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Rosina e il cavaliere ferito (Prologo)

By 27 Febbraio 2022No Comments

Ecco a voi il prologo di un racconto erotico ambientato in un medioevo di contadinelle e cavalieri dalle armature lucenti.

Buona lettura!

Le campane della chiesa suonavano invitando alla messa vespertina i fedeli del villaggio e delle campagne circostanti.

Rosina aveva da poco lasciato la propria casa appena fuori dal villaggio e si stava incamminando verso la chiesa quando da dietro sentì il rumore di zoccoli sul selciato. Era un cavallo che le si avvicinava con passo lento e incerto accompagnato da strani rumori metallici. Quando il cavallo le fu abbastanza vicino, Rosina si fece da parte per fargli strada dirandosi a guardare chi stesse per superarla. Un cavallo di color nero, con le bardature da guerra e dei vessilli inusuali portava in groppa un cavaliere coperto da una pesante armatura che stentava vistosamente a reggersi. Dopo aver superato Rosina, il cavaliere aveva improvvisamente perso l’equilibrio e cadendo rovinosamente a terra. Il cavallo, fatto qualche metro e non sentendo più il carico addosso, si era fermato.

Rosina era corsa immediatamente in direzione dell’uomo caduto a terra. Fermatasi a pochi passi da lui e lo aveva osservato con timore: l’uomo dentro l’armatura doveva essere ancora vivo, privo di sensi ma vivo; Rosina riusciva a scorgere i lenti movimenti dell’armatura all’altezza dei pettorali da cui si evinceva chiaramente che stava ancora respirando. Decise di soccorrerlo piuttosto che proseguire per il suo cammino. Si dedicò anzitutto al suo destriero: dopo aver afferrato una briglia lo tirò con forza a bordo strada e, avvicinatasi ad un albero lo legò ad un ramo robusto. L’animale dall’aspetto possente per sua fortuna rimase mansueto per tutto il tempo. Tornata sui suoi passi, iniziò ad esaminare il cavaliere chiedendosi quale potesse essere stato il motivo di quella improvvisa e rovinosa caduta: non mostrava ferite evidenti, forse si trattava di banale stanchezza dovuta ad un lungo viaggio che l’uomo aveva affrontato.
“E’ ferito, signore?” – chiese timidamente senza ricevere alcuna risposta.

Avvicinò allora le mani all’elmo del cavaliere e con pochi movimenti riuscì a tirarne fuori la testa:
si trattava di un uomo dalla carnagione chiara, biondo, dai capelli ricci lunghi. Sul volto diversi piccoli tagli ed escoriazioni, dovute forse allo sfregamento con l’elmo e i segni di una barba incolta da qualche giorno. Si inginocchiò per osservarlo meglio e mossa da tenerezza usò le mani per sollevare il capo di quell’uomo e metterselo in grembo. A quel punto l’uomo aprì gli occhi: erano di un verde intenso, così intenso da riuscire a far perdere la testa a qualsiasi donna che lo guardasse.
Sebbene sofferente, il suo sguardo era così ammaliante che anche Rosina ne era rimasta affascinata.

L’uomo, dopo aver lentamente messo a fuoco il volto della figura femminile che lo stava osservando, disse con un fil di voce: “Me llamo don Ildefonso de la Vega, me he fugado de una muerte segura en batalla, estoy herido a la pierna derecha”.

Sebbene quella lingua non le fosse molto familiare, Rosina aveva capito che si trattava di un cavaliere fuggito da una battaglia e che doveva essere ferito da qualche parte. L’uomo poi, probabilmente stremato dallo sforzo di aver pronunciato quelle poche parole, aveva chiuso gli occhi. Rosina per un istante temette il peggio, credendo che l’uomo le fosse spirato tra le mani. Fortunatamente era solo svenuto; continuava a respirare. Adagiò con estrema cura la testa dell’uomo su un grosso sasso piatto che si trovava accanto a lei, si alzò e corse verso casa in cerca di aiuto.

Appena entrata trovò il marito, Giuseppe, appena tornato dai campi che, vedendola arrivare trafelata le chiese: “Cos’è successo Rosina? Come mai non sei alla messa vespertina?”
“Presto!” – gli rispose con il fiatone – “Prendi mulo e carretto, c’è un uomo ferito non lontano da qui.
E’ un cavaliere da un idioma e dai vessilli strani. E’ caduto da cavallo mentre stava passando accanto a me.”

Giuseppe, sapendo bene dei rischi che un contadino correva se non avesse aiutato un uomo di rango, nonchè pensando al possibile atto di riconoscenza che un nobile in cerca di aiuto avrebbe potuto fare loro, non se lo fece ripetere due volte. Seguì Rosina fino al luogo in cui don Ildefonso giaceva e, con l’aiuto della moglie, riuscì a caricarlo sul carretto. Rosina a quel punto andò a prendere il cavallo che aveva lasciato legato all’albero e insieme al marito si incamminò verso casa.

“Lo teniamo in casa?” – chiese Rosina durante il ritorno
“Non sappiamo se è dei nostri” – disse Giuseppe con cognizione di causa – “Se fosse un fuggiasco e le guardie del re scoprono che lo stiamo ospitando ci uccideranno di sicuro. Finchè non scopriamo chi sia, dobbiamo tenerlo nel fienile. Possiamo sempre dire che eravamo in casa ignari della sua presenza.”

Appena arrivati, Rosina corse nel fienile che si trovava dietro la cassa per approntare un giaciglio di fortuna mentre il marito si preoccupò di rifocillare e legare il cavallo. Poi, con l’aiuto della moglie scaricarono l’uomo sul giaciglio e iniziarono poi a spogliarlo dell’armatura.

“Ha una scheggia conficcata nella gamba” – disse Giuseppe guardando tra le gambe dell’uomo – “Vado a cercare il dottore in paese.”

Così, mentre Rosina correva in casa per alla ricerca di acqua, panni e bende, il marito, inforcato il ciuchino, prese velocemente la via del villaggio alla ricerca del medico. Tornata nel fienile, Rosina si accorse che don Ildefonso aveva nuovamente aperto gli occhi. Pose la sua testa in grembo, come fatto prima in strada e gli avvicinò alla bocca una tazza di legno colma d’acqua. L’uomo bevve a piccoli sorsi, chiudendo di tanto in tanto gli occhi. Il fatto che riuscisse a deglutire era un buon segno. Rosina attese che l’uomo terminasse il contenuto della tazza prima di riadagiarlo sul giaciglio.

“Como te llamas?” – le chiese a quel punto.
“Rosina, signore, mi chiamo Rosina” – rispose la contadinella intuendo che le stesse chiedendo il nome.
“Rosina…Te agradezco lo que estàs haciendo por mi.” – disse l’uomo allungando una mano verso di lei.
Non aveva capitò granchè di quello che l’uomo le aveva appena detto, si sentì di rispondergli: “Non si sforzi, signore, ha bisogno di riposo”.

L’uomo sembrò aver capito: chiuse gli occhi respirando lentamente. Rosina sistemò allora il secchio con l’acqua accanto al giaciglio, preparò i panni e le bende che sarebbero sicuramente servite al dottore,
e cominciò a nascondere la bardatura del cavallo e i pezzi dell’armatura dell’uomo tra la paglia. Infine andò in strada ad attendere il ritorno del marito. Non ci volle molto che il marito si ripresentasse insieme al medico.
Il dottore, osservato bene il corpo dell’uomo, disse: “Dobbiamo liberarlo dalla calzamaglia e per curare la ferita.”
Prese poi un piccolo coltello e indicò a Giuseppe i movimenti da far fare alle gambe dell’uomo per evitare complicazioni e sfregamenti della ferita. Procedette a lacerare e tagliare la stoffa con il coltello mentre Rosina, preso uno dei panni, lo porse a don Ildefonso facendogli capire che avrebbe dovuto tenere in bocca e stringerlo per sopportare il dolore che presto gli avrebbe procurato il dottore nell’estrarre la scheggia dalla sua ferita.

A questo punto il dottore procedette ad estrarre la scheggia dalla ferita dell’uomo mentre Giuseppe cercava di tenergli ferme le gambe. Rosina non sapendo che fare afferrò le mani di don Ildefonso. L’operazione fu abbastanza dolorosa: don Ildefonso trattenne con fatica le urla di dolore stringendo
con forza i denti e le mani di Rosina mentre il medico scavava nella carne viva e provvedeva ad estrarre la scheggia. Rosina provò una strana eccitazione addosso nel sentirsi stringere le mani con forza da quell’uomo. La sua mente improvvisamente iniziò a vagare e immaginare il corpo nudo e possente di quell’uomo dagli occhi verdi che la spingeva con forza contro la parete e dopo averle tirato su la gonna iniziava a possederla con foga animalesca.

Scosse con forza la testa. Non era il momento adatto per fare quei pensieri impuri: don Ildefonso stava urlando di dolore, probabilmente avrebbe potuto perdere la vita. Il medico nel frattempo, estratta la scheggia, aveva bendato la ferita e rimesso gli attrezzi del mestiere nella sua borsa. Nel frattempo Don Ildefonso, stremato dal dolore, aveva perso nuovamente conoscenza.

“Avete fatto bene a nasconderlo nel fienile” – principiò il medico, mentre Giuseppe gli aveva mostrato i vessilli del cavaliere – “Sono vessilli spagnoli, se le guardie vi trovano con quest’uomo in casa rischiate la morte”.

Il medico consigliò loro di continuare a tenerlo nascosto, insieme al cavallo finchè non fosse in grado di riprendere la sua via, ricordando loro che il dovere morale dei buoni cristiani di accogliere e curare il prossimo fosse al di sopra di qualsiasi editto reale.
“Se riesce a superare la notte senza morire credo che ce la farà” – disse infine congedandosi.
I due, dopo aver ringraziato il medico tornarono in casa. Rosina scaldò la zuppa che aveva preparato prima di uscire per andare ad assistere alla messa vespertina. Nel frattempo il marito aveva imbandito la tavola con una forma di pane, un paio di scodelle, una brocca d’acqua e due bicchieri di legno.

“Lo dobbiamo tenere d’occhio” – disse preoccupato.
“Dove vuoi che fugga? Forse non riuscirà a superare la notte.” – gli aveva risposto Rosina.
Consumarono il loro pasto frugale continuando a parlare e a cercare di capire il da farsi. Dopo cena Giuseppe aiutò la moglie a portare una scodella di zuppa e del pane a don Ildefonso che nel frattempo era tornato vigile. Sfamarono l’uomo e infine decisero che Rosina rimanesse a vegliare su di lui. Giuseppe, che l’indomani doveva tornare nei campi, sarebbe invece rientrato in casa per dormire ed eventualmente metterli in allerta qualora le guardie avessero bussato alla loro porta. Rosina provò una sorta di imbarazzo nel rimanere sola con quell’uomo: quel fisico possente, il viso attraente e i suoi occhi così belli spinsero nuovamente la contadinella a fare pensieri peccaminosi. Questa volta si immaginò piegata sul tavolo mentre don Ildefonso, dopo averle tirato su la gonna, iniziava a lapparle avidamente il sesso preparandola alla successiva monta.

Cercò di pensare ad altro, di interagire con don Ildefonso e spiegargli cosa aveva detto il dottore e come si erano organizzati per la notte. Sebbene la differenza linguistica fosse un ostacolo tra i due, il cavaliere aveva un’intuito molto spiccato ed aveva realizzato che la contadinella gli sarebbe stata accanto per tutta la notte. In un moto di riconoscenza prese le mani di Rosina nelle sue e, con un gesto lento, le portò alla bocca per baciarle. La povera Rosina rimase letteralmente sconvolta da quel gesto: venne scossa da piacevoli contrazioni al basso ventre mentre sentiva il suo sesso bagnarsi abbondantemente.

Ancora una volta tornò a fare pensieri peccaminosi, immaginando quelle possenti mani stringere vigorosamente il suo petto. Il cavaliere, vedendo arrossire Rosina, intuì che la contadinella non era indifferente al suo fascino. Avrebbe potuto approfittare di lei, erano mesi che non si univa carnalmente ad una donna. Pensò poi alle poche forze che aveva in corpo, alla benda che gli bloccava la gamba e
alla gentilezza di Rosina che si era adoperata per salvargli la vita. Decise infine di tenere a freno i propri bollenti e lussuriosi spiriti. Tornò a sdraiarsi completamente sul giaciglio mentre la dolce Rosina, come aveva fatto più volte durante quella giornata, fece in modo di inginocchiarsiaccanto al cavaliere e di accogliere nel suo grembo la testa di lui. Iniziò a carezzarlo, facendo scorrere le sue mani segnate dal tempo e dalla durezza del lavoro nei campi, sulla pelle e tra i capelli dell’uomo. Don Ildefonso in breve tempo si addormentò.

Rosina ancora una volta cercò di tenere lontani i pensieri impuri. Non riuscì a fare a meno, però, di constatare di non aver mai riservato prima di quella sera un trattamento così dolce ai capelli e alla testa di alcun uomo, nemmeno a suo marito. Le veniva così facile coccolare quell’uomo per il quale provava una strana attrazione morbosa. Era consapevole che con lui non ci sarebbe potuto essere nient’altro che sesso: la diversa posizione sociale dei due, nobile lui, contadina lei, era un’ostacolo insormontabile. Un colpo di testa con don Ildefonso avrebbe potuto distruggere il suo matrimonio: ammesso che don Ildefonso si invaghisse di lei, avrebbe potuto al massimo aspirare a diventare una semplice concubina, un giocattolo sessuale di cui probabilmente il cavaliere si sarebbe presto stancato. Si convinse che era meglio accontentarsi della vita semplice accanto al suo Giuseppe.

Don Ildefonso nel frattempo aveva iniziato ad agitarsi emettendo piccoli lamenti di sofferenza. Rosina, passando le mani sulla fronte del cavaliere, si rese conto che scottava terribilmente.Si diede da fare con il secchio d’acqua e con i panni che aveva vicino: immerse i panni nell’acqua fresca e poi, con estrema delicatezza, li poggiò sulla fronte del cavaliere. Tornò a ripetere quell’operazione più volte durante la notte, finchè la fronte del cavaliere tornò ad essere tiepida. Anche il sonno di don Ildefonso con le luci dell’alba si fece meno agitato.

Esausta per la nottata appena passata, Rosina poggiò un attimo la testa addormentandosi quasi immediatamente.

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