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Racconti Erotici Etero

Riflessi

By 8 Febbraio 2004Dicembre 16th, 2019No Comments

“…E colgo l’occasione per porgerle un cordiale saluto… firmato… e qui usi la solita firma con tutti i titoli, signorina.”

Le dita di Lena ticchettavano veloci sulla tastiera man mano che il suo superiore le dettava la corrispondenza.

Lui le volgeva le spalle, assorto nella contemplazione del ficus benjamin, verde simbolo di potere manageriale.

Importanti cambiamenti erano in vista nell’azienda in cui lavorava, la più importante del settore, e l’atmosfera ai piani alti era pesante.

Il suo capo, pero’, era un semplice middle manager occupatissimo nello sforzo di sembrare più importante di quanto non fosse in realtà.

“Non le sembra che le foglie si stiano un po’ ingiallendo?”

Lena cercò di mantenere un’aria impassibile, non credeva che tra le mansioni di un’assistente personale rientrasse anche il giardinaggio, e se c’era una cosa che proprio non aveva era il pollice verde.

Tentò di ricordare da quanto tempo non innaffiava il ficus, si morse le labbra… nessuna sorpresa se la pianta stava seccando!

Per fortuna erano già le 17,30, e per la ridicola somma che le pagavano non potevano pretendere che rimanesse lì più a lungo.

Ringraziò il cielo che quello forse era il suo ultimo giorno di lavoro.

“Ingegnere, io ho finito. Se non ha più bisogno di me…” disse alzandosi, prima che lui potesse aggiungere qualcosa.

Lui la guardò di sfuggita e le fece un magnanimo cenno di congedo con la mano.

Autobus affollato.

Tanfo di sudore.

Impronte di fango sul pavimento.

Chiacchiericcio inutile e importuno di pendolari stanchi.

Traffico frenetico.

Gas di scarico.

Claxon stonati.

Auto parcheggiate sul marciapiede.

Ansia.

Il cuore come impazzito.

Posò la busta con la spesa per terra, chiuse la porta dietro di sè e per un attimo vi rimase appoggiata, con le mani dietro la schiena, sulla maniglia, gli occhi serrati.

Respirò profondamente, poi girò la chiave nella toppa: uno, due, tre scatti metallici.

Andò in cucina e cominciò a riporre le cose che aveva comprato nei vari mobiletti, a seconda del loro posto.

Prese una scodella e vi versò del latte, prima di riporne la confezione nel frigorifero.

Tutti gesti reiterati ogni giorno, nella stessa sequenza, quasi maniacale.

“Un posto per ogni cosa, ogni cosa al suo posto” le ripeteva sempre sua madre.

Quella routine autoimposta la rassicurava e le impediva di pensare.

Posizionò la ciotola nel solito angolo vicino alla porta-finestra semiaperta che dava sul minuscolo terrazzino, dove il gatto sapeva che l’avrebbe trovata.

Guardò l’ora: le 18,30.

Mentre andava in camera da letto cominciò a sciogliere i lunghi capelli neri che fino a quel momento aveva tenuto raccolti nella sua severa pettinatura da segretaria modello.

Posò gli occhiali dalla montatura scura sul comodino e fece scorrere giù la tapparella.

Una fioca luce permeava la stanza e, mentre si spogliava, Lena osservò la figura che la specchiera finta antica le restituiva.

Una donna di altezza media, con i capelli lunghi sulla schiena, nessuna traccia visibile di cosmetici, stava sbottonandosi un semplice e casto tailleur grigio chiaro.

Ripose con cura la giacca e la gonna nell’armadio.

Si liberò anche della biancheria beige, non particolarmente ricercata, che finì nella cesta della lavanderia nel bagno.

Lì si soffermò davanti allo specchio per compiere l’ultimo rito della giornata: un velo di latte detergente per il viso e una spazzolata ai denti.

Puntò la sveglia, mise la mascherina nera sugli occhi e si addormentò quasi subito.

Il gatto nero, acquattato sotto il lavello in cucina, avvertì l’assenza di rumori e, con prudenza e grazia tipicamente feline, sgusciò fuori e prese a lappare il latte indisturbato.

Al dodicesimo rintocco del suono registrato delle campane della chiesa poco distante, Lena cominciò a stiracchiarsi.

Contrasse i muscoli delle gambe ritmicamente, come per prepararle a sostenere il peso del suo corpo.

Si sfilò la mascherina e allungò una mano verso il cassetto del comodino, traendone un telefono cellulare.

Lo accese e attese finché non apparve l’icona di una bustina, accompagnata da un suono bitonale.

Lesse il messaggio: “1,00 Matteotti 2 terzo addio”.

Sbuffò, stizzita.

Carlo non era mai stato molto prolisso durante le poche conversazioni che avevano avuto, ma adesso sembrava che gli piacesse giocare a fare lo 007.

Beh, allora era stasera.

Erano alcuni giorni che aspettava, era pronta.

Doccia rilassante, una liquida carezza calda su tutto il corpo.

Accappatoio bianco, morbido, avvolgente.

Indugiò davanti al grande specchio del bagno tutto appannato dal vapore, lo pulì col dorso della mano e osservò il proprio corpo.

La differenza di temperatura tra l’acqua calda e l’aria le fece venire la pelle d’oca.

Osservò i propri capezzoli irrigidirsi e con una mano sfiorò l’inguine del tutto depilato, controllando che fosse ancora liscio.

Proseguì il suo esame tastandosi il seno, ancora sodo e fermo nonostante la taglia.

In una scatola in fondo all’armadio c’era il pacco che Carlo le aveva consegnato alcune sere prima.

Ne trasse un push-up bordeaux rigido con perizoma coordinato e un abito.

“Niente male come divisa” pensò sarcastica.

Questo era il gusto di Carlo.

Ripensò per un attimo con nausea alla prova selettiva che le aveva imposto prima di decidere di farla lavorare per lui, ma scacciò subito il pensiero scuotendo la testa.

Non era il momento di innervosirsi.

Autoreggenti nere e tacchi altissimi, simili a stiletti, che le donavano un’andatura deliziosamente instabile.

E ora il trucco: ombre scure sulle palpebre, ad esaltare il nero degli occhi, rosso fuoco sulle labbra, sulle guance e sulle unghie finte, lunghissime.

Le dodici e trenta, doveva sbrigarsi o avrebbe fatto tardi.

Infilò il corto vestito di latex nero.

Chiamarlo vestito era un po’ eccessivo, visto che era piuttosto minimalista, cioè realizzato con un quantitativo minimo di materiale: consisteva in una specie di rete a maglie piuttosto larghe che le strizzavano il corpo.

Le sarebbero rimasti dei segni?

Un’ultima occhiata allo specchio prima di infilare il trench nero: sembrava proprio una puttana.

Sorrise alla propria immagine riflessa.

L’autista era già arrivato e la stava aspettando all’interno del taxi giallo davanti al portone, come preannunciato.

“Ciao Mario, via Matteotti,2” lo salutò, sedendosi dietro di lui.

Il tassista non aveva più di quarant’anni e ormai da tempo si occupava discretamente di questi affari.

“Sei più bella del solito, stasera, Milli”

Sempre la stessa frase.

Era stato sempre lui ad accompagnarla da Carlo, era una presenza quasi rassicurante e poi si era sempre comportato gentilmente con lei.

Anche quella sera non mostrò di notare alcunchè di strano nel suo aspetto.

Lena sorrise di rimando e gli chiese come stesse andando il lavoro.

Chiacchierarono amabilmente per tutto il tragitto e Mario, che era di umore allegro, le raccontò perfino una barzelletta.

Ticchettio della freccia.

Il taxi si fermò dietro un vecchio furgone blu dal paraurti ammaccato.

“Eccoci arrivati, Milli. Buon lavoro.”

“Ciao Mario, a dopo”.

Un vecchio edificio liberty, come ce n’erano tanti in quella città.

La facciata scalcinata lo faceva apparire come una vecchia dama decaduta.

Lena attraversò il portone socchiuso.

Si ritrovò davanti a un’ampia scalinata dagli alti gradini di marmo grezzo e scuro un po’ consunti, illuminata a giorno.

Il posto sembrava disabitato da tempo, ma era nell’aria un vago odore di disinfettante, lo stesso che si sente nei sottopassaggi delle stazioni ferroviarie, pensò Lena.

Terzo piano, diceva il messaggio.

Mentre si avvicinava salendo su per le scale sentiva un rumore farsi sempre più distinto: musica, risate.

Fece per bussare, ma la porta era socchiusa, così entrò senza starci troppo a riflettere e la luce sul pianerottolo squarciò la penombra dell’appartamento.

Il chiacchiericcio e le risate cessarono immediatamente, mentre decine di occhi si voltavano verso di lei.

Richiuse la porta alle sue spalle, restituendo la casa alla luce fioca delle candele accese, mentre l’impermeabile scivolava per terra con deliberata lentezza.

Era un salone molto grande, quasi del tutto spoglio a parte tre divani, un tavolo e un mobile bar.

Probabilmente lo avevano affittato per l’occasione, e doveva essere costato un bel mucchio di quattrini.

Ma quell’ordine di cifre non era un problema per quella gente.

“Auguri” disse con voce bassa, leggermente roca ma ferma.

Era stata brava a individuare il cliente dopo aver dato solo una rapida occhiata.

D’altronde era impossibile sbagliare, anche se le foto che aveva visto erano di qualche anno prima.

Il festeggiato era il più ubriaco di tutti, e stava ancora ridendo per l’originalissimo regalo appena ricevuto dagli amici per il suo addio al celibato: una bambola gonfiabile a cui stava palpando il seno, probabilmente confrontandolo con quello della sua futura moglie.

Magari si era aspettato che facesse rumore, come i giocattoli di plastica per bambini col fischietto incorporato.

Il padre, sui cinquant’anni, robusto e stempiato lo guardava con aria soddisfatta, sorseggiando un whiskey, leggermente in disparte: la festa stava riuscendo benissimo.

Qualcuno emise un fischio di ammirazione mentre il vero regalo avanzava verso il festeggiato.

“Guarda che culo!” commentò uno alla sua destra, e sentì un altro rispondere “E che cazzo, per quel che c’è costato ‘sto culo!”

Seguirono risate sguaiate che incoraggiarono commenti ancor più pesanti da parte dei presenti.

Lena sorrise solo a lui, al cliente, che osservava incuriosito e interessato.

Doveva essere un gran bel fuori programma.

Si piazzò davanti al ragazzo con la bambola a gambe leggermente divaricate, facendo scorrere su di sè le proprie mani, gesto seguito con grande interesse dall’uomo, che sembrava soppesarla con gli occhi, divertito.

Lo osservò: non poteva avere più di venti o ventidue anni, così come i suoi amici.

Probabilmente inesperto, probabilmente l’unica volta che aveva fatto sesso aveva messo incinta la ragazza e ora doveva sposarsela.

“Serata facile”, pensò “e da domani dirò addio a quel lavoro di merda”.

“Che te ne fai di quel pupazzo se ci sono io? Andiamo in camera da letto, tesoro?” gli mormorò, con un tono che credeva suadente e sensuale.

Lui si alzò e le strinse le natiche con entrambe le mani, con forza, facendole quasi male.

Era più basso di lei, tarchiato.

Puzzava d’alcool.

Lena continuò a sorridergli con aria invogliante, schiacciandogli il seno abbondante contro il petto, e gli appoggiò una mano sulla patta, cominciando una lenta carezza che ben presto ebbe i suoi risultati.

Anche il viso di lui si indurì.

“E’ mia, ragazzi?”

“E’ il nostro regalo, è tutta tua, Paolo, puoi farci quel che vuoi!”

“Sì, ma faccela almeno guardare, dai!”

Risate di ubriachi, avevano pagato per l’amico ma volevano controllare anche loro la merce.

“Succhiamelo”

Gli amici si zittirono e Lena comprese cosa volevano tutti: guardare.

Gli sbottonò i pantaloni e i boxer e glielo tirò fuori.

Era grosso, già duro.

Lo circondò con una mano e iniziò a massaggiarlo lentamente.

“Ti ho detto di succhiare, troia”

Non alzò la voce, non ne aveva bisogno: aveva pagato, era suo diritto e si sentiva che era abituato ad essere obbedito.

Lena s’inginocchiò sul pavimento gelido, la testa giusto all’altezza del sesso di lui.

Leccò la punta, con movimenti lenti, esagerati, quasi teatrali.

Con la lingua percorse tutta l’asta, insalivandola, spalmandovi le ultime tracce del suo rossetto scarlatto.

Poi aprì la bocca e se lo infilò dentro tutto d’un colpo, cercando di dominare la nausea che le aveva provocato il puzzo di urina, di sesso non lavato.

Cominciò il suo movimento dall’alto verso il basso e ritorno, ne succhiò la sommità mentre lo masturbava con una mano e con l’altra gli accarezzava una coscia, facendogli sentire le unghie sulla pelle.

Ma era lui che conduceva il gioco, e doveva mostrarlo a tutti: c’era anche suo padre ad osservarlo, orgoglioso.

Le afferrò i capelli con le mani e le spinse il sesso fino in gola, scopandole la bocca senza alcun riguardo, con spinte sempre più violente, sempre più veloci.

Era solo una puttana.

Lacrime involontarie le colarono sulle guance, mentre combatteva i conati di vomito.

Le faceva male, si sentiva soffocare, cercò di sottrarsi.

Lui le mise due dita di una mano sulle guance, e le strinse forte per impedirle di chiudere la bocca.

Finalmente venne con un grugnito, in più fiotti abbondanti, penetrando più in fondo che poteva e costringendola a ingoiare.

Rimase fermo per un istante, dopo, il sesso ancora eretto e pulsante, ormai sazio.

Poi le lasciò i capelli che fino a quel momento aveva stretto tra le sue dita e si tirò su i calzoni.

Lena restò dov’era, rantolando alla ricerca di ossigeno, tutta la sua sicurezza sfumata in quegli ultimi minuti.

Non era così che doveva andare.

Per un attimo ci fu il silenzio intorno a lei, poi il ragazzo rise e ringraziò gli amici del regalo.

Un applauso celebrò la sua ultima performance da celibe.

Qualcuno non aveva resistito alla scena, si era masturbato febbrilmente e adesso gli altri lo prendevano in giro.

“Beh Paolo, hai già finito con quella? Non te la scopi?”

“Scoparmi una puttana? Fossi matto, magari ha pure l’AIDS!”

Seguirono altre risate, rumore di bottiglie stappate.

L’intermezzo erotico era finito.

E il cliente aveva perso interesse per lei.

Si lasciò cadere sul sedile posteriore del taxi.

Non occorreva parlare: Mario conosceva la strada.

Se Lena avesse guardato lo specchietto retrovisore avrebbe incontrato uno sguardo colmo di pietà, ma non lo fece.

Aveva fallito.

Tutto quello… per niente.

Non era proprio il pensiero giusto in quel momento.

“Fermati!”

Il conducente frenò bruscamente, e Lena schizzò fuori giusto in tempo per vomitare sull’asfalto.

Vomitò e poi vomitò ancora.

Vomitò succhi gastrici e sperma e residui dell’ultimo pasto e tutto lo schifo che sentiva dentro per quella casa, per quella città, per la sua vita.

Guardò il proprio riflesso in una vetrina, ma non si riconobbe.

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