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Racconti di Dominazione

Amplesso

By 17 Gennaio 2019Dicembre 16th, 2019No Comments

Gli saltai addosso e lo inculai a sangue. Dette un grido, di sorpresa più che altro. Poi si dette da fare per dilatarsi lo sfintere come una vacca in monta. Lo sentii gorgogliare, ansare, mentre l’asta forzava,contrastata dall’angustia dello stretto canale che la accoglieva a stento. Mi sembrava udire lo sfrigolio della carne nell’attrito col ferro rovente.

Lui emetteva un suono gutturale sordo, prolungato, ripetuto all’infinito, come se volesse ribellarsi alla spranga che lo invadeva arrogante contro la sua volontà , ma, nello stesso tempo, dichiarandosi vinto, volesse collaborare col nemico.

Lo squartavo, avvalendomi della manifesta superiorità di chi possiede. Non si sottraeva lui, no! Anzi, alla fine, il prolungato lamento diventò una espiazione liberatoria. Stava raggiungendo l’orgasmo! L’attendeva da molto tempo e finalmente gioiva per il dono che offriva a me, il domatore che lo piegava.
“Ooooooooooooooooooooooooohhhh!Ahhhhhhhhhhhh!” – era vinto! Avrebbe fatto accapponare la pelle se non fossi intento a debellare le ultime difese del nemico. Insistevo nell’umiliarlo, spronando la mia cavalcatura con speroni d’acciaio nel suo ventre. Fu un grido di dolore e di espiazione delle pene eccitava lo stato di eretismo in cui ero, portandolo all’eccesso.

Mi parve entrare per intero in quel cunicolo rosa, fatto di carne. La verga lo penetrava gustando i frutti dell’esplorazione e mi donava la sensazione di palpare le sue visceri, come se l’avessi a portata di mano; lo rivoltavo come un cappotto vecchio. Il calore del suo corpo m’invadeva, penetrando nei miei centri nervosi, annebbiandomi la vista e la mente. Davo da matti incuneando e ritraendo vertiginosamente il verro che sprofondava, prontamente recuperato, per affondare ancora e ancora.

Strofinavo, spingendo e ritraendo lo spiedo, per poi affondare sempre di più. Giocavo con la povera vittima, straziandola. Sentivo che l’oggetto delle mie attenzioni, partecipava, penosamente, ad ogni affondo. Lo vedevo sollevare il capo indietro fra le spalle contratte, mentre spostavo sempre più oltre il limite massimo possibile ad ogni colpo di reni che menavo. Una contrazione gli faceva vibrare la testa verso l’alto che poi ricadeva, ciondoloni, in basso, accompagnata da un grido roco, soffocato, a testimonianza del devastante dolore che provava, superato solo dal piacere di partecipare al gioco al massacro in cui era il consenziente capro espiatorio

L’onda di forsennato piacere mi trasformava in strumento attivo di quel gioco. Avrei voluto non finisse mai! Aderiva sempre di più a me, la vacca, incollata come una ventosa; si agitava, si dimenava muovendo le anche avanti e indietro, sollevandomi dalla fatica che ora si faceva sentire nelle mie reni. Mi utilizzava per chiavarsi da solo. Non potevo più ritrarmi. Ero in suo potere. L’automatismo del movimento, piantato nella mia mente, mi rendeva un automa e non potevo scollarmelo più di dosso, neanche se avessi voluto.

Ma non volevo! Troppo godere, troppa dolcezza provavo nella mia gola riarsa che si abbeverava a quel nepente tumultuoso che mi affogava. Un languore, d’un tratto, mi ferì, scendendo lentamente fino al cuore, e non mi abbandonò più. Mi abbattei sulle sue spalle, accarezzando freneticamente i seni pendenti, l’addome convesso, stringendo i capezzoli. Ad ogni stretta la mia giumenta scartava, inarcando il groppone e scrollandomi di sella. Ben incollato a quei glutei meravigliosamente pregni della mia sostanza avvertivo sensazioni profonde che coinvolgevano entrambi.

La mia Troia non mirava a disarcionarmi, ma a succhiare completamente tutto il nettare che un’ape può suggere dallo stame. Stimolava ancora quel punteruolo che selvaggiamente gli copulava le viscere.

Quanto tempo trascorse nel triturarci vicendevolmente? Sbuffava anche la mia cavalcatura, si sbandava, non reggeva più il peso vescicoso del mio corpo svuotato. Tentava di riequilibrarsi allargando le gambe che tremavano per lo sforzo, finché non cadde di piatto sul letto, schiacciato dal fardello del mio peso. Lo sentivo sotto di me caldo, umido fra le cosce mentre il batacchio, ormai inutile, giaceva e non batteva più nella campana. Le meningi pulsavano, invece, attraversate da fiotti di sangue, stordendomi, come se suonassero a festa.

Sopraffatti, non avevamo più forza né voglia di parlare, di guardarci, di scambiarci le carezze che pure avremmo voluto continuassero ancora sui nostri corpi. Umidi di sudore, sovrastavo la mia cavalcatura, ancora in groppa, non disarcionato, ma caduto con lei sul campo di battaglia. Rantolavo, ansimavamo per riprendere fiato. Poi scivolai giù dalla sella, boccheggiando, inane. Non avvertii più nulla!

Il buio totale mi assalì. Al risveglio. Un sussulto. Temetti di essere sprofondato nell’Averno. Le tenebre mi avvolgevano, mentre la testa vuota mi danzava intorno come una zucca di Halooween. Avvertii un pugno nello stomaco. Avevo fame. Non potevo essere morto. La mano stringeva qualcosa di caldo. Capii cos’era. Provai a portarlo alla bocca, mentre gli occhi si rifiutavano di concedermi il loro aiuto. Solo il tatto mi era rimasto. Mi accostai e fui grato a quel che stringevo.

Lo baciai, prima di spompinarlo con gusto, come fosse un gelato al forno, caldo, appena sfornato, servito dopo un lauto pasto. Un sospiro mi raggiunse. Lui mi teneva la testa, accarezzandomi i lobi delle orecchie.

Nina Dorotea

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