Oserei pensare che abbiamo avuto un percorso simile, mia signora.-, dissi.
-E penseresti bene. Ma l’epilogo è diverso, Alexander. Io sono ricca. Non ti tenta, la mia ricchezza? Non ti esalterebbe saperti ricco quanto se non più di me?-, chiese la nera.
-No.-, risposi, -Nessuna ricchezza mi renderà la mia città.-.
Awua sbatté gli occhi, due volte. Sorrise, annuendo appena.
-È solo questo che vuoi? Tornare indietro? Non si può, e lo sai.-, disse.
-Non è ciò che voglio. Ciò che voglio è vivere in pace, mia signora.-, risposi.
-Solo questo?-, chiese fissandomi, scrutandomi nell’animo.
Immagni di lei e Surya avvinghiate, immagini di Surya che mormorava quelle fatidiche parole, tutto questo prese forma nella mia mente.
-Non solo. Ma… non mi conosco abbastanza per dirti altro.-, ammisi infine.
-Uhm.-, fece la nera, -Davvero singolare.-.
-Da qui la mia domanda.-, fece lei avvicinandosi appena alla spada e accarezzando distrattamente l’elsa, -Posso fidarmi di te?-.
Io inclinai il capo. Ero perplesso. Davvero voleva che le carte le rispondessero?
-Perché vorresti porre una simile domanda alle carte e non a me?-, chiesi.
-Perché loro non mentono. E nemmeno tu potrai farlo. Ricorda i tuoi giuramenti, veggente.-, ribatté lei, secca mentre si sedeva. La fissai. Mischiai il mazzo, tutto il mazzo.
-Cinque carte. Due per me, due per te e una per ciò che ci lega.-, dissi.
Presi la prima per me, la girai.
-Il Re di Spade.-, dissi, -La mente attiva, l’intelletto capace. La visione nitida.-. Silenzio.
Girai la prima per lei.
-Regina di Denari.-, commentai. Pescai una seconda lama per me.
-Ciò che io non vedo.-, dissi. Girai. Il Giudizio.
-Una rinascita. Un cambiamento. La pace che cerco?-, chiesi più a me che a lei.
-Continua.-, mi esortò la nera. Estrassi.
-Ciò che tu non vedi.-, dissi, girandola, -Il Diavolo.-, sussurrai. Non poteva essere un caso.
-No! Ancora!-, esclamò Awua alzandosi. Estrasse la spada puntandomela alla gola.
-Hai preparato questo trucco, vero?-, chiese, -Per manipolarmi!-.
-No!-, esclamai, senza fiato. La punta della lama mi graffiava piano la pelle della trachea.
-Non mentire!-, ringhiò lei, -Non osare!-. Stringeva l’impugnatura con forza.
-Non mento! Lo sai!-, esclamai io. Il Diavolo ci fissava. Beffardo e indifferente.
Awua non abbassò la sua lama. Mi fissò.
-Non mento.-, ripetei, -L’hai detto tu che sono vincolato dai miei giuramenti. Io non mento.-, raddrizzai il capo, -Se non ti fidi, affonda pure la tua spada.-.
-L’ultima carta, veggente. E vediamo cosa esce.-, disse Awua.
Estrassi. La carta mi cadde. Cadde girata, visibile. Gli Amanti, ancora. Janus, Maghera e Layla.
La fissai. Lei mi fissò. I muscoli tesi per lo sforzo di tenere l’arma puntata.
-Vuoi uccidermi, Awua?-, chiesi, -O vuoi fidarti? Posto che tu sappia farlo.-.
I suoi occhi tradirono qualcosa, un baluginio di rabbia. Seguito da incertezza.
-Voglio… capire.-, disse infine. Parve che proferire quella parola le fosse costato sforzo.
-Capire cosa?-, chiesi.
-Di chi fidarmi. Questi affari che faccio… ho attorno a me diversi nemici. Penso tu l’abbia capito. Ho bisogno di sapere che c’è qualcuno di cui mi possa fidare.-, mormorò.
-Io non ti tradirò, mia signora.-, dissi, -Anche se disapprovo i tuoi metodi.-.
-E non userai le tue parole per manipolarmi? Sarebbe così facile, vero?-, sorrise tristemente lei. Non aveva abbassato l’arma. Dentro di me sentii qualcosa, un improvviso moto di coraggio. La fissai. Spostai il peso in avanti, la punta della lama m’incise la pelle.
Sentii una goccia di sangue spillare e cadere. Non smisi di fissarla.
D’improvviso, il braccio di Awua si spostò, la lama puntò rapida verso terra. Lei fece un passò verso di me, gli occhi stupiti, l’espressione colpita mentre una sua mano intercettava la goccia di sangue che correva lungo il mio pomo d’Adamo.
Si fermò, le dita a contatto col mio collo, spoche del mio sangue.
Improvvisamente, sentimmo dei rumori. Tafferugli, lotta. Urla di morenti e di allarme.
Corremmo fuori dalla tenda. Awua uscì per prima, e li vedemmo.
Banditi. Cinque uomini. Avevano sopraffatto le nostre guardie rapidamente e senza pietà.
Uno di loro stringeva i capelli di Surya, costringendo a terra la donna puntandole un’arma alla gola. Gli altri ci guardarono. Uno di loro finì un ferito con un affondo di shotel, una sciabola tipica dell’Africae.
-Getta l’arma, donna. Gettala o lei muore.-, disse l’uomo. A riprova della serietà della minaccia, uno dei banditi premette un pugnale contro il collo di Surya.
-Non c’è motivo di fare questo… vi prego…-, dissi alzando le mani, -Siamo solo viandanti.-.
-Getta l’arma!-, ringhiò l’uomo, ignorandomi. Awua pareva paralizzata dallo stupore.
Uno dei cinque estrasse una pistola. Mi gettai davanti ad Awua, senza pensare.
E all’improvviso, le tenebre della notte presero forma.
Uno sparo abbatté l’uomo armato. Un secondo colpo quasi decapitò quello che teneva in ostaggio Surya. L’intrattenitrice si alzò, prendendo il pugnale dal proprio aguzzino, ma senza capire cosa stesse succedendo. Una figura entrò nel mio campo visivo. Una donna, capelli raccolti in trecce nere, carnagione scura, ma quasi più bronzea che nera, viso aristocratico, occhi scuri, ma con screziature verdi, i muscoli erano forti, tonici ma non eccessivi.
Fu l’arma a impressionarmi. La pistola giaceva a terra, davanti a sé. Impugnava un falcione, un’arma ad asta. Con una lama a un’estremità e un puntale in ferro che pareva decorato dall’altra parte. Arma ingombrante, atipica. Eppure, non pareva spaventata né dal numero né dall’aggressività dei nemici. Loro si avventarono, senza ordine ne coordinazione.
Pura volontà di uccidere.
E lei si mosse, rapida. Uscì dalla traiettoria d’attacco del primo, ma non senza trapassarlo al collo richiamando subito a sé l’arma.
Mulinò l’asta, deviando un fendente e colpendo col puntale all’estremità dell’arma. Allontanò il secondo avversario fendeno davanti a sé. La testa del terzo cadde sulla sabbia.
L’ultimo la guardò. E la guardai anch’io. Aveva vesti colorate da deserto, ma aveva abbattuto tre uomini in poco più di due respiri.
-Due scelte.-, la donna parlò, voce chiara, decisa, l’arma ad asta puntata al petto dell’ultimo predone,-Andare in pace, o restare e morire. Scegli tu.-. L’altro gettò uno sguardo ai morti. Non ci mise molto.
Scappò, lasciando a terra la sua lama rugginosa. La guerriera ripulì la lama del falcione.
Solo allora, Awua si mosse, lentamente, recuperando la spada.
-Chi sei?-, chiese, guardinga. Non credevo che la nuova fosse ostile, e se lo fosse stata…
Allora Awua avrebbe presto raggiunto i suoi avi, a giudicare dalla rapidità con cui si era mossa.
-Un’amica. Non amo gli sciacalli, e questi sono tra i peggiori.-, disse lei.
-Notevole.-, ammise la mercante, -Hai combattuto come una guerriera provetta.-.
-Necessità resa virtù.-, disse la nuova arrivata. Si chinò a controllare uno dei servitori a terra. Scosse il capo, mesta.
-Ci hanno presi di sorpresa, totalmente. Siamo in pieno deserto…-, iniziai io.
-Gli shufta sono bravi a sfruttare il deserto. Lo conoscono da sempre.-, commentò lei.
-E tu li hai abbattuti. Perché?-, chiese la mercante.
-Perché non mi piacciono gli sciacalli.-, rispose a muso duro la guerriera nera.
Due nere, una davanti all’altra. Due donne di pari volontà. Ero intimorito.
-Il tuo aiuto è giunto provvidenziale.-, dissi avanzando, -Hai la mia gratitudine.-.
-Sì. Anche la mia.-, riconobbe Awua abbassando la spada. Surya si alzò, massaggiandosi il collo. Anche Juba era a terra, ma si mosse piano, ferito, ma vivo. Si teneva un fianco.
-La vostra gratitudine è apprezzata. Immagino siate diretti a Bahra.-, buttò lì la guerriera.
Awua annuì appena. Inutile negare.
-Una scorta ci farebbe comodo. E tu hai dimostrato di saper decisamente usare quell’arma.-, ammise. La guerriera la fissò.
-Mi credi una mercenaria.-, commentò senza reale ostilità.
-Posso pagare bene il tuo disturbo.-, si limitò a farle notare Awua. Silenzio. Assoluto.
-I vostri uomini sono stati sorpresi. Alcuni di loro stavano piazzandosi di vedetta quando gli shufta hanno colpito. Sono stati colpiti alle spalle.-, disse la guerriera.
-Io sono uscita dalla tenda e me li sono trovati addosso.-, disse Surya, che ancora tremava.
-Sono stati rapidi. -, annuì lei mentre analizzava la ferita di Juba con occhio clinico.
-E tu passavi da qui e basta?-, domandai. Mi fissò. Nei suoi occhi non vidi ostilità.
-Sì.-, rispose semplicemente. Indicò qualcosa. Aguzzai lo sguardo fissando un cammello accovacciato su una duna poco lontana, -Capisco i vostri sospetti, ma penso capiate che se avessi voluto finire il lavoro…-, lasciò in sospeso la frase. Annuii. Aveva ragione.
-La mia offerta rimane.-, puntualizzò Awua.
-Mia signora…?-, chiese Surya, -È saggio?-.
-Se avesse voluto ucciderci lo avrebbe già fatto.-, dissi io, pacato.
-Vero. E una scorta ci serve. Fosse anche di una sola persona.-, decretò Awua.
Fissò i morti, più infastidita che altro.
-Mi hanno servito bene. Sarà difficile sostituirli.-, commentò, riportando lo sguardo sulla nuova venuta che intanto aveva bendato rapidamente il contabile,, -O forse no. Accetti?-, chiese. La guerriera si alzò, fissò la mercante. Faccia a faccia.
-Io sono Awua Al-Thairum. Se conosci questo nome sai anche che sono la mercante più facoltosa dell’intero Golfo. Posso permettermi di pagarti più di quanto tu immagini.-, disse Awua. Mi accorsi di star trattenendo il fiato. La guerriera annuì appena.
Senza entusiasmo, né enfasi. Poi fece una cosa che non aveva ancora fatto.
Sorrise. Un sorriso che non seppi decifrare.
-Io sarò al tuo fianco, Awua Al-Thairum. Sino alla fine.-, disse. Mi suonò come una profezia.
O una minaccia. Sentivo la bocca secca. Provavo qualcosa, un senso di stupore, frammisto a timore. Osservai la nuova venuta andare verso la duna a recuperare il cammello.
-Aspetta!-, esclamai, -Non ci hai detto il tuo nome.-.
-Il mio nome è scritto nel vento. Ma potete chiamarmi Phelea.-, disse lei senza girarsi.
Ripartimmo immediatamente. Aiutai a smontare le tende. Caricammo i proventi della vendita di Awua sul mezzo più capiente e ci piazzammo all’interno. Surya si mise alla guida.
Phelea ci precedette a dorso di cammello. La bestia non era lenta e presto, entro la mattinata del giorno seguente, arrivammo a Bahra.
Non c’era da celebrare o da piangere. Avevamo rapidamente seppellito i morti e lasciato lì tutto ciò che non ci sarebbe servito. Il ritorno era stato rapido.
Rivendemmo il mezzo a un mercante di Bahra, un dilettante. Awua incassò una buona cifra. La usò per pagare due lavoranti affinché portassero il resto dei suoi soldi alla nave in attesa.
Phelea spariva e arrivava, impossibile dire dove fosse o da quanto fosse riapparsa.
Quella donna mi incuriosiva, e spaventava. Surya mi si avvicinò.
-Non mi piace.-, disse, secca.
-Non ti fidi?-, chiese. Lei mi fissò, gli occhi azzurri più duri di quanto mi fossi aspettato.
-Non mi sembra… una guerriera come altre. E il suo intervento? Un tempismo perfetto.-, commentò l’intrattenitrice. Eravamo poco distanti dal porto. Awua stava finendo di sbrigare alcune compravendite di merce. Non armi, probabilmente.
-Beh, vediamo.-, dissi. Estrassi quattro carte fissando Phelea che affiancava la mercante in una trattativa, il falcione in pugno e la postura vigile nonostante l’apparente rilassatezza.
La Regina di Spade, il Re di Denari e Re di Bastoni. L’ultima fu la Giustizia.
La Giustizia era già uscita in precedenza. Alzai lo sguardo su Surya, che fissava le carte.
-È pericolosa?-, chiese.
-È determinata. E indubbiamente forte. La sua mente è affilata come una lama, ma anche… Scevra da formalismi. Ne emerge una personalità molto decisa, una guerriera unica.-, dissi.
-Ma sarà leale?-, chiese Surya, -Non voglio ritrovarmi la gola tagliata…-.
Sollevai la Giustizia. Tutte le carte erano dritte, inclusa quella. -Sì.-, assicurai.
-Allora la domanda è a chi.-, disse Surya, -I soldi possono comprare chiunque.-.
-I soldi possono comprare solo chi è interessato a farsi comprare.-, controbatté Phelea.
Era accanto a noi, apparsa come dal nulla. Ora. Ora ero davvero spaventato.
Quanto aveva sentito del nostro conversare? Anche Surya la fissava, stravolta dalla sorpresa.
-Belle carte, veggente. Sono le mie, vero?-, chiese senza particolare emozione.
Prese la Regina di Spade. Senza chiedere. Non osai oppormi.
-In passato, molti altri le hanno usate. Alcuni per gioco, altri per profitto. Alcuni per predire, altri per truffare. Tu per cosa le userai?-, chiese.
-Sono un veggente. Per aiutare coloro che chiedono.-, dissi. Lei mi fissò. Annuì dopo un tempo che mi parve eterno. Fissò Surya senza emozioni. L’intrattenitrice ricambiò lo sguardo.
-Vedi niente che ti piace?-, chiese dopo qualche istante. La guerriera non rispose.
-Awua ha finito.-, disse, -Ci muoviamo.-.
Ritornare sulla barca mi parve strano. Forse perché ciò che avevo visto e vissuto era stato ben diverso da ciò che mi ero aspettato, o forse perché io stesso ero cambiato.
Probabilmente, in quel breve tempo in terra d’Africa, il vecchio me era morto. Difficile dire cosa fosse sorto al suo posto.
Mi feci una doccia, indugiando sotto il getto per lunghi minuti, ripensando a ogni singola carta estratta, a ogni verità vagliata. Avevo visto molto, e molto sopportato.
Mi rivestii, proprio quando sentii bussare alla porta. -Avanti.-, dissi.
Surya fece il suo ingresso, regale, avvolta nelle sue vesti decisamente buone, ogni passo artisticamente studiato mentre ancheggiava muovendosi al ritmo di una musica che sentiva lei soltanto. Sorrise vedendomi.
-Dunque? Abbiamo lasciato una conversazione in sospeso.-, disse a mo’ d’introduzione.
-Riguardo Phelea.-, annuii io, -Mi sembra abbastanza leale.-.
Surya storse la bocca in un’espressione di sincero disprezzo.
-Non si fa distrarre da nulla. Sembra sia disinteressata a tutto.-, disse.
-È una buona cosa, no?-, chiesi. L’intrattenitrice mi osservò, l’espressione di puro scherno.
-Oh, sciocco! Quelli come lei sono dei predatori. Sta da chiedersi chi è la sua preda!-, esclamò. Io la fissai.
-Hai paura che Awua la preferisca a te?-, chiesi, scettico.
-Sai che sono irresistibile…-, sussurrò lei avvicinandosi.
Il mio cuore prese a palpitare mentre ripensavo al nostro intermezzo in sauna.
-… ma lei mi fa pensare per altri motivi. Non ti sei accorto del suo tempismo? Non ti viene il sospetto che i briganti le siano serviti per darle una scusa per venire con noi?-, chiese.
Ammisi che non aveva tutti i torti. Surya sedette su un mio cuscino, con grazia.
-Se così fosse, quale potrebbe essere il suo scopo? Se avesse voluto uccidere Awua avrebbe potuto farlo già dal principio, e lo stesso vale per me, te e Juba.-, ragionai.
Lei sorrise di nuovo, il viso decorato dal trucco dorato che si apriva in un’espressione lieta.
-È bello vedere che, a differenza di molti altri, tu usi alquanto bene quella testa, e non solo ciò che sta sotto la cintura.-, commentò mentre si alzava.
-Anche se avesse secondi fini mi sembra alquanto improbabile riuscire a farglieli sputare.-, notai, -Insomma, hai già visto che non sembra incline alle frivolezze, né alla baldoria.-.
-Già. Non vorrei che il suo scopo fosse un altro…-, ponderò Surya.
-Tipo?-, chiesi io, sinceramente interessato.
-Non saprei. Soqora, magari?-, chiese l’intrattenitrice.
-Qualcuno che odia, lì?-, chiesi, -O magari la base di Awua stessa…-.
-Esattamente. Ti consiglio di metterla in guardia dalla sua fiducia verso questa straniera.-, disse Surya, -Mi pare che lei ti ascolti.-.
“Lo fa davvero?”, mi chiesi. In realtà, il nostro ultimo scambio si era concluso con un’impasse, ma anche con un picco di sensazioni tutt’altro che chiare da parte di entrambi.
-Si tratta solo di sapere cosa dire, e quando e come dirlo. Tu non sembri aver bisogno di lezioni, in tal senso…-, sussurrò la donna. Si chinò come per allacciarsi la scarpa davanti a me, salvo poi stendere le braccia sulle mie gambe, sino al ventre.
-Il potere è di chi se lo prende…-, ricordai. Surya sorrise, appoggiandosi contro di me.
-Esatto.-, bisbigliò. Cercò e trovò il mio sesso sotto i tessuti. Lo estrasse.
-Vedo che ti ricordi piacevolmente del nostro incontro…-, disse contemplandone la turgida fierezza con soddisfazione non dissimulata. Mi fissò negli occhi coi suoi. Occhi azzurri, spietati, tuffati nei miei.
-Anche io ho dei bellissimi ricordi.-, sussurrò la donna venuta dal Kelreas mentre apriva la bocca, facendovi sparire il mio sesso per due terzi di lunghezza.
Artigliai i cuscini. Usando la lingua con un’abilità diabolica, Surya stava già portandomi al limite. Mosse il capo due volte, su e giù. Sentii il glande contro il suo palato rovente.
-Surya…-, iniziai. Lei non si fermò, anzi. Accelerò il ritmo, emettendo suoni umidi, sino a che non persi il controllo. Le presi il capo, svuotandomi nella sua bocca con un urlo strozzato.
Si tolse e deglutì, fissandomi mentre si rassettava il vestito e i capelli. Ansimai sino a riconquistare una respirazione decente. Avrei voluto fosse durato un po’ di più.
-Solo per ravvivare il ricordo. Per adesso è meglio evitare di dare adito a dicerie. A Soqora forse avremo più tempo, e più libertà d’azione.-, disse, -Ora… estrai tre carte, da bravo. Leggi per me.-, aggiunse. Mi lavai le mani. Presi le carte.
Estrassi. Denari. Cinque, dritta. La Papessa girata e infine… il Matto.
-È strano.-, dissi, -La prima carta è chiaramente una tentazione a livello finanziario. Un investimento redditizio ma rischioso, la tentazione di coglierla, ma la Papessa…-, indicai la figura che riproduceva la veggente di Aristarda Nera, -È contraria… E il Matto… in questa posizione suggerisce l’allontanarsi dal sentore che la Papessa rappresenta.-, dissi.
-Uhm.-, commentò Surya, -Ci penserò.-, disse alzandosi. Sorrise di nuovo. Si leccò provocatoriamente le labbra. Uscì ancheggiando com’era entrata.
Sospirai alzandomi. L’avrebbe davvero fatto? O aveva chiesto quella lettura per non insospettire nessuno.
Mi feci una seconda doccia e mi recai verso la mensa. Era ora di cena, e complice la traversata del deserto, non avevamo mangiato. Ero davvero affamato.
La cena era stata soddisfacente, nulla da dire.
La lettura a Surya mi dava da pensare, quasi più di quella che avevo fatto a Phelea.
Pur non essendo fatti miei, mi chiedevo quali fossero le tentazioni di speculazione a cui avrebbe potuto cedere: che io sapessi, era comunque al servizio di Awua…
Già, come tutti noi. Ma Surya pareva prendersi diverse libertà. Non ero certo che la mercante ne fosse a conoscenza.
E poi c’ero io. Completamente incerto su ciò che era il mio destino. Surya aveva ragione: volendo avrei potuto asservire Awua, avrei potuto spezzarla, farla pendere dalle mie labbra, muoverla come una marionetta di teatri per bambini, ma semplicemente non intendevo farlo.
-Tu sei il veggente.-, la voce, ancora nuova, di Phelea, mi riportò alla realtà. Era comparsa accanto a me, a pochi metri di distanza, come se fosse stata partorita dalla notte.
L’arma, il falcione che usualmente brandiva, non c’era.
-È così.-, dissi con un cenno del capo, -Guerriera.-.
-Lo fai dall’infanzia?-, chiese lei. Annuii. Mi squadrò.
-I veggenti sono rari, quelli veri anche più rari. Ma ho visto le carte che hai letto, le mie. Da quel che posso dire di sapere, erano vere.-, disse infine, -Allora immagino che anche altri beneficino dei tuoi servigi.-.
-Sì. Awua, Surya… diversi.-, ammisi, -Ma questo è normale. Come veggente ho il compito e il dovere di leggere per chi lo chiede. Senza esigere ricompense di sorta.-, aggiunsi.
-Capisco. E dici sempre il vero.-, disse lei. Non era una domanda.
-Non mento mai.-, dissi. Phelea mi fissò, occhi verdi screziati di grigio che mi affondavano dentro, scavando nell’animo.
-Ammirevole.-, ammise infine.
-Ma tu invece? Chi sei realmente? Ti muovi come una predatrice, come una guerriera navigata, ma i tuoi occhi e le carte parlano di qualcuno tutt’altro che cieco all’intelletto, e forse anche agli intrighi. Non hai parlato con Awua di soldi, quindi non t’interessano così tanto. Non sembri particolarmente interessata neppure al cibo o ai piaceri della carne, anche se sicuramente attiri gli sguardi di diversi uomini. Eppure tutto questo ti lascia indifferente. Chi sei?-, chiesi infine dando fiato a quei dubbi che avevo da molto.
-Tu chi credi io sia?-, chiese Phelea.
-O una truffatrice eccezionale, o una guerriera pura…. O una sacerdotessa guerriera delle genti dell’Africa profonda. Oppure…-, la fissai, radunando il coraggio e infine osando parlare,
-Un’assassina.-.
La parola rimase sospesa tra noi per un lungo istante, infine la nera guerriera mi fissò.
-Sono stata molte cose. E sono tutt’ora molte cose. Sappi solo che, al momento opportuno comprenderai, e saprai da che parte stare.-, disse.
Quelle parole mi fecero sentire il gelo. Il gelo dentro. Come se all’improvviso la notte fosse stata defraudata del calore, e il mio corpo del sangue. Mi volsi un’attimo, dandole le spalle.
Il desiderio di correre via c’era. Lo soppressi con tutto me stesso. Quando mi voltai a rispondere, era svanita.
Quella notte, quando rientrai in camera, mi feci una domanda.
Non avevo provato odio verso i predoni che mi avevano privato della mia vita tranquilla e della mia libertà? Non avevo onestamente disprezzato Shalim, il vile mercante che mi aveva ceduto ad Awua? Non avevo provato nulla del genere? Sì. Onestamente sì.
Non ero migliore di nessuno, in quel senso. Non ero al di sopra delle passioni e delle emozioni, semplicemente avevo tracciato una linea di confine.
Le carte, la lettura delle carte, implicava la separazione dall’aspetto emotivo. Non le avrei usate per avvantaggiarmi su nessuno né avrei traviato il loro significato al fine di trarne vantaggi di sorta, neppure quando sarebbe potuto essere considerato lecito a causa della bassezza morale dei miei consultanti. Fine.
Era il limite imposto, non da me stesso a me stesso, ma dal mio maestro, dal peso della responsabilità che mi ero caricato sulle spalle quando avevo appreso a leggere le carte.
Altri avevano superato quel limite, lo sapevo. Per un veggente onesto, ce n’erano decine, se non centinaia, che manipolavano, falsificavano, plagiavano.
L’onestà era estremamente rara. Dopo la Caduta dell’Impero di Licanes i veri veggenti erano rimasti pochissimi. Molti avevano scelto l’esilio, o vite ritirate, per non mettere i loro talenti al servizio degli uomini sbagliati.
Io avevo solo il mio intelletto e la mia speranza che Awua non fosse prossima a divenire anch’essa una despota, certo. Ma qual’era il limite? Quand’era che il fine smetteva di giustificare i mezzi? Una vita per la pace era un prezzo accettabile? Se la risposta fosse stata sì, quante vite sarebbero rimaste sotto tale nomea? Quando fermarsi? Quanti sacrifici erano concepibili e accettabili per la pace o la prosperità? Quand’era che il prezzo diveniva troppo alto? Quando fermarsi? Due vite? Venti? Duecento? Duemila? Per cosa?
Awua capiva? Vedeva ancora un limite? Volevo crederci.
Il ritorno a Soqora fu lento, rilassato. Arrivammo al porto e ci diregemmo rapidamente verso la tenuta di Awua. La città non pareva molto diversa da quando l’avevamo lasciata.
Era come se a tutti gli effetti, la gente rallentasse guardando Awua. La donna rivolse loro brevi cenni, a tratti, apparentemente abituata a quella forma di rispetto.
Accanto a lei, Phelea cavalcava il suo destriero del deserto, osservando vigile.
-Ti rispettano molto.-, disse dopo qualche minuto.
-Molto di ciò che hanno lo devono a me. Soqora era in rovine prima del mio arrivo. La gente non aveva cibo, né il commercio era così florido.-, spiegò Awua.
-Sono tutti indaffarati.-, notò la guerriera.Era vero: la gente tributava un rapido rispetto al nostro passaggio salvo poi riprendere a condurre i propri affari muovendosi rapida.
-Sì. Soqora è un centro industriale. Si occupa di numerose manifatture.-, ammise la mercante. Notai Phelea osservare diversi movimenti tra la folla, per un lungo istante.
-Manifatture.-, ripeté lei, pensosa. Awua annuì appena. Io osservai a mia volta.
Numerose persone parevano acceleare, quasi timorose di un giudizio.
Paura. Era paura quella che vedevo, ne ero certo.
Era paura quella che vedevo nei loro movimenti, forse dovuta al timore che Awua li reputasse pigri, pensai di primo acchito, ma poi ragionai sul fatto che a tutti gli effetti non sapevo di quali manifatture si stesse parlando.
Era possibile che producessero armi? Loro? Tutti loro? Erano loro il motore della ricchezza di Awua nella sua parte più amorale? Dentro di me provai un assoluto, totale senso di orrore.
Se era così, quella gente, tutta l’isola di Soqora, era complice (per quanto forzata) di un atroce disegno. Uno che non riuscivo a tollerare, ma che mancavo della forza di sabotare, e della spregiudicatezza di compromettere tramite l’uso della carte e la loro lettura.
Non ero un eroe. Ero solo un veggente, solo un uomo. Impotente ma per salvare cosa? Principi? Virtù? Nulla di tutto questo avrebbe potuto mai evitarmi il biasimo di me stesso.
Una parola sorse da una parte di me, una sola, semplicissima, tagliente come una lama.
“Codardo.”.
Era vero. Ero un codardo. Ma cos’altro potevo fare? A malapena sapevo tenere in mano un coltello, figuararsi combattere.
Mentre ci muovevamo per rientrare alla tenuta, mi sentii totalmente, e assolutamente inutile.
Al nostro arrivo trovammo Samara e i doemstici schierati come per un ispezione. Awua conversò brevemente con alcuni di loro mentre presentava Phelea e Juba agli astanti. Incrociai brevemente lo sguardo Samara. Mi ritirai verso i miei alloggi. Deposi il mazzo di carte davanti a me. Maledicevo la mia debolezza, silenziosamente. Infine lo dissi. Di nuovo.
-Tre carte. Ambisco a comprendere. La prima, la conferma, la seconda, l’obiezione, la terza…-, la gola mi si strinse. La terza carta era un’eresia. Un tradimento.
-Verità.-, sibilai infine. Mischiai le carte, arcani maggiori, solo quelli. Tagliai e rimescolai.
Movimenti misurati, pacati, posati. Quiete nel rituale, rifugio nell’abitudine.
Estrassi.
La prima: l’Appeso. Capovolto. Sì: la mia sofferenza non era mia, ma…
La seconda: la Forza. Dritta. …ma mi mancava quel coraggio. Il coraggio di combattere…
“Perché? Perché ero così schifosamente debole?!”, pensai, esasperato.
Perché non avevo versato il sangue di almeno uno dei predoni che mi avevano strappato a casa mia? Perché non osavo? Perché non combattevo? Avevano ragione coloro che a suo tempo mi definirono inutile, prima che il mio maestro e mentore comprendesse il mio dono?
L’ultima carta. Il Mondo. Il MONDO!!!
Di tutte le carte, essa era la sola a rappresentare un personaggio che non era appartenente al Mito di Licanes. La lama del Mondo mostrava una donna, uno scettro in una mano, avvolta dal doppio anello di sole e luna, in piedi su un globo, affiancata da contrasti inconciliabili apparentemente quietati alla convivenza pacifica, all’armonia.
Il Mondo! La carta del trionfo, della realizzzione, della comprensione del vero…
La fissai. La fissai sino a sentire gli occhi dolere. Verità!
La mia verità? Qual’era quella verità? Cosa voleva dire quella carta? Cosa implicava?
Se l’Appeso era la mia sofferenza, e la Forza la necessità di trovare in me il coraggio, allora il Mondo era il raggiungimento di un tale stato? Un mutamento mentale? L’accettazione?
Il coraggio di accettare il reale a prescindere da ciò che crediamo o vogliamo… O forse no.
Forse era un trionfo di altro tipo. Mi concessi di speculare. Di lanciare il pensiero in direzioni sin lì inesplorate. Il Mondo era la carta trionfale per antonomasia, implicava il superamento di ogni ostacolo, palesava la vittoria definitiva dell’iniziato su di sé, e la sua incoronazione alla maestria, il raggiungimento della verità, che permette infine all’iniziato di ridiscendere nella veste del Matto, l’indegno, il mendicante, la prostituta, l’infimo per antonomasia, perché il vero non è manifesto, e la saggezza si traveste da follia per tempi folli.
Il bussare alla porta mi distrasse. Rimescolai gli Arcani.
Samara entrò. Aveva con sé la mia cena. Un piatto di verdure, una zuppa di pesce e dell’acqua. Annuii con gratitudine e mangiai mentre lei usciva.
Riflettei sulle carte. Il Mondo… Era la carta più fausta che un uomo potesse desiderare ed essendo alla fine del tiraggio indicava una lieta conclusione, non una vittoria temporanea o soggetta a decadimento. Eppure… Eppure era indefinibile. Per quanto ci provassi gli stavo attribuendo migliaia di significati. Ma in quel senso, non… vedevo.
Che ironia: potevo leggere per altri, potevo intravedere in loro ciò che non vedevo in me.
-La mia volontà non mi appartiene.-, sussurrai, abbattuto.
Sentii la porta riaprirsi. Samara entrò. Mi sorrise. Prese i piatti. Uscì.
Sedetti raddrizzando la schiena e facendo pochi esercizi per la schiena. Cercavo di meditare, di ricondurre le mie emozioni e la mia mente sotto un controllo che era quasi evaporato.
Quasi. Lentamente, ritrovai una parvenza di serenità. Mi concessi una passeggiata nel cortile.
Notai alcune guardie di ronda. Mi rivolsero appena dei cenni di saluto. Tra loro, c’era anche Phelea, il falcione impugnato accanto a sé. Era vigile, ancora, immobile, ma pronta.
Passai oltre. Notai che Juba era intento in una serie di conti, circondato da pergamente e scritti che lo attorniavano come delle colonne di testo e numeri, quasi rinchiudendolo in un cubicolo in lenta diminuzione. Rientrai, non volendo disturbare.
Il mio umore non era lieto, lo sapevo. Presi le carte. Le passai una a una, riflettendo sul loro significato. L’esercizio mi calmò, mi aiutò a rivisitare la lettura di poc’anzi…
Ma non portò altre soluzioni. Sospirai, rassegnandomi alla vanità di quegli sforzi.
Improvvisamente sentii bussare nuovamente alla porta. -Avanti.-, dissi.
Samara entrò, con un sorriso e un luccichio negli occhi, la veste rossa.
-Mi è stato chiesto di prendermi cura del tuo corpo.-, disse.
-Grazie. Non stasera.-, declinai. Il sorriso le si frantumò in un’espressione di dubbio, sofferta.
-Non… ti è piaciuto? L’altra volta…-, si sentiva rifiutata. Scossi il capo.
-No, è stato molto bello. Ma stasera non sono in vena.-, risposi. Lei annuì. Uscì, non senza un’espressione di evidente disappunto. Probabilmente l’iniziativa era venuta da Awua, un modo per gratificarmi? O magari era stata Samara stessa a volermi. Si era forse innamorata di me? Forse. Ma in ogni caso, sarebbe stato sbagliato dire sì quando era no. Mi dispiaceva rifiutarla, ma accettare sarebbe stato sbagliato. E soprattutto, non mi avrebbe visto interamente partecipe come invece ero stato in principio. Le avrei fatto un torto, peggiore di rifiutare la sua compagnia.
Passai la sera in solitudine.
L’indomani la mattinata trascorse senza particolari avvenimenti. Fu nel pomeriggio che uscii nuovamente dalla mia abitazione per fare un breve giro della proprietà.
La presenza delle guardie non m’intimidiva come in un primo momento aveva fatto ed ero giunto a considerarle serenamente come parte del paesaggio.
Le strutture dei magazzini erano quanto più avrei voluto vedere, e quanto meno riuscivo ad apprezzare: mi ero fatto una ben chiara idea del loro contenuto.
Armi. Era da lì che erano uscite, era da lì che era iniziata la violenza che ora sicuramente sconvolgeva Thama.
E forse, lì avrebbe potuto essere fermata. Quante altre armi aveva in giro Awua? Quante fabbriche di Soqora producevano armamenti? Quanta gente era consciamente coinvolta?
E soprattutto, come potevo io, fermare quella macchina di morte senza venir meno ai miei fottuti principi? Stavo arrivando a odiarmi per quello, ma…
Ma dentro di me la consapevolezza di essere comunque in qualche modo ammaliato da Awua, da Surya e da ciò che la mercante aveva saputo edificare attorno a sé era una frustrante realtà.
A dispetto di tutto quanto aveva fatto, stimavo Awua. La stimavo per la sua capacità di mantenere il controllo… Quel controllo che forse stava perdendo. Che forse aveva già perso…
Quel controllo che le era sfuggito prima dell’attacco dei predoni nel deserto, quando mi aveva minacciato, quando avevo mostrato un coraggio, o magari un’autentica indifferenza davanti alla possibilità della morte, forse perché almeno morendo non sarei venuto meno a me stesso…
Era questo? Era stato questo il suo crollo, e il mio coraggio? Forse avrei dovuto parlargliene.
Decisi: alla prossima utile, le avrei detto ciò che avevo dedotto dalle letture.
Mi sedetti a un tavolo del patio, per un istante deciso a non pensare. La tenuta era bella, ben curata, e nonostante non fosse autosufficiente, rappresentava un bellissimo esempio di efficienza. Poi vidi Juba. Lo vidi entrare nel corpo principale della tenuta.
Dove stava andando? La domanda mi sorse spontanea. Sapevo che usualmente i suoi alloggi erano poco distanti dai miei e che anche il suo lavoro di contabile amministrativo raramente lo portava a spostarsi. Awua si era sincerata che il materiale contabile gli pervenisse con regolarità, dunque perché avrebbe dovuto muoversi?
Non avevo chissà quale animo da pedinatore o da spia, ma in quel momento, seguirlo mi parve una cosa naturale, che feci senza rifletterci. Mi mossi cauto, attento a non a farmi sentire. Il nero superò un’anticamera decorata senza badare minimamente alla piccola fontana che essa ospitava. Doveva essere l’atrio in cui Awua riceveva i propri ospiti.
Juba transitò attraverso quella sala spaziosa senza curarsi di cotanta magnificenza. Io invece notai le decorazioni, le lettighe che parevano giungere dalla Confederatio Licanea, i cuscini di pelle tipici dei popoli d’Africa e Asia… Notai tutto ciò e mi domandai fugacemente dove finisse la funzionalità e iniziasse lo sfarzo. Era chiaramente una sala fatta per colpire.
Juba superò una porta. Giunse a un corriodio. Lo seguii, riparandomi appena dietro ad alcuni stipiti nel caso gli fosse saltato in mente di guardarsi alle spalle. Non sembrava decisamente questo il caso: qualunque cose stesse pensando non figurava tra i suoi pensieri il timore di venire seguito da qualcuno. Infine, lo vidi entrare con decisione oltre una porta.
Non bussò né altro: entrò e basta. Titubai se avvicinarmi o meno: poteva essere che si fosse accorto del mio pedinamento, o magari la stanza era sorvegliata, o forse invece, non era nulla di ché, magari Awua lo aveva convocato. Esitai ancora un istante, poi decisi: non avrei sbirciato, avrei ascoltato. Se la cosa non fosse stata sospetta o rilevante, avrei lasciato stare.
Ero sorpreso da quella mia iniziativa, usualmente ero più riservato. O lo ero stato.
Dopo il deserto non ero più lo stesso, e lo sentivo. Mi avvicinai, cauto, ogni passo pesante come piombo. E sentii una voce. Juba.
-I rendiconti sono corretti. È un guadagno notevole.-, disse.
Stava solo facendo rapporto ad Awua, no? Mi preparai ad andare, muovendomi piano, prima che una seconda voce, nota, mi inchiodasse sul posto.
-Molto bene. Hai fatto un ottimo lavoro, Juba.-, la voce era di Samara.
Samara! Il mio cervello si lanciò in una serie di congetture, dubbi, e soprattutto, di sospetti.
Samara era una schiava, come me. Non avrebbe dovuto avere accesso a simili informazioni, non ci riguardavano! Era semplicemente impensabile che lei avesse osato rischiare una punizione oltremodo crudele per… cosa?
-La vendita procederà a breve. Ho stimato un guadagno addizionale del 25% se possiamo tirare sul prezzo e questo ci ripagherebbe delle spese sostenute durante il primo trimestre di produzione.-, riferì Juba, diligente e formale.
-Eccellente.-, rispose Samara. La sua voce aveva un ché di sbagliato. Non sembrava lei!
Dovevo vedere… Dovevo vedere! Feci per sporgermi.
-Ora resta solo una cosa da fare…-, sentii dopo quelle parole di Samara, o di quella che pareva lei, rumore di stoffe che cadevano a terra. Poi un gemito maschile, profondo.
-Commisurare una ricompensa adeguata…-, mormorò Juba.
I rumori umidi successivi furono inequivocabili. Mi mossi piano, tornando verso l’esterno.
Tremavo, sentivo di tremare. Cos’avevo sentito?! Samara… cosa stava facendo?! Quale follia si era impadronita di lei?! Scossi il capo. Non poteva essere vero. Doveva esserci una spiegazione. Doveva! Uscire in cortile non mi liberò dalla morsa d’ansia che provavo.
Ero combattuto. Da un lato avrei dovuto parlarne ad Awua, ma dall’altro…
Come potevo sapere che non erano ordini della stessa mercante? Come poteva altrimenti Samara ricevere simili informazioni? A meno che non avesse in qualche modo circuito Juba!
Mi presi la testa tra le mani. Non sapevo a cosa credere. E non sapevo cosa fare.
-Déi del cielo…-, mormorai.
-Gli déi hanno voltato le spalle.-, rispose Phelea. Sussultai: era apparsa accanto a me, silenziosa e ineluttabile come la morte stessa. Mi fissava, il falcione pigramente appoggiato al corpo, gli occhi che parevano trafiggermi, -A tutti. Anche alla verità.-.
-La verità…-, ripetei, incapace di esprimermi.
-La verità è una cosa fluida, come l’acqua. Tu cerchi la verità, Alexander.-, disse lei.
Non era una domanda. Non lo era mai stata. Annuii nondimento.
-Anche se non ti dovesse piacere?-, chiese la guerriera. Esitai.
Quante verità spiacevoli avevo annunciato? Annuii di nuovo.
-Così sia.-, disse la nera. Estrasse qualcosa dalla veste. Una moneta.
Rame e ferro fusi assieme in una forma unica, solida, concreta. C’era una sorta di fregio sulla moneta, replicato su ambo le facce.Era grande poco più di sette centimetri.
-Che cos’è?-, chiesi mentre me la dava.
-Una chiave. Ora è tua. La saprai usare al momento opportuno.-, rispose la guerriera, cripitca.
-Non capisco.-, ammisi candidamente. Phelea sorrise, i denti che spiccavano sull’incarnato scuro. Era un sorriso tutt’altro che spaventoso, lo stesso che aveva fatto, ricordai, all’offerta di Awua. Per un istante mi chiesi di nuovo chi, o cosa, fosse quella donna.
-Capirai a tempo debito.-, replicò, -Sino ad allora, ascolta.-.
Mi lasciò con la moneta tra le mani, più perplesso di prima.
Mi giravo ancora tra le mani quel monile mentre riflettevo sulle implicazioni.
Cosa sapeva Phelea? Era fedele ad Awua, o a Samara? O invece aveva piani suoi?
Tutto lasciava presagire l’ultima ipotesi, anche perché Samara mi era parsa tutto fuorché una doppiogiochista. Era pur vero che non la conoscevo abbastanza da giudicare.
Un’altra domanda riguardava quella moneta. Una chiave, aveva detto Phelea, ecco cos’era.
Per cosa? Pareva un sigillo di qualche tipo, ma era impossibile per me sapere come o dove usarlo. A che poteva servire una chiave che priva di serratura?
“A meno che, lei non sia convinta che io la saprò trovare, la serratura.-, pensai.
Il bussare alla mia porta mi strappò dai pensieri. Infilai la moneta in una tasca dell’abito.
Awua entrò, altera. Era vestita come al nostro primo incontro. Un vestiario notevole che subito rievocò in me un senso di meraviglia, non interamente dovuto al suo solo potere.
-Mia signora.-, dissi a mo’ di saluto.
-Alexander.-, annuì lei, -A breve discuterò con un acquirente. Si tratta di un affare relativo a alcune partite di alimenti. Vorrei una tua lettura al riguardo. L’uomo si chiama Kabhir Balakarah. Ho una pittoimmagine se ti servisse.-, disse.
Annuii. Lei la estrasse mostrandomela. Un’immagine semplice, per un uomo semplice, viso affilato, da beduino, occhi grigi, senza particolare carattere. Sereno, apparentemente.
-È la prima volta che fai affari con lui?-, chiesi. Awua scosse il capo.
-Li ho già fatti due volte. Ma in questo specifico caso, lui parla di urgenza. Parla di un trasporto che deve partire tra due giorni. Cibo in quantità per una città del Golfo.-, spiegò.
Annuii. Presi il mazzo, mescolai, tagliai le lame.
-Cinque carte. Due per lui, due per te, una per ciò che vi lega.-, dissi.
Disposi le lame girate, coperte. La mercante seguì ogni mio movimento.
Scoprii la prima. Il visto di Awua. In questo caso, il Carro. Nimandeo Feral in trionfo.
-Gli affari sembrano andare bene, e anche tu sembri soddisfatta da ciò. Ritengo però che sappiamo entrambi che più uno sta in alto, meno è libero.-, dissi.
-Mi ritieni in gabbia?-, chiese la nera.
-Questo lo stai dicendo tu. Io dico che il potere comporta responsabilità.-, risposi, -Non è forse così anche per te?-, chiesi.
-Il deserto ha affilato la tua lingua, veggente.-, rispose lei, non del tutto irritata. Sorrisi.
-Forse. Sicuramente ha scosso la mia mente. Continuiamo.-, dissi.
Seconda carta: il non visto di Awua. La Torre.
-Ah.-, dissi osservandola, -Un colpo di testa, o magari rovesciamento delle parti, una breccia nel controllo…-, ponderai.
-Ma davvero…-, mormorò Awua fissandola, -E niente Diavolo?-, chiese. Scossi il capo.
-In questo senso, la Torre puô rappresentare uno scacco, una sconfitta. Forse un pessimo affare. Vediamo le altre, che ne dici?-, chiesi, sordo alla sua provocazione.
Girai la prima del suo “socio”.
-Il Mago, il Bagatto… Capovolto rappresenta l’inganno, la truffa, inadempienza, incapacità…-, dissi fissando quella carta. La nera annuì appena.
-Kabhir non è una cima.-, ammise, -E spesso ho fatto affari con lui a un prezzo di assoluto favore. È un dilettante, che ha ereditato dal padre la sua fortuna, senza meritarla.-.
-Capisco.-, dissi. Lasciai da parte la carta di Alexander Varus per girare la seconda lama di quell’uomo, quella del non-visto.
-Il Mondo, capovolto…-, momorai guardandola. Era un presagio tutt’altro che fausto e anche analizzando le carte in modo razionale, attenendosi a valenze puramente psicologiche, era una carta terribile se virata al negativo.
-Una catastrofe, un fallimento completo. Occasioni mancate. Una mente incapace di reggere il peso dell’esistere.-, dissi. Awua ascoltò, senza fiatare. Girai l’ultima. La Luna, capovolta.
-Questa proposta è una truffa, mia signora. Kabhir sta impazzendo. La sua fortuna gli si stà sgretolando in mano a causa della sua incapacità. Questo è il suo ultimo tentativo di mettersi in salvo dalle conseguenze, ma non si salverà, anzi è probabile che, se lo aiuti, ti trascinerà a fondo con sé.-, decretai. Awua mi fissò, gli occhi scuri che parvero scavarmi nell’animo.
Rimase zitta, un lungo istante.
-Non menti, Alexander?-, chiese.
-No, mia signora. Non mento.-, dissi. Mi fissò, senza muoversi.
-Si parla di oltre ventimila Calus.-, disse.
-Ventimila Calus… Ma non ha anticipato nulla, vero?-, chiesi.
-No.-, ammise lei. Annuì infine, distendendo appena il viso, -Ora capisco.-, disse infine.
Si alzò. Mi sorrise.
-Come sempre il tuo consiglio è stato utilissimo, veggente. I miei ringraziamenti.-, disse.
Si fermò poco prima di uscire. -Confido avrai piacere ad unirti a me per cena.-, dichiarò.
Non era una domanda, e di fatto non potevo rifiutare.
Uscì. Ripresi le carte rimescolandole. Estrassi la chiave. Cos’era? Cos’era?!
Estrassi le lame, senza pensare. Le girai. Tre.
L’Appeso. Gli Amanti e infine la Ruota. Tutte dritte.
Stavolta la sofferenza era una mia scelta. Avevo chiesto la verità, di nuovo, e di nuovo mi si era palesata una via per ottenerla. Gli Amanti invece erano una scelta, un bivio cruciale. E la Ruota… La Ruota sottolineava come tutto ciò fosse in realtà già scritto.
Tornai sugli Amanti. Erano un bivio? O dovevo intendere il loro significato nel senso più triviale, limitandomi a vedervi lo sbocciare di una relazione, sessuale o sentimentale che fosse? Forse la verità era più semplice di quanto osassi sperare.
Se fosse stato così, a chi si riferivano?
Ad Awua, che mi aveva appena invitato a una cena che poteva essere l’ultima?
A Surya, sicuramente eccitante ma improvvisamente svanita a dispetto di ogni sua promessa?
O a Samara, magari, che forse sapeva e manovrava ben più di quanto l’aspetto lasciasse intendere?
Oppure a Phelea, ma quest’ultima ipotesi mi parve alquanto improbabile vista la natura taciturna della nera guerriera. Di fatto, anche lei era un enigma, non da poco.
Ma, a differenza di ogni altro enigma, pareva dalla mia parte. Forse.
Oppure era una doppiogichista, venuta a distruggere Awua e il suo regno dall’interno.
Se era così o no, io non lo sapevo. E avevo un solo modo per capirlo.
Andare a vedere il suo bluff, cercare di scoprire la verità, anche a costo della vita.
Mi preparai alla cena.
Sicuramente non mi ero aspettato tanto lusso: superato il salone d’ingresso, fui condotto ai piani superiori da un solerte valletto. Sapevo che Awua aveva alcuni valletti con sé, e il tono di voce oltre ai modi effemminati e la pelle glabra mi confermavano un primo sospetto: erano eunuchi. Non che ciò fosse realmente un problema, o una sorpresa: il mio mentore aveva reso ben chiaro che molti ricchi possedianti arabi si avvalevano di uomini castrati per sorvegliare mogli o amanti, e Awua probabilmente sapeva che, privi di distrazioni, quei servitori erano oltremodo devoti.
-La Padrona la attende all’interno, mio signore.-, disse il valletto aprendo una porta e facendosi da parte. Non avrebbe mai pensato di entrare per primo.
Faceva strano venire chiamato signore, considerando che ero ancora uno schiavo.
-Grazie.-, dissi ed entrai. Rimanendo senza fiato.
La sala era di fatto spaziosa, i muri dipinti da numerosi affreschi e un complesso sistema di canalette artisticamente decorate lungo le pareti conduceva sottili rivoli d’acqua a convogliare lungo tutto il perimetro, intarsi dorati decoravano le pareti, lasciando il posto ad affreschi secondo le tradizioni di Licanes. La parete est era tutta un insieme di stoffe e arazzi, e potevo onestamente dubitare fosse di fatto una parete.
Il pavimento della sala era ricoperto di tappeti che da soli dovevano essere costati una cifra spropositata, e le lettighe color porpora sopra di essi erano altrettanto pregiate. C’erano anche diversi cuscini piacevolmente spessi, all’apparenza in seda riempita da del kopek.
Mi soffermai a domandarmi quanto avesse speso Awua per quella stanza, scoprendomi incapace di trovare una risposta.
L’illuminazione era gestita tramite lampade a pilastro che rischiaravano la sala a giorno. Diversi tavolini erano stati approntati tra i vari triclini e cuscini. Attualmente erano tutti vuoti, coperti da linde tovaglie di seta bianca.
Un’ancella mi si avvicinò con un sorriso, porgendomi a mani giunte una ciotola d’acqua.
Io annuii appena, dopo un attimo di smarrimento ricordai che era usanza porgere l’acqua per lavarsi le mani. Un gesto di ospitalità e riguardo, noto in gran parte del mondo arabo moderno.
-Benvenuto, Alexander.-, la voce di Awua mi spinse ad alzare lo sguardo.
La vista della mercante mi fece quasi saltare un battito.
Gli occhi erano stati allungati con del trucco, appena quanto bastava da evidenziarne la bellezza. I capelli erano avvolti da un fermaglio impreziosito d’oro.
Il vestito della nera era una copia di quello che aveva indossato la prima volta che ci eravamo visti, salvo per il colore: questo era viola con filigrane dorate e ghirigori argentei. Era una versione ininitamente più preziosa dell’altro abito, adatta a grandi occasioni.
-Mia signora…-, riuscì a mormorare, estasiato alla vista. Lei sorrise, bellissima.
-Solo Awua, per stasera. Non c’è bisogno di essere formali.-, disse. Si avvicinò a una delle lettighe, preferendo infine uno dei pouf. Batté appena le mani.
Un gruppo di servitori entrò, deponendo sui tavoli cibi e caraffe di acqua e karkadé.
C’era di tutto: cibi vegetariani, carne, pesce. Presi un bicchiere di karkadé il cui dolce sapore mi parve semplicemente celestiale, quasi quanto la donna che mi guardava.
-Questa cena è un piccolo ringraziamento. I tuoi servigi sono stati ben più che all’altezza delle mie aspettative. Sei stato bravo. Kabhir non ha preso bene il rifiuto. Voci riferiscono che sia morto, di recente. Sicuramente la sua disperazione ha preso il sopravvento. L’erario dell’Amir Qulawun ha segnalato che quell’uomo ha avuto scoperti per quasi seicentomila dinari.-, spiegò, -Nessuno lo rimpiangerà. I suoi clienti mi hanno già richiesto di subentrare al suo posto per quel che riguarda le questioni mercantili.-. Annuii, domandandomi se, in quel caso, la trattativa avrebbe riguardato delle armi, tra le altre cose.
Presi una fetta di naan, versandovi sopra dell’hummus. Mangiai piano, assaporando.
Lei sorrise. Prese a sua volta un antipasto, mangiando piano. Dopodiché, batté le mani due volte. Dalla falsa parete che avevo visto sbucò una figura femminile avvolta in un’abito color miele, quasi intonato alla sua carnagione. Surya mi sorrise fugacemente, quasi a ricordarmi il nostro piccolo patto, prima di accomodarsi su un cuscino e iniziare a suonare un liuto.
Si accompagnava con la voce cantando in arabo antico una melodia piacevole e intensa, bassa e struggente. Rimasi senza fiato al sentirla. Era davvero brava.
-Surya è sempre capace di toccare corde profonde nell’animo.-, disse Awua. La nera si era spostata sulla lettiga accanto al mio cuscino. Notai che aveva gli occhi lucidi.
-È bellissimo…-, mormorai. Anche io sentivo le lacrime spingere verso l’esterno, gli occhi e il cuore mossi a commozione.
-Capisci di cosa parla?-, chiese la mercante. Scossi il capo.
-Poco.-, ammisi, con mia vergogna, -È una variante antica dell’Arabo, forse pre-Cataclisma.-.
-Parla di un re che odiava le donne, e che, dopo l’aver scoperto il tradimento di sua moglie, decise di uccidere ogni nuova sposa che prendeva dopo una notte di matrimonio. L’uomo era stato tradito, e aveva sofferto così tanto da non riuscire più a credere nell’amore. In nessun amore.-, mormorò Awua.
-È terribile!-, esclamai. Non conoscevo quella storia.
-Sì. La figlia di un notabile, Sherazadé, decise di porre fine a ciò e propose al padre di offrirsi in mogie al sovrano. Lui acconsentì dopo molte riserve. La prima notte di nozze, Sherazadé prese a raccontare una storia al re. Mai il re aveva ascoltato simili racconti! Ma la giovane s’interruppe all’alba, promettendo di continuare la notte successiva.-, spiegò la nera.
-E il re la risparmiò?-, chiesi, affascinato.
-Notte dopo notte, Sherazadé intesseva un arazzo di storie e trame, fittamente collegate, fermandosi sempre all’alba, sempre sul più bello e sempre il re bramava sentire il resto della storia e il tempo passò. Il cuore del sovrano mutò lentamente, riscoprendo la curiosità, la compassione, la gentilezza, e infine l’amore per quelle sposa.-, concluse Awua.
-È una storia molto bella.-, dissi io mentre Surya terminava di cantare.
La mercante, semidistesa sul triclino, annuì.
-È la storia di molti.-, ammise mentre mangiavamo, -Molti dimenticano la compassione, accecati da ciò che il fato fa loro subire. Quel re rappresenta questo, nella storia, un uomo che dopo un’immenso dolore ha reagito con rabbia. Sherazadé rappresenta l’intelletto, la virtù.-. Mi feci scivolare in bocca alcuni pistacchi.
-Questa volta, Awua, pare sia stata tu a toccare corde della mia anima.-, ammisi guardandola, -Ma ho ragione di credere che questa storia tu non l’abbia narrata solo per conversare.-.
L’espressione della nera divenne un sorriso. Batté ancora le mani. Due volte.
I servitori s’inchinarono e uscirono. Surya continuò a suonare, senza cantare.
Awua batté le mani, tre volte. Anche l’intrattenitrice si alzò, non senza un’espressione incerta.
-Mia signora? Ho forse suonato male?-, chiese.
-No, ma devo conferire con Alexander, in privato. Ti prego di uscire. Sei congedata, Surya.-, diecretò Awua. L’altra annuì appena. Mi rivolse uno sguardo penetrante, carico di aspettativa, e di sottointesi. Poi s’inchinò e uscì.
-Acuto come sempre, veggente.-, disse la mercante, -Acuto, capace, persino coraggioso nel deserto. Ho notato come ti sei mosso davanti a me prima che arrivasse Phelea. Eri pronto a morire per me?-, chiese.
-Ero pronto a morire, anche per te.-, ammisi, -È da quando la mia città è stata distrutta che lo sono. Tutte le gioie del mondo non mi faranno dimenticare quel giorno..-.
La tristezza sbocciò nel mio animo come un fiore. Lei annuì, mesta.
-Non siamo diversi, tu ed io, veggente. Ti sei accorto che anche io ho sofferto in passato, e il peso di tale sofferenza è ancora con me.-, replicò. Accettai quella verità, perché tale era.
-Ma chi è la Sherazadé di questa nostra storia?-, domandai,-Chi ci solleva dal dolore?-.
Awua non rispose, non subito. Batté le mani di nuovo. Un servitore portò qualcosa.
Una sorta di vaso con una corolla in vetro e due tubi con pipette attaccate alle estremità. Lo preparò rapidamente. Conoscevo quello strumento.
-Narghilé.-, spiegò Awua, -Senza hashish, quella ottenebra la mente. Le essenze dentro sono un mix di menta, essenza di zenzero. Serve a concludere degnamente il pasto.-.
Presi una delle pipette e inspirai dalla bocca, sentendo il profumo del vapore invadermi la gola, scendere sino ai polmoni. Esalai una nuvola di vapore.
-In quanto alla tua domanda, non posso dire di saperlo, veggente. L’hai visto, mi sono circondata del lusso più sfrenato, accumulo ricchezze che ormai basterebbero per vite intere, eppure, quel dolore è ancora qui. Certo: sono lieta delle mie vittorie, ho sconfitto il fato, ma a che prezzo? Ogni mio passo è cauto e ponderato, ogni parola dev’essere soppesata, ogni scelta può essere l’ultima.-, spiegò la nera dopo aver preso un paio di boccate.
In quel momento mi resi conto che tutto prendeva un senso.
-Il controllo. Ecco perché il Diavolo ti fa una simile paura. Temi il perdere il controllo, perché potrebbe significare perdere tutto.-, annuii folgorato dalla comprensione.
-Precisamente.-, ammise Awua, -Ho tentato di perdere il controllo… in modo cauto, controllato.-, sorrise, senza troppa gioia, -Non è ridicolo?-, chiese.
-Hai tentato di trovare un compromesso.-, risposi, -Non c’è nulla di vergognoso in questo.-.
-No, Alexander. Non è vergogna che provo. Provo… altro.-, riconobbe la nera.
-Stanchezza. Frustrazione.-, dissi io, -Provi tutto questo perché sei circondata da nemici.-.
-Sì.-, sussurrò lei, -E tu, veggente? Provi forse lo stesso?-.
-I miei nemici… sono dentro di me. Sono la tentazione sottile di usare le carte a mio vantaggio, il ricordo di una città che brucia, il disprezzo e la paura degli altri, e la consapevolezza di essere solo.-, mormorai. Presi un’altra boccata.
Awua non parlò, non subito. Si alzò, bella come una dea. Mi fece alzare.
-I nostri nemici sono tutt’intorno a noi.-, mormorai ancora, -Sia fuori che dentro.-.
Era un’ammissione più vera di ogni altra. Implicitamente stavo confermando a lei, e a me stesso, di non essere al sicuro.
-Ti chiedo una lettura, Alexander. Per me e per te. Ma a differenza di ogni altra, ti chiedo di pescare una carta di mia mano, una di tua e una che rappresenti il vero tra noi.-, disse Awua.
La fissai. Il mio cuore stava battendo forte, non per la cena né per altro. Era lei.
Ed ero quasi certo che anche il suo non fosse lento.
-Tre carte.-, annuii, -E una la pescherai tu.-, sancii. Era un’eccezione clamorosa alla regola dei veggenti: mai far scegliere le carte a un’altra persona, ma era pur vero che in quel caso…
In quel caso neanche io ero così ligio all’osservanza.
Awua annuì, sedendosi sul pouf dopo che un servitore ebbe liberato il tavolino tra noi e l’ebbe ricoperto di una tovaglia bianca. Estrassi le carte.
-La mia.-, dissi estranedola.
-La mia.-, disse lei estraendo la sua.
-La nostra.-, dissi infine io.
Tre carte. Una davanti alla mercante, una davanti a me e una tra le nostre.
Dentro di me, mi accorsi di provare un senso di stupore lento, che avanzava. Era qualcosa che non avevo mai fatto. Mai nella vita. Ed ora, stava accadendo.
Annuii appena, come per ricordarmi di essere lì, con lei, spinto a fare quell’azzardo.
Girai la mia carta. L’Appeso. Mi fissava. Stavolta era girato nel giusto verso.
Awua girò la sua, il Diavolo. Mi guardò, con un sogghigno teso.
-Nessuna sorpresa.-, mormorò. Non le diedi torto. I nostri occhi si posarono sull’ultima carta.
-Io o tu?-, chiesi. Lei esitò. Poi annuì. La prese. Girò.
Gli Amanti. Rimanemmo fermi, bloccati, sospesi, avvolti dal profondo significato di quella carta, dalle molteplici verità annunciate. Il silenzio si posò sulla scena.
Ero stupefatto. Fissai Awua. La nera mi fissò a sua volta, incapace come me di parlare.
Se non fosse stato per il movimento del respiro, avremmo potuto sembrare statue.
Sentivo il mio cuore matellarmi nelle orecchie, la bocca secca e la sensazione di una vertigine deliziosa che aveva ridotto il mio universo a lei, solo lei.
Era sbagliato e anche pericoloso, lei era la padrona e io, nonostante le vesti e il rispetto, ero ancora un suo schiavo. Guardandola mi accorsi che, nonostante ciò, anche lei pareva fissarmi in modo tutt’altro che distaccato. C’era qualcosa nei suoi occhi. Poi, fulminea, la sua lingua fece un movimento, rapido, semplice, diretto, appena un guizzo tra le labbra.
Stava succedendo anche a lei. Quella strana alchimia di rispetto e timore era mutata nel tempo, in me, nel desiderio di proteggerla, di aiutarla di…
Di amarla. Era assolutamente folle: dopo una storia d’amore finita male, molti anni prima che la mia città cadesse e io fossi fatto schiavo mi ero ripromesso di non innamorarmi mai più.
Nondimeno era accaduto. Ed ora era accaduto anche a lei.
“Mutui percorsi… paralleli e intrecciati. Sofferenza condivisa, rendenzione cercata, rispetto su ambo i poli… perché simile attira simile.”, pensai.
-Awua…-, iniziai, -Io…-. Era stupido anche parlarne e lo sapevo, ma dovevo dirlo.
-Lo so.-, mormorò lei, la voce più dolce che avesse mai usato, -Lo so da molto.-.
-Il tuo Diavolo vedrà la sua torcia avvampare, e rilascerà la sua energia repressa. E il mio Appeso potrà finalmente sciogliersi dai legacci.-, sussurrai. Audacemente le passai una mano lungo la guancia, una carezza lenta, sottile, -Ma può accadere solo l’uno con l’altro.-.
Lentamente, il mio viso si avvicinò al suo, con il suo. Esitanti entrambi. Come bambini.
Poi, di scatto, annullai la distanza, posando le mie labbra sulle sue.
Il bacio scatenò sensazioni nuove in me. Awua intrappolò il mio labbro inferiore, rilasciandolo dopo poco dalla presa delle sue. Le mie mani la abbracciarono e lei ricambiò l’abbraccio.
La mia lingua, come dotata di vita propria, cercò la sua.
Ci staccammo. Ansimavamo, entrambi. Gli occhi della mercante erano pregni di emozioni.
-Alexander…-, mormorò lei.
-Awua…-, sussurrai io. Assaporavamo i nostri nomi come li avessimo sentiti e proferiti per la prima volta in quell’istante, lì. Nuovamente, le nostre labbra s’incontrarono. La sua lingua invase la mia bocca, danzando con la mia mentre le sue mani mi accarezzavano così come le mie s’insinuavano tra i suoi vestiti. La volevo e lo sapevo. E lei sembrava volermi.
Anche se fossi stato al di sotto delle sue aspettative? Sì!
L’eccitazione gonfiò il mio membro e guidò i miei atti senza che io riflettessi. Ci sdraiammo sulla lettiga, fianco a fianco, senza smettere di baciarci.
Lentamente, ci stringemmo l’uno contro l’altra, i nostri corpi che si muovevano senza interferenze da parte del pensiero, spinti dall’istinto. Sfiorai i seni di Awua sentendo i capezzoli attraverso la stoffa dell’abito, mentre lei mi accarezzava il petto.
Lottai contro l’abito mentre lo sguardo divertito della nera pareva ridere della mia incapacità di rimuovere quella veste. Alzò le braccia e io sollevai la veste scoprendo l’addome piatto e i seni, lasciandola cadere a terra, dimenticata.
I seni di Awua si ergevano a sfidare la garvità e il tempo, sodi e compatti, sormontati da capezzoli che parevano punte di matita. Lei intanto mi tolse la veste, accarezzandomi il petto, scendendo verso il ventre. Mi accorsi di avere il membro eretto. La baciai di nuovo. La volevo.
Scivolai lungo il collo, deponendo un bacio lungo il seno sinistro, accarezzando il destro.
Awua fremette. Mi afferrò il sesso dopo avermi tolto i pantaloni. Non fece commenti.
Ero… all’altezza? Me lo chiesi fugacemente mentre la baciavo. Volevo esserlo, ecco la verità, volevo disperatamente sapere di essere all’altezza di ciò che si aspettava!
Ma continuava a baciarmi e ad accarezzarmi, mi manipolava piano il membro con quella che pareva giocosa curiosità più che altro, accogliendo i miei tocchi del suo seno e del suo ventre, e dei suoi fianchi appena segnati dai tatuaggi lineari scuri più scuri della sua carnagione con fermiti e gemiti, intervallati da parole in qualche dialetto che non avevo bisogno di conoscere per intuire il significato. Forse tutto ciò significava che andavo bene.
Però se fosse andata avanti a masturbarmi sarei venuto come un adolescente imberbe.
Gentilmente, le posai una mano sul polso della sua. Lei capì. Smise. Sorrise emettendo un breve risolino di gola.
La baciai continuando a vezzeggiare quei seni stupendi. Scesi piano lungo il suo corpo, sfilandole la parte inferiore della veste. I calzoni scivolarono via. Sotto non c’era nulla.
Awua sorrise mentre esponeva la sua intimità al mio sguardo, le labbra scure della vulva più scure della pelle che le circondava in stupendo contrasto con rosa della sua lingua, e il bianco del suo sorriso. Una tavolozza di colori stupenda, un capolovaro della natura.
Baciai piano lo stomaco e il pube depilato della mercante, scendendo verso il sesso ma deviando improvvisamente lungo l’interno delle cosce, Awua gemette, un gemito che mi spinse a risalire dalle sue cosce sino alla vulva. Presi a baciarla piano, senza essere irruento, forzandomi a essere lo schiavo obbediente che avrebbe forse voluto in altri momenti.
La nera esalò una serie di mugolii mentre gustavo la sua intimità che già stillava miele.
Improvvisamente sentii una sua mano sulla nuca. Mi spinse, con perentoria forza, verso la sua vulva. Mi mossi in accordo con il suo comando, facendo scivolare la lingua tra le grandi labbra dischiuse come i petali di un magnifico fiore carnoso, un fiore che bramavo cogliere con tutto me stesso. M’imposi di aspettare, di continuare, di compiacerla.
Ancora, Awua parlò in quel dialetto che non comprendevo, consonanti e vocali talmente dissonanti tra loro da far pensare a qualche lingua primitiva e incivile.
Mi strappò violentemente dalla sua vulva mentre si scuoteva in un sommo brivido di godimento. Mi fissò. La fissai. Mi piazzai tra le sue gambe, senza bisogno di parlare.
Puntai il sesso all’imbocco della vagina, scivolando dentro di lei. Piano.
-Sssìiii!-, sussurrò accogliendomi. Mi allungai su di lei a baciarla. Le nostre lingue chiusero il cerchio. Fu come se un improvviso circuito elettrico avesse chiuso i contatti. Sentii una scarica elettrica passare da me a lei. Le nostre bocche si separarono mentre affondavo nella nera, ancora e ancora, sopraffatto dal profumo della sua pelle, dal suo sapore, da lei.
Continuammo entrambi a dare colpi d’anca, baciandoci, ansimando mentre il ritmo dell’amplesso saliva. Awua mi abbracciò, graffiandomi la schiena.
Stava dicendo qualcosa, mi accorsi. In un momento tra i nostri baci e il mio baciarle il collo vellutato, la sua voce aveva formato suoni, qualcosa come un “ah..lek”, continuo.
-Alex! Alexander!-, esclamò lei infine riuscendo ad articolare il mio nome con chiarezza.
-Awua…-, mormorai al suo orecchio. Mi baciò il collo mordicchiandomi appena.
-Aspetta.-, disse lei. Si sfilò da me, rovesciandomi sotto di sé.
-Mia signora.-, dissi. Era falso, una forma inutile in quel momento. Lei sorrise. Prese il mio sesso e, mettendosi a cavalcioni, lo guidò nuovamente dentro sé.
-Nessuna signora, qui. Solo una donna.-, sussurrò mentre si muoveva. Gemetti. Awua accelerò, impalandosi sino a fondo. Mi graffiò il petto scendendo a baciarmi per pochi istanti.
Stava venendo, lo sentivo, sentivo la sua intitmità contrarsi contro il mio sesso, e anche i suoi movimenti erano sempre più veloci e meno controllati, le unghie sul mio petto che graffiavano, la sua voce che diventava più roca e poi, con un grido strozzato e inarcando la schiena come una leonessa mai doma, Awua lanciò indietro la testa. La sua vulva mi strinse come una mano avrebbe potuto fare. Fu troppo: eiaculai a grandi fiotti dentro la nera.
L’orgasmo ci travolse come una tempesta, annullò tutto, passato presente e futuro.
E soprattutto, annullò noi. Awua crrollò sul mio petto, baciandomi piano mentre il mio sesso, ormai scarico del seme, si ritraeva.
Rimanemmo lì, avvolti solo dal nostro respiro, su un triclino divenuto talamo, sussurrandoci parole che sprofondarono piano in noi, a mezza voce, quasi con il timore di rompere l’incantesimo che si era creato.
Poi, lentamente, tornai alla coscienza. E seppi cosa dovevo fare.
Eravamo rimasti sdraiati per minuti, o ore, o anni. Il tempo si era frammentato, quella sala era divenuta un bozzolo, un rifugio dal mondo esterno.
Awua mi aveva accarezzato lentamente a lungo, stringendomi piano. E io mi ero perso nei suoi occhi scuri, sfiorando il suo corpo scuro e magnifico, seguendo con dita adoranti le linee geormetriche dei tatuaggi che aveva lungo gli avambracci, le cosce, i fianchi…
Avevo memorizzato ogni singolo particolare, ogni cosa. E ci eravamo nuovamente baciati.
La nera mi aveva sorriso, di quel sorriso vero, puro. Si era mossa piano con cautela, alzandosi a sedere con lentezza, quasi non avesse voluto che quel momento fosse giunto al termine.
E poi, aveva detto solo due parole.
-Grazie, Alexander.-, aveva sussurrato. Io avevo avvertito un familiare senso di profonda sintonia con quelle parole. Avevo scosso il capo.
-Grazie a te, Awua.-, avevo detto con un sorriso a mia volta. Ero grato, profondamente grato.
Ma, sapevo anche, che c’era qualcosa che dovevo dirle. Mi ero fatto forza per farlo.
-Devo… parlarti di una cosa della massima importanza e della più stretta riservatezza.-, avevo detto mentre lei si era rivestita e anche io mi ero rimesso gli abiti.
-Vieni.-, aveva detto.
Eravamo usciti dalla sala, e Awua mi aveva guidato sino a una camare discosta. Aveva estratto una chiave dagli abiti.
-Questo è la mia camera. Qui nessuno origlierà.-, disse mentre apriva la porta.
Entrai. Era ben semplice: meno decorazioni alle pareti, ma soprattutto, l’assenza quasi totale di ninnoli. Era volta alla funzionalità. Un ricordo, forse, di una vita più crudele, più semplice e spietata, dove i lussi che avevo visto abbondare nella tenuta non erano ammessi, perché non erano raggiungibili o necessari.
Awua si sedette sul letto. Mi sedetti accanto a lei.
Le dissi di Samara, di Phelea e della moneta che mi aveva dato, non le tacqui nulla.
-Sospetti che Samara possa starmi tradendo, dico bene?-, aveva chiesto lei. Avevo annuito.
-Se non lo sta facendo, di certo non ti dice tutta la verità, mia signora.-, dissi.
-La moneta che hai detto… potrebbe essere un lasciapassare. A Soqora vi sono sempre stati alcuni luoghi preclusi ai più, posti che non dovrebbero esistere. Sai che la veduta degli arabi è rigorosa in merito a diverse cose, ma è proprio questo che li rende vulnerabili, suscettibili al vizio, in ogni forma. E il loro rigore apparente li rende anche cauti.-, spiegò la nera.
-Quindi… Pensi che Phelea mi abbia dato quella moneta per aiutarmi? Non mi pare interessata alle manipolazioni.-. Il silenzio aleggiò su quella domanda.
-Penso che Phelea abbia voluto indirizzarti su una strada. E penso valga la pena vedere dove conduce. Che io sappia, Samara non è presente nella tenuta domani. Ha degli affari da sbrigare. Ti autorizzo a seguirla, accompagnato da una guardia. Sii discreto: entra, osserva e torna. E se Samara è davvero una traditrice…-, gli occhi di Awua assunsero una nuova luce.
Una luce oscura. Ira. La potevo percepire mentre sentivo il gelo nella stanza, -Non troverà luogo in cui nascondersi e pagherà per i suoi misfatti. Io non tollererò il tradimento.-.
Avevo annuito. Awua mi aveva baciato nuovamente. Mi desiderava di nuovo, era palese.
E anche il mio sesso aveva ripreso vigore. Ero pronto a darle ciò che voleva.
Mi ero lasciato cadere sulla schiena, mentre lei mi aveva spogliato e si era tolta le vesti…
Sbattei le palpebre scacciando i ricordi recenti.
Haled, la guardia che mi accompagnava, mi sorrise appena.
-Sogni ad occhi aperti?-, chiese, -Signore.-. aggiunse dopo qualche istante.
-Non di mia volontà.-, risposi con un sorriso che si spense subito.
Ero agghindato come un nobile, i capelli tagliati e tinti da alcuni dei servi di Awua.
Un travestimento accettabile per entrare in uno di quei luoghi così esclusivi.
Sapevo anche il nome di quel luogo, ora. Ghenna.
Ghenna, in qualche antica lingua significava “Inferno”. Non ero mai stato credente ma in quel momento, sperai in protezioni da parte del fato.
Nella folla che andava avanti, vidi Samara, la sua figura appena riconoscibile in una veste color acquamarina. Il cappuccio che indossava le copriva parte del viso, in conformità alle usanze arabe. Camminava, poco guardinga. La seguimmo a diversi metri di distanza, finché non la vedemmo raggiungere un locale anonimo, una porta quasi incastrata tra due edifici.
Bussò. Una finestrella si aprì e, dopo poche parole, fu la porta ad aprirsi. Entrò.
Era evidentemente la Ghenna. Mi feci coraggio. Era tempo.
Tempo di affondare la mano nella bocca della bestia.
Estrassi gli arcani. I Maggiori. Pescai una carta. Una sola. Per me.
La Luna. Rovesciata. Pessimo presagio. Mi volsi verso Haled. Era un uomo di trentasei anni, veterano della Guerra Ayubidda avvenuta dieci anni prima in Arabia. Un duro.
-Stai qua. Se non torno tra due ore, entra a cercarmi.-, dissi.
Non era stato facile procurarsi una seconda moneta. Awua aveva fatto l’impossibile, smosso conoscenze, richiesto favori. E ce l’aveva fatta.
Non era una sorpresa che volesse il meglio, in ogni campo. Inclusi i campi proibiti, ovvio.
Avanzai verso la porta. Sentivo un senso di trepidazione, di nervosismo, Era il mio.
Il cuore batteva forte. Cos’avrei trovato oltre quella porta?
Mi feci forza. Ripensai ad Awua. Non ero lì solo per me, ma per lei, per qualcosa che era nato tra noi. Un tenue filo argenteo che ci aveva legati. Un sentimento che non potevamo ignorare.
Era amore? Era quello l’amore? Se lo era, non sorprendeva ne cantassero i musciti e i poeti, lo volessero uomini e donne, non sorprendeva nulla di tutto ciò.
Perché ti faceva fare follie, esattamente come quella che stavo facendo in quel momento.
Bussai. Una feritoia si aprì. Dietro c’erano due occhi marroni, incorniciati in un viso che, dal poco che potevo vedere, pareva della zona.
-Siamo chiusi.-, disse con tono tutt’altro che amichevole. Cosa rispondere? Improvvisai.
-Posso pagare.-, dissi. L’avidità era un grimaldello convincente, con i più.
-E che hai?-, chiese lui. Che hai, non quanto hai! Estrassi la moneta.
Sentii la porta aprirsi. Entrai. L’atrio era spoglio, semplice, assolutamente distante dall’idea di ritrovo proibito che avevo avuto. C’era una scala, dava verso le viscere della terra.
Scesi. La porta dietro di me si chiuse.
Dopo una discreta discesa arrivai a un’altra porta. Sentivo qualcosa. Musica. Tradizionale araba, una nenia non spiacevole, priva di voci ad accompagnare.
Spinsi. La porta si aprì. E dentro c’era una bolgia, autentica.
Torce ai lati di una stanza vasta e intervallata da palchi illuminavano a stento l’immensa oscurità del luogo, tagliata da occasionali luci che fendevano la folla.
Lungo l’intera sala c’erano gruppi di persone, alcuni seduti a dei tavoli, intenti a fumare dei narghilé, altri atti a bere liquori (azione fortemente malvista dai puritani seguaci del Profeta Mahmet). Ma quelli erano il meno. Dovetti aguzzare la vista per vedere il resto.
C’era una folla a dimenarsi in una sorta di danza più o meno ritmica, chi più chi meno parevano tutti più interessati a strusciarsi gli uni contro gli altri, piuttosto che a ballare come sarebbe usualmente convenuto. Mi sorprese anche il fatto che numerose donne non portassero il classivo velo e gli uomini non parevano farsi problemi a prendere per i fianchi e mimare amplessi. Ma non erano solo le donne a subire quel trattamento, a volte erano loro a imporlo ad altri uomini, altre volte invece erano giovani che parevano efebi a prestarsi al gioco. Il locale pareva un’alcova votata al quieto consumarsi di qualunque vizio altrimenti proibito. Il luogo ideale per le peggiori perversioni, certo, ma anche per le più oscure macchinazioni. La domanda vera era cos’avesse a che vedere con quel luogo Samara, e ovviamente, dove fosse finita in mezzo a quel baccanale.
Avanzai piano verso quello che pareva un bar dove una barista, rigorosamente senza velo e senza neppure la parte superiore dell’abito, era intenta a dispensare bibite alcoliche.
Scivolai attraverso la massa di avventori, cercando di ignorare le mani che sfioravano, accarezzavano, afferravano o palpeggiavano. Era un autentico baccanale. Di fatto non mi sarei sorpreso se qualcuno dei presenti avesse effettivamente iniziato a copulare con qualche partner. Cercai di restare concentrato.
Notai due uomini intenti a palpeggiare una donna, le mani che scivolavano tra i vestiti, gherminavano e stringevano.
Arrivare al bar fu un impresa, ma ce la feci.
-Mhrhaba!-, esclamò la barista con un sorriso tutt’altro che spiacevole.
-Salve a te.-, risposi, -Starei cercando una donna.- iniziai.
-Oh, ce ne sono a bizzeffe! Qui nella Ghenna il peccato è una parola bandita. La trasgressione è il nostro credo.-, disse lei, -Come la vorresti, questa donna? Bianca? Nera? Vuoi una figlia del deserto, o brami un fiore dell’Oriente dagli occhi a mandorla? La vuoi sottomessa o fiera? Giovane o già temprata?-, chiese a raffica. Rimasi attonito davanti a quella pletora di possibilità. Non avevo contemplato la possibilità di trovarmi in un postribolo clandestino.
-O magari vuoi una donna… speciale… Ma sì, capisci cosa intendo, no?-, domandò la barista, sorniona mentre indicava un palco.
Su quel palco, una donna, o almeno quella che pareva tale dalla vita in su, era intenta a penetrare una giovane con un sesso decisamente notevole. Non era un fallo artificiale: era davvero una donna con un membro maschile.
Conoscevo quell’usanza. Molte donne si sottoponevano a interventi di chirurgia per divenire ibridi simili. Era da dire che presso la Confederatio Licanea erano intrattenitrici per pochi eletti, c’era persino un culto dedicato alla Dea Virilis. In Oriente, si diceva che numerose donne offrissero il proprio fiore di loto affinché divenisse una virile arma. Nelle nazioni d’Arabia, tale pratica era tabù, evidentemente non lì.
La donna fallo-munita era intenta a dare gran colpi d’anca. La giovane a carponi aveva la bocca invasa dal sesso di un uomo che nel mentre limonava con l’altra partner. Poi, come era iniziata, ebbe fine: la donna con il membro estrasse il pene dall’initmità dell’altra e, dopo pochi tocchi, eiaculò potentemente sulla schiena nuda della partner.
-Notevole, vero? Posso organizzarti un incontro, se vuoi. Alla Ghenna è tutto possibile!-, esclamò la mia interlocutrice. A giudicare dal tono pareva eccitata.
-Graize, no. In realtà cerco una ragazza specifica.-, dissi, distogliendo lo sguardo.
Descrissi Samara. La barista annuì appena.
-L’ho vista poco fa. Penso stesse aspettando qualcuno, perché si è diretta alle camere private.-, disse. Mi fissò, improvvisamente in dubbio.
-Presumo aspettasse te…-, disse. Sfoderai la mia migliore faccia da schiaffi.
-Esattamente!-, esclamai.
-Ottimo! Allora ti farò accompagnare.-, disse mentre chiamava una donna dal cranio rasato, viso procace, seno semplicemente grosso (in mancanza di termini migliori) avvolto da una tuta in latex che disegnavano ogni singolo punto del corpo con precisione anatomica.
Incluso un bozzo innaturale all’altezza del sesso. La fissai.
-Vieni, mio signore. Se desideri potrò unirmi ai giochi…-, sussurrò, lasciva, mentre si leccava le labbra. L’immagine non mi piacque: non ero estraneo al sesso, ma la mia veduta era abbastanza tradizionalista. E dopo Awua, l’idea di divagazioni erotiche del genere era quantomai distante dalla mia mente.
-Fai strada.-, ordinai. Fendemmo la folla mentre ci dirigevamo verso le cabine private. Superammo un divano su cui una giovane vestita come una principessa si faceva masturbare da due uomini che avrebbero potuto essere suoi nonni. La giovane inspirava piano da un narghilé, esalando volute di fumo grigiastro. Riconobbi l’odore. Hashish.
Arrivammo lungo la parete e scivolammo verso un corridoio.
-Prima volta?-, chiese la mia accompagnatrice. Aveva una carnagione abbronzata, da beduina. Annuii. Sorrise mostrando una dentatura leggermente rovinata da chissà quali sostanze.
-La prima volta non si scorda mai. L’idea è stata della tua bella, o tua?-, chiese.
Non risposi, non ero interessato a fare conversazione, anche perché stavo pensando a cosa dire a Samara se l’avessi incontrata. Avevo la mezza idea di proporle un accordo. Dubitavo agisse da sola, e dubitavo sarebbe stata così stupida da osare inimicarsi Awua.
Volevo capire chi c’era dietro. Lo esigevo, e lo dovevo alla mercante che aveva rapito il mio cuore. Superammo una sala dove vidi due donne contendersi il membro di un vecchio, incredibilmente possente, sicuramente grazie a qualche stimolo.
-Eccola qui. Camera 14.-, disse la mia guida. Bussò.
-È arrivato il tuo appuntamento.-, annunciò.
-Fallo entrare.-, rispose la voce di Samara. Non c’erano dubbi! Era lei!
La porta si aprì. Samara, seduta sul letto a centrosala alzò lo sguardo, non senza un barlume di sorpresa. Io sorrisi entrando, ostentando la mia migliore espressione da arrogante bastardo. Avevo deciso per un approccio diretto.
-Buonasera, Samara.-, dissi.
-Alexander…-, lei si morse il labbro mentre pronunciava il mio nome.
-Un luogo davvero molto discreto. Impossibile trovarlo senza essere ammessi da qualcuno che vi è già entrato, e impossibile entrare senza le giuste chiavi.-, dissi.
-Che cosa vuoi?-, chiese lei, non senza stizza. Decisi di scagliarle tutta la verità addosso.
-Qualche tempo fa ti ho sentita parlare con Juba, di cose che non avresti dovuto sapere. Awua non reagirebbe bene, se lo sapesse, ma credo che non ci sia solo tu dentro questa storia. Credo che tu sia solo una pedina, per qualcun altro. Voglio che tu mi dica chi è questo qualcuno e cosa trama. Fallo e intercederò presso la nostra signora per te.-, dissi, -Ti garantisco che lei ne terrà conto.-.
-Ah, il mio piccolo scambio con Juba… Davvero maldestro, quell’uomo. Pensava troppo alle gioie che gli avrei offerto e troppo poco al resto. -, sussurrò Samara. Si alzò fissandomi senza paura, -D’altro canto, tu sei stato davvero molto abile. Arrivare fin qui… tutta opera tua?-, domandò. La fissai senza rispondere. Lei sorrise, con scherno.
-Naturalmente no. Tu sei uno schiavo, un veggente capace, ma uno schiavo. Non avresti mai avuto modo di accedere a questo posto senza un lasciapassare. E qualcuno te ne ha procurato uno. Forse lo stesso qualcuno che è giunto dal deserto con la mia signora?-, chiese lei. Era brava. Aveva già intuito o dedotto come ero arrivato fin lì.
-Però se Awua avesse voluto, avrebbe inviato altri. Un assassino, o magari un delegato delle forze di sicurezza di Soqora… Invece ha mandato te…-, Samara sorrise, ancora, -Lei si fida di te. Dimmi veggente, com’è stato? Come è stato possedere la tua padrona?-.
Fu un colpo allo stomaco. Come l’aveva capito?! Lei ridacchiò appena.
-L’hai soddisfatta, almeno? O te l’ha fatto solo credere?-, chiese, beffarda.
-Non è di questo che stiamo parlando. Sono serio, Samara. In un modo o nell’altro, per te è finita. Awua è implacabile con i traditori, dovresti averlo capito da molto più tempo di me.-.
La mia risposta non la portò a smettere di sorridere.
-Hai detto bene. È implacabile con i traditori.-, disse. Sciolse appena un nodo della veste e mosse le spalle con disinvoltura. La veste le cadde. Totalmente. Me la trovai davanti nuda, i capelli castani slegati e liberi, il viso truccato.
-Non funzionerà e lo sai. Non m’interessi, Samara. M’interessa la verità.-, ribattei, freddo.
Samara sorrise ancora, fissandomi.
-Un vero peccato.-, disse, -Perché tu interessi a me.-.
Improvvisamente sentii un nuovo profumo. Uno diverso, che non apparteneva a quel luogo o a quell’ambiente. E improvvisamente, sentii un’ago trapassarmi il collo.
Feci per girarmi. Colsi con la coda dell’occhio una figura, in una veste viola.
-Rilassati… Stai per goderti un bellissimo intermezzo…-, momorò Samara mentre la mia visione sfocava. Quell’odore, quel profumo però mi diceva qualcosa.
Qualcosa che, mentre crollavo a terra, mi resi conto poteva essere associato a una sola persona. Una donna che conoscevo!
Immagini presero forma, una donna su di me. Carne sulla mia carne, pelle sulla mia pelle.
Le pareti del suo sesso che stringevano il mio.
-Awua…-, mormorai a occhi socchiusi. Avevo la bocca impastata.
Sentivo il membro duro che s’immergeva tra le profondità della mia compagna, e poi ne veniva estratto mentre si muoveva sopra di me.
-Non proprio.-, disse una voce. Aprii gli occhi.
Samara mi fissò, senza smettere di muoversi. “No!”, pensai soltanto, “È un incubo.”.
-Oh, ce ne ha messo di tempo a riprendersi dalla dose.-, disse un’altra donna.
Era appoggiata al muro, una mano pigramente tra le gambe, a toccarsi.
Era una bionda dal viso procace. Era nuda, i seni grossi dai capezzoli belli turgidi contornati da un’aureola notevole. Interamente glabra, aveva la pelle giusto un filino più abbronzata di Samara.
-Allora è ora che partecipi anche tu!-, esclamò la giovane senza smettere di agitarsi su di me.
Stavo per parlare. O meglio, volevo farlo, ma mi accorsi che non ci riuscivo.
Samara si chinò a baciarmi, in bocca.
-Il sedativo che ti abbiamo dato è moolto interessante! Provoca una paralisi lungo gran parte dei principali gruppi muscolari, immobilizzando il corpo salvo i polmoni, il cuore, la lingua e il pene. Perfetto per quando una donna vuole far sentire un uomo un oggetto, non ti pare?-, chiese dopo aver smesso di limonarmi.
Non ebbi modo di parlare. La bionda montò a cavalcioni della mia testa e mi sbatté la vulva sulle labbra. Emisi un “mmmmh!” mentre mi strofinava la vagina contro la bocca.
Era orribile. Stavo tradendo Awua nel peggiore dei modi e contro la mia volontà.
Improvvisamente però ricordai una cosa. Haled. Haled era là fuori!
Quanto tempo era passato? Doveva starmi cercando!
“Resistere. Devo solo resistere! Poi potrò tornare da Awua… Si sistemerà tutto! Sarà tutto come prima e questa troia che mi sta fottendo così allegramente verrà punita per questo e per il resto. E anche l’altra….”, pensai, aggrappandomi alla speranza.
Il mio sesso prese a pulsare. Ero prossimo all’orgasmo. Odiavo l’idea di venire dentro quella traditrice infame. Ma Samara sorrise. Accelerò il ritmo sino a rendermelo insopportabile.
Venni e lei rise accogliendo il mio orgasmo. Nel frattempo, l’altra donna emise un gemito. Godeva? Non lo sapevo. Non m’interessava. Volevo solo che lei e quella troia si levassero.
E infine accadde. Samara si tolse. Sorrise mentre anche l’altra si toglieva.
-Fai con calma, rilassati…-, sussurrò al mio orecchio, -Il sedativo farà effetto ancora per un’oretta e mezza. Hai tutto il tempo per goderti le attenzioni di Bura.-, disse.
Bura, la bionda, sorrise leccandosi le labbra.
-È dotato benone, ho visto.-, disse, sorniona. Afferrò il mio sesso iniziando a masturbarmi.
Non ottenne chissà quale erezione: ero appena venuto. Mi sorrise. Samara uscì, trionfante.
-Abbiamo tempo, tesoro mio. La tua ragazza mi ha detto di farmi un giro.-, disse.
Si mise sopra di me. Ottenuta un’erezione sufficiente s’impalò.
Chiusi gli occhi, deciso a resistere, ma incapace di oppormi, costretto a subire.
Non so quanti minuti mi ci vollero, ma alla fine Bura si alzò. Il mio sperma le colava dalla vulva. Si ripulì alla meglio, raccattando i vestiti.
-Non sei stato chissà che scopata.-, commentò, laconica, -Ma almeno mi sono tolta il prurito.-, disse mentre usciva. Lentamente, presi a muovermi, appena tre minuti dopo che fu uscita. Mi rimisi le vesti. Uscii dalla camera e filai verso l’uscita della Ghenna.
Haled! Dov’era?!?! Aveva tradito anche lui?! Non potevo certamente escluderlo.
Lo chiamai, lo cercai, infine lo trovai. Disteso in un canto, appena nascosto, con la gola aperta da orecchio a orecchio. Era stato ucciso. Alle spalle.
-Pagherà. Pagheranno entrambe. Anche per questo.-, promisi mentre gli chiudevo gli occhi.
Dovevo tornare da Awua! Ora!
Ero tornato in uno stato pietoso: sudato, i vestiti sfatti, sentivo su di me l’odore delle due donne che mi avevano praticamente violentato.
Trovai Awua ad attendermi al cancello della tenuta. Non era da sola.
C’erano anche due guardie e Surya.
-Alexander… Finalmente di ritorno.-, commentò lei, gelida.
-Sì… Io… chiedo perdono. Ma ho scoperto la verità!-, esclamai.
-Tra le cosce di due troie?-, chiese Awua. Io tracheggiai, il fiato mi si bloccò in gola mentre tra le viscere sentivo un nodo gordiano di rabbia e timore.
-Cosa?!-, chiesi. Awua fece un cenno. Una delle guardie mi mostrò un palmare. Tecnologia licanea. Molto, molto avanzata.
Mostrava me, steso nel letto, cavalcato da Bura e Samara. Il sonoro era ristretto solo ai miei versi soffocati che non dovevano sembrare atti di ribellione e alle esclamazioni oscene delle due donne. Awua mi fissò, in quello sguardo vidi tutto: rabbia, dolore, disperazione.
Un maelstorm di emozioni che si coagularono in una suprema espressione di ira.
-Awua…-, iniziai, -Non… non è come appare!-, esclamai, -Sono stato incastrato!-.
-Certo, mia signora, ha proprio ragione. Non è come appare.-, disse Surya, composta nel suo abito arancione e impeccabile. Avanzò appena sino alla nera.
-È chiaro che quest’uomo ha approfittato della tua buona fede, con predizioni guidate e audace inganno, collaborando con quella guardia, Phelea. Ti volevano colpire al cuore, per questo hanno sussurrato al tuo orecchio menzogne su Samara, che come sai è in visita a un parente.-, disse.
-È una bugia! Surya era lì, mia signora, alla Ghenna!-, esclamai, disperato.
Come poteva credere a quella vipera?!
-È stata lei a sedarmi… a permettere… quell’oscenità!-, esclamai.
-Io sono stata da Saamna, a recuperare quest’abito, mia signora. Sai bene che m’intrattengo con lei a conversare-, la voce di Surya non si alzò minimamente.
Ero esterrefatto: ero stato completamente incastrato. Awua mi fissò.
I suoi occhi erano lucidi. Lentamente, inesorabilmente, una lacrima tracimò.
-Awua…-, iniziai.
-Zitto!-, ringhiò la nera. Mi tirò un manrovescio. Secco, potente, diretto. Sentii l’arcata dentale che gemeva sotto quel colpo. Sapore di sangue in bocca.
-Le carte non hanno mai mentito!-, esclamai, -Ricordi? Non hanno mai mentito!-.
Surya sorrise, decisamente inquietante nella sua tranquillità. Ridacchiò.
-Certo! Hanno detto la verità che tu volevi, no?-, chiese.
-Taci, megera bastarda!-, ringhiai. Awua mi fissò.
-Le carte. Dammele.-, disse. Io le sfilai dalla custodia.
-Se sono realmente veritiere, non saranno segnate in qualche modo…-, ragionò la mercante.
Le esaminò, poi si soffermò a fissare la prima carta del mazzo, poi la seconda, poi la terza.
Infine, mi fissò. La rabbia non era diminuita, semmai era aumentata.
-Osserva!-, ringhiò mentre una guardia mi spingeva in avanti. Incespicai cadendo ai piedi della mercante. Osservai la carta, in controluce.
C’era un glifo, visibile solo in determinate condizioni luce. Era su ogni singola lama.
-No…-, sussurrai. Questo era veramente il peggio. L’apice del peggio.
Avevano osato infamare la mia eredità, il mio mazzo, lo strumento della mia arte…
-Surya! Ti inghiottano gli inferi più neri e ricadano su di te tutte le acque del mondo! Possano coagularsi in ghiaccio e intrappolare la tua anima per l’eternità!-, la maledissi con ira.
La guardia mi afferrò. Awua mi fissò, con ira e con somma, assoluta delusione.
-Non è vero… Awua, tu sai che io non sono…-, iniziai.
-Taci!-, esplose lei. Colpì una prima volta, poi una seconda. Poi ancora. Il labbro inferiore mi si ruppe. Sanguinavo. Il dolore del corpo però mi pareva infimo, confrontato al dolore del cuore.
-Mi sono fidata di te!-, ringhiò la nera. Sferrò altri due manrovesci. Destro e sinistro. Crollai riverso a terra, -Io ti ho aperto il mio cuore e tu l’hai gettato nel fango!-.
Volevo ribattere ma l’improvviso suono di una lama fuori dal fodero mi fece tacere. Awua mi appoggiò l’arma alla gola. Non era come nel deserto: stavolta avrebbe potuto uccidermi.
Non osai parlare. Che avrei potuto dire? L’inferno non ha la furia di una donna tradita.
-Mia signora… non è saggio uccidere un veggente. Porta male. Quand’anche un truffatore.-.
La voce di Vurna mi scosse. Io lo fissai.
-Vurna… tu davvero… tu credi…?-, dissi a fatica. La sagoma dell’uomo si avvincinò.
-Io credo ciò che crede la mia signora e lei crede che tu sia un falso e un voltafaccia.-, disse lo schiavo, -Ma credo anche che porti sfortuna uccidere chi legge i segni.-.
Awua mi fissò. Ira, delusione, tristezza, un senso profondo di perdita, tutto questo lessi nei suoi occhi. Per un lungo istante fui certo che mi avrebbe ucciso, poi rinfoderò l’arma.
-Corri. Vattene, non voglio mai più rivederti! Se accadrà, ti ucciderò con le mie mani!-, esclamò, gli occhi ancora lucidi. Mi alzai, a fatica e dolorante, le carte sparse attorno a me. Non mi mossi per raccoglierle, fuggii e basta.
Reietto. Traditore. Ingannatore.
Ero stato incastrato sublimemente. Surya aveva saputo girare la verità contro di me e a suo vantaggio, in modo così totale da schiacciarmi. Mi aveva annientato.
Non importava cos’avrei potuto dire: anche se Awua mi avesse ascoltato, la mia verità non era supportata da prove, mentre Surya e Samara avevano abilmente intrecciato un arazzo di menzogne che pareva inattaccabile.
Mi sedetti in un vicolo, chinai il capo e piansi. Piansi singhiozzando come un bambino.
Fu l’abisso di disperazione più assoluto e totale che potevo dire di ricordare di aver conosciuto dalla caduta della mia città. Non riuscivo a muovermi.
Ma dovevo. Dovevo sopravvivere. Anche solo perché qualcuno sapesse la verità.
“A che scopo?”, mi chiesi, anche se l’avessi detta a mezzo mondo, sarebbe rimasta una verità impossibile a confermarsi. Avevo perso. Seppellii nuovamente il viso tra le mani.
Avevo sete, fame e pativo i dolori di quel pestaggio e quelli della consapevolezza di aver perso per sempre la donna che amavo.
Era il fondo, il fondo di un baratro spalancatosi tempo prima, quando la mia città era stata razziata. Avevo creduto che quello sarebbe stato il fondo ma non lo era stato.
“A che servirebbe sopravvivere? Hanno vinto loro.”, pensai con rabbia e scoramento.
Potevo languire lì per i prossimi duemila anni, tanto a nessuno sarebbe importato. E senza le carte, non ero neppure più un veggente. Ero un uomo, no, un relitto d’uomo. Fissai il cielo.
Perché ero ancora vivo? Quella era la muta domanda. Mi era stato tolto tutto.
Passi improvvisamente scossero la quiete del momento. Una figura si affacciò al vicolo, veste scura e pugnale.
-È qui!-, latrò. Alai lo sguardo. Ora le figure erano due. Entrambi con lame.
-Surya ha deciso di finire il lavoro.-, sussurrai appena. Ero arrabbiato? Sì, ma talmente esausto, così annichilito da bramare la morte. Il sangue secco sulle mie labbra tirò e si screpolò quando feci un sorriso di scherno, -Non vuol proprio lasciare nulla al caso.-.
-Di certo, a te ti lasciamo ai topi!-, ringhiò uno dei due. Mi sferrò un pugno allo stomaco.
Andai giù, senza oppormi. Avevo fallito. Come veggente, come uomo, e come compagno.
I miei sogni si erano disgregati, il mio presente era stato inghiottito dalle macchinazioni e dalla rapacità di animi senza scrupolo. Allora, che venissi inghiottito anche io! Che finisse tutto…
-Julek? Gola o petto?-, chiese uno dei due all’altro.
-Gola… vuole che siamo sicuri che sia morto.-, disse l’altro.
-Non mi piace tagliare le gole. Poi sporca dappertutto.-, si lagnò quello che aveva chiesto.
-Non rompere e fallo secco. Dai che voglio tornare a trombare quella troia!-, sbottò l’altro.
-Ah, già. Quello farai coi tuoi soldi! Io invece mi farò una bevuta!-, esclamò Julek.
Improvvisamente si udì un rumore viscido, di carne squarciata. Una sagoma era apparsa dietro a Julek. Una sagoma dalle vesti nere, ma diverse dai due sicari.
E dalla gola di Julek spuntava una lama d’acciaio. Perforazione completa. La sagoma in nero parlò. Una voce conosciuta, anche questa.
-Due scelte, sicario. Andare in pace, o morire qui.-, disse.
-Chi sei?-, domandò quello. Il pungale gli tremava in mano. Mi addossai al muro.
-Io sono la memoria del mondo.-, sussurrò la guerriera in nero. Mulinò la lama, una scimitarra moresca con insolita maestra. L’uomo attaccò, incpaace di determinare la direzione di un attacco da parte dell’avversaria che piroettò fuori dalla direzione d’attacco e fese. Colpo di decapitazione. L’uomo crollò, la sua testa crollò poco distante.
-Phelea…-, mormorai. La nera annuì. Vestiva un impermeabile nero, una cappa provvista di maniche, e indossava vesti nere sotto di esso. Piantò la scimitarra nel morto.
-Riesci ad alzarti?-, chiese. Ci provai. Ci riuscii.
-Sì… Phelea, è terribile… Surya ha girato la verità… mi ha…-, mi si spezzò la voce.
-Non fare questo a te stesso, veggente.-, sussurrò Phelea.
-Ci verranno a cercare.-, dissi.
-Lo faranno. Ci hanno già provato in molti. Lascia che ci provino ancora.-, rispose la nera.
-Dove andremo?-, chiesi. Lei non rispose. Non subito.
-In qualunque posto, che non sia questo.-, disse.
Cavalcammo, in due su un cavallo. La bestia era notevole, forse l’incrocio di più razze.
Non parlammo. Giungemmo infine a una casa isolata su un promontorio a picco sul golfo. Il rifugio di un eremita. Ben al di fuori della città che ricopriva gran parte di Soqora.
-Che cos’è questo posto?-, chiesi.
-Il rifugio dell’ultimo veggente di Soqora.-, disse Phelea smontando. Smontai a mia volta.
Ero dolorante, affamato e assetato. Mi porse dell’acqua. Era sera. Quasi notte.
-Il veggente qui… com’è morto?-, chiesi. Lei mi fissò. Gli occhi screziati di verde s’indurirono.
-Surya.-, dedussi. Nessun assenso, solo il silenzio della conferma.
-Per questo… per questo mi ha temuto. Ha provato a reclutarmi e ha fallito e allora… allora ha deciso di eliminarmi.-, sussurrai mettendo insieme i pezzi mentre il mosaico si rivelava con crescente orrore.
-Ha orchestrato tutto per garantirsi di essere la sola di cui Awua potesse fidarsi. Perché a lei interessa il potere, quello vero.-, mormorai. Chinai il capo.
-E tu e io siamo le sole persone che possono fermarla.-, disse Phelea.
-Bell’affare. Un ex veggente e una guerriera.-, dissi con ironia malriuscita. Lei mi studiò le ferite al volto. Tamponò, lavò, medicò alla meglio. Notai che nella casa c’erano armi.
Il falcione di Phelea, un arco in metallo alto almeno quanto lei e un pugnale.
-Non una guerriera qualunque.-, capii, -Una dei Justicarii.-. Lei annuì appena.
-Non vedo comunque come io possa esserti utile. Sapevo fare una sola cosa, e ora mi è stata tolta.-, dissi, abbattuto.
-Non proprio vero, Alexander.-, corresse lei. Estrasse qualcosa dalla cappa.
Un mazzo di arcani. Nuovo assolutamente intonso. Non era il mio, ma era identico.
-Io…-, esitai. La nera mi fissò.
-Tu vedi, Alexander. Hai una vista che penetra menti e cuori. E sei temuto per questo. Io sono una Justicar, siamo due esuli. E siamo l’unica speranza di Soqora di sfuggire alla tirannia di Surya.-, disse, -Adesso ti sembra di aver perso tutto, di voler morire. Ma se volti le spalle ora, ciò che perderai sarà molto di più.-.
-Awua… lei mi odia. L’ho persa.-, sussurrai, il capo chino.
-Non per sempre. Puoi riconquistarla. Raccontando la verità.-, rispose la guerriera.
-Non la vorrà ascoltare.-, mormorai, scoraggiato.
-No. Nessuno ama la verità. Tranne chi è disposto a perdere tutto per averla.-, rispose lei.
-Io ho perso tutto.-, sibilai con stanca rabbia.
-Tranne la verità. E quella non potranno mai togliertela, se non uccidendoti.-, replicò Phelea.
Capivo. Annuii appena. Guardai quelle carte. Erano nuove. Un nuovo mazzo.
Un nuovo inizio, no, una nuova possibilità di fare ciò che andava fatto, di vedere ciò che andava visto. Lo presi, piano, riverentemente.
Mescolai le nuove lame, soffermandomi a notare quanto fossero uguali a quelle che avevo avuto. Infine lo chiesi.
-Dove lo hai preso?-, chiesi. Phelea mi sorrise appena.
-In un luogo di spettri. Non lontano da qui.-, disse. Tagliai e mescolai di nuovo.
Estrassi.
Il Giudizio. Annuii. Era scritto. Non solo per me, ma per Awua, e per tutta Soqora.
Passai il giorno successivo a rimettermi in forze e a meditare, ad ascoltare. Il nuovo mazzo non era il mio, ma lo sentivo affine. Col tempo, gli oggetti assumevano un legame con i padroni. Era un concetto semplice: una lama usata per uccidere sviluppava un legame con chi la brandiva che diveniva sempre più capace a farne uso.
Lo stesso valeva per le carte. Passai ore a vagliare ogni arcano. Phelea andava e veniva.
A tratti pareva un fantasma. Era difficile accorgersi dei suoi movimenti.
Meditavo sui significati di ogni carta, palesi e profondi.
Passò un altro giorno, poi un terzo. Il cibo non era un problema, Phelea o qualcun altro prima di lei aveva lasciato numerose provviste. Notai che molte di esse erano inscatolate in modi non tipici dell’Arabia, e che alcune erano persino haram (proibite) secondo i canoni del Libro.
Alla guerriera in nero non pareva importare. Da quello che sapevo, i Justicarii erano estinti, svaniti nelle nebbie della storia. Così aveva detto il mio maestro. Era accaduto cinque anni prima. Ma evidentemente non era vero.
Semplicemente erano svaniti, scomparsi, si erano dileguati da una società che aveva imparato, con la lunga pace, a ritenerli spauracchi e violenti, emarginandoli e odiandoli.
Eppure, essi vivevano, o almeno, una di loro.
Avevamo acceso un fuoco nel braciere in un angolo della casa. Era lì che cenavamo. Phelea cucinava con le provviste che avevamo. Zuppe di legumi, a volte carne, a volte naan con verdure che, pur non essendo fresche, riuscivano a dare sapore.
-Sapevi tutto, vero?-, chiesi fissandola. Era il quarto giorno, la sera.
-Non tutto. Molto. Awua ha una fama, e non è interamente buona. Ha venduto armi a Thrusi, secessionista della Giudecca, ed alimentato almeno un altro conflitto. Thama… è stata l’ultima delle sue malefatte.-, disse. I suoi occhi erano divenuti duri, spietati.
-Vuoi ucciderla.-, mormorai, intuendo la verità.
-Se non cambierà, sì.-, annuì la donna. Mi alzai in piedi.
-Awua non è solo questo! Soqora è rinata grazie a lei!-, esclamai affranto, -Ti supplico, nobile guerriera, concedimi la possibilità di parlarle, di farle capire….-, l’idea della morte di Awua mi era intollerabile, tanto quanto l’esserle lontano. Phelea mi fissò.
-E sia. Avrai la tua occasione di convincerla. Ma se non accettasse…-, lasciò la frase in sospeso. Io annuii. Mi risedetti. Mangiai. Avevo così tante domande…
-Voi Justicarii siete estremisti.-, dissi infine.
-È una necessità di tempi più crudeli, e forse meno ipocriti dei nostri. La Pax Licanea ha infiacchito la volontà, permesso alla corruzione di prosperare. Contro un simile male, c’è un solo rimedio: un taglio netto.-, spiegò la nera.
-Hai detto che Thama è stata l’ultima sua malefatta, ma lei ha venduto armi solo a uno dei due schieramenti. Dell’altro si è detto che avessero accettato l’offerta…-, ragionai io ricordando che Awua non aveva mai confermato l’avvenuta vendita.
-Esattamente.-, rispose Phelea. Mi fissò, in attesa che completassi il quadro.
-Surya.-, sussurrai con un tono venefico che sorprese me per primo, -Surya ha venduto le armi a Bhufi. Ha manipolato Juba sin da subito, e tentato di manipolare me. Samara era il suo strumento, la sua complice.-.
-E quindi, forse Surya è dietro anche al resto. Ai conflitti che hai detto!-, pensavo a ruota libera, inanellando conclusioni logiche senza soffermarmi a riflettere oltre il necessario, -Sì, spiegherebbe anche la scelta di foraggiare quel secessionista della Giudecca… Awua non s’inimicherebbe mai la Confederatio Licanea, non importa il guadagno che potrebbe trarre…-.
Phelea mi fissava, tacendo, mangiando con lentezza, consapevole.
-E anche il resto… Scelte e decisioni… Déi del cielo, possibile che Surya abbia architettato anche l’attacco al nostro campo? Quello in cui sei arrivata tu?-, chiesi.
-Più che possibile. Certo.-, rispose la Justicar, -Ero pronta a intercettarvi, in realtà. La mia idea iniziale era di accompagnarvi, ma la situazione è evoluta differentemente.-.
-Ma perché?-, chiesi, -Perché quella messinscena?-.
-Per poter rimanere la sola in comando. Tu hai fatto sorgere dubbi ad Awua, Alexander. Hai brecciato la sua volontà nel modo più totale, con la verità che lei non riusciva ad accettare. L’hai resa in grado di vedere. Surya non poteva tollerarlo. Allora il rapimento nel deserto era un modo ideale per chiuderla. Sarebbero morti tutti, tu, Awua, tranne lei. Surya sarebbe tornata qui, dove Samara l’aspettava. Ma la cosa non è andata così. A causa mia.-, spiegò la nera.
-È semplicemente atroce…-, sussurrai. Mi accorsi che Phelea non ascoltava.
-Che succede?-, chiesi. Pareva in ascolto, non delle mie parole, ma di altro.
Si alzò, senza usare le mani, rapida.
-Resta qui.-, disse. Prese l’arco d’acciaio e provò la tesa della corda. Annuì. Mise i paradita, raccolse una faretra piena di frecce a punta larga. Mi alzai a mia volta.
-Stanno arrivando, vero?-, chiesi. Lei annuì. Uscimmo.
Sotto di noi, lungo il deserto, giungevano sei cavalieri, lanciati verso di noi, in carica.
-Dobbiamo fuggire!-, esclamai. Lei rimase ferma, immobile. Lentamente, impugnò l’arco.
Estrasse una freccia, incoccò e tese. La luce morente della sera permetteva di distinguere i bersagli. Capii.
Phelea scagliò, massima tensione, lineare. Il dardo volò per trecento metri prima di conficcarsi nel petto di uno dei cavalieri disarcionandolo brutalmente. Gli altri scartarono per evitare di venire travolto.
-Avete ignorato i segni!-, urlò la guerriera. Io indietreggiai, timoroso. Spaventato.
Incoccò e scagliò ancora. Centrò un altro dei sicari al collo, perforazione completa.
-Avete scelto di seguirmi!-, altro dardo, si abbatté sul nemico più lontano. Lo schiantò nella polvere. Gli altri tre avanzavano, in carica. Lei annuì. Lasciò l’arco, attendendo.
-MUORI!!!-, ringhiò quello che pareva il capo del drappello. Diede di piglio a un giavellotto. Phelea schivò, mera torsione del busto. Il guerriero estrasse la scimitarra.
-Avete deciso la vostra sorte!-, esclamò la guerriera. Attese la carica, con in pugno la lama corta del suo ordine scomparso.
Urlando di furore, il cavaliere in carica continuò l’attacco, ormai era a cinquanta, venticinque, quindici metri. E Phelea si avvicinò, correndogli incontro. Era pura follia.
Colpo discendente e colpo orizzontale. La guerriera scartò a sinistra all’ultimo, fendendo. Il colpo del cavaliere andò a vuoto. Quello di Phelea no. L’uomo la oltrepassò fiottando rosso sulla sabbia dal fianco aperto, andando infine a crollare a terra.
-Nessuna carne sarà risparmiata!-, gridò la guerriera. Era una visione terribile. L’altro cavaliere sorrise. Estrasse. Due lame. Scimitarre gemelle. Mulinava le armi con abilità notevole.
-Parli troppo, donna.-, sibilò, -E quella tua lama non è che uno spauracchio. Voi Justicarii siete morti, spiriti malvagi, djinn che devono restarsene nel girone più basso della Duat.-, disse.
Clang! Le lame cozzarono. L’uomo tentò di sfruttare l’impeto per entrare nella guardia della guerriera. Phelea si mosse, danzando sull’orlo del baratro. Estrasse l’altra lama. Un coltello piccolo, curvo, dal taglio riverso. Una lama di altri popoli. Tagliò verso l’esterno deviando il braccio armato e parando con l’altra arma mentre la lama comparsale in pugno andava a fendere e strappare, direttamente nel collo del duellante.
-L’inferno è in terra.-, replicò la donna mentre l’uomo lasciava le lame portandosi le mani alla terribile ferita. Sforzo vano. Crollò in avanti.
L’ultimo… dov’era?! Poi lo vidi. A settanta metri di distanza da Phelea. Aveva estratto un arma, un fucile. Non ragionai. Presi l’arco. L’avevo usato alcune volte, ma erano passati anni. Raccolsi una freccia dalla faretra lasciata da Phelea. Incoccai, tesi. Pregai. E scoccai.
La freccia oltrepassò il vuoto. Si conficcò nella coscia del sicario. Il fucile sparò a vuoto. La nera lo raggiunse, impugnando solo il karambit.
Si chinò sul ferito, rialzandosi dopo pochi minuti. Tornando verso di me.
-Abbiamo un nome. Jaffar Hussain.-, disse. Rientrò nella casa. Si tolse la cappa.
Uscii comprendendo che forse aveva bisogno di privacy. Persi qualche minuto fissando i morti. Erano sei uomini, addestrati, sicuramente professionisti della guerra a giudicare dalle armi e dagli armamenti. Ed erano morti, abbattuti come dalla mano vendicativa di una divinità offesa. Mi avvicinai a uno dei morti. Corazze a scaglie. I cavalli, privi di cavalieri correvano nella piana, assolutamente privi di qualunque guida. Era un’immagine desolante.
I nitriti si perdevano nella notte mentre i cavalli rallentavano e trottavano verso chissà dove.
Tornai verso la casa. Phelea si stava rimettendo le vesti. Notai una ferita, all’atezza delle reni, sul ventre, sul fianco destro. Era come un’incavo. Suggeriva una trafittura. Impossibile sopravvivere a una simile ferita, a meno che l’arma che aveva trapassato la sua carne non avesse miracolosamente evitato i reni o altri organi, ritraendosi senza far danno.
-Come sapevi che stavano arrivando?-, chiesi. Phelea mi fissò.
-Lo sapevo. Era intuibile. Surya ci stava cercando.-, disse mentre allacciava al giustacuore sul petto una serie di coltelli da lancio.
-Hai parlato di segni. Volevi che ci trovassero.-, dissi.
-Loro volevano trovarci.-, ribatté lei, -Io ho cercato di dissuaderli. Non sono stati abbastanza intelligenti da leggere.-.
-Surya deve averli motivati molto bene.-, annuii io. Tremavo, me ne accorsi. La violenza era esplosa ed era terminata in pochissimi minuti. Eppure mi aveva scavato dentro.
-Io… non sono un combattente.-, dissi infine. Sentii la bile risalirmi in gola. Odiavo quella mia debolezza. Strinsi i pugni, esasperato dalla mia stessa mancanza di coraggio.
-Non è vero. Lo sei. In un modo diverso.-, gli occhi della Justicar parvero scavarmi nell’animo, -Sappi che, al momento opportuno, combatterai.-.
L’indomani cavalcammo verso nord, sino al porto di Hulewa su uno dei destrieri.
Era una piccola cittadina, principalmente gremita di stranieri. Ci facemmo strada nel suk con lentezza furtiva, avvolti in vesti che Phelea aveva comprato con il denaro che avevamo preso ai nostri aggressori morti.
Hulewa non ospitava chissà quale enorme mercato, ma era la base operativa di un uomo chiamato Jaffar Hussain. Per chiunque fosse propenso a chiedere, Jaffar era un commerciante, commerciava in tessuti. Peccato che non si occupasse solo di quello.
-Jaffar è un contrabbandiere. Permette a numerosi individui di dubbia reputazione di sparire, di muoversi senza venire visti, nascosti nei suoi carichi.-, spiegò Phelea.
-E come facciamo ad avvicinarlo?-, chiesi.
-Sarai tu a farlo. Gli offrirai una lettura. Chi rifiuterebbe?-, chiese la guerriera.
Annuii. Sapeva che ero tenuto a dire solo il vero? Sì. Lo sapeva sicuramente.
Mi avvolsi nella veste color zenzero mentre andavo verso la villa di Jaffar. Non era grande né guardata come quella di Awua, ma aveva qualche guardia. Poche.
Mi accasciai a terra, prostrato. Un relitto umano. Fissai il vuoto davanti a me, il capo chino, una mano levata a palmo in su, una muta supplica.
Poi lo vidi. Jaffar. Camminava avvolto da una djalleba bianca, il capo coperto da una kefiah a scacchi. Mi fissò, con sdegno frammisto a compassione.
-Mio signore… una predizione.-, dissi, -Una lettura. Per un offerta.-.
La mia voce era incrinata, dissonante. Lui sorrise, indulgente.
Mi fece entrare nel cortile della sua tenuta. Mi fece portare dell’acqua e del cibo.
Mi sistemai a un tavolo, grato. Benevolente, Jaffar sedette, allontanando le guardie.
-Tre carte, mio signore. Il sì, il ma, la conferma.-, dissi. Estrassi.
Girai le carte. La Ruota, la Giustizia, l’Arcano senza Nome capovolto.
-Non mi piacciono affatto…-, mormorò Jaffar.
-E fai bene, mio signore.-, dissi. Picchiettai sulla Ruota.
-La Ruota gira, ciò che facciamo ritorna a noi. Anche ciò che non crediamo sia riconducibile a noi.-, passai alla Giustizia, -Non hai mai infranto la legge, mio signore? Neppure per pochi istanti?-, chiesi.
-Io… no! Sono un cittadino onesto! Come osi dubitare della mia integrità?!-, esclamò Jaffar, tutt’altro che pacato. Si alzò in piedi, -Guardie!-, esclamò. Nessuno accorse.
-Non arriveranno, Jaffar.-, dissi, -Perché il tuo destino ha una fine soltanto, la fine degli infami.-. Alzai la carta dell’Arcano senza Nome, Yneas che brandiva la falce, mietendo uomini e déi. Jaffar impallidì. E improvvisamente, si girò verso il cancello.
-Guardie!-, urlò. Niente.
-Non arriveranno, te l’ho detto.-, dissi io, flemmatico. Mi alzai riprendendo le carte in mano.
-Tu… iettatore bastardo! Tu non sei un veggente! Sei un truffatore, sei un falso, sei…-, lo fissai.
Per una volta, finalmente, lo fissai con uno sguardo di totale, assoluta calma.
-Io.-, dissi, -Sono un messaggero.-.
-Un messaggero di chi?!-, esclamò Jaffar afferrandomi per il bavero. E si bloccò.
-Di una giustizia che da troppo tempo ignori, Jaffar.-, disse la voce di Phelea. Dalla mia destra. Era comparsa come dal vuoto, partorita dagli incubi di quella lettura.
Indossava una sopravveste blu, ma sotto di essa facevano capolino le vesti nere.
E brandiva il suo coltello, un Tantō. Puntato alla gola di Jaffar.
Jaffar scivolò in ginocchio, cominciando a singhiozzare.
-Hai portato qui degli uomini, Jaffar. Uomini di guerra. Su ordine di qualcuno.-, disse Phelea.
-Io… non avevo scelta.-, sussurrò. Mi alzai, indietreggiando appena.
-Ce l’avevi. C’è sempre una scelta. Ma tu hai fatto quella sbagliata.-, disse la guerriera, -Hai portato qui quegli uomini. Gli hai comprato armi e destrieri. Ti hanno detto dove inviarli. Hai obbedito, pensando che sarebbe finita facilmente, in fin dei conti si trattava solo di schiacciare qualche insetto, no?-, chiese, -Ora però, la piaga è giunta da te.-.
-Io… è stata una donna… una donna straniera! Ha detto… ha detto che avrebbe ricompensato i miei servigi…-, disse l’uomo.
-Ed ecco la ricompensa.-, annuii io laconicamente, -Scommetto che è una donna dai capelli castani, vero?-, chiesi.
-Sì!-, esclamò l’uomo. Phelea sorrise. Annuì appena.
-Te ne andrai, Jaffar. Lo farai adesso, alla svelta. Senza nient’altro che ciò che hai addosso. Se esiterai un solo istante, io non esiterò ad abbatterti. Ricorda questo giorno. Ricorda il giorno in cui hai incontrato la morte e ti ha risparmiato.-, sussurrò.
La villa di Jaffar prese a bruciare. Eravamo lontani, ben lontani. Phelea non mostrava emozioni. Io mi soffermai a pensare che avevamo appena privato Soqora di un commerciante, ma anche di un disonesto bastardo.
-Samara, dunque.-, dissi cercando di venire a patti con il gelo che sentivo dentro.
-Samara.-, ammise la Justicar. La gente si radunava mentre numerosi membri delle forze dell’ordine tentavano di spegnere l’incendio. Sarebbe stata una dura lotta: dopo che Jaffar se n’era andato, Phelea aveva ordinato a tutti di abbandonare la tenuta, immediatamente e senza discutere. Aveva rapidamente, metodicamente, razziato tutto ciò che poteva servire e distribuito buona parte della ricchezza ai poveri che ciondolavano attorno al possedimento. Poi aveva preso l’unica cosa che ci era veramente importato di prendere e infine aveva dato fuoco alla casa.
-Non solo Samara, però.-, obiettai, -Quanto va in alto questa storia?-, chiesi occhieggiando il dispositivo che la Justicar aveva portato via. Un elaboratore dati.
-Molto. Molto in alto. Sul libro paga di Jaffar c’erano anche le forze dell’ordine e l’Amir di Soqora.-, disse lei, -Ma loro non sono un tuo problema.-.
-E Samara sì?-, chiesi.
-Non solo lei. Anche Awua.-, ammise Phelea. La fissai, terrorizzato. Era così?
-Pensavo volessi darle un’occasione!-, esclamai.
-Ce l’ha. L’avrà sino in fondo. Finché non ce la troveremo davanti.-, disse.
-Come hai fatto, Phelea? Come hai fatto a…-, la gola mi si chiuse.
-Quando guardi l’abisso, l’abisso guarda te.-, sussurrò lei.
Un corvo, solitario, gracchiò. Si posò sulla spalla di Phelea, un volatile di dimensioni impressionanti, partorito da altri incubi, messaggero di nuovi dolori. Eppure, non un nemico.
Mi fissò, la testa piegata, emise un verso stridulo e, riaperte le vaste ali, s’involò verso il cielo notturno. Non chiesi spiegazioni.
-Samara saprà di essere la prossima della lista.-, dissi.
-Probabile. Ma presto lei, e tutti gli altri, avranno altro a cui pensare.-, replicò la Justicar.
-Che vuoi dire?-, chiesi. Lei non rispose.
Ci spostammo rapidi nel deserto sino alla principale città di Soqora.
Interrogai le carte appena trovammo un alloggio in una squallida locanda.
La Ruota, l’Arcano senza Nome e per finire, il Giudizio.
“La fine di un era, l’inizio di un’altra.”, pensai, “Per me, quantomeno.”.
Ponderai di interrogarle nuovamente in merito al fato di Awua ma preferii evitare.
Non volevo vedere una sua condanna, non l’avrei sopportato probabilmente.
-Preparati.-, Phelea comparve accanto a me, senza commentare le carte che avevo davanti.
Obbedii. Ci spostammo, verso l’esterno della città, in periferia.
Ci muovemmo a piedi, senza cavallo. All’improvviso vidi qualcosa, oltre una collina.
-Quello è la fabbrica di Har’shi llah.-, dissi.
-Sì. La principale e unica fabbrica di armi dell’intera regione.-, disse Phelea. Impugnò il suo falcione. L’aveva estratto da un nascondiglio semisepolto sotto la sabbia.
-È da lì che partono le armi, vero? Quelle che Awua vende agli altri, tutti gli altri.-, mi accorsi di quanto stupida fosse la domanda.
-Awua non le ha vendute a tutti. Surya però ha spesso dirottato carichi per i suoi interessi.-, disse la guerriera. Mi volsi verso di lei.
-Quando l’hai saputo?-, chiesi.
-Non c’è voluto molto. Samara andava parecchio in giro per essere una schiava, e anche Surya godeva di una certa libertà. Ho fatto qualche domanda, nei posti giusti.-, disse.
-Perché non hai detto nulla ad Awua?-, chiesi. Phelea mi fissò.
-Perché non mi avrebbe creduto. Non avrebbe voluto credermi. Le persone come Awua hanno bisogno di mantenere il controllo, anche quando sembra impossibile. È il solo modo in cui può continuare a nutrire l’illusione, ad alimentare il demone. Tu hai spezzato quell’illusione, e Surya si è assicurata di rafforzarla, oltremisura. È da essa che trae la sua forza.-, spiegò.
-Hubrys.-, sussurrai sentendo il gelo dentro, ricordando, -Il Moloch che divora ogni uomo.-.
-Precisamente.-, disse la nera. Sfilò la custodia della lama in cuoio dalla sua sede in cima all’arma inastata. Saggiò l’affilatura, -Contro un simile cancro, c’è una cura sola.-.
-Rimarrà qualcosa?-, domandai, -Dopo che avrai finito?-.
-Rimarranno gli uomini, e le donne. Ma ricorderanno questi giorni. Ricorderanno quest’ira.-, la voce di Phelea pareva provenire da una caverna, -Ricorderanno, e vorranno fuggire, per ricominciare. Altrove. In un luogo diverso. Dove gli incubi non li minacceranno più.-.
-Io cosa devo fare?-, chiesi con un groppo in gola.
La guerriera m’indicò una casa. Era a margine della fabbrica. Solitaria.
-Quella è la casa dove talvolta, Samara alloggia. È da lì che dirige le attività della fabbrica e fa preparare i carichi.-, disse, -La dovrai cercare. E una volta trovata, dovrai fare ciò che va fatto. Recidere la metastasi.-. Mi porse il coltello. Il Tantō. Esitai.
-È il tuo.-, dissi. Mi sentii un idiota. Ma non ero un guerriero. Lei sorrise.
-È di chiunque voglia giustizia. Non per sé, ma per tutti. È tuo, di diritto.-, disse. Lo presi.
La mano mi si chiuse sull’impugnatura in pelle di manta. Phelea mi sorrise appena. Lo sistema alla cintura.
-Come… come farò a usarlo? Non sono un guerriero, te l’ho detto.-, dissi.
-Saprai. Forse non sei un guerriero, ma credimi, lo diventerai.-, disse lei. Si fermò un istante.
Parve inspirare a fondo, come se avesse dovuto caricarsi di energia, poi avanzò verso la centrale. Aveva con sé solo la lancia, e il coltello ricurvo che le avevo visto in precedenza.
Mi mossi poco dopo.
Scivolai verso la casa. Non c’erano guardie. Notai le luci spente. Arrivai alla porta. Era una casa povera, dozzinale. Perfetta. Saggiai la maniglia. Si abbassò. Aprii la porta.
All’interno era tutto in ordine. Poi sentii la voce, alla mia sinistra.
-In alto le mani.-, sibilò. Non era Samara. Era un’altra voce. Una che conoscevo.
-Vurna…-, dissi, -Quanto comodo, essere un servo obbediente…-.
-Surya l’aveva detto che sareste venuti qui. Tu e la puttana in nero.-, disse lo schiavo.
Mi sfilò il Tantō. Sorrise guardandolo. Accesa la luce, pareva davvero molto, molto divertito.
Mi teneva sotto tiro con una pistola. Un’arma piccola, che posò prendendo la mia lama.
-Vurna, Vurna…-, scossi il capo, con disappunto, -Hai già dimenticato le mie carte?-, chiesi.
Non avevo paura. Perché non avevo paura? Avrei dovuto essere terrorizzato ma in me si era fatta strada una sensazione di distacco che m’impediva di provare terrore. Come se vita e morte fossero divenute ininfluenti.
-Sei un falso, veggente. Un falso e un assassino. Awua lo sa. Surya ti vuole morto.-, disse.
-E immagino che ti ripagherà con qualche piacevolissimo lavoretto una volta che gli porterai la mia testa, vero?-, chiesi con una voce che mi spaventò quasi.
Ero calmo, ma dentro di me si agitava qualcosa. Una percezione che non riuscivo a spiegare, energia appena imbrigliata, a stento contenuta. Indignazione, rabbia… e altro.
-Vedi, veggente, io sono stufo di essere solo uno schiavo! Merito di più! Presso la mia gente ero rispettato! Ero temuto! Rivoglio quelle sensazioni! Le pretendo!-, ringhiò il bruto.
-Vurna, ciò che vuoi è finito. Non si può tornare indietro. Il passato non torna mai.-, dissi.
Alzò il Tantō per vibrare il colpo. Improvvisamente gli allarmi suonarono. La fabbrica era entrata in stato d’allerta.
Urla e invocazioni di rinforzi, poi qualcosa esplose. Un boato nella notte.
E io agii: schivai il fendente di Vurna sviolando verso destra. Afferrai una scopa. Spezzai la ramazza, impugnando il bastone. Presa a due mani, come fosse stato una lancia. Come Phelea aveva brandito il suo falcione. Non pensai. Presi a muovermi.
Colpii Vurna al plesso solare. L’uomo ringhiò, schiumò, sferrò un fendente. Non intercettai: colpii alla tempia. Evitò ma non interamente: lo centrai alla mandibola.
-Vehenté!-, biascicò con la bocca lesa. Odio, nel suo sguardo, ma anche altro. Paura.
-Ricordi le mie carte, Vurna?-, chiesi di nuovo, -Ricordi?-.
Emise un ringhio affondando mirando al mio ventre. Uscii dall’attacco. Calai il bastone, colpendo alle mano armata. Crack! Il coltello gli cadde. Colpii sotto il mento.
Vurna cadde, a terra. Battuto.
Alzai il bastone improvvisato. Calciai via il coltello. Vurna fece per muoversi. Troppo lento.
Calai. Colpo finale. I boati nella notte coprirono il colpo. Colpii ancora.
Mi fermai dall’infliggere un terzo colpo: non seriva. Vurna era morto.
Per mano mia. Per la prima volta, avevo portato a compimento quanto avevo letto.
Mi mossi attraverso la casa. Qualcosa doveva esserci! Qualcosa che ci dicesse dove fosse Samara… Carte, scritte, note. Bolle di carico, consegne, documenti.
Lessi velocemente. Niente di utile. Nulla. Scossi il capo. Appoggiai le mani sulla scrivania di quell’ufficio dismesso e sospirai. Estrassi meccanicamente gli Arcani Maggiori.
-Cosa sono diventato?-, chiesi, nauseato da ciò che avevo vissuto. Estrassi. Una carta.
La Giustizia. Mi fissava implacabile.
-È questo che sono?-, chiesi alla carta, -È questo che voglio?-.
La riposi. Feci lunghi respiri. Calmo e lucido, quello dovevo restare. Recuperai il coltello. Phelea apparve sulla porta. Era sporca di sangue non suo. Un ennesimo boato ci assordò.
Svanimmo nella notte.
All’alba, le esplosioni erano divenute ormai un incendio. Un autentico drago di fuoco s’innalzava in due punti di ciò che restava dell’enorme fabbrica, e boati sparsi mostravano che il peggio doveva ancora venire. Neanche a provarci di spegnere l’incendio. Neanche a tentare di cauterizzare la ferita. La gente scappava. Fuggiva dalla città, verso l’esterno, verso i porti. Lontano da quel luogo e verso qualunque altro.
-Samara non c’era.-, mormorai, -Ma Vurna sì.-.
-Era una trappola. Ma hanno fatto un errore. Hanno dato il compito sbagliato all’uomo sbagliato.-, disse Phelea. Annuii.
-Hai paura di perdere te stesso, Alexander?-, chiese all’improvviso.
-Ce l’ho.-, ammisi, -Questo desiderio di giustizia… potrebbe portarmi a perdermi.-. Forse lo stava già facendo. La guerriera in nero scosse il capo.
-Tu vedi ancora la linea di confine. È tutto ciò che conta.-, disse Phelea.
-Cos’accadrà se… la perderò?-, chiesi infine.
-Porrò fine.-, disse la nera, semplicemente. Annuii. Capivo. Hubrys, da controllare, sempre.
Anche quando il sacificio è doloroso, o intollerabile.
Perché la sola distinzione tra i mostri e coloro che gli danno la caccia è la misura del controllo, della pietà.
Soqora era sprofondata nel caos. In una notte. Le forze dell’ordine, corrotte o meno che fossero, non erano in grado di impedire i disordini. L’incendio alla fabbrica non si placava.
Era la rovina. La fine di un impero. Dell’impero di Awua.
La domanda, era se quella sarebbe stata anche la sua fine.
Camminavamo per le vie. Io e Phelea. Il veggente maledetto e la guerriera in nero.
-Mio signore!-, esclamò uno schiavo. Lo riconobbi. Era stato al servizio di Awua.
-Phasul.-, dissi ricordando il suo nome. Non era da solo.
-Io mio signore! Io… è terribile! È completamente impazzita!-, esclamò.
-Awua?-, chiesi. Lui scosse il capo.
-Surya. Ha ordinato di blindare gli accessi della villa, di prepararsi a combattere, di resistere a ogni costo. Lei… lei continua a dire che ha creato tutto questo, che nessuno glielo toglierà…-, spiegò l’uomo. Dietro di lui, c’erano altri schiavi. Riconobbi alcuni volti. Schiavi di Awua.
Fuggiti dall’ultimo baluardo di Surya. Li fissai. Tra loro c’era una bambina in lacrime.
Mi chinai a guardarla negli occhi. Avrà avuto dieci anni.
-Ho fame, signore…-, sussurrò con voce appena udibile. Estrassi senza pensarci del cibo. Una galletta di riso. Cibo da viaggio, scorta di Phelea. Lei lo prese, mangiò.
-Andatevene. Ora.-, disse Phelea. La guerriera in nero era una presenza imponente, inquietante, ma in quel momento era una guardiana, una custode, non una nemica.
-Entro domani, non rimarranno che rovine.-, disse.
-Dove? Dove possiamo andare, mia signora? Dove recarci?-, chiese Phasul, -Le città della costa omanita non ci accoglieranno, né lo faranno quelle dell’interno e la Confederatio Licanea non accetterà tutti noi… Dove…?-.
Estrassi una carta. Il Sole. L’abbraccio tra i Cimanei e i Licanei, tra le rovine di una Roma destinata a risorgere per regnare. La promessa di Janus. Fratellanza. Un nuovo inizio, insieme.
-Trovate un posto.-, dissi, -Un posto che forse già sapete, forse i vostri cuori già lo conoscono. O forse no. Trovate un posto… che non sia questo. Laggiù potrete ricominciare. Davvero.-.
-Vieni con noi, Veggente!-, si alzò una voce. Io fissai quello che aveva parlato. Juba
-Juba…-, dissi, -Hai abbandonato Surya.-. Sorrisi. Certo! Come aveva potuto non farlo?
L’aveva detto lui stesso che non era uomo da trame complesse e intrighi, no?
-Ho abbandonato il miraggio dell’abbondanza. La turpitudine del volere a ogni costo.-, rispose. Annuii. Chinai il capo, come per omaggiarlo. Phelea annuì a sua volta.
-Seguitelo. Quest’uomo vi guiderà. Noi vi raggiungeremo.-, disse, -Se il vostro dio vorrà.-.
Superammo gli esuli in marcia per dirigerci verso il luogo dove avremmo incontrato il destino.
Uscì dal fumo di incendi e dalla devastazione. Donna demente, resa tale da orrori e follia.
I capelli castani erano impiastricciati di lordura e schifezze. Si muoveva barcollante, come non fosse stata in pieno posesso delle proprie facoltà. Le vesti erano stracciate, forse a causa di qualcuno che aveva tentato di moltestarla. Stringeva un coltello con forza tale da avere le nocche sbiancate. Mi fissò. Ci fissò. Io e la Justicar e lei, la donna duplice.
La schiava che si credette manipolatrice. Samara.
-Alexander…-, mormorò appena.
-Te l’avevo detto, Samara. Te l’avevo detto e ripetuto che non sarebbe finita bene.-, dissi.
Non riuscì a parlare. Gli occhi mi fissavano. Aveva lo sguardo spiritato di chi aveva visto la follia, umana e non. Mi sorrise.
-Ma è finita, Alexander! Soqora è nel caos! Che il dio dai molti nomi abbia misericordia, la gente è impazzita. Bande uccidono e saccheggiano, e Surya… Surya è ancora là…-, sussurrò.
-Nella villa.-, dissi io. Lei annuì. -C’è anche Awua, con lei?-, chiesi.
-Io… Io non lo so!-, esclamò Samara, -Non lo so… Lei… lei è impazzita, Alexander! Parla di resistere contro tutto e tutti. Dice che trasformerà l’isola in un rogo pur di non doverla cedere. Dice che lei ha il potere assoluto e che non lo mollerà…-, la giovane scivolò in ginocchio, incurante della veste aperta sul petto e scoppiò in singhiozzi.
-Che dio ci protegga…-, sussurrò. Scossi il capo.
-Dio ha voltato le spalle. Da molto.-, dissi, -Surya ha fatto una scelta. Tu hai fatto una scelta.-.
Samara alzò lo sguardo. MI fissò con l’espressione di una bambina impaurita.
-Io… volevo te! Volevo che tu capissi…. L’ho detto anche a Surya! Tu… tu l’avevi in pugno! L’hai avuta in pugno sin da quando le hai letto le carte la prima volta!-, esclamò.
-E a te non andava bene, Samara. Perché non ero tuo. Ero suo soltanto.-, dissi. Ora capivo.
-Surya voleva che tu ti unissi a noi. Perché eri utile. E io… io ti volevo perché… Perché…-, non riuscì a dire nulla Non riuscì a continuare. La fissai mentre piangeva di nuovo.
Quale terribile fardello le aveva imposto la trama del fato! Mi amava con l’ingenuità di chi ama per una prima volta dopo una vita niente, ma comprendendo che non mi avrebbe mai avuto come voleva, si era risolta a odiarmi, salvo scoprire che le era impossibile!
-Una sola carta, Samara. Una per la tua sorte.-, dissi prendendo gli arcani. Phelea mi fissò.
Non commentò. Mischiai ed estrassi. La Giustizia. Di nuovo.
-I tuoi crimini sono stai gravi, Samara. Awua forse non li conosce, forse li accetta persino. Io li conosco e non ti perdonerò. Ma provo pietà per ciò che senti. Hai agito così a causa di emozioni che non potevi controllare.-, dissi infine.
-Io non provo pietà…-, la voce di Samara si fece stridente, -Né per ciò che senti tu, né per ciò che sento io. Io provo rabbia! Ti odio, Alexander!-, si alzò su gambe malferme, protendendo il coltello verso di me. Phelea si mosse appena, la lama del falcione puntò al collo di Samara.
-Scelta semplice, Samara. Morire o andare in pace.-, disse soltanto.
-Tu sputi sentenze proprio su tutto e tutti, eh?-, chiese derisoria la schiava che volle credersi manipolatrice, -Tu… che non sei quasi neanche più umana…-, sibilò.
-E tu stai sprecando tempo. Il tuo e il nostro.-, rispose Phelea, annoiata.
-È così, guerriera? È così, Alexander?-, chiese lei, -Pensate di entrare là dentro e uccidere Surya? E tu, Alexander, credi che ritroverai Awua? Oh, vorrei davvero vedere la tua faccia…-, sussurrò. Il gelo tornò dentro di me. Si coagulò fino a divenire fuoco. Ira.
-Cosa le hai fatto?!-, chiesi con un sibilo strozzato in gola.
-Cos’ho fatto io? Cos’ha fatto Surya, casomai. Awua è… un trofeo, ora. Spero ti garbi, perché sarà tutto ciò che ti rimarrà, Alexander. E quando la stringerai al petto e ricorderai le mie parole, spero tu soffra come ho sofferto io! Ti maledico, Alexander!-, Samara lasciò il coltello. Afferrò la lancia di Phelea, con l’intento d’impalarvisi al collo. La guerriea si mosse, fulminea proiettando a terra la donna. Samara crollò tra il fango e il lerciume, nella polvere.
Il piede di Phelea bloccò a terra la lama della giovane.
-Mi neghi anche questo?-, chiese Samara, affranta.
-Non lorderò la mia lama. La tua morte è tua soltanto. Ma non giungerà per mano mia. Non adesso. La scelta rimane. Ma è tua soltanto.-, disse la Justicar.
Samara mi fissò, con odio. Raggiunse il coltello sotto il piede di Phelea. Lo impugnò.
La Justicar fece un rapido passo indietro. Samara mi sorrise. Un’ultima volta. Sedette contro una parete, abbandonata. Lacrime mute le solcavano il viso, tracciando solchi nel lerciume.
-Ti aspetto allora, Alexander. All’inferno.-, sputò. Poi si aprì le vene dei polsi.
Rimasi a fissarla perire, lacrime mute che mi cadevano sulle gote.
-Merita la nostra compassione.-, dissi. Raccolsi la sciamma che le era caduta e le coprì il viso. Phelea annuì appena.
-Andiamo. Abbiamo un ultima cosa da fare.-, disse.
La villa era guardata. Diversi uomini. Surya continuava a credere di poter resistere.
Ma nell’assalto che Phelea scatenò, non c’erano sottigliezze: la guerriera usò il fumo e le rovine come copertura per muoversi. Diede di piglio a un arco composito per abbattere alcune guardie, ne attirò altre allo scoperto e infine, utilizzò una sorta di granata fumogena per accecarne altre soffocandole nel fumo prima di porre fine alle loro agonie.
La fissai mentre tornava verso di me. Aveva sgomberato rapidamente il perimetro esterno.
-È questo che fate, voi Justicar?-, chiesi.
-Solo quando è assolutamente necessario.-, disse lei, -Ma questo è ciò che facciamo, sì.-.
-Giustizia. A ogni costo, contro ogni nemico.-, annuii io.
-Per ricordare ai potenti che la Hubrys non è un’opzione.-, disse. Annuii. Capivo.
Entrai nel cortile, insieme alla guerriera in nero. Lei si lanciò verso le guardie in arrivo, il flaicone levato a battaglia.
-Vai! Trova Awua!-, mi gridò mentre abbatteva uno dei nemici ed evitava i colpi di un secondo.
Entrai nella villa. Era tutto a soqquadro, le decorazioni erano a pezzi, preziose suppellettili erano infrante o sparite, la fondana centrale dell’atrio era in rovina, lorda di sangue. Salii le scale. Superai porte e corridoi. Non la trovai. Finché non misi piede nella stanza, quella in cui c’eravamo amati.
-Awua!-, esclamai entrando, vedendola. Era girata di schiena. Fissava la parete, sulla lettiga.
-Awua! Sono io! Sono Alexander…-, mormorai. L’orrore mi strinse lo stomaco. Cos’aveva voluto dire Samara con le sue parole? Cos’avevano fatto alla mia amata?
-È tutto perduto…-, le parole furono appena un sussurro ben distante dalla voce piacevole, melodiosa e a tratti forte che avevo udito provenire da quella stessa bocca.
-No… non tutto. Non ancora!-, esclamai. Lei si mosse appena. Come a dare uno sguardo fugace con la coda dell’occhio verso di me.
-Immagino tu sia qui per me, vero? Per uccidermi… Per il mostro che sono diventata.-, disse.
-No! No… Non sei tu. So chi è stato. Surya. È stata lei… a fare tutto!-, esclamai. Non volevo, non volevo credere che Awua fosse caduta così. Improvvisamente, rise. Un riso spento, privo di allegria, stridente con la sua vera risata che ancora ricordavo.
-Surya ha fottuto tutti quanti. Me per prima.-, sussurrò. Affondò la mano nella pila di cenere del narghilé, lasciando che la cenere combusta fredda le scivolasse tra le dita.
-Siamo polvere, alla fine. Tutte le ricchezze del mondo non cambiano questa verità.-, disse.
-Cosa ti ha fatto?-, chiesi. Awua non si volse. Mi protesi appena.
-Non toccarmi… Non lo fare…-, pigolò.
-Mia amata…-, mormorai. Ero sull’orlo delle lacrime.
-Avevi ragione, Alexander. L’hai avuta sin dal primo istante. E io, stupida, ho voluto credere a loro. E non a te. Perché ti amavo, e non potevo tollerare il tuo tradimento.-, sussurrò appena.
-Hai reagito come avrei reagito anche io, Awua. Ma non è ancora finita. Possiamo ricominciare! Possiamo lasciar riposare il passato! Possiamo sconfiggere il Moloch!-, esclamai. Lei scosse il capo. Aveva i capelli in disordine, la veste spiegazzata, come se ci avesse dormito dentro. Capivo. Perdere me l’aveva fatta vacillare. Perdere sé stessa l’aveva portata a perdere tutto il resto. Potere, ricchezza, volontà… L’aveva resa… un trofeo.
-Nulla sarà mai come prima. Nulla, Alexander.-, sussurrò, annientata.
-È vero. Ma non vuol dire che non potrà essere bello in altri modi!-, esclamai.
-Ho perso tutto. Tutto ciò che credevo di avere. Ho perso te. Ho perso tutti… Ho perso tutto.-, mormorò. Le presi una spalla. Lei si girò. Mi fissò. Il suo viso era tanto affranto da apparirmi quasi alieno, quasi non fosse stata la donna che avevo conosciuto e amato.
-Sì, è vero. Hai perso ciò che avevi, la tua ricchezza, Soqora, il controllo… È vero. Ma non hai perso me. Io ti amo per ciò che sei, non per ciò che possiedi, Awua!-, esclamai.
Mi gettai in ginocchio davanti a lei.
-Quando ti ho persa, quando mi hai scacciato, volevo morire. Volevo sparire. Non sentivo più nulla che mi spingesse a esistere. Quando mi hai schiaffeggiato avrei preferito mille volte un pugnale nel petto! Io ti amo, Awua, più di quanto riesca a esprimere a parole. E se la tua scelta è restare qui e morire, allora morirò con te. Se deciderai di andare avanti, di cercare una nuova vita, una nuova alba dopo una notte dell’anima come questa, sarò con te. Perché non c’è nessun’altra persona che io desideri come desidero te, nessuno che io senta più affine. Nessuno che dia altrettanto senso al mio essere!-, esclamai.
-Alexander…-, sussurrò lei, la voce pregna di stupore.
-Pesca, mia signora. Estrai una carta. Queste non sono segnate, le mie non lo erano. Sono state marchiate da Samara e Surya, hanno complottato per allontanarci, ma non possono impedire alla verità di palesarsi! Pesca una carta e io farò altrettanto! E poi ne pescheremo un’altra. L’ultima. Per noi.-, la esortai porgendole gli arcani. Lei pescò. Pescai.
Scoprimmo. Io, gli Amanti. Lei, l’Appeso capovolto.
La carta per noi. Entrambi prendemmo la stessa. Ci fissammo. Stupore, in ambo i nostri occhi. Meraviglia, davanti a un gesto condiviso senza accordo alcuno.
-Girala.-, mormorò lei. Lo feci. Il Mondo! Dritto!
E all’improvviso, scoppiai a ridere. E rise anche lei. Un riso vero, gaio, assoluto.
La abbracciai. Mi strinse. Respirai il suo profumo, l’odore della donna che amavo.
-Alexander…-, mormorò stringendomi, -Alexander…-.
-Auwa… io non ti lascerò mai più. Mai più.-, promisi. Mi baciò. Fu breve, ma bastò, bastò a strapparmi a tutto l’orrore della perdita, alla consapevolezza della follia degli uomini, mi allontanò dai baratri del Moloch, dal precipizio della disperazione.
-Dobbiamo andarcene.-, disse, -Surya… non si arrenderà. Il Moloch… l’Hubrys, l’ha divorata. È condannata. Io… non farò la sua fine. Ma non è adesso che dobbiamo pensare a questo. Andiamocene, Alexander. Andiamocene ora!-.
Ci affrettammo verso l’uscita. Scendemmo le scale.
-Phelea… dov’è Phelea?-, chiesi a me stesso più che a lei.
-È viva?-, chiese Awua, -È fuggita poco dopo la tua cacciata.-.
-Sì, per salvarmi.-, dissi io, -Lei sapeva, da prima. Aveva capito.-.
-Era più di una mercenaria, vero?-, chiese la nera. Annuii. Spiegarle sarebbe stato più complesso, ma non serviva. Arrivammo all’atrio con la fontana.
-Che maleducati!-, esclamò la voce di Surya, -Andarsene senza neppure porgere i saluti…-.
Mi voltai. Brandiva una spada. La spada di Awua stessa. E la brandiva con l’aria di chi sapeva usarla. Estrassi il Tantō, parandomi di fronte ad Awua, a protezione.
-È finita, Surya.-, dissi, -Il tuo impero è finito.-.
-Non è finito niente finché respiro, veggente.-, sibilò lei, -O credi forse che io abbia combattuto tanto a lungo, tramato tanto a lungo, sopportato tanto per cedere ora?-.
-Perché, Surya?-, chiese Awua, un dispiacere palese sul viso, -Eri… il fiore più prezioso.-.
-Perché? Stupida. Stupida e tronfia che non sei altro! Per il potere! Il potere assoluto! Quello che gli uomini attribuiscono agli dèi! Non molto diverso da ciò che volevi tu, no Awua? “Per me solo il meglio”, dicevi! Ah, ma quanto ê bello poter ottenere il meglio, eh? Sapere che si è in quella ristretta cerchia di eletti che possono spendere millecinquecento dinari o tremila Calus senza un pensiero di troppo?-, avanzò appena verso di me, la lama protesa davanti a sé, i passi lenti, circospetti. Non era affatto avventata.
-Tu non l’hai vissuto quel che ho vissuto io, Awua. Non sei cresciuta in una casa di piaceri per donne e uomini. Non hai dovuto prestarti ai loro perversi desideri. Io ho giurato a me stessa che avrei regnato. Che avrei raggiunto la vetta. Non importava il costo, non importava il come. Sarei divenuta una regina, una dea in terra per i miseri mortali che mi avessero guardata…-, continuò mentre si muoveva.
-E così, hai dannato la tua anima… E sacrificato l’affetto di tutti coloro che ti apprezzavano.-, dissi. Awua indietreggiò di due passi mentre io, lento, mi muovevo verso Surya.
-Bramavano una menzogna! L’intrattenitrice che amavano era un personaggio ad arte, perfetto per muovermi, per tramare, per sibilare menzogne dolci, per manipolare… Tutti ci sarebbero cascati. Tranne uno.-, gli occhi di Surya agganciarono i miei.
-Ecco perché mi hai voluto fuori dai giochi.-, dissi con calma, -Hai visto che non ero corruttibile.-. Il cerchio si era chiuso.
-Tu, e la troia in nero. I Justicarii sono scomparsi, ma evidentemente le leggende sono dure a morire. E la sua comparsa mi ha obbligata a rivedere i miei piani. Infamarti era necessario per spezzare Awua, ma lei… si è rivelata un osso duro.-, sibilò.
-Sei un mostro!-, esclamò Awua, con odio rinnovato.
-La regina dei mostri, e tu diverrai la mia serva, Awua. E imparerai cosa significa davvero soffrire. Lo impareranno tutti!-, sibilò Surya. Colpì. Fendente orizzontale e sotccata. Evitai il primo e la seconda mi tranciò una manical, graffiandomi un braccio. Non si fermò: la lama curva della scimitarra fese ancora. Petto. La veste si stracciò, rivelando la pelle lesa dal tagliente.
Non era profonda ma lo sarebbe diventata. Era uno stillicidio. Attaccai. Lei parò. Ancora e ancora. Mi sorrise, derisoria mentre mulinava la lama.
-Ho preso lezioni da maestre del Kelreas e di Licanes. Tu non sei un guerriero, veggente. Avresti dovuto restare in quell’Hamman, a leccarmi.-, sibilò il viso stravolto dal piacere di una rivalsa che pareva farla godere mille volte più del sesso. Respiravo ansimando.
Era brava. Nulla da dire. Dov’era Phelea in tutto ciò? Era caduta?
-Puttana!-, sputai. La odiavo, visceralmente. Mi feci forza. Dovevo reagire. Dovevo fermarla.
Lo dovevo fare per Awua, per Haled, per tutti quelli che erano morti o avevano sofferto per mano sua e per causa delle sue trame.
Il mio colpo andò a vuoto. Lei sorrise. Sferrò un calcio sforbiciando. Mi falciò alle caviglie. Caddi a terra. Di fianco. Dolore. S’irradiò dal fianco al petto. Surya sorrise. Awua si lanciò verso di lei, brandendo un pugnale. Surya non simise di sorridere. Schivò l’attacco e afferrò la mano armata di Awua.
La proiettò contro il muro opposto. Mi sforzai di alzarmi, ma il calcio successivo mi schiantò a terra, rantolante.
-Oh, stupido idiota. L’amore ti rende così cieco e prevedibile…-, sussurrò Surya. Si volse verso Awua che si era rimessa in piedi. Brandiva il pugnale, gli occhi erano pervasi di furia.
Di contro, l’ex intrattenitrice era in controllo. Spaventosamente.
-Dov’è la puttana in nero?-, chiese.
-Non qui.-, ribatté la nera. Attaccò, fendente, finta e stoccata. Arrivò a millimetri dal ventre di Surya prima che l’urlo di Awua mi gelasse il sangue. L’altra le aveva trapassato la spalla. La spinse verso il muro sfilando la lama e allontanado con la mano libera il coltello della mercante dal suo ventre, sfilandoglielo dalla mano.
Awua scivolò a terra, il viso stravolto dalla sofferenza.
-Awua!-, urlai, impotente. Mi alzai, appena malfermo sulle gambe. Ricaddi in ginocchio.
-È finita, veggente.-, sorrise Surya. Alzò le armi, per vibrare il colpo finale su Awua. Gli occhi della mercante incronciarono i miei. Urlai di rabbia. Poi una macchina in nero attraversò il campo. Phelea! La guerriera caricò balzando sulla fontana. Surya schivò evitando l’affondo.
-Alla buon’ora, Justicar.-, sibilò, -Troppo tardi, però. Ormai ho vinto.-.
-Mai troppo tardi per te, strega!-, ringhiò Phelea. Scivolai verso Awua.
-A noi due, allora!-, esclamò Surya. Attaccò. Phelea prese distanza. Aveva un’arma più lunga e se ne avvantaggiava abilmente, tenendo a distanza l’altra, che attaccava in modo misurato.
Le due donne si mossero, in cerchio, scambiandosi colpi. Erano esattamente alla pari: Surya non riusciva a entrare nella guardia di Phelea e si muoveva evitando i colpi di ritorno e i fendenti che la Justicar sferrava. Durò per minuti. Poi, improvvisamente cambiò.
Surya lanciò il coltello, la Justicar schivò, ma nel farlo protese il falcione. La sua avversaria afferrò l’asta, imprimendo una leva. Phelea fu proiettata in avanti ed eseguì una caduta in avanti, lasciando il falcione.
-Ah! Che ne pensi ora?-, chiese Surya. Impungava la spada in una mano e il falcione della guerriera nell’altra, -Non più così sicura, eh?-, chiese, beffarda.
-E ora che farai?-, chiese Surya, -Che cosa farai adesso che sei senz’armi?-.
Phelea mise le mani alla cintola. Estrasse. Doppia estrazione. Lame corte.
Lame di foggia licanea, da venti centimetri, guardie spesse. Armi a una sola mano, da combattimento alquanto ravvicinato. Si mise in guardia.
-Un Justicar non è mai disarmato, Surya.-, disse. Poi attaccò. Come una tempesta.
Surya fu costretta in difesa. Si disimpegnò scagliando il falcione come un giavellotto. Mancò Phelea. La Justicar incalzò. Surya sfuggì verso un’altra stanza, inseguita dalla guerriera.
Guardai la ferita di Awua. Sanguinava abbastanza ma non era grave. Fissai il falcione infisso nella parete in legno di limba. Lo svellai, impugnandolo.
-Resta qui.-, dissi. Avevo la voce roca. Awua mi guardò, scosse il capo. Cercò di alzarsi. Incespicò. Era debole. Anche per via del sangue perso. Anche io non ero al massimo, ma ero in piedi, e in piedi restavo.
-Devo aiutarla. Devo assicurarmi che finisca. Resta qui, d’accordo?-, chiesi.
-Non morire…-, mormorò la nera. Mi chinai a baciarla, mormorandole una promessa ancora.
Udivo ancora clangore di lame. Le due donne stavano ancora battendosi.
Entrai nella stanza ove si stavano fronteggiando. Surya pareva un demonio: schivava e parava senza pause. Lo vedevo che era in difficoltà. Phelea di contro attaccava con ambo le armi, alla ricerca di una breccia. Mi mossi verso le due e a quel punto, Surya si mosse.
Mosse la spada preparando un colpo e pigiò un bottone sull’impugnatura. La testa d’aquila al termine del codolo partì, piantandosi nella gamba di Phelea.
Mentre la Justicar cadeva, Surya colpiva. Un colpo le fece volar via una delle lame di mano, mentre il secondo parò l’ultimo fendente della guerriera caduta. L’intrattenitrice calciò via la spada rimasta. Alzò la propria arma. Non pensai: deviai il colpo fatale. Phelea osservò con occhi sgranati. Io la fissai.
“Avevi detto bene. Sarebbe arrivato questo tempo, quello in cui avrei combattuto, per te.”.
-Non farmi ridere, veggente. Sei bravo in poche cose e nessuna di queste è combattere.-, sibilò Surya, derisoria. Mi misi in guardia, senza parlare. Il tempo delle parole era finito.
Impugnai il falcione deviando un colpo e attaccando con il puntale dell’arma in un colpo rovesciato. Surya indietreggiò. Individuò una breccia, si lanciò all’attacco. Deviai. Colpii con un calcio. Fu dilettantesco e debole ma arrivò a bersaglio. Ripresi distanza e sfruttai la mia arma più lunga per destabilizzarla, costringendola ad allontanarsi ancora.
La donna impugnò una delle lame cadute della Justicar. Attaccò con entrambe, in un movimento che mi parve lento, e fulmineo ad un tempo. Realizzai che non aveva importanza. Non più.
“Non importa cosa succede a me.”, pensai, “Importa che lei paghi. Per tutti. Per tutto.”.
Affondai. Senza pensare a difendermi. E sentii le lame di Surya mordermi il fianco destro e il sinistro. Ma sentii anche la mia lama trapassarla. La donna urlò, gemendo.
La fissai. Girai ed estrassi la lama. Surya crollò in ginocchio, l’espressione agonizzante velata di puro stupore verso un nemico che aveva ritenuto totalmente inadatto a combatterla e che invece, l’aveva vinta. Alzare il falcione sopra la testa mi costò fatica, ma lo feci.
Sentivo la testa girare. Strinsi i denti. Ora avrei posto fine. Il resto, non stava più a me.
Cambiai l’impugnatura calando il fendente finale. Colpo di decapitazione.
Poi, lasciai cadere l’arma. Ero esausto e riuscivo a malapena a restare in piedi.
-Fammi vedere…-, sussurrò Phelea. Era quasi in piedi, e neanche lei era messa bene.
Awua ci raggiunse, mi aiutò a sedermi. Mi tenevo i fianchi. Surya mi aveva ferito, ma non era riuscita ad affondare a fondo. Con gli occhi sbarrati, mi malediceva dall’inferno.
-Mia signora…-, mormorò una voce. Gli schiavi, i diseredati.
-Aiutatemi!-, implorò Awua. Strappò le maniche del suo abito per bendarmi. Phelea riuscì ad alzarsi. Scosse il capo quando un uomo in vesti da medico giunse.
-No… Prima loro.-, ordinò. L’uomo prese a lavorare. Esaminò le mie ferite e quelle di Awua.
-Non sono gravissime. Avrete bisogno di riposo… E sangue. Ne avete perso parecchio.-, diagnosticò mentre estraeva ago e filo riassorbibile.
-Ora cosa faremo?-, chiese Awua.
-Ce ne andremo. Questo posto è un luogo segnato.-, dissi, -In questo luogo non si può guarire.-.
Abbandonammo Soqora con una nave, la nave che ci aveva traghettati nel deserto. Awua pagò i marinai congedandoli dal suo servizio. Vendette il vascello alla vicina città, ben oltre il deserto arabo, acquistando dei cammelli, e provviste. Eravamo una ventina di persone.
-Dove andremo?-, chiese Awua.
-A chiudere il cerchio.-, disse Phelea, criptica. La Justicar procedeva su un cammello, io ero portato su una lettiga e Awua aveva insistito per cavalcare a sua volta.
Attraversammo lande sabbiose e desolate finché la sabbia non cedette il passo a una steppa.
Ci avevamo messo tre, quattro giorni circa. Più il giorno in nave.
E li vedemmo. Altri esuli. Li riconoscemmo. Juba e gli altri, giunti sin lì dal deserto.
“Qualunque posto, che non sia questo… Così avevamo detto.”, pensai ricordando.
Non era un caso. Presi le carte. Estrassi. La Ruota. Dritta. Era scritto. Sorrisi.
-Tu sai dove siamo diretti, Alexander?-, chiese Awua quella sera quando ci fermammo.
-Forse.-, ammisi. La nera si fece più vicina. Fissò la carta.
-Vuoi vedere che è tutto un cerchio e si torna al capolinea?-, chiese a bruciapelo.
-A furia di starmi accanto, stai diventando una mezza veggente.-, sorrisi.
-Allora mi posso aspettare che tu divenga almeno in parte un mercante.-, sorrise lei di rimando. La baciai. Una promessa, mantenuta. Non l’avrei abbandonata, mai.
Fu l’indomani che accadde. Riconobbi le rovine, i resti. Era passato diverso tempo, ma mi sorpresi a riconoscerla.
-Rovine. Qui ci sono solo rovine…-, disse Juba.
-Almeno il suolo è buono…-, commentò una donna che aveva fama da contadina.
-È buono, le rovine si possono riutilizzare…-, disse Awua. Un sorriso prese forma sul suo viso. Fissò Juba, con un’espressione seria, ma gioiosa.
-Non mi dire che hai trascurato l’inventario della carovana…-, disse.
-Questo mai!-, esclamò lui, indignato.
-Bene, perché ci vorrà un buon economo, un contabile di prima leva. E servirà sicuramente anche qualcuno che se ne intenda di coltivazioni.-, commentò la nera.
-Occorrerà anche una mercante valida. Il suolo ci sostenterà solo fino a un certo punto. E molte cose che ci serviranno non le potremo coltivare, o aspettare che crescano.-, dissi.
-E servirà un capo. Un uomo in grado di vedere…-, fece Awua.
Gli altri annuirono. Mi fissavano. Phelea, poco distante, mi sorrise. Incoraggiante.
Guardai quel luogo. Una città morta, su cui sarebbe nata una nuova città, ma sempre la mia. Il luogo in cui tutto era iniziato, e dove il mio viaggio sarebbe finito. Dove potevo trovare pace.
-Allora al lavoro!-, esclamai, -C’è da ricostruire una città!-.
Phelea se ne andò dopo nove giorni. Giorni in cui istruì un gruppo di uomini a utilizzare delle armi. Era una Justicar, non mi ero mai fatto illusioni, ma il suo addio fu comunque sentito.
-Ci rivedremo?-, chiesi. Lei non rispose, non subito.
-Se sarà destino, sì.-, disse. Awua, avvolta in vesti ben meno sgargianti dell’usuale, ma più felice di quanto riuscissi a ricordarla, sorrise.
-Sono in debito, guerriera. Profondamente. Qui tu avrai sempre un posto.-, disse.
La Justicar annuì, chinando appena il capo. Non c’era altro da dire.
Si mise in cammino verso l’orizzonte, con il suo cammello, quello che aveva avuto con sé quando ci aveva incontrati, nel deserto. Dopo due mesi, con la città ben avviata, Awua mi confessò che aspettava un bambino.
Le carte annunciavano un futuro veggente. Sorrisi.
Non scherzavi quando sostenevi che il racconto era lungo! Comunque, mi è davvero piaciuto, questo sì che è un ottimo lavoro, sia per la trama che per i personaggi. Interessante anche l’uso delle carte per lo sviluppo della storia, molto originale. Non oso immaginare quanto tempo ti abbia preso scrivere un romanzo simile…
Parecchio. Ci ho lavorato per settimane, ma l’idea di inserire i tarocchi in un racconto erotico ma senza usarli meramente come approccio per finire a letto, bensì come strumento per evolvere la narrazione mi è stato di grande stimolo. Da notare: per la figura di Awua mi sono in parte ispirato a un numero di Dagonero recentemente uscito, ma per il resto è tutta farina del mio sacco e devo dire, sono molto fiero del risultato finale e ti ringrazio molto per l’averlo apprezzato!
Grazie! Non so se il mio precedente commento sia stato inviato, ma nel dubbio lo riscrivo: ci ho lavorato per settimane, a spronarmi era l’idea di usare i tarocchi come mezzo narrativo e non solo d’approccio come avrebbe potuto fare qualcun’altro. Piccola curiosità: il personaggio di Awua è parzialmente ispirato a una mercante presente in un fumetto di Dragonero, della Bonelli, ma a parte questo, tutto il resto è farina del mio sacco. Sono lieto che tu abbia apprezzato!
Ripeto e confermo: ė un eccellente lavoro, sia per world building che per la trama. I miei complimenti!