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Riverirti con attaccamento

By 24 Dicembre 2020No Comments

Oggi si percepisce un freddo pungente, così come quando una persona ti pizzica all’improvviso, infilandosi tra gli ultimi residui di un’estate proprio al termine. Quel soffio gelido, mi risvegliò infatti, tra le mie notti fatte di sogni traballanti e d’incubi dubitanti, che silenti ma incisivi, mordevano famelici e insaziabili quella lontana realtà, addentando le apparenze con cui tentavo di dipingerla. In tal modo, sinceramente smarrito nella solitudine m’aggrappai al tepore gradevole di quegli abbracci, che nella notte intrecciavano impostando i loro inganni soltanto per me, in quel bizzarro e strampalato distacco, che proseguiva ad assillarmi in quanto mi torturava di continuo.

Con gli occhi chiusi io cercavo la sua pelle su di me, il suo sapore, il suo piacere che ansimava e nutriva ammodo il mio desiderio di possederla, cominciai sennonché ad accarezzarmi seguendo il brivido dei suoi baci e delle sue mani frugando nei miei sogni, per dar vita a quelle emozioni che vibravano sul mio corpo e sul suo, assente e al tempo stesso sempre presente dentro me, come un’onda che s’allontanava per poi gettarsi nuovamente su di me, inevitabilmente con una rimodernata e insolita rinnovata energia. Io captavo i suoi gemiti, il calore della sua bocca sul mio sesso, che gridava e invocava il suo desiderio d’averla, quel desiderio che cresceva fino a farmi male, fino a togliermi il respiro. Io vedevo la sua pelle brillare, sentivo il fruscio dei suoi vestiti che scivolavano lungo il suo corpo ricadendo sul pavimento ascoltando quel suono invitante come una vecchia melodia che m’incantava. In quel preciso istante ero come un bersaglio, vittima d’un incantesimo, dato che non potevo far nulla per liberarmi da esso, ero privo di difese, in potere di quella passione che mi scavava, riducendomi in schiavitù, facendo sì che l’invocassi e la desiderassi, come se fosse l’unica ragione e lo scopo della mia intera e martoriata vivace esistenza.

Sì, ne ero certo, indubbiamente tutta la mia vita era lì ai piedi di Corinne, perché nulla aveva più senso per me, giacché io esistevo solamente per lei, unicamente per il desiderio d’averla e d’appartenerle. Con lo sguardo io bevevo ogni pezzetto del suo corpo che lei flemmaticamente denudava, la follia s’impadroniva di me e lei godeva specchiandosi in essa, nello sguardo, in visibilio con cui seguivo i suoi movimenti. Come il vento che accarezza e che culla il mare lei s’avvicinava adagio fino a farmi sentire il calore del suo respiro, eppure dopo s’allontanava abilmente non appena io tentavo di baciarla seguendo i passi d’una misteriosa danza con cui mi legava a sé, infine s’inginocchiava per raggiungermi nuovamente, camminando in conclusione a quattro zampe come un felino che studia la sua preda e si prepara ad avventarsi su di essa per cibarsene.

Osservando i suoi occhi esultanti e vogliosi, temevo che da un momento all’altro potesse balzare su di me per sbranarmi, però ogni timore moriva nell’incanto di quello sguardo e si convertiva in una cieca passione e in un’incontenibile piacere, rendendomi una preda mite pronta a offrirsi alla sua carnefice. Supplicami sussurrava lei, mentre succhiava il mio cazzo, facendo crescere il mio desiderio e lasciandolo continuamente sospeso in un’attesa senza fine. Io allora l’imploravo, invocando la grazia delle sue labbra, che indecentemente mi succhiavano con dei piccoli morsi. Le mie suppliche però non erano mai sufficienti per lei, visto che non c’era nulla che io potessi fare, per ottenere alla fine quel piacere tanto a lungo ambito. Lei dopo avermi torturato con i suoi baci, si rialzava e m’osservava per di più divertita mentre io cadevo in ginocchio davanti a lei. S’innalzava su di me in tutto il suo candido e perfido splendore, attendendo che io l’implorassi ancora, richiedendo l’omaggio del mio desiderio e della mia anima domata che s’offriva a lei in una resa incondizionata, obbediente ad adorarla, come se fosse una divinità alla quale chiedere la propria salvezza.

Era realmente così che io la supplicavo baciandole i piedi mentre lei rideva di me e della mia follia, incitandomi ad adorarla ancora intanto che io le mostravo tutta la mia devozione. Mancavano circa quindici minuti alle otto, io dovevo sbrigarmi se non intendevo perderla, perché avevo soltanto trenta minuti per prepararmi e per raggiungere in definitiva la fermata della metropolitana, decisamente troppo pochi. Quando uscii dalla doccia riconobbi il suono dei passi di Corinne che scendevano giù per le scale, fui preso dal panico, dato che stavo per perderla, vestendomi di fretta mi precipitai giù per la strada giusto in tempo per vederla svoltare l’angolo. In quel momento cominciai a correre, fui un po’ avventato in questo, quando svoltai la trovai infatti ferma davanti a una vetrina, lei mi vide e notò senz’altro il mio affanno. Non potevo tradirmi, dovevo fare del mio meglio affinché non s’insospettisse ulteriormente, in tal modo accennai un saluto da buon vicino e proseguii, precedendola lungo il tragitto per la stazione della metropolitana. Pochi metri dopo approfittai d’un distributore automatico e mi fermai per comprare un pacchetto di sigarette, la sosta fu sufficiente nel far sì che lei mi superasse, permettendomi agevolmente di seguire di nuovo i suoi passi.

L’aria fresca della notte poco a poco si dissolse nel sole autunnale del mattino, giacché si poteva ancora respirare un tepore quasi estivo, in quel frangente Corinne indossava una camicia con dei pantaloni leggeri e calzava dei sandali con il tacco. Chissà come sarebbe stato scaldarglieli, però mi piacevano, erano piccoli quei piedi, immaginavo che fossero soffici, morbidi e vellutati come i petali d’un fiore, immaginavo di solleticare le sue dita con la punta della lingua, di sfiorarle con le labbra e di succhiarle con avida dolcezza, di poter sentire il suo piede scivolare sul mio corpo e d’adagiarsi infine sul mio viso, di respirarlo mentre lei teneramente mi sorrideva. Un sorriso fresco, come quello che sgorga dagli occhi degli amanti invaghiti, sì, perché le avrei sorriso anch’io allora e nei miei occhi lei avrebbe letto tutto il mio amore, avrei morso delicatamente il suo tallone, lei avrebbe cercato di divincolarsi e avrebbe finto d’essere adirata con me minacciandomi scherzosamente, ma poi il suo sorriso sarebbe tornato a brillare sentendo i miei baci tornare a ghermirla. Avrebbe in seguito socchiuso gli occhi e si sarebbe abbandonata al piacere delle mie labbra, che affamate sarebbero scivolate lungo il suo corpo e fino alla sua bocca, respirando il suo desiderio di stringermi e d’amarmi così come io l’amavo.

I miei sogni prendevano sempre il sopravvento quando la guardavo amandola in silenzio, mi perdevo nel labirinto d’immagini che di volta in volta prendevano forma, come scene d’un film che si sovrapponevano alla straziante realtà d’una fissazione muta e solitaria che durava ormai da sei mesi, dal giorno in cui per la prima volta l’avevo incrociata per le scale. Quel giorno, invero, lo ricordavo luminoso come un’alba, però il sole di quel mattino era rimasto imprigionato sul fondo del cielo, lasciando quel chiarore sospeso sul confine della notte, alimentando la follia dei miei sogni lucidi. Io m’avvicinai a lei timidamente, all’inizio sfiorando quel sogno in modo distratto fingendo che non fosse nulla, soltanto il passatempo d’una mente annoiata che vagabondava seguendo il suono del vento. Senz’accorgermene, all’improvviso mi scoprii ossessionato dalla sua presenza dove cercavo di seguire ogni più piccolo movimento. Lei si era trasferita nell’appartamento accanto al mio, eravamo vicini di pianerottolo e mi ritrovai a spiare tutti i suoi spostamenti, a passare le giornate tendendo l’orecchio per sorprenderla quando usciva e appena rientrava restando in attesa, per poterla osservare attraverso lo spioncino della porta.

Avrei potuto forse provare a parlarle, magari avrei potuto invitarla a prendere un caffè, eppure mi sentivo come inceppato e impedito allorquando l’incontravo, perché le parole si spegnevano e lì morivano poco dopo, il fiato per dar loro voce svaniva sfumando e restando intrappolato chissà dove. Quando io l’incrociavo riuscivo soltanto a balbettare un timido saluto, che lei a malapena udiva e a cui rispondeva con un sorriso, un sorriso in cui potevo leggere chiaramente quanto buffo apparissi ai suoi occhi. Nonostante questo, il mio amore per lei di giorno in giorno cresceva, con esso anche il desiderio e la necessità di sapere tutto di lei, di conoscere ogni dettaglio della sua vita. Imparai velocemente a conoscere le sue abitudini, cominciai a seguirla per potermi sentire parte della sua vita, per poter essere come un’ombra che baciava i suoi passi, giungendo a perdere anche il lavoro per le mie continue assenze. Ben presto, però, tutto questo non fu più sufficiente per soddisfare la mia fame disperata e insaziabile. Allora lo feci, con il cuore in gola m’accostai a quel limite che non avrei dovuto valicare, a quel confine oltre il quale avrei trovato solamente la causa della mia perdizione e dalla quale sapevo che non sarei più potuto tornare indietro. Pensieri deliranti si dibattevano nella mia testa come se volessero farla scoppiare, finché non raggiunsi quel baratro e gettai lo sguardo in esso preparandomi a saltare. Il portiere del palazzo in cui abitavo era un amante del gioco degli scacchi, una passione poco comune, difficile da coltivare a causa dello scarso numero di giocatori con cui misurarsi, numero che si restringe se s’intende giocare con chi è capace di muovere i pezzi con la giusta consapevolezza. In molti, si definiscono giocatori solo perché conoscono il modo corretto in cui i pezzi si muovono, però non sanno spingersi oltre questo e non hanno idea di che cosa sia realmente il gioco degli scacchi.

Io ero uno dei pochi giocatori, se non addirittura l’unico, con cui il portiere potesse misurarsi, per quest’unico motivo pur non avendo alcun altro rapporto con me, se non quelli che intrattenevamo sulla scacchiera, lui mi considerava un suo caro amico. Un giorno di fine agosto, le nostre partite furono interrotte dall’inquilina dell’interno numero nove, una donna che spettegolava malignando sempre in cerca di nuovi e sorprendenti eventi, per poter opportunamente diffamare e screditare a ragion veduta le sue amiche. Era convinta che la sua vicina di pianerottolo, una donna anziana e per di più da sola, che non riceveva mai visite, fosse morta e che il suo corpo stesse marcendo da diversi giorni. In effetti, il cattivo odore che si sentiva passando davanti alla sua porta, rendeva le ipotesi molto credibili, anche perché dall’appartamento non giungeva alcun suono ed era stato praticamente inutile bussare nella speranza che la signora aprisse. La signora era riuscita a convincere quasi l’intero palazzo della morte dell’anziana donna, e, con il seguito d’altri inquilini particolarmente suggestionabili irruppe nell’appartamento del portiere, convincendolo a usare la sua copia delle chiavi per entrare nell’appartamento della signora per accertarsi delle sue condizioni di salute. Alla fine, tutti i sospetti della signora si rivelarono naturalmente infondati, perché il disgustoso e indigesto odore che proveniva dall’appartamento non era causato da un corpo putrefatto, ma semplicemente dal cibo avariato del frigorifero rotto, e la signora era in perfetta salute fatta eccezione per l’udito, che aveva resa vana l’insistenza con cui avevano bussato alla sua porta. Malgrado il rischio d’infarto per l’irruzione immotivata e improvvisa nel suo appartamento, la signora fu felice dell’interesse degli altri inquilini per la sua salute, io in quell’occasione ebbi modo di vedere dove il portiere era solito custodire le chiavi di alcuni inquilini, che per farsi innaffiare le piante quando andavano in vacanza, o semplicemente per la paura di restare chiusi fuori casa, decidevano di consegnargliene una copia. Sperai, che tra quelle ci fosse anche la chiave dell’appartamento di Corinne e non fu difficile per me verificarlo.

Approfittai di uno dei tanti inviti del portiere per giocare a scacchi e alla prima occasione frugai tra quel mazzo di chiavi, trovando così anche quelle di Corinne. Chiesi al fabbro di farne una copia dorata, come se si trattasse della chiave d’un astuccio magico che conteneva il più prezioso dei tesori. Sapevo bene, che in realtà, quella chiave avrebbe aperto il mio vaso e che una volta rotto il sigillo non sarei più stato lo stesso. Per un po’ cercai d’aggrapparmi agli ultimi indizi di logica che mi erano rimasti, o forse finsi di farlo abbandonandomi così a un lento gioco fatto d’attese e di seduzione. Accarezzavo quella chiave sognando il momento in cui l’avrei adoperata, immaginando l’universo sconosciuto che avrebbe aperto e nel quale mi sarei immerso, un mondo ricco di profumi, di sapori, il tempio della divinità che inconsciamente m’aveva legato a sé. Mancavano soltanto pochi minuti, strinsi forte la chiave nella mia tasca e attesi con Corinne l’arrivo del treno della metropolitana. Assaporai ogni piccolo istante di quell’attesa, osservando i suoi passi e il modo in cui scostava i capelli che le ricadevano sul viso, o come tirava su la borsa quando le scivolava lungo la spalla mentre andava su e giù lungo la banchina. Ogni suo movimento era lieve e ricco di grazia, sembrava che le sue mani danzassero, come se stessero pizzicando le corde di un’arpa intonando una delicata melodia che solo io potevo udire. Quando le note di quella musica silenziosa riempivano l’aria, io sentivo il tocco delle mani sul mio viso, sentivo il sapore del suo morbido e saporito palmo mentre lo baciavo, percepivo le sue dita che frugavano nella mia bocca, mentre mi sorrideva offrendomi il candore del suo collo, perché lo baciassi e lo mordessi nutrendomi di lei.

Il sole del mattino brillava risaltando sull’asfalto, il suo bagliore inondava la strada con una luce che sembrava quasi bianca, percorsi in tal modo il tragitto dalla stazione della metropolitana fino a casa con passi rapidi. A volte quasi correvo, altre indugiavo, come se volessi prolungare ancora quell’attesa o come se sperassi di tornare in me da un momento all’altro. Giunsi davanti alla porta di Corinne e le mie mani cominciarono a tremare, mi guardai intorno e tesi l’orecchio per accertarmi d’essere solo, trattenni il respiro e girai lentamente la chiave nella serratura. Un breve istante e il mondo dei miei sogni si spalancò davanti a me. L’appartamento era piccolo, con poche stanze, era identico al mio, tranne che per l’arredamento dallo stile etnico. Le stoviglie della colazione riposavano nel lavabo e attendevano il ritorno della padrona di casa per essere lavate, cercai le labbra di Corinne sul bordo della tazza del caffè lasciato a metà e lo bevvi, assaporando religiosamente il suo bacio. Sfiorai e sondai ogni oggetto della casa, seguendo le tracce che Corinne aveva lasciato, poiché era come se fossi dentro lei, sentivo le sue braccia avvolgermi e stringermi mentre mi accoglieva nel suo ventre.

Lasciai la camera da letto per ultima, le sue pantofole attendevano accanto al letto, m’inginocchiai per raccoglierle e le strinsi forte, immaginai il ritorno di Corinne, i suoi piedi affaticati dalla giornata che abbandonavano i tacchi rifugiandosi all’interno di quelle confortevoli pantofole. Le baciai con devozione e mi spogliai come se mi stessi preparando a un rito ecclesiastico, poi m’infilai sotto le lenzuola per sentire sul mio corpo nudo il tepore e l’odore di quello di Corinne, nella vana speranza che la mia pelle potesse assorbirlo restando sempre su di me. M’addormentai avvolto in quelle lenzuola che avevano cullato i suoi sogni, cercando di farli miei mentre respiravo insaziabilmente il suo cuscino. Corinne era su di me, la sentivo ansimare mentre la penetravo strappandole gemiti di piacere, sentivo il suo corpo fremere con il mio nell’abbraccio che ci univa. Dopo mi dissetai sulla sua bocca mordendole le labbra, succhiando la sua pelle umida di piacere, perché potevo sentire il suo orgasmo fondersi e travolgersi con il mio, potevo sentirlo nelle nostre carezze, nel suo respiro, sulla mia bocca.

Lei era lì, i miei sogni danzavano con i suoi, s’intrecciavano come dita, avvinghiati come i nostri corpi affamati e grondanti. Quando riemersi dal mio sonno la luce del giorno si era indebolita, del sole era rimasto soltanto qualche riflesso. Avevo perso la nozione del tempo, però dal colore della luce che entrava dalle finestre potei rapidamente intuire che ora fosse. Corinne sarebbe rincasata a momenti, forse era già davanti al portone del palazzo, dovevo sbrigarmi, sennonché balzai fuori dal letto rivestendomi in fretta. Poi mi guardai intorno per essere certo di non aver lasciato tracce, tuttavia non avevo molto tempo per controllare, così come non ne avevo per continuare a perdermi in quel mondo tra le cose di Corinne.

Guardai l’orologio in cucina, erano quasi le venti, mancava poco al suo rientro, ma potevo stare tranquillo, perché sarei riuscito senz’altro a uscire di casa prima del suo arrivo e l’indomani sarei potuto tornare ad amarla nell’intimità del suo appartamento. Tutto era andato bene, nel migliore dei modi, giunto davanti alla porta d’ingresso mi guardai allo specchio e sorrisi soddisfatto prima d’uscire. Il grido di sgomento e di terrore che lanciò Corinne, vedendomi uscire dal suo appartamento, ancora oggi riecheggia nelle mie orecchie.

In quel preciso istante, come talora succede, immancabilmente sul più bello, la sveglia sul comodino suona crudelmente e implacabilmente di soprassalto, interrompendo quella magia, mozzando quel favoloso incantesimo che si era creato, imperturbabile e precisa con la sua acuta e penetrante melodia, spronandomi sennonché ad alzarmi: il nuovo giorno m’aspetta, esco di casa brioso e colmo d’aspettative, giurando e promettendo verso me stesso che dovrò smettere di sognare.

Oggi suonerò al pianerottolo e inviterò Corinne per uscire, dovrò essere determinato e risoluto. Basterà di certo non attardarsi oltre, smettere di dilungarsi ulteriormente ed evitare d’indugiare ancora: o la va o la spacca come si suol dire, garantito.

{Idraulico anno 1999}

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