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Racconti Gay

Un nodo di solitudine

By 8 Dicembre 2015Dicembre 16th, 2019No Comments

Incontrai la solitudine profonda quando i miei genitori divorziarono male. Mia madre fuggì con un incantatore di serpenti indiano e nessuno ne seppe più nulla. Mio padre si perse dietro i fumi della sua ossessione lavorativa. Mi regalò una cospicua rendita economica ma completamente arida dal punto di vista affettivo.
Passai gli anni dell’adolescenza a casa dei nonni paterni, con la figura della nonna che era come un generale di brigata. Non si muoveva foglia che lei non volesse. Andavo a scuola, tornavo e studiavo. Punto. Praticamente un eremita.
Finito il liceo, mi ritrovai spedito in un’università a distanza siderale da casa, con obbligo di frequenza e soggiorno interno. Nei primi mesi mio padre si fece vivo tutti i sabati, mi portava in città e passavamo la giornata insieme. Cinema, ristorante, centro commerciale. Poi iniziò a saltare un weekend, quindi due e le scuse si fecero sempre più astruse, chiamando in causa fantomatici clienti asiatici e fornitori latinoamericani. Mi ritrovai da solo in quel grande istituto, senza nemmeno la speranza dell’attesa dell’incontro con l’ultimo legame alla mia vita precedente.
I nonni si facevano sentire di rado, con una telefonata ogni tanto che mi lasciava sempre l’amaro in bocca perché i loro ‘un giorno verremo’ e ‘ti aspettiamo quando vuoi’ si risolvevano sempre in un nulla di fatto.
Mi ero fatto pochi amici e anche con i compagni di stanza o di classe i rapporti erano al minimo. In compenso mi piaceva la scuola e studiare. Passavo molto tempo in biblioteca e prendevo buoni voti. I professori esaltavano le mie doti e mi prospettavano una luminosa carriera negli anni a venire.
Io ne ero felice, soprattutto per l’impegno che ci mettevo nello studio, ma quello che sentivo era un enorme vuoto all’altezza del petto. Un vuoto che cercavo di colmare camminando per la città in ogni momento libero dallo studio. Era una bella città, non troppo grande ma con tutto quello che uno poteva desiderare. Imparai a memoria le sue stradine del centro storico e i viali più grandi delle zone moderne; quali erano i confini dove le case signorili passavano la mano ai palazzi popolari; le zone della movida notturna e dove andare a bere un caffé in santa pace senza sentirsi fuori luogo.
La città divenne la mia amante e la mia musa. Scrissi per lei diverse poesie e le pubblicai sul foglietto della scuola, ma con poco successo. Non era quello che mi interessava. Volevo solo amarla. Mi dava quello che i miei genitori non erano mai riusciti a darmi.

Una sera di primavera, durante le vacanze di Pasqua, mentre ero immerso nelle mie camminate e nei miei pensieri sulla città, sentii una voce chiamarmi. Trasalii. Cercai con lo sguardo l’origine di quel suono e la trovai in un ragazzo fuori da un bar. Aveva un bicchiere in mano e lo identificai subito come uno dei fighi della scuola. Quei ragazzi che tutti ammirano e per cui le ragazze vanno in visibilio.
‘Ti va una birra?’ mi chiese.
Ero abbastanza esterrefatto. Mi chiesi se mi stesse prendendo in giro o cosa. Grazie alla mia capacità di non apparire non ero mai stato oggetto di bullismo e nemmeno in quel mi sentii la vittima predestinata per qualche scherzo di cattivo gusto. Inoltre analizzai il suo sorriso e non mi parve quello di un carnefice. Mi parve un sorriso schietto e dolce.
Mi avvicinai cercando di nascondere il mio imbarazzo, imitando senza troppo successo un passo disinvolto.
‘Sei sfuggevole.’ mi disse come prima cosa, senza nemmeno presentarsi. Rimasi a bocca aperta. ‘Non ti si riesce mai ad avvicinare a scuola. Ti fai le tue lezioni e poi sparisci.’
Non capii se fosse un’aggressione o solo una constatazione del mio stato. Restava il fatto che qualcuno s’era preso la briga di osservarmi, seguire i miei movimenti e cercare di contattarmi. Ne fui felice.
‘Piacere, Diego.’ allungò la mano verso di me. La strinsi e mi presentai anch’io.
Diego aveva un sorriso amichevole ed emanava uno strano stato di calma, di piacevolezza. Inoltre era davvero bello. Non mi ero mai immaginato a pensare questa cosa di un uomo, ma con Diego non riuscii a farne a meno. Era un bello da mangiare, da stringere, da coccolare, e vicino a lui sentii che quel grande vuoto che portavo dentro si stava come sciogliendo.
Mi prese per un braccio e mi condusse all’interno. ‘Cosa bevi?’ mi chiese.
Non ero un bevitore, nemmeno occasionale. Restai ancora interdetto. Balbettai qualcosa di poco intellegibile ma Diego capì ugualmente quello che mi passava per la testa e per la pancia.
‘Simo, fagli un Martini Light.’ ordinò al barman.
Con in mano i bicchieri ci inoltrammo nel locale. C’erano diversi gruppetti seduti ai tavoli e la musica era abbastanza alta. Non avevo molta esperienza di vita notturna ma quel bar iniziava a piacermi.
‘Non si sa nulla di te.’ iniziò Diego quando ci fummo seduti. ‘Ho chiesto in giro ma sembra che tu non voglia lasciare traccia.’
Quell’affermazione mi colpì come una frustata in pieno viso. Chi era questo bellimbusto per venire a farmi la morale? Cosa ne sapeva lui di me?
Ecco’ cosa ne sapeva lui di me’ e in quel momento iniziai a raccontare tutto quello che per anni mi sono tenuto dentro. Raccontai a Diego, un perfetto sconosciuto, tutta la mia solitudine, tutto quel grande vuoto che mi attanagliava il petto. Un vuoto che vicino a lui sembrava come disciogliersi.
Parlai e parlai, avvicinandomi al suo orecchio per sovrastare la musica che riempiva il locale. Parlai come non avevo mai fatto, senza nemmeno preoccuparmi se quelle mie parole infastidissero il mio unico interlocutore.
Quando alla fine il fiume della mia frustrazione si esaurì guardai Diego in viso. Avevo paura di quello che Vi avrei trovato ma lo guardai ugualmente. E lo trovai sorridente. Un sorriso caldo e accogliente, un sorriso comprensivo che non chiedeva nulla in cambio della sua amicizia.
Non avrei mai pensato di trovare un persona così. Sentii che la mia solitudine, almeno per una sera, se n’era andata.

Dopo aver bevuto un altro cocktail Diego mi chiese se volessi andare da lui. Ero un po’ brillo, un po’ eccitato dalla nuova amicizia che non ci pensai due volte ad accettare l’invito.
Camminammo per quelle vie che conoscevo come le mie tasche, gli raccontai la storia dei palazzi che ci circondavano, delle botteghe che aprivano le loro vetrine ora buie sotto i portici, delle targhe che ornavano le facciate e i pilastri.
Diego sembrava davvero interessato a quello che raccontavo. Mi chiedeva e mi punzecchiava. Eravamo davvero amici, anche se solo da poche ore.

Arrivammo al dormitorio. Davanti alla sua porta. Diego, con la mano appoggiata alla maniglia, si voltò verso di me piantando gli occhi nei miei.
‘Mi piace stare con te.’ mi disse. Ero al settimo cielo. ‘Ma forse non hai capito bene come.’ continuò sorridendo mentre un macigno si appoggiava sul mio cuore. ‘E prima di creare malintesi voglio essere chiaro. Mi piaci come fidanzato.’
Restai basito. Nella foga di raccontare al primo sconosciuto tutti i miei crucci non avevo fatto caso a quei segni sulle sue intenzioni, segni che avrei dovuto cogliere.
Ripensai all’ambiente del bar, agli avventori’ poi rividi i comportamenti di Diego e lo scrutai nel profondo dei suoi occhi. Non c’era menzogna, non c’era scherno. Lui era così. E forse aveva letto dentro di me quello che ero anch’io.
Avevo sempre guardato le ragazze e me le ero sempre immaginate nude, mentre in bagno o sul letto mi masturbavo. Sognavo le loro bocche, i loro seni, il calore del loro sesso ma non avevo mai trovato il coraggio di avvicinarle. Erano delle entità divine troppo lontane per me.
Oppure non mi interessavano veramente. Non le avevo mai contattate perché non era quello che desideravo.
Ero confuso. Più che mai.
‘Vuoi entrare oppure ci vediamo domani?’ mi chiese Diego riportandomi alla realtà.
Non sapevo cosa fare. Non sapevo quello che volevo. L’unica cosa che sapevo era che la sua vicinanza scioglieva il mio nodo.
‘Entriamo.’ dissi prendendo il mio coraggio a quattro mani e lasciandomi trascinare dagli eventi. Ero in gioco e volevo giocare fino in fondo.
La stanza era simile alla mia. C’era il salottino e poi due camere da letto con due letti ciascuna. Mi fece accomodare sul divano mentre preparava altri due cocktail ma non c’era bisogno di altro fra noi. Non appena si sedette vicino a me venimmo attratti come due magneti. Ci ritrovammo uno nelle braccia dell’altro.
Annusandone il profumo, tastandone la morbidezza dei capelli, accarezzando la sua pelle, capii che difficilmente ci sarebbe potuto essere più affinità.
Sentii le sue mani su di me, le sue dita scostare i miei abiti, sbottonare la camicia, aprire i pantaloni.
Io cercavi di imitare i suoi movimenti ma mi sentivo impacciato, un vero novellino.
Quando alla fine ci ritrovammo nudi e con la sua mano sul mio pene, non potei trattenermi dall’informarlo che ero vergine.
‘Non temere, non faremo nulla che ti ferisca.’ disse baciandomi e poi gettandosi a capofitto sul mio cazzo duro come marmo.
La sua bocca era calda, la lingua lavorava veloce e la mano accompagnava il movimento. Era il mio primo pompino ed era fantastico. ‘Non resisto.’ gli dissi.
‘Vieni pure.’ mi rispose prima di rituffarsi sulla mia asta. Pochi altri movimenti decretarono il climax del mio orgasmo che regalò al mio amante un torrente di caldo sperma.
Crollai sullo schienale del divano, ansimando per il godere e rosso in viso per la vergogna di essere durato così poco.
Diego si risollevò. Sulle sue labbra brillavano gocce del mio seme ma aveva ingoiato tutto. Il suo sorriso tornò a splendere verso di me alleviando un po’ il mio malessere.
‘Scusa, ma’ sai” inizia a balbettare. Lui mi mise un dito sulla bocca obbligandomi al silenzio.
‘Non c’&egrave nulla da dire.’ gli baciai il dito.
Lui mi accarezzò il petto placando così la mia frenesia. Era stata un’esperienza nuova ed eccitante. Adesso toccava a me restituire il piacere ricevuto.
Allungai la mano e afferrai il suo bel cazzo. Era più grosso del mio. Aveva una cappella rotonda e rossa. Iniziai a segarlo lentamente, come piaceva farlo a me stesso. Un movimento lungo e profondo che partiva dal prepuzio e giungeva fino alla base dell’asta. Vicino al mio orecchio sentivo Diego mugolare. Soffiava dal naso e mi diceva che stavo facendo bene.
Come uomo sapevo che una bella sega ha bisogno di un buon lubrificante, quindi mi sollevai e lasciai cadere un filo di saliva sulla sua cappella. La mano ora scorreva molto più velocemente. E molto più ritmati erano anche gli ansiti del mio compagno. Sapevo cosa significava, che non avrei dovuto fermarmi, che avrei dovuto continuare sino a farlo esplodere di piacere.
E così fu. Lo sentii irrgidirsi contro il mio corpo e il suo uccello pulsare caldo. La sborra eruppe impetuosa ma io non fermai la mano, continuai fino a che gli spasmi del suo orgasmo non si furono placati. E continuai ad accarezzarlo anche quando ormai non c’era più nulla di baldanzoso in quel salsicciotto di carne.
Ma avevo scoperto che adoravo tenerlo tra le mani. Adoravo averlo vicino. Adoravo tutto di lui.
Quella notte ci addormentammo abbracciati e nudi sul suo divano fino a che le luci dell’alba non svegliarono i nostri occhi, facendomi capire che quello che avevo vissuto non era un sogno ma una splendida realtà.

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