Skip to main content
Racconti Erotici Etero

SFACCIMM ‘O CAZZ

By 18 Febbraio 2008Dicembre 16th, 2019No Comments

Così come mi ero proposto partendo al mattino di buon’ora, senza perdermi in noiosi piagnistei e domande oziose, giungemmo nel basso di nonna Teresì che la mezzanotte era già trascorsa da un pezzo.
Le scarpe le avevamo dovute indossare, con nostro estremo rammarico, solo allorché ci eravamo trovati di fronte le strade acciottolate della periferia, quelle per le quali Assuntì aveva scorazzato giocosamente nei suoi primi dieci anni.
Poich&egrave avevo già percepito da Giuvannò un cospicuo acconto sull’avere concordato, avevamo lasciato nell’appartamento abbandonato in fretta e furia sia i materassi, che il misero pentolame portato all’andata, onde camminare più spediti.
Con grande sollievo di nonna e della mia fidanzata.
Il giorno prima m’ero ” accattato ” tre, quattro candele e ” ‘i zurfanelle ” necessari per una mesata intera mentre, per quanto riguardava il cibo, avevo fatto sedere per la prima volta in vita loro, lungo il tragitto, ad un tavolo di trattoria, sia la vecchia che la giovinetta.
S’erano tanto rimpinzate da far fatica a rialzarsi dalla sedia !
Nonna l’aveva ripetuto a tutti quanti, avventori ed ostessa, più volte, che così non ce l’avrebbe fatta, ma quelli erano tanto abituati a strafogarsi, da menar sforzo a crederle.
Io invece, l’unico a ricordarsi del dottore capoccione e delle pasticche somiglianti alle bombette, continuai a tenerla a bada, e fui il primo, quand’ella cominciò a lamentarsi e ad accusare mal di pancia, attraversavamo il centro, a scaraventarla dentro il portone di un palazzo, rinchiudendoglielo alle spalle con il chiavistello e facendo la guardia alle scale.
Passato l’ ” mbarazz ” per l’entrata fulminea, che durò circa mezz’ora, Teresì, che dalla trattoria s’era portata dietro un giornale, mi pregò di voltarmi.
Una volta riassettata, nonna lasciò quell’androne di marmo quasi così come l’aveva trovato: solo qualche quadrato di pagine in più, nell’angolo; che uno appena appena distratto, entratovi fra il lume e lo scuro, se ne sarebbe accorto a stento.
Era sempre più estasiata della sua città, ” Napule “, dei luoghi nuovi che poteva vedere durante quella nostra camminata, che nemmeno immaginava ci fossero: le strade larghe larghe, i palazzi antichi, le chiese, le piazze, degli uomini e delle donne eleganti, e non faceva altro che esclamare, rivolta a me o ad Assuntì, ” quante me sò persa………ma ce voglie turnà……… !”.
Davanti ad un forno, dette ragione alla ragazza, come se si fosse accorta della sua presenza solo allora, ” e cierte che ce vuò ‘o pane !”.
Comprammo anche un cartoccetto di olive, quelle grosse come delle noci, tanto per ricordarci di quella passeggiata per il centro. Certo, io, che a farci la spesa non ci sarei tornato mai più.
” ‘O vascie ” come lo chiamavamo noi, che avevamo serrato ben bene andandocene, durante la nostra assenza era stato visitato più volte; me ne accorsi per primo perché l’uscio si aprì alla prima spinta, poi se ne avvide pure Teresì, accendendo la candela.
Non solo mancavano tavolo, madia e cassapanca, ma sul pavimento c’erano giornali dappertutto. Al che, giustamente, onde evitare di pestare quelle carte, sia nonna che noi cominciammo a saltellare qua e là come cavallette. Finché non trovammo un angolo libero ed una ramazza di saggina.
C’era venuta fame, nel frattempo.
Mentre io ed Assuntì applicavamo i fogli del giornale di Teresì ai vetri, tripli per non far vedere alcuna luce all’esterno, nonna ripuliva quell’angolo, poi sedendovisi.
Mangiammo così, alla buona, appoggiando le fette di pane che di mano in mano tagliavo, ed il cartoccetto di olive, sul grembo dell’anziana, noi piegati sulle ginocchia attorno a lei; e quella, vi giuro, fu una gran cena.
Poi nonna si distese, mettendosi la carta paglia dietro la crocchia, appoggiando il fianco alla parete, sopra di lei si appoggiò Assuntì, ed io mi allungai sulla schiena di quest’ultima.
Non dormimmo per nulla, Teresì nemmeno iniziò a russare, ma perlomeno ci riposammo i piedi.
All’alba cominciai a scherzare con le chiappotte di Assuntì, ma solo a scherzarci, che sapevo bene quanto ci tenesse alla sua riservatezza. Ella sorrise lasciandosi mordicchiare nel collo e nel lobo dell’orecchio, mi lasciò giocare un altro pò fra quelle montagnole poich&egrave mi voleva bene, poi prestò la massima attenzione a quanto le stavo sussurrando.
” Ce ne duvimm ij………..ie e te…………rummane sole Teresì………susete…………! “.
Era la cosa migliore da fare: nessuno si sarebbe arrischiato a far del male a nonna, se l’avesse vista sola; troppe radici, troppe amicizie aveva in quell’ambiente.
Se conoscevo bene Vincenzine ‘o muoccole, se era ancora quel che mi ricordavo, egli era rimasto seduto sulla riva del fiume per tutto quel tempo ad aspettarmi, pigro com’era.
Non si sarebbe fatto scrupolo di nulla, nemmeno di una ragazzetta come Assuntì, pur di eliminarmi.
Per cui liberammo Teresì di tutto il nostro peso e, dopo che le due donne si furono baciate, noi due ce ne uscimmo quatti quatti portandoci dietro solamente le nostre scarpe.
Dove andare ancora non lo sapevo, ma non mi sarei certo fatto trovare impreparato.
Per come era presto, per strada non incontrammo anima viva. Camminammo e camminammo, ero ancora abbastanza confuso; mi venne in mente di rifugiarmi nel caveau dell’ebrea, ma lo giudicai troppo pericoloso, non tanto per me, ma per la presenza di Assuntì. Mi sovvenne di rifugiarmi dal cavallaro, che era stato a balia da nonna, ma scartai anche questa seconda soluzione. Effettivamente, mi accorgevo, non avevo alcuna idea di dove andarmi a nascondere.
Intanto, ci stavamo allontanando di molto dal quartiere.
Ad un certo momento ” ‘ a guagliona mia “, che fino a quel punto aveva spiccicato si e no cinque parole in croce, se ne uscì con quello che sarebbe divenuto nel tempo un motivo ricorrente.
” Tenghe famm………..nun ce sta nu piezze ‘e pane………?”
Il che mi obbligò a cercarle per prima cosa un forno.
Fummo fortunati. Ne trovai uno nei paraggi, inseguendone il profumo.
L’operaio che ci aprì la porta fu estremamente gentile; vedendo Assuntì che si era ostinata a camminare scalza, le offrì gratuitamente la pagnotta.
Che soddisfazione vederle sbocconcellare quel pane, non lasciar cadere a terra nemmeno una mollica !
All’ultimo me ne spezzò un tocco, il cosidetto culo; si privò della parte più saporita e croccante affinché anch’io, che fino ad allora ero stato a guardarla meravigliato di tutto quell’appetito in un briciolo in più di un metro e mezzo di altezza, potessi mettere finalmente in moto le mandibole, oltre che la saliva.
Ma lei era la mia Assuntì, e non l’avrei cambiata per nulla al mondo.
Anzi, fu proprio a causa di quella sua repentina richiesta, che decisi dove andare.
Per la verità ci si era messo di mezzo anche l’operaio, che aveva dato un calcio in culo al gatto buttandolo fuori dalla porta, e ci si era messo pure il gatto, perch&egrave questo era venuto ad accucciarsi fra le mie ginocchia ed aspettava pazientemente che una crosticina di quella calda delizia gli cadesse vicino alle zampe.
Quando si dice le sinapsi ! Gatti e………
Gatti, biscie……….basso diroccato: cio&egrave dove m’ero nascosto prima di finire nel sotterraneo di Maddalena.
Fra l’altro m’aveva pure portato fortuna, facendomi sorprendere agevolmente il povero Isaac, il giudeo.
Quando Assuntì seppe che c’era da tornare indietro, per la verità non la prese proprio bene.
La convinsi solamente dicendole che lì, in quel basso, finalmente saremmo stati soli. Fra l’altro, non avrebbe nemmeno avuto l’onere di rimetterlo a posto.
Bastava che se ne rimanesse quieta tutto il giorno, ad aspettare il ritorno del suo Loré; neanche a preparare qualcosa da mettere sotto i denti doveva pensare, che l’avrei rimediato tutti i giorni io.
Ci rimuginò su per un bel pò, poi mi chiese, ” ma é toie stu vascie………proprie toie………?”
Perché lei, oltre il pane, ci avrebbe voluto anche la casa.
L’unico rischio era che se ne uscisse a prendere un pò d’aria fra ” ‘i sorice “, giovane com’era o, peggio, che questi le si infilassero in casa facendomela fuggire a gambe levate.
A questo punto l’avrete pur capito, quanto ne ero innmorato !
La dovetti sbadarellare un poco, quel giorno, prima di portarla a destinazione; a mezzogiorno sedemmo in una caffetteria a fare colazione: lei tre sfogliatelle e un latte bollente, io una fetta di pastiera e un caffé. Sul pomeriggio tardi, prima che l’alimentari chiudesse, la solita pagnotta, questa volta rotonda, e sei sette acciughe sotto sale, che mi riproponevo di lavare alla prima fontanella.
Dovevo arrivare a quel basso quando fosse stato buio, cosicché nessuno potesse vederci e, soprattutto, senza che Assuntì potesse averne, di primo acchito, una brutta impressione.
Purtroppo, quando ci entrammo, lo trovammo occupato.
Non avevo fatto i conti con la sciagurata situazione familiare del mio più grande amico, di Franc&egrave. Il quale ci si era trasferito da un mese con la madre, e con i suoi sette fratelli.
Il padre era in galera, ma c’erano gli zii a dar loro la caccia. Perché, ormai, quella storia si era risaputa.
Quel purtroppo divenne più relativo quando, una volta che ci fummo riconosciuti, Assuntì ci sentì ridere felici, invece che azzuffarci per i posti.
Ella se ne capacitò ancor più allorché le raccontai della nostra vecchia amicizia.
Anche la madre non mi sembrava più tanto ostile, tanto scorbutica quale una volta.
Ormai aveva sgravidato, ed il figlio si occupava di lei, non come il marito. Era addirittura tornata ad averci il latte.
Restringendoci, in sostanza si poteva trovare un accomodamento, un angolo anche per la nuova coppia.
Quella notte, però, Assuntì, che in genere si lasciava andare ad urlare, non gridò per nulla. Sbuffò soltanto.
Al mattino, mi ritrovai più preoccupato ancora del giorno innanzi. Comunque, tranquillo che a far rimanere al chiuso la mia femmina ci avrebbe pensato la madre di Franc&egrave, mi arrischiai ad andarmene in giro fino a tarda sera.
Non volevo coinvolgimenti con Franc&egrave, il quale non era stato per nulla seguito, né fino ad allora aveva avuto fastidi, per cui gli detti un semplice appuntamento fuori del rione, esclusivamente per tornarcene in compagnia ed avere il tempo per parlare con una più ampia libertà che insieme alle donne.
Ciò che sentii da lui mi fece accaponare la pelle.
Detto in modo ristretto, secondo Franc&egrave l’idea di riempire il porto di femminielli era partita dal nostro ex compare, il quale, con gli introiti che ora si ritrovava, aveva tutti i mezzi per realizzarla.
Sempre a stare sentire lui, Peppì e gli amici suoi erano delle semplici pedine del progetto, molto più grande di loro.
Egli mi fornì inoltre ulteriori dettagli: si diceva che a Vincenzine ora facesse da femmina uno di questi femminielli, certo ” Boccadore “, famoso in tutta la città, e che la madre, in un accesso di superbia, l’avesse semiabbandonata a se stessa.
Naturalmente, tutto quanto Franc&egrave mi aveva appena detto andava, anche a parer suo, verificato, ma aveva aggiunto che dove si vede il fumo a volte sotto vi é l’arrosto.
Così, una volta nel basso gli proposi un patto, proprio perch&egrave mi fidavo.
Io avrei dovuto verificare, e lui avrebbe dovuto drizzare ulteriormente le orecchie e il naso, perché io, questo arrosto, almeno una volta me lo volevo assaggiare.
Quella sera, giusto per cambiare, mangiammo pane e fichi, che era la loro piena stagione.
La madre di Franc&egrave, mentre se ne strippava distribuendoli pure a piene mani dal canestro, nel sentirmi menzionare l’arrosto, aveva avuto una specie di lampo negli occhi.
Mi era addirittura sembrato, ma non lo potrei giurare dato il buio che s’era fatto, che al mio parlare assentisse, come a darmi ragione e rincuorare il figlio.
Assuntì, la poverina, mi stava dando delle soddisfazioni tremende. Finita la cena m’aveva agguantato per il braccio senza sapere di storie, e trascinato via ed ora, burrosa come un panetto, ugualmente viscida, ma compatta nella sua giovanile pinguedine, m’abbrancava portandomi sopra di sé, vogliosa di giocare come un cucciolo.
Già si spargeva il suo afrore, dovuto al fatto che s’era spalancata al pari di una vongola, già la bimba mi afferrava per indirizzarmi dentro di lei, quando ebbi il sentore che qualcosa non andasse.
Un sibilo, si un sibilo, mi aveva fatto drizzare sui seni di Assuntì come se già la serpe m’avesse morso.
” Franc&egrave………..st’ammuìna…………!”
” Che ce sta……….?”
” St’ammuìna………..!?”
” Duorme duorme…………..mammà che nun pò sciatà………”
Perdio, che asma aveva la povera donna !
” Ma pecch&egrave a fai fumà comm na’ cimminiera allò………?”
” Eh………..ce piace………..!”
Assuntì mi stava tirando giù; voleva che mi concentrassi.
Più tardi sentimmo la madre di Franc&egrave emettere un urlo.
” Se ne sta male………….?” Chiese gentilmente Assuntì, che non c’era riuscita.
” Smette e scuccia………!”, le avevo detto.
Glielo ripetei, poiché l’aveva richiesto, stavolta indispettito, ” smette……..sta a fotte……….!”
” A fotte……….cco’ Francé……….cco’ figlie soie……..?”
Non ci poteva credere, Assuntì.
Ci era rimasta tanto male che quasi non avrebbe voluto continuare a scopare.
Invece, con quel buon esempio, si liberò anche lei del tutto. Difatti, non quella sera, ma quella successiva, la mia ranocchietta ricominciò a strillare.
Nonna Teresì era rimasta da sola per due giorni; chissà se aveva mangiato. Era tanto il rovello, che mi svegliai all’alba, nuovamente.
Avevo fatto tutti i vicoli di corsa, arrivando da lei ansante come un cane.
La trovai che dormiva distesa sulla cassapanca. C’erano le due sedie ed il tavolo. Erano ricomparsi come per incanto, ma non la madia.
Quella se l’era presa un altro, e se la sarebbe tenuta ben stretta.
Fu contenta che avessi pensato a lei.
Mi rassicurò: comare Concettì aveva provveduto a tutto, per quei due giorni.
Me la sbaciucchiai facendola arrossire, finch&egrave non mi spinse via.
” Quante sì fesse ” ripeteva, ma mi voleva bene.
Non poteva chiedermi dove fossi finito, ma domandò di Assuntì. Voleva bene pure a lei.
Chiese se fosse dimagrita, ma era impossibile in due giorni.
” Quant’é bella sta guagliona !” per lei voleva significare che dovevo sempre mantenerla in carne, non farle mancare ciò di cui aveva bisogno.
” Me raccumanne ‘o pane………..!”.
Prima di andarmene, le lasciai sul tavolo trenta lire, promettendole che sarei tornato di lì a qualche giorno.
Dovevo correre da un materassaio.
Assuntì, pur se atticciata come una botticella, non avrebbe potuto resistere ancora per molto su quelle schegge che ogni tanto le rovinavano sotto la schiena, non avrebbe potuto durare sotto i miei continui assalti, e nonna non poteva russare come una volta, su quella cassa.
Invece, prima che il materassaio potesse consegnarmi i tre materassi che gli avevo commissionato, il mondo ebbe a crollarmi addosso.
Non so come fosse successo, e perché, ma quel pomeriggio che tornai prima del previsto, nel basso ci stavano solo quattro dei sette fratelli di Franc&egrave, quelli più piccoli, e sua madre non c’era.
Non c’era neppure Assuntì.
La donna e i tre bimbi li scoprii poco dopo, sentendo gli urletti di questi.
Erano saliti, o cercavano di salire, sul tetto di una casupola accanto, sfregiata più della nostra. La madre, instupidita più di loro, sorrideva dal di sotto.
Quando si vide scoperta, mi venne incontro terrorizzata, ma ormai la frittata era fatta. Chiunque avrebbe potuto vederli, con grave rischio e pericolo per le nostre vite.
Comprendendo ciò che aveva appena compiuto, chiuse i pugni e me li appoggiò sul petto, poi piegò le braccia ed iniziò a piangere a dirotto, appoggiandosi a me, chiedendo perdono a modo suo, cio&egrave imprecando la mala sorte.
Ancor più, però, mi faceva tremare i polsi l’assenza della mia Assuntì, anche perch&egrave, quando glielo chiesi, la donna pianse molto più forte.
Non voglio farla lunga. Assuntì tornò una mezz’oretta dopo, risalendo il pendio pieno di sterpaglie che cominciava dalla straducola giù in fondo, della lunghezza di circa mezzo chilometro.
Quando mi vide ad attenderla, potevo vederla chiaramente in viso ormai, rimase come sbigottita. Era tanta la sua sorpresa, che si fermò sul posto per un minuto buono.
Mi stavo ancora chiedendo dove fosse andata, quando alle sue spalle vidi arrancare Franc&egrave.
Ciò che mi gridò prima di essere arrivata in cima aveva ancor più dell’incredibile.
Era stata con lui perch&egrave era più giovane di me; io ne avevo quasi venti, lui diciassette, lei appena quindici anni.
Ci parlava di più, fu la sua giustificazione, eppoi con quel fatto di qualche notte prima le faceva tenerezza.
Francé, poi, raggiunse l’apoteosi. Ridendo come un verme cretino, mi disse che ero più adatto a sua madre, che mammà non faceva altro che discorrere di me, dopo l’arrosto. Concluse che si poteva fare a cambio.
Me lo stava dicendo davanti a lei e, questa, nemmeno arrossiva.
No, non ci potevo stare. Io, con una che non ci aveva le tette, non ci potevo stare !
Passi una chiavatella, ma dirmi che ero più adatto ad una più sui quaranta che sui trenta, poi, questa era buona !
Allora me ne sarei potuto rimanere bellamente con mammà, che asmatica non c’era.
Ma Francé, se l’era scordato che potevo arrabbiarmi ?
Le lasciai ambedue, e lasciai lui, decidendo, sull’istante, di continuare da solo. E al materassaio dissi che ci avevo ripensato, che ne bastavano di meno.
Tanto, quell’ Assuntì ci avrebbe messo poco a diventare come una botte, con tutto il pane che si divorava. Anche se……..
Anche se quattro o cinque calci in culo li cacciai ad entrambi.

Me ne ero andato sperando di non rivederli mai più.
Ma ora dove avrei potuto rifugiarmi per evitare di essere sorpreso, magari nel sonno ? Mi sentivo nudo.
Il materassaio, come da mio ordine, aveva recapitato due materassi nel basso di Teresì ed ella, la notte che portai altre trenta lire, raccontò che il giorno prima due giovani s’erano soffermati ad asciugarsi, sudati, sulla porta del basso.
Ma lei era seduta lì fuori, sullo scalino; li aveva apostrofati in malo modo, ed essi, sghignazzando, solo dopo aver dato un’ occhiata all’interno, avevano ripreso a camminare.
Conoscevano Fernà, la figlia di Concé, perché questa li aveva salutati con gli occhi; uno sguardo che a nonna non era sfuggito.
” Che ce sta Loré””e Assuntì”’.?”
” Ce sta che…….ma tuorne”’.tuorne”’vuie cumme stete”’?”
” Ah”.ie”’!”
Fece per alzarsi, ma poi mi strinse forte le dita rimanendo distesa sul materasso gonfio e nuovo, ” nun me so piaciute st’ uocchie”e manche chiste……….’o materazz……….me chiace……….!”
Non lo chiese più, di Assuntì.
Me ne andai a dormire di fianco al campanile della chiesa sconsacrata, ormai ridotto ad un rudere, ringraziando il cielo che la stagione era ancora calda e non ringraziandolo perché da lì la casa della giudea, quella dove Vincenzine svolgeva la funzione di factotum, a causa di una sciagurata non avrei potuto più vederla.
Ogni tanto, di notte, mi svegliavo di soprassalto, l’impressione che qualcuno mi stesse osservando. Ma riuscivo a riposare ugualmente; bastavano poche ore di sonno profondo, per rimettermi in sesto.
Ogni giorno di quei due mesi e mezzo lo avevo trascorso dividendomi fra il sorvegliare la casa della zoccola, madre del mio ex compare, e quella dove egli adesso abitava, ma dalla postazione che m’ero scelto per quest’ ultima, l’unica non a rischio, non potevo vedere quanto avveniva nel cortile, coperto dalle mura, luogo nevralgico.
Dovevo presumere tutto dai movimenti oltre il cancello, purtroppo.
Rispetto a quando ci abitavo da quelle parti, ora non c’erano più code davanti al basso della zoccola; né mai ci avevo visto tornare Vincenzine. Arguii quindi che qualcosa di vero doveva esserci, in ciò che m’aveva raccontato Francé.
Se volevo comprare qualcosa da mettere in pancia me ne andavo fuori Forcella, nelle prime ore del mattino, cio&egrave nelle ore rivelatesi più oziose per l’osservazione, però più fruttuose per la scelta negli alimentari.
Così, snocciolando un pò di frutta secca, anche quel giorno potei rivedere finalmente Marì, che ormai usciva raramente e i bottegai se li faceva venire a casa.
Era rimasta bella, come la ricordavo, bianca e abbondante; peccato fosse una stronza.
Mentre me la stavo rimirando con in testa sempre più pressante l’idea di entrarci in casa e violentarla, di fare una pazzia, avvertii uno rumore dietro di me.
Era stato tanto tenue quella specie di scalpiccio che, se non avessi avuto l’orecchio ed i sensi altamente allenati dall’essere costretto da tempo a quella vita, l’avrei potuto scambiare per il guizzo di una lucertola su un sasso.
Invece era Franc&egrave, che se ne stava alle mie spalle, ad appena dieci metri.
Franc&egrave, che mi aveva ritrovato, e che mi mostrava il suo viso più mesto.
Gli avevo fatto cenno di non muoversi, tirando fuori dalla tasca il coltello senza aprirlo, e quel gesto bastò a tenerlo a distanza finché volli io: un quarto d’ora circa.
Poi mi ci ero avvicinato camminando ginocchioni, defilato dal muretto a secco, sempre tenendo pronta l’arma.
” Che vuoi”’..?”
” Nun ce la faccie cchiù”’.” aveva risposto Franc&egrave, ugualmente in un soffio.
In breve, affannosamente, raccontò che Assuntì di una sola pagnotta giornaliera non s’accontentava più, che mammà gli chiedeva giorno e notte di questo ” arruoste ” che avevo avuto la pessima idea di ventilarle sotto il naso.
” Ma quale arruoste”’?” Avevo chiesto impegnato in tutt’altri pensieri.
” Chille che””l’arruoste………..”.
” Ma ie l’aggie ritt ppe’ famme capì”’capute”’.sole ppe’ parlà”'”.
” Issa ci ha credute però ”’..tutte quante ci avimm credute”’..”.
” Che me ne fotte a mme”””.
” Falle ppe’ mme””nu belle cuniglie”’.”.
” Ppe’ te””!?”
E gli avevo fatto il cenno di strozzarlo, facendogli fare un balzo indietro.
” Nun ce stanne ‘i sorice”’.magnatevill”’.brutte fetent”’.”.
” Eh”’.’i sorice”'”
Si era fatto fuori pure quelli.
Assuntì ci aveva ragione: vedendolo, sentendolo parlare, non potevi esimerti dal provare tenerezza.
Anche oggi, mi stava rovinando la giornata.
Ah la mia bella Marì, la mia zoccolona infame, la fantastica visione di piombarle in casa e violentarla.
Via, in un puff”..buttata alle ortiche !
” Vattenn”’..ie sorde ppe’ vuie nun li cacce”’e si me fai girà”..?!”
” Nun ce sta da caccià li sorde”..”
Quant’era pronto !
” Nun ve voglie cchiù ved&egrave”’.vattenn”’.”
Fottermi la fidanzata sotto gli occhi !
Si trattava, come disse lui, di una pinzillacchera: di far uscir di casa per qualche minuto la vedova che abitava in fondo alla scarpata, quasi al limitare del viottolo che portava sul retro della casa della giudea; aggiunsi io, dove se n’era andato la prima volta a tradirmi con Assuntì.
Che all’interno ci fosse una conigliera era sicuro, perché la stessa donna raccoglieva, ogni giorno, dell’ erba medica.
” No”’ie nun ce veng”'”. Mica ero fesso. Con la mano libera ci aggiunsi una scoppola dietro la testa.
” Allò ‘a facce trase ie e tu ce piglie ‘o cuniglie”'”.
Questa era già meglio.
Sarei sceso per il pendio tenendomi sempre in linea con la casa, strisciando fra gli sterpi. Ma c’era un’altra difficoltà, ” e ‘o fumm”’..nun ‘o duvimm còcere”’?”
Saremmo tornati a cuocerlo dentro la chiesa, prese la palla al balzo Francé, che alta com’era e senza camino”’.!
Insomma, quel progetto era di una sorprendente lucidità, curato, e poi io non ci resistevo più a non fottere, a spellarmi con la mano.
Quella sera Franc&egrave entrò nel tugurio annunciando che non aveva trovato nulla, che se ne sarebbero dovuti rimanere a digiuno. Voleva farci uno scherzo, a modo suo.
Strilli, imprecazioni, insulti anche da parte dei bambini; sputi da parte della madre.
Poi egli alzò le braccia e gridò alt.
A quel punto entrai io, che m’ero accattato pure due pagnotte, dalla casa.
Assuntì non la salutai proprio, che non se lo meritava, ma fui galante con la vecchia, forse oltre il normale.
La quale, mentre spolpava e risucchiava l’osso della coscia, mi guardava osannante come fossi un dio, come fossi l’unico maschio sulla terra.
Suo figlio le avrebbe potuto raccontare qualunque cosa, ma l’arrosto, quando ero entrato, era innegabile che in mano ce l’avessi io.
” Ah Lor&egrave………..comm si quarcune me l’aviss ritt………..!”
Si, vabb&egrave, la mano ce l’aveva unta ed appiccicosa, ma anch’io quella sera. E quel sibilo mica lo emetteva perch&egrave fumasse troppo; soltanto quando si infilibiva.
Franc&egrave poggiò la schiena, non lo volevo frammezzo, contro la parete e, attaccata a lui, standogli di fronte, si distese Assuntì.
Poi venivamo la madre di quel caino ed io. Sparsi qua e là tranne il lattante, che lo spazio era già finito, gli altri sei figli.
Assuntì non se ne lamentò di certo, né d’altra parte se ne poteva accorgere Franc&egrave con tutto quello svolazzio di mani, quando al posto di quelle di sua madre, presi a pompare le zinne della guagliona incinta.
Per come ormai s’era messa, tutti, tranne il piccolino, volevano, o pensavano, che gravida ce l’avesse fatta lui. Ed io, cui quel basso serviva come il pane, mi sarei guardato bene dal metterci becco.
Sarebbero forse venuti giorni migliori. Per il momento, con quella asmatica ciminiera davanti, mi sentivo tale e quale una locomotiva posta in coda al treno.
Mentre continuavo a smanazzare in quei fianchi intorpiditi, nelle tette inconsistenti ed ammosciate della madre di Franc&egrave, che non mi appartenevano, mentre continuavo a rubare a suo figlio i bitorzoluti capezzoli di Assuntì, non potevo fare altro che rimpiangere la rosea carne della zoccola Marì, la soda, debordante, lattea cellulite di Rosa.
Non potevo non ricordarmi di quel nostro addio.
Mammà aveva allungato le ciabatte azzurrine, lanciando un breve sospiro oltre di esse; non s’era sventagliata, pure con il gran caldo.
Glielo avevo trovato senza precipitarmi, lo stretto lembo di cotone, rabbrividendo sulle cosce avvallate che lentamente divaricavano, sul dorso della mano che ella mi aveva frapposto, sul tepore del collo sfuggente.
Mentre cercavo di succhiarle le labbra Rosa s’era intrufolata a carezzarmi sotto la maglietta.
Stava lentamente scendendo a slacciarmi quando, improvvisamente, era stata costretta ad occuparsi soltanto delle mie dita ristrette: un cuneo impazzito in quella sua voragine affollata sopra dal nero cespuglio ricciuto, ritorta, vischiosa, senza fondo.
Allora Marì s’era tuffata nella mia bocca, già perdutasi sulle dune di venuzze azzurrine, in quei datteri polposi, dolciastri. Ansimante come le stesse mancando il fiato, come se soltanto la lingua che le stava perforando la gola potesse arrecarle un temporaneo sollievo.
Poi, venendone fuori, con un lamento, Rosa aveva affondato la testa nei miei pantaloni, svellendomi da lei. M’aveva costretto ad inclinarmi all’indietro, sui gomiti e, mostrandomi le spalle massicce, m’aveva obbligato a mia volta a perdermi il senno.
Le sue parole, fra uno sguardo colante ed i miei brividi: ” ce pienza Rò a te………ie a farte fràgnere…….!”
Mammà, già affaticata, s’era poi ribaltata sul crine, agilmente e nello stesso tempo pesante, oscenamente dispaiata, allungando verso la mia la bocca liquida, spalancandosi tale uno squarcio fra i nembi.
Fermatici tre volte, senza staccarci mai. Riprendendo a leccarci la pelle là dove sensibile, a sprofondare le lingue quando i movimenti avevano cominciato a ridivenire frenetici, ad aggrapparci nuovamente come tenaglie grondanti.
Lei sempre più gonfiandosi ed impallidendo sotto i colpi. risuonandone recettrice come una giovenca; io schiumante dentro e fuori il suo recinto come se mai avessi sentito la sella.
L’ultima era stata quando, udendo lo strascicare degli zoccoli di Gaetà, la voce di nonna sulla prima rampa, Rosa, largendomi un’ ulteriore manciata di secondi per riempirla, mi aveva spinto via per scattare coi reni sul materasso e, in completo stato confusionale, s’era ravviata alla bell’ e meglio i capelli, asciugata la fronte e la pancia, le ascelle, con quello straccio di vestaglia.
Aveva quindi accarezzato il membro stravolto, grasso dalla lunga corsa concessaci, facendo segno precipitosamente di rivestirmi.
Proferendo senza più quella rabbia, ormai secca di pianti, ” puro tu me vuoi lassà……..une ricchiune………l’altre spia”’!”.
Una spia: era quello il mio segno, quello il mio avvenire ?
Nonna Teresì mi annunciò due novità, quando tornai da lei a portarle altri soldi.
La prima, che quei due ragazzotti s’erano fatti rivedere ma lei li aveva cacciati via di nuovo, la seconda era che pure il ” trio ” era tornato, ma ella non sapeva assolutamente dirmi perché Peppì, mamma e Concé le avessero fatto visita.
Infatti non c’era più nulla da prendere, in quel basso.
L’unica ragione avrebbe potuto essere quella che Peppì l’avesse fatto per sfotterla, avendole chiesto dove mai fosse finito quel bel bastone della sua vecchiaia, ma a nonna non pareva verosimile.
Doveva esserci sotto dell’altro e, quindi, mi pregò di starmene accorto.
Non poteva saperlo, lei, che avevo visto Peppì varcare, a metà mattinata, il cancello del giudeo.
Un’ altra cosa che nonna aggiunse, però la volta successiva, fu che Concettì e mammà, più la seconda che la prima, le sembravano incinta. Ma che solo la prima gliel’aveva confessato e, per Teresì, questa forse era la ragione di quella visita: l’affetto che Concé continuava a nutrire per lei.
Intanto, una volta consolidatosi lo stato di fatto nella fatiscente costruzione in cui vivevo, una volta messo in chiaro che lì ero soltanto ospite, che non avevo alcun obbligo nei confronti di chicchessia, i rapporti erano tornati a distendersi. Sia fra me e l’amico di una volta, che con Assuntì.
A mangiare il mio dovevo, naturalmente, pensarci da solo, ma la madre di Franc&egrave, che da una parte fungeva da feroce cane da guardia, quest’assenza non me lo faceva pesare, mostrando di gradire ugualmente ciò che le offrivo, perlomeno col buio.
Assuntì e Francé erano poi talmente presi l’uno dell’altro da darmi la netta sensazione che non esistessero.
Erano trascorsi tre mesi abbondanti ormai, da quando ero entrato nella catapecchia.
Forse fu quel senso di abbandono, quel senso di accerchiamento e d’impotenza che mi stava prendendo ad indurmi a compiere un atto che, altrimenti, avrei considerato folle o, forse, fu l’inconscia correlazione della mia con la disperazione che da lontano leggevo nel viso e negli occhi di Marì, quella zoccola infame.
Sta il fatto che, una notte, bussai alla sua porta.

Guappe ‘e cartòne

Marì, dopo qualche istante di titubanza, m’aveva fatto entrare nonostante ignorasse l’identità di chi aveva bussato.
” Nun te canusce””comm te chiamm””?”
M’ero fatto crescere capelli e baffi, m’ero allungato di molto, quell’anno, e avevo messo su due spalle da far paura; non ero più lo stesso.
Anche lei era divenuta qualcosa più in carne. La disposizione della stanza, invece, non era per nulla cambiata.
Le avevo risposto seccamente che non doveva importarle e, perché non lo chiedesse di nuovo, una volta dentro le avevo appoggiato sul palmo della mano quasi il triplo della sua vecchia tariffa.
” Doie”’.va bbuone accussì”’. ”’.?”
La zoccola mi aveva fatto cenno di precederla verso il catino sopra il quale sventolava uno straccio bianco, brontolando fra sé, ” doie eh”? ”
Mentre aspettavo lì in piedi, era venuta ad accucciarsi ella stessa, spostandomi.
” Primm ‘o faccie ie ””!”
Le avevo ubbidito, sollevandomi la maglietta, rimanendo nudo dalla cintola in su senza preoccuparmi che volesse risparmiare sull’acqua.
Marì, mentre s’asciugava, m’aveva chiesto, seccata, ” che aspiett”’.?”
Allora, m’ero sbottonato i calzoni e li avevo lentamente calati, togliendomeli.
Lo stoppino sotto la campana di vetro era consunto quasi del tutto, la fiamma ormai più fioca di un sospiro da tisico, ma la zoccola non c’era cascata.
Aveva esclamato, mentre sorridevo della sua prona impotenza, ” ie te canusce”’.!” .
Gridare non avrebbe potuto, sarebbe stato inutile. Deleterio respingermi. Marì, resasene conto, aveva allora compiuto l’unico atto per lei ragionevole.
” Fatte lavà”’.!”
M’aveva lavato accuratamente, a testa china, non so se tremasse, poi, asciugandolo, lo aveva preso in bocca.
La chiavai sul pavimento, la fiammella s’era spenta, rovesciandole il catino fra le gambe, fottendomene di averci l’acqua, sotto le ginocchia, godendo come un pazzo di possedere ancora fra le mani quelle zinne maestose, lasciandole il morso dei denti dappertutto, sulla nuca, la schiena. Marì, sconquassata come una vacca, madida di sudore, era fredda come il tufo sotto di noi.
Allora le afferrai il braccio.
” Vene”’..ce mittimm int’ ‘o lett”’!”
La donna mi seguì senza aver mai proferito quel mio nome.
Una volta sul letto, le feci di tutto. La trattai come se su quel lenzuolo di lino, insieme a lei, ci fosse ancora suo figlio, quel verme.
E, al mattino, le dissi che le avrei tagliato la gola, poi l’avrei tagliata a lui.
Anzi, che ci dovevo pensare se prima a lui e poi a lei. Tutti e due trascinati lì davanti, nello stesso momento.
Tremava, mentre glielo gridavo, era pallida come un cencio, capiva che ce l’avevo fra le mani e non avrebbe potuto sfuggirmi, ma continuava a succhiarmelo sditalinandosi selvaggiamente.
Venne, sussultando agli insulti, contraendosi alle mie minacce, immediatamente dopo che le ebbi riempito la gola.
” Mò t’aggia accide………che Vincenzì ‘o può venì a sapé !”
Questo le dissi, parlando calmo senza increspature, come se l’odio fosse tutto sul fondo.
E Marì mostrò allora quanto possa una donna.
Quanto possa diventare impura agli occhi di un uomo. Quanto il suo istinto di sopravvivenza, primario, possa gettare al vento, come foglie, l’imprimatur di un maschio.
” Nun me ne fotte ‘n cazz ‘e Vincenzì……..!” Sillabò lentamente Marì, ingerendo le ultime gocce ” d’ ‘o sfaccimm “, alzando gli occhi dalla mia carne.
Gli avrebbe dato fuoco, se avesse potuto, come avrebbe dato fuoco a me, ne avesse avuta la possibilità.
Lui continuava ad essere il suo Vincenzì, però; intortato dalle chiappe e dalle labbra di ” Boccadore “, per ora.
La zoccola sapeva, sentiva, che sarebbe tornato, che un giorno quel suo figlio sarebbe stato di nuovo lì ma, quel sentire, nel suo cuore, in quegli occhi, era distaccato come se già fossero due persone, non più una sola.
Non aveva più la forza di un tempo Marì, pensai; non aveva più alcun eroismo altruista da dare.
Pensava solo a sé stessa, alla propria vita fisica, ad aggrapparsi ad una rete come un rampicante, una povera cosa. Pensava che dandomi ogni anfratto del suo corpo, la morte, io, glielo avremmo risparmiato. Ed aveva dalla sua, per pensarlo, l’esperienza di milioni e milioni di femmine ed anni.
Ancora una volta mi sarei sbagliato, ancora una volta dimostravo di non capire le femmine.
Naturalmente, la donna non volle più essere pagata, da quel giorno.
Due notti ancora: due occasioni per un desiderio sfrenato da parte mia, di malato piacere da parte di lei, poi suo figlio lo venne a sapere: le spie lo informarono che me la stavo di nuovo fottendo.
Che lo stavo di nuovo sfidando.
Quel terzo giorno, senza dir nulla, come l’avessi sentito nell’aria, sparii anche dalla catapecchia di Francé.
Vivevo una vita da barbone, dormendo ora in un fosso, ora dietro un muricciolo, ma ogni pomeriggio, ogni notte, li passavo ad osservare il basso della zoccola, e la casa di lui.
Speravo che gli fosse rimasta una briciola d’orgoglio, che venisse a farsi giustizia da solo, ma Vincenzine ‘o muoccole mandò in cinque occasioni solamente i suoi giannizzeri.
Che se ne tornarono con le pive nel sacco.
Allora, anch’egli cominciò a pensare di tendermi una trappola e, per questa, scelse l’unica persona cui tenessi.
A nonna, mentre io ero in postazione, fu sfondata la porta prima dell’alba; Teresì venne trascinata all’addiaccio ed il basso sparso di nafta, quindi incendiato.
Per fortuna mia e di nonna, quella volta intervenne comare Conc&egrave. Che non solo si prese cura dell’amica ma, attraverso il genero graffiato e pestato a sangue, insieme a tutte le altre donne del vicolo ed ai loro uomini fece sapere a Vincenzine e alla sua banda quale sarebbe stata la loro sorte se soltanto si fossero affacciati al rione.
Il che convinse il mio ex compare a misurarsi esclusivamente con me. E convinse me, ugualmente, ad abbandonare definitivamente l’idea di vendicarmi fisicamente anche su sua madre.
La partita fra noi s’era appena aperta, che intervenne il terzo fattore.
Giuvannò, il lenone che avevo posto sul ponte di comando, s’era scordato di qualche quindicina.
Così un mattino, invece di perdermi a fare il punto della situazione sui movimenti di Vincenzine, pensai fosse meglio agevolarlo andandogli incontro.
A metà nottata ero già sul piazzale, nel suo settore. Avevo evitato, naturalmente, di farmi scorgere da altri, aggirando lo stesso piazzale e scansando inoltre, come la peste, il baretto dei protettori.
Fu sorpreso di vedermi, Giuvannò, ma non tanto svelto da sfuggirmi quando presi a rincorrerlo.
Né poté venirgli in aiuto uno dei suoi uomini che m’aveva scorto, il quale, vedendo balenare i coltelli, pensò bene che la discussione dovesse essere soltanto tra noi.
Il discorso non fu molto lungo, comunque. Quando Giuvannò si ritrovò stretto fra due docks, quando s’accorse che nessuno veniva in suo aiuto, prese a farsi svelto svelto quattro conti con la mente.
” Che me vuoi fa………..me vuoi accide………e ‘i sorde………chi te li puorta……….?”
” ‘ I voglie tutte………..fin all’urteme……….!”
Giuvannò lo sapeva che non mi poteva battere, con il coltello. Fece due più due e tirò fuori di tasca anche le tre quindicine di Rosa; che rifiutai dicendogli di darli direttamente a mammà.
Alla fine, ridiventati amici, gli chiesi come andasse con i femminielli.
Era dura, molto dura, cominciavano già ad arrivare. Anche Giuvannò immaginava, però, che il manico non lo tenessero Peppì ed i suoi compari.
” Ce ne duvimm liberà “. Aggiunsi quasi soprappensiero, ed allora egli promise di arrivare al cinquanta cinquanta; di lì ad un mese.
Di più: tanta era la fiducia che ora riponeva in me che m’affidò, quella sera, un gruzzoletto tutto suo, dandomi l’esatto indirizzo dove portarlo.
Non erano molti, e non avrebbe perso tanto se non fossi stato un uomo d’onore, ma secondo lui dovevo dargli la prova.
In pieno ghetto, ed il destinatario era un usuraio con un botteghino fra i più rinomati. L’avevo sentito nominare più volte, da Maddalena.
Questi mi squadrò ben bene da sotto gli occhiali, poi emise regolare ricevuta con scritto anche il tasso che avrebbe erogato di lì ad un anno: il cinquanta percento del capitale.
M’ero portato dietro pure i miei, e gli misi sotto il gabbiotto anche quelli. Ma non m’accontentavo del cinquanta; poich&egrave erano molti di più, volevo l’ottanta.
Dopo una trattativa di un’ora e mezzo, intervallata da due disgraziate che s’impegnavano una un anello, l’altra la catenina, concordammo il sessantacinque; che si sarebbe abbattuto ad un quindici, se avessi ritirato la somma prima dell’anno.
Credo dallo stesso Giuvannò, intanto mammà era venuta a sapere che ero tornato sul piazzale.
La volta successiva, quando mi ritrovai con questo, ella mi fece trovare anche un suo gruzzoletto; dovevo investire pure quello, nonché quello di Concettì.
S’affidavano completamente a me, avevano mandato a dire.
Come ben aveva visto Teresì, le due donne erano entrambe incinta.
Questo, però, me lo disse il ruffiano.
Fu in quella botteguccia che incontrai il parente di Maddalé: una persona di gran buon senso; amico carissimo dell’ usuraio. Fu con lui che ricominciai a discutere del Libro di Giobbe.
Questi a rimettermi in contatto con la giudea presupponendo che, nonostante vestissi in modo strano, e non riusciva a spiegarsene il motivo, fossi anch’io della loro razza.
Costui se ne era convinto guardandomi di profilo, soprattutto il naso aquilino ed i lobi inferiori della fronte sporgenti, ed altresì perch&egrave nessun altro della mia età che non fosse uno studente della legge avrebbe potuto sapere così su quel libro.
Istintivamente, io mi guardai bene dal dirgli delle mie letture recenti ed in quali occasioni si fossero svolte, ma gli feci intendere che tali conoscenze erano dovute ad un’infanzia remota, peraltro tremendamente travagliata e quasi del tutto da dimenticare.
I due mi invitarono in sinagoga, per il ” shabbat ” successivo. In quell’occasione, da lontano, potei rivedere Maddalena e le sue due figlie.
Non potei avvicinarla, né aspettarla sul piazzale antistante, che probabilmente qualcuno dei ragazzi di Vincenzì la stava attendendo proprio lì, ma quel suo enigmatico sorriso mi rincuorò molto più che la mano sulla spalla da parte dell’usuraio alla fine della cerimonia.
La sera del venerdi successivo, quasi ci fossimo dati appuntamento ma non era, Maddalena entrò nella bottega di costui mentre io stavo aprendo la porta per uscire.
Le era venuto istintivo di salutarmi, pronunciando, subito dopo il tradizionale saluto al luogo dove entrava, ” Shalom Alekhem “, ( pace alla casa ) il nome che ella stessa m’aveva imposto, ” Shalom Yoshua “.
Ed aveva aggiunto ridendo, guardando la faccia sorpresa del vecchio, ” Meshugghe !” (folle ).
Anch’io le avevo borbottato un incerto shalom, guardandomi intorno, già pronto a fuggire.
Maddalena mi aveva tranquillizzato appoggiandomi la mano sul braccio, pregandomi di attenderla.
In tal modo, ella mi mise al corrente di come non sopportasse più, in casa propria, la presenza di Vincenzine, quel peccatore. La sua condotta scandalosa le stava inimicando tutto il parentado e gli affari stavano paurosamente calando.
Non aveva più le borse sotto gli occhi, la pelle del viso le risplendeva; dal che potei dedurre che qualcuno a consolare la sua vedovanza ci fosse.
Mi chiedevo ancora, quindi, perch&egrave m’avesse voluto incontrare quando la stessa giudea si esplicitò pienamente.
” Ha da murì……… ‘o puorche……….!”
Per un pò ci giocai; volevo più sicurezza.
” E pecché………che m’ha fatte a mme………?”
Poi non potei più continuare nella commedia quando Maddalena disse chiaramente che quel lontano giorno, quando Ciro era stato fatto sparire, li aveva sentiti parlare, Vincenzine ‘o muoccole e suo marito: fare lo scellerato patto per la mia scomparsa.
E che ora sapeva chi fossi, perché la zoccola mi aveva accuratamente descritto.
Sapeva quasi tutto, ed avrebbe voluto sfruttarmi in nome dei vecchi trascorsi.
Ella rimase pertanto esterefatta, alla mia domanda repentina .
” Mò ie ce cree Maddal&egrave……….ci aggie penzate e tante ………… voglie ‘a milah (circoncisione) mò………..!”
Ne avevamo parlato, a suo tempo.
” M’ ‘o sentive……….!” Aveva risposto allora l’ebrea, annaspando alla ricerca del mio polso, tanto era stato grande il colpo.
Due sole cose le chiedevo ancora, di farmi circoncidere da quel suo parente e di crearmi, con quel rito, una nuova identità. Anche di convincerlo a diventarmi padre putativo, tanto era credente e sapiente.
Volevo avere una famiglia, essere un uomo nuovo a tutti gli effetti, e ciò era per merito suo.
Maddalé ricordava di non avermi mai sentito parlare di un padre e di una madre, di una famiglia; nemmeno di lontani parenti.
Ricordò che le avevo detto di essere orfano dalla nascita, così non promise nulla, ma tre giorni dopo fece visita allo zio.
Descrisse la mia infanzia da orfano, la mia adolescenza da “meshugghe “, perorò il consenso di quel povero vecchio. Il quale chiese una settimana di tempo.
Grave, secondo lui, sarebbe stato far posto ad un non circonciso, ad uno eliminato dall’alleanza; più grave ancora non accettarmi se fosse stato vero quanto raccontatogli dalla nipote.
Alla fine si comportò come Ponzio Pilato: se ne lavò le mani.
Ci pensò Maddalena a compiere l’intero rito, senza intermediari, compreso il servizietto della terza fase, quello del succhiarmi il sangue dalla ferita.
Lo zio si prestò solo per il nuovo documento.
Lo spurgo finii per farlo nella chiesa sconsacrata, da solo e soffrendo come un cane, ma avendoci in tasca una nuova carta d’identità bella fiammante.
Il nome e il cognome erano da yiddish, okey, ma non era ciò che avevo richiesto ?
Da allora in poi avrei potuto circolare nel ghetto e frequentarne gli abitanti e, una volta assolto l’obbligo di riconoscenza verso Maddalena, dedicarmi alla mia grande passione: i soldi, perché lì quelli circolavano veramente, e alla grande.
Attraverso la giudea, intanto, m’ero anche procurato il necessario supporto logistico: a causa di questa mia nuova appartenenza potei traslocare immediatamente dal fosso vicino alla chiesa al bastione dietro casa sua.
Nel frattempo, bazzicando quelle bottegucce, avevo fatto la conoscenza di un mio coetaneo. Qualcuno aveva avuto la bella idea di mettergli nome ” ‘O Guappe ‘e cartòne “. In effetti, il ragazzo si chiamava Salvatò.
Definirlo un tipo poco raccomandabile, a tutti tranne che a me ed al suo gruppo, sarebbe potuto apparire un ipocrita eufemismo.
Nemmeno Ezechiele l’usuraio, che nonostante l’ “accoglienza ” dovuta m’aveva venduto abiti adatti alla cerimonia a prezzo più che pieno, avrebbe avuto mai una diversa considerazione di questi; e si che di persone ne aveva viste passare.
Maddalena, commossa ma senza perdere tempo, mi stava intanto iniziando alla lettura del terzo libro. Per la verità, aveva appena aperto sul prologo, ” ………con i baci della sua bocca…… ” che subito dopo, per farmene comprendere appieno la dolcezza, mi cacciava sette dita abbbondanti di lingua nella mia.
Non solo; mi stava anche facendo un corso accelerato di scrittura e di far di conto, ritenendoli altrettanto indispensabili.
Va da se che mi pensasse, ora che m’aveva ritrovato, più di altri come una sua creatura, destinata quindi a darle grandi soddisfazioni.
A forza di prendercene, adesso che, con la sua benedizione, non ci avevo più il prepuzio, il nostro progetto slittò di un mese e poi di un altro ancora. Ma non é che non ragionassimo, pur in mezzo a quei suoi furori parossistici .
Così, quando ella mi confessò di non averci avuto le sue cose quella settimana, pur non essendo certo di essere stato io ad inguaiarla, pur se ella giurasse fosse invece vero, compresi, essendo trascorsi cinque mesi da quando me n’ero partito, che ormai era arrivato il momento di dire basta.
Maddalena era d’accordo. D’accordo anche che, a fare il lavoro sporco non dovesse essere il padre di suo figlio, ma qualcun’ altro; ad esempio pensai, ” ‘O Guappe ‘e cartone “.
Parlai del progetto a questi alla prima occasione, e Salvatò non fece una piega.
Capii il perch&egrave quando mi disse il prezzo.
Avrei dovuto ricompensarlo in due modi: prima aiutandolo in una consegna e, per la seconda parte, facendogli ottenere un grosso finanziamento dal vecchio Ezechiele.
” Gruosse quanne “, mi venne istintivo di chiedergli. E, la cifra dettami, mi fece tremare i polsi.
Eravamo ai primi degli anni cinquanta, e Salvatò chiedeva cinquecentomila lire !
” Oh………’mprest………..!” Ebbe poi la sfacciataggine di aggiungere.
” Ce cree…………..me n’accide cinquecente da sole……..!” Risi.
Fu così che cominciò questa mia nuova amicizia; quando sentii, dalle sue stesse labbra, che il prestito, per questa prima volta, poteva venir ridotto a cinquanta mila lire.
A quel momento, mi feci anche spiegare a cosa si riferisse la consegna.
” Robba !” Disse Salvatò, e non potei controbattergli, perché io, in cambio, lo mandavo ad ammazzare al posto mio.
Il vecchio Ezechiele, avuta la mia assicurazione che se il cento percento del mutuo non fosse stato lì da lui, insieme al trenta degli interessi, entro venti giorni, si sarebbe legittimamente potuto trattenere tutti quanti i miei depositi, nonch&egrave quelli di mammà e di mia sorella, nonché il mio lavoro da inserviente per un intero anno, accettò.
In verità, gliene avevo chiesti solo la metà, vista la sua titubanza, tanti quanti erano ormai i depositi di noi tre, fidandomi del mio naso.
Gli altri venticinquemila li avevo spartiti fra Giuvannò diecimila, io cinquemila, e Maddal&egrave altri diecimila; questo per quanto riguarda la vera sorte.
Per il tasso mi ero rifatto su di ” ‘O Guappe ‘e cartone “, chiedendogli il quaranta sull’intero pacchetto e, a Giuvannò e a Maddal&egrave promettendo il venti.
Prendere o lasciare.
Salvatò prese, e così ugualmente, dopo qualche incertezza, presero gli altri due.
Pensavo che, partecipando direttamente all’impresa, un certo controllo della situazione l’avrei comunque dovuto avere.
Con quella mia prima operazione finanziaria guadagnai su di un investimento fatto da altri, appena dopo venti giorni, novemilacinquecento lire. Quasi quello che ci avevano guadagnato loro.
Questo nell’aprile del 1954.
Non c’era zoccola che tenesse confronto, con quanto si poteva ricavare sfruttando i soldi; e non é che avessi moltiplicato per undici o dodici quanto mi costavano o giocato sulle spese o sui giorni. Costoro, li avrei potuti considerare dei ladri di galline.
Grazie a Maddalena che m’aveva insegnato a far di conto, capii che i guadagni veri si facevano sul breve termine, senza metterci troppo di mio, e su operazioni che, a chi le faceva, fruttavano realmente.
A neanche vent’anni, era divenuto il mio primo comandamento.
Il secondo fu che non é vero che ” pecunia non olet “, ma la puzza é uguale per tutta quella in circolazione chiunque l’abbia tenuta in mano. Quindi vattelapesca !
Il terzo, che chi lo presta guarda alla persona che lo prende, fottendosene di quello che ne fa.
Il quarto comandamento é che, e questa era regola ferrea fra chi mi aveva accolto, nessuno te lo possa ascrivere: circolava sempre, nel ghetto, la favoletta di quel ladro egizio che pensava non fosse così.
Il quinto, e non ne ho altri, fu che la prudenza non é mai abbastanza.
Gli americani, fino ad allora, li avevo visti biondi o rossi, o di pelle uguale alla mia se italoamericani; oppure negri, addirittura gialli, ma così brutti e con gli occhi cattivi, la faccia interamente butterata e molto più abbronzati e crespi di Salvatò, non li avevo mai visti.
Erano sudamericani, precisamente.
Ma era grande tutto il mondo, questa America del cazzo ?
Che mi fossi buttato da un pò di tempo sulla lingua dei miei amici giudei non mi servì a niente; dal parlare fitto fitto di quei due, un dieci che a tratti sembrava napoletano ed il resto che non ci si capiva un accidenti, avevo soltanto compreso che il contratto, come scarabocchiatomi sul foglietto, era di cinque + quattro zeri e che la nave avrebbe battuto bandiera turca.
Mi ero segnato il nome della nave, il giorno e l’ora del suo arrivo, la banchina; per me bastava.
Il prestito l’avrei portato dietro allora.
Quando la nave arrivò, proveniva si dalla Turchia, ma il nome sul fianco era diverso e gli originari
cinquantamila erano diventati cinquecentomila.
Troppo grande quest’America, troppa confusione; me lo immaginavo io !
Sulla banchina eravamo stati avvicinati da altra gente, non da quelli con cui, una prima volta, c’eravamo già incontrati. Eravamo, perch&egrave al seguito di Salvatò c’eravamo io e i suoi quattro uomini.
Loro, quelli scesi dalla scaletta, erano ugualmente in sei, sempre brutti uguale se non di più.
La conversazione, esclusivamente fra i due capi con me a fare da interprete, si svolse in modo molto stentato, nonostante ormai conoscessi quasi due lingue.
L’affare era sospeso, essendoci noi presentati solo con l’acconto.
Sospeso fino a domani; all’indomani si sarebbero rivolti altrimenti, perché era un’ unica partita .
Stavamo per venircene via con la coda fra le gambe, quando uno di quei sei, a metà della scaletta stese il braccio, e sollevando il pollice e drizzando l’indice, mirò la nuca di Tonine.
Ero stato l’unico ad essermi voltato, il solo a vedermi davanti il suo sorriso. Quando avvertii gli altri,
ed essi si torsero all’indietro, questo ” malamente ” si teneva già al corrimano, né guardava più verso di noi.
Fu allora che Salvatò mostrò di avere in sé e in me una fiducia cieca.
” Quante songhe ?”
Pensando m’avesse ridomandato dei soldi gli risposi ” Addò ‘i trove cinquecent”’. ?”
Ed egli rise ” Cinquecente ? Ecch&egrave’….manch int’ ‘o paese soie ce ne stanne tante de cristiane………!”
Prima di allora non l’avevo visto mai ridere tanto di gusto.
Per tutto il pomeriggio e la sera, quella volta, mi insegnò come si tiene una pistola in mano;
ad essere svelti, ma a non avere fretta.
Il mattino dopo lui e gli altri quattro si sarebbero ripresentati con i miei cinquantamila in saccoccia,
ed egli avrebbe chiesto di vedere la merce. Si fosse fatto l’affare, i quattro e cinquanta rimanenti
avrebbe detto che li teneva l’interprete, che li aspettava nell’ultimo magazzino in fondo alla banchina per la consegna contestuale.
Probabilmente, per mantenere l’equilibrio dei numeri, ne avrebbero mandato uno solo.
Avrei dovuto soltanto tenerlo sotto tiro finché fosse arrivato Salvatò ma, avesse fatto il cazzone, gli avrei dovuto sparare in mezzo al petto quando mi fosse stato a tre metri, tre metri e mezzo di distanza non di più e, poiché costui sarebbe stato appesantito dalla ” robba “, non preoccuparmi affatto di una sua reazione.
Invece, quei fessi, di sudamericani ne mandarono due. Perciò fui costretto a sparargli quando m’arrivarono a sei metri o giù di lì.
Nello stesso istante che esplodevo tutto il caricatore, sentii i colpi degli altri, attutiti dalle pareti del magazzino e dalla distanza che mi separava dalla nave, succedersi in rapide sequenze: tipo Concettì quando si metteva i tacchi e poi magari tornava indietro in tutta fretta perch&egrave s’era dimenticata di qualcosa.
Poi arrivò Salvatò di corsa, quindi Tonine ed Angelo che si trascinavano dietro ” ‘a Scamuorza “, con il collo trapassato; il quinto ragazzo c’era rimasto secco sul pontile.
Ce l’avevamo fatta !
” Scamuorza “, detto così perché aveva il mento che gli traballava, fu portato dietro le pile
di casse che infestavano il fabbricato, e morì lì senza nemmeno poterci riconoscere.
” ‘O Guappe ” tenne la sua mano nella sinistra, parlandogli, fin che spirò: si conoscevano dalla nascita.
Un minuto o due dopo gli sfigurava il viso con il calcio della Beretta, perch&egrave non potessero riconoscerlo e risalire a lui.
Sarebbe stato impossibile trascinarcelo dietro, un peso morto di quel genere.
Dopo di che ce ne andammo con il carico, ed io di nuovo con i cinquantamila che avevano recuperato.
Tutta la soddisfazione per l’andamento dell’affare e per non essermi perso d’animo, quella sera
la riversai a più riprese sul musetto di mio figlio, pensando ne avesse già uno.
La giudea, però, continuava a dirmi che nemmeno a pensarci, smorzandomi così l’euforia
dello scherzo.
Secondo Maddal&egrave, egli non era più grosso della punta di uno spillo, immaginarsi il viso.
” Eppoi pecch&egrave, ce vuoi sputà ‘n faccia……….?”
” Accussì s’ancazza !”
Ma la donna non lo capiva.
Mentre insegnavo a mio figlio a stare all’erta, non come c’ero stato io, mi rodevo sul giochetto che mi aveva tirato Salvatò.
Egli sapeva perfettamente che la partita di coca era da cinquecentomila lire perciò, all’inizio, mi aveva chiesto quella somma.
I due che m’aveva presentato subito dopo erano dei suoi complici, trovati quando gli avevo risposto picche.
Allora ” ‘O guappe ‘e cartone “aveva architettato la carneficina dei colombiani facendomi fare da specchietto per le allodole.
Avevo ancora molto da imparare, per potere diventare qualcuno in quell’ambiente.
In tal senso, mi ricordai anche del fatto che Ezechiele, in occasione del prestito, m’aveva fatto promettere che avrei dovuto lavorare per lui, fosse andato storto qualcosa.
Era un’opportunità formidabile, e non me la sarei fatta scappare per nulla al mondo.
Portandogli i venticinquemila in anticipo di una settimana, nonch&egrave l’intero interesse, glielo ricordai; gli rammentai quanto fosse appassionante quel suo lavoro, così preciso, così rigoroso, così conoscitivo, per un giovane.
Il vecchio usuraio mi stette a sentire per un quarto d’ora, poi ribatt&egrave che si, m’avrebbe preso in prova come inserviente, per quindici giorni, ma il pranzo dovevo portarmelo da casa. Naturalmente, per quelle due settimane, nessuno stipendio, poi si sarebbe visto. Ma che non m’aspettassi granché, perché era lui, ad insegnarmi.
Pure ‘O Guappe ‘e cartone mi venne incontro.
Mi venne incontro proprio la sera del mio primo giorno lavorativo, un lunedi, alle 21,00, subito dopo aver aiutato il vecchio ad abbassare la serranda ed averlo salutato, chiedendomi quando la cosa s’era da fare.
” Sò cuntent ppe’ tte, accussì putimm fatigà cchiù grand !” E mi chiese se avessi una qualche preferenza sul luogo dove ammazzare Vincenzine, e sul giorno. Perch&egrave lui, la settimana dopo, ci avrebbe avuto da fare.
Pensai allora di rifare visita a Marì perch&egrave, nella mia testa, era proprio da lì che doveva partire il tranello: dal basso da dove era partita la loro pensata.
Pensa e ripensa, che al pensare quasi ci diventavo pazzo, alla fine escogitai di presentarmi alla madre di Vincenzì con alcuni fiori in mano.
La fiorista, però, mi consigliò di portare alla guagliona una piantina, magari rampicante; costava di più, ma ci avrei fatto un figurone.
Teneva un edera, un gelsomino ed un fiore di Linneo, così disse.
” Ma che é stu’ Linneo ?”
” E che ne sacce ie…………accussì ‘a chiammene………fiore ‘e passiò………passiflò………! ”
Scartai immediatamente l’edera, che non mi diceva alcunch&egrave, il gelsomino era di quelli che puzzavano di sterco di cavallo, e scelsi la terza.
Nell’unico fiore erano racchiusi tutti i colori del cielo quando il sole tramonta, dal rosso al viola, all’indaco, al bianco dei cirri; ne ero rimasto deliziato.
La stupefacente, soffice carnalità del martello, degli stimmi, dei chiodi, degli stili effondeva un profumo delicatissimo, unico, assai persistente.
Vi era un piccolo insetto, all’interno; la verace negoziante, prima d’incartarla, lo forzò a volar via con un carezzevole gesto delle dita trasformate poi in un canzonatorio artiglio, strizzandomi l’occhio, ” s’ ‘o scrufugna……… s’ a magna sinnò……….capute guagliò…….. ?”
Marì ne sarebbe stata certamente conquistata e, speravo, avrebbe compiuto più facilmente ciò che volevo.
Le assomigliava, quell’incanto; quanto assomigliava all’inganno di Marì quella leggiadra, gracile meraviglia, con le sue spine sottostanti, seminascostei !
Ella rimase sorpresa, del mio gesto. Capì immediatamente che stavo tramando qualcosa, ma non poté che accarezzare quel fiore; nonostante avesse paura, nonostante volesse retrocedere dai suoi pensieri, nefasti ma non quanto i miei.
Avrebbe voluto comprendere quanto dovesse di vendetta, perciò si attardò a scalzare il piccolo fazzoletto di terra a ridosso del muro, dietro l’uscio, me vicinissimo, incombenza letale.
In cuor suo la speranza che gli amici del figlio la vedessero.
Ma quella sera Vincenzine e i suoi avevano fatto un altro tragitto; avevano deciso di spostarsi in massa verso le banchine del porto, Boccadore alla testa di tutti.
Quel pomeriggio, sul piazzale antistante la casa di Maddalena, c’era stato un gran dare ordini, gridare. Tanto che ella, appena arrivato, m’aveva avvertito.
M’animava un flebile filo che la zoccola potesse ancora ravvedersi, tradire, optando per me. Perché la sua carne era ancora la migliore, ed io colui che la desiderava.
Ma non bastò.
Il mattino seguente, avendo già scoperto dove suo figlio ed il femminiello abitavano, la costrinsi a seguirmi di buon ora; la portai a fare colazione nella caffetteria dove lui abitualmente andava, rimarcandoglielo.
La trattenni sul posto, distante appena cinquanta passi, fin dopo mezzogiorno, quando Vincenzine scese mordicchiando il collo al suo ganzo, per entrare nello stesso baretto.
” Viste………..mò ce credi………..?”
Marì si stava mordendo le mani, gli occhi le fiammeggiavano.
La lasciai, ad un certo momento, ed ella corse dal figlio.
Per farsi svergognare, mentre Boccadore, il culo appoggiato alla spalliera di una sedia, continuava a strafogarsi di babà ed a ridere di lei come un matto.
Dopo la sfuriata Vincenzine, preoccupato, le aveva chiesto chi l’avesse portata fin lì, e lei glielo aveva detto.
Venne fuori, mi vide: la madre sua mi stava additando, ma pur essendo in due non ebbero il coraggio di avvicinarsi a più di dieci metri.
Il viso era livido d’ira, moccolava, sputava, prometteva rovine, ma non era più un uomo, se mai lo era stato; non ebbe coraggio.
Vennero, però, la notte seguente, come m’aspettavo; all’incirca una decina.

Leave a Reply