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Racconti di DominazioneRacconti GayTrio

Quella strana vita da matricole

By 12 Gennaio 2013Dicembre 16th, 2019No Comments

Era una bella serata, calda e ventosa, quando sono arrivata a San Diego per trasferirmici a studiare. Avrei apprezzato la vitalità del posto, le luci, i colori della città, l’affabilità della gente, se non mi fossi sentita esausta dalle ore di sonno mancato. Dalla sera prima non ero riuscita a dormire, nè nel tragitto di quattro ore dalla mia città all’aereoporto di Fiumicino, nè nel lunghissimo volo transoceanico, nè durante lo scalo a New York e durante il volo seguente; risultato: un intero giorno di sonno da recuperare, un’emicrania fastidiosissima, la voglia di prendere a calci in faccia qualcuno.

Per fortuna appena uscita dall’aereoporto sono riuscita a trovare un tassista libero che mi accompagnasse nel campus della mia nuova università, dove ad attendermi c’era una vigilante, che doveva mostrarmi il mio appartamento.
“Buona sera, signorina Bannister! Ha fatto un buon viaggio?” aveva una voce sgradevolmente gracchiante, ma tutto sommato era una donna graziosa e dall’aspetto bonario, che ispirava simpatia. La sua gentilezza nel salutarmi e nell’aiutarmi a prendere le mie cose dalla macchina mi strapparono un sorriso, nonostante l’irritabilità che provavo quella sera.
“E’ stato un buon viaggio, grazie. Mi scusi, il suo nome è?”
“Patricia Hall, perdoni la dimenticanza, conoscendo il suo nome davo per scontato che conoscesse il mio”. Mi porse la mano, piccola e grassottella, che strinsi energicamente.
“Bene, direi che se paga il tassista posso subito accompagnarla a casa sua; dev’essere stanca.”
“Può dirlo forte”, dissi io, mentre mi districavo tra i vari pezzi di carta nel portafogli per snidare un biglietto da 20 dollari tra i vari tagli ancora sconosicuti. Porsi i soldi al tassista, ripresi il resto e poi mi diressi, valigie in spalla, verso un’altra zona del campus.

Arrivati davanti ad un gruppo di appartamenti, mi mostrò il mio. Era affiancato ad un’altra casa soltanto, che si trovava nel medesimo pianerottolo, e aveva un portone di metallo grigio, invecchiato e arrugginito.
“Beh, se non ha nulla da chiedermi ancora, buonanotte signorina Bannister. Le ricordo che tutte le informazioni sul campus, il suo badge universitario e per la mensa, la carta delle attività e il calendario accademico sono dentro casa, quindi ricordi di consultarli. In frigo non credo ci sia molto, probabilmente solo acqua e un paio di pizze surgelate, se dovesse avere fame stasera…purtroppo le sue coinquiline non arriveranno prima della prossima settimana, forse dopo.”
“La ringrazio signora Hall, credo che per stasera me la caverò. Buonanotte!”
“A lei! Ci vediamo in giro!”
Mi sorrise e tornò indietro per le scale, mentre io finalmente entravo in casa. Non feci in tempo a sistemare nulla, nè a bere, nè a mangiare, che mi addormentai come un sasso nella mia nuova camera.

Al mattino mi svegliai come dopo un’ubriacatura. Intontita, stanca e irritata. Riuscii a fatica, molto lentamente e distrattamente, a svuotare le valigie e sistemare le mie poche cose nei cassetti e sugli scaffali del bagno.
Feci una doccia, indossai un paio di pantaloncini estivi e una maglietta, e andai nel minuscolo angolo cucina per farmi un caffè…dimenticando che non avevo una caffettiera nè del vero caffè da prepararmi. Ah, l’America.
Trovai solo un bollitore elettrico e del tè, ma niente caffè, neppure istantaneo. Magari potevano averlo i vicini, semmai ci fossero vicini di fianco a me; decisi di provare.
Uscii e bussai all’altra porta; ci volle un pò perchè qualcuno mi sentisse e venisse ad aprirmi, sentivo uno scalpiccio pigro, una voce maschile che sbadigliava un “arrivo, arrivo” e poi…misericordia!
Davanti a me c’era la visione maschile più eccitante che avessi mai potuto avere di fronte agli occhi. Una specie di modello strafigo a meno di un metro di distanza da me, mi osservava un po’ confuso, un po’ incuriosito. Quando si rese conto del fatto che io ero altrettanto interdetta e stavo lì con un’espressione da allucinata, mi sorrise affabile e si appoggiò allo stipite, incrociando le braccia e flettendo i muscoli deliziosi. Ora non sapevo già più per quale cavolo di motivo mi trovavo lì fuori.

“Buongiorno, hai bisogno di qualcosa?”
“Bu-buongiorno”, faticai a deglutire la saliva e a ignorare un fastidioso bisogno che saliva dal mio pube al cervello. Quel ragazzo non era solo una meraviglia della natura, parlava anche inglse con uno spiccato accento spagnolo che…beh, ho un debole per i latini. Un forte, forte debole.
Cercai di concentrarmi sul motivo della mia presenza, e ignorai l’impulso di saltare addosso a quel tipo e violentarlo.
“Senti, io sono arrivata da poco, non ho trovato nemmeno un pò di caffè per casa. Tu ne avresti? Te lo renderò una volta fatta la spesa, promesso…!”
“Certo, posso fare di meglio però…Stavo giusto preparandone per me e il mio coinquilino, se sei sola in casa puoi fare colazione con noi. Mi piace conoscere gente nuova, specie se si tratta di una nuova vicina così carina…”

Carissimi lettori, in una normale occasione me la sarei data a gambe levate davanti a un tipo sconosciuto, seminudo e fin troppo gentile nei miei confronti; ma non so come, non so perchè, decisi di prendermelo questo caffè con i miei nuovi vicini. In fondo non sarebbe potuto succedere nulla, o almeno speravo che fosse così. O forse no, speravo in qualcos’altro che non riuscivo ancora ad inquadrare bene.
Lasciate che vi spieghi: io, una ragazza piuttosto bella e che aveva avuto le sue storie, anche impegnative e importanti, non ero mai riuscita ad essere così eccitata da un uomo come lo ero adesso; ero ancora vergine proprio per questo, i miei precedenti fidanzati non avevano avuto su di me l’effetto erotizzante, fulminante, che riusciva a trasmettermi questo ragazzo solo parlandomi, sorridendomi e muovendo appena i riccioli lucidi e bruni sulla sua testa. Non che quelli che frequentavo in passato fossero brutti, ma c’era qualcosa di speciale in quel bel viso regolare, oscurato da un’ombra di barba, in quegli occhi marrone-verde guizzanti di allegria, nel suo petto villoso e quei muscoli, non pompati ma ben definiti e deliziosi da guardare.
Chissà, magari era solo il mio bisogno di caffè che mi aveva fatto impovvisamente sentire accaldata, bagnata e col cuore che galoppava a ritmi eccezionali.

Ero ancora viva. Grazie al cielo, questi vicini non erano maniaci omicidi; e neppure maniaci sessuali, considerando che avevo ancora addosso pantaloncini e maglietta e tante grazie.
Lui, lo spagnolo che mi aveva aperto la porta, era in realtà messicano; si chiamava Pedro, era uno studente di medicina ventottenne, che viveva lì da un paio di anni dopo aver studiato per un certo tempo a Città del Messico.
Mentre cucinava mi parlava di sè, ed io stavo ad ascoltarlo, persa a metà tra l’interesse per la conversazione e il suo didietro. Trasalìì quando, improvvisamente, si girò verso di me con una scatola di ciambelle cacciata dal frigorifero e un bricco pieno di caffè caldo nelle mani, li poggiò sul tavolino e si sporse verso di me.
“Beh, ma praticamente sto parlando solo io. Tu cosa ci fai di bello nel nostro campus? Sei una specializzanda?”
“Eh? Scusa?”
“Terra chiama…ah, scusa, non so neppure come ti chiami, in effetti”
“Esther, mi chiamo Esther, scusami, sono una cafona”
Sorrise e mi porse la sua mano, grande e nervosa, mascolina. Già solo osservargli le mani stava facendomi fare pensieri illeciti su di lui…
“Non preoccuparti. E di dove sei? Hai un’accento molto inglese, sai?”
“Sono irlandese, in realtà. Mamma irlandese, papà italiano”
“Mica male. E come mai sei finita addirittura dall’altra parte del mondo?”
“Mi piaceva l’idea, e avrei dovuto pagarmi gli studi in ogni caso, quindi uno vale l’altro. Studio lingue, comunque.”
“Una matricola quindi…beh, per ogni necessità allora in futuro saprai a chi chiedere”, rispose allontanandosi verso la porta. “Senti, vado a chiamare Dimitri per fare colazione, intanto serviti. Tranquilla”, aggiunse con un sorrisetto furbo e una strizzata d’occhi, “non sono ripiene di sonniferi.”

Uscito lui, mi guardai intorno. La casa aveva pressappoco la forma della mia, con la differenza che la sua cucina era grande ma non c’era un soggiorno e il tutto sembrava molto più pacato data l’assenza del giallo alle pareti.

Stavo studiando le ciambelle, per scegliere quale volessi assaggiare e distrarmi dai pensieri che mi correvano per la testa, quando entrò di nuovo Pedro insieme al suo coinquilino. Se prima, alla vista di Pedro, mi ero sentita mancare il fiato, ora stavo per avere un colpo, qualcosa di grave sicuramente, perchè mi sentivo il petto scoppiare.
Dimitri era …grosso. Non saprei come descriverlo altrimenti. Era sicuramente molto più alto di me, che superavo di poco il metro e mezzo. Lui era alto quasi due metri; non che Pedro fosse, basso, anzi erano praticamente uguali, ma …lui era grosso appunto.
Era vestito con un paio di jeans e una canotta, ma si intravedeva il petto villoso al di sotto, ed erano evidenti i muscoli addominali. Le braccia erajno, come anche le gambe, un pò tozze, ma per come mi sentivo ci avrei voluto sbavare sopra. E non mi era mai, mai successo nella mia vita.

Non mi salutò neppure, lasciandomi interdetta; accennò un movimento della testa, poi andò a sedersi sul divano dopo aver afferrato una ciambella dal cartone.
“Mitja, questa è la nostra nuova vicina, Esther.”
Grugnito di riconoscimento da parte dell’altro, silenzio imbarazzante. Wow, dovevo aver davvero fatto una grande impressione sul tipo. Loquace poi.
Sorrisi debolmente a Pedro, e presi anche io una ciambella e del caffè, una zozzeria pura, ma l’unica zozzeria contenente caffeina che potessi sperare di trovare lì.

La mattinata passò anche troppo in fretta; rimasi da quei due ragazzi per un’oretta, dopo Pedro si offrì di aiutarmi con la spesa e a fare conoscenza del campus. C’erano un campo di football, palestra, lavanderia, una sala comune per passare le serate, la mensa…qualunque cosa. Inziai a chiedermi se non fossi finita in paradiso.

***

Passarono le settimane e, sebbene i giorni volassero, le notti non finivano mai. Ero in piena tempesta ormonale per colpa di quei due tipi della porta accanto, e non mi era mai successo. Normalmente frequentavo qualcuno, pensavo che fosse la volta buona e invece non riuscivo neppure a fargli un bocchino per la repulsione, una repulsione che non mi spiegavo. Loro invece riuscivano a risvegliare in me un istinto primordiale, animalesco, incredibile.
Ne risultava che durante il giorno fossi costretta a frenarmi dal saltare addosso a Pedro, che ora passava diverso tempo insieme a me, ma non si sbilanciava mai più di tanto e non mi permetteva di sbilanciarmi a mia volta, e durante la notte mi toccassi come un’ossessa.

Specie quando, una volta, passando a casa dei due per portargli un libro, mi capitò di intravedere Dimitrij attraverso la porta, non ben chiusa, della sua camera.
Era completamente nudo e nonostante l’avessi potuto guardare per pochissimi secondi, l’immagine mi rimase impressa in modo indelebile nella mente per giorni. Senza abiti sembrava anche più grosso che da vestito; bello, villoso, con le gocce d’acqua non asciugate dopo la doccia che gli facevano brillare la pelle. E l’occhio mi era caduto anche, ovviamente, sul suo pube, dove ero rimasta con l’acquolina in bocca, visto come era ben attrezzato anche a riposo.

Ero talmente imbambolata, che non mi accorsi neppure se mi avesse colta a spiarlo o meno, ma per fortuna (o disgrazia) Pedro mi distrasse e riportò alla realtà, chiamandomi dalla cucina.

***

Ero di fronte a lui. Stavolta non distolse lo sguardo da me, anzi, mi osservò con interesse maniacale, ossessivo e geloso, quasi che volesse rendermi invisibile al resto degli avventori del locale a forza di sguardi. Sorrisi. Finalmente, finalmente mi guardava, mi desiderava, questo era evidente. Non lo diceva a parole, ma i suoi occhi affamati, le sue labbra, aperte in una sorta di ringhio, i suoi muscoli in tensione mentre si avvicinava a me sulla pista da ballo, me lo indicavano chiaramente. Così come una leggera sporgenza che potevo intravedere all’altezza della zip dei suoi jeans. Com’era sexy in jeans, glieli avrei strappati a morsi, stavolta.

Quando fu abbastanza vicino, mi prese per i fianchi e mi spinse a se, cingendomi con le sue braccia. Mi abbrancò per il sedere, e dovette sollevarmi perchè potessi arrivare alla sua altezza, dato che portavo, come sempre, le mie scarpette di tela piatte. Tanto meglio, era ancora più eccitante.
“Vorresti baciarmi, eh, piccola furbetta?”
Non risposi, non riuscivo a parlare. Dalla mia bocca uscivano suoni vuoti; mi ritrovai invece ad avvicinarmi a lui e baciarlo con fame, con passione. Le sue labbra odoravano di whiskey ormai svaporato e dolciastro, e vodka. Odorava di maschio, mi faceva sentire le gambe deboli, e per fortuna ero già al sicuro tra le sue braccia.
Ci appartammo, in un angolo del locale. Mi teneva ancora su, e potevo sentire bene la sua erezione potente premere sui pantaloni e attraverso le mie mutandine. Ormai la mia gonna era salita su, lasciandomi le gambe completamente nude attorno ai suoi fianchi.
La sua e la mia lingua competevano, ma dovetti lasciargli gestire il ritmo del bacio quando, improvvisamente, spostò le mani sulle mie mutande, toccandomi attraverso il tessuto lì dove avevo più bisogno.
“Ah, si! Ti prego, si, scostale!” dicevo io, presa da una frenetica voglia, e però non riuscivo a sentire nemmeno me stessa. Lui però parve capire. Mi sorrise, staccandosi dal bacio, e spostò lentamente il tessuto elasticizzato dello slip, introducendo le sue dita e passandomele sulla passera, ormai zuppa. Quando tolse la mano, era bagnata dei miei umori, e me li avvicinò al viso, invitandomi ad assaggiare il mio stesso sapore.
Dopo mi spostò contro il muro, e cominciò a toccarmi con più foga, più metodo, con l’intento di farmi venire. I miei gemiti si facevano sempre più frequenti, anche se muti. Aprivo la bocca, urlavo di piacere, gemevo di gioia, finalmente mi sentivo liberare da tanti mesi di astinenza forzata da un orgasmo vero, soddisfacente. Sentivo montare dentro di me un’infinità di scariche elettriche, che piano piano si accavallavano fino al climax…e venni in modo straordinario, urlando frasi sconnesse, volgarità a casaccio, esultando come se avessi vinto una coppa del mondo. E in quel momento suonò il campanello, e Dimitrij scomparve, dissolto insieme al sogno che avevo appena fatto e che mi aveva lasciato solo una cosa reale.

La sensazione di aver appena avuto l’orgasmo migliore della mia vita.

Il campanello continuava a suonare, non ero sveglia ormai. Aprii gli occhi a fatica e osservai la sveglia. Erano solo le tre di notte. Chi può mai venire a rompere le scatole alle tre di notte? Che fosse arrivata finalmente l’inquilina?
Mi stiracchiai, liberandomi della sensazione che sempre mi lasciavano gli orgasmi di avere le gambe rattrappite, e andai ad aprire, ancora scalza e seminuda. Indossavo solo un paio di mutandine bagnaticce dall’esperienza precedente e un reggiseno di quelli sportivi e leggeri, dato che il clima era ancora piuttosto caldo.

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