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Dimenticanze

By 17 Ottobre 2012Dicembre 16th, 2019No Comments

Indossavo una gonna a ruota mercoledì. Senza calze, faceva ancora caldo. Dopo l’università (frequento il primo anno, sono fuori sede) ero andata in palestra, dove mi ero iscritta per mantenere il mio fisico in perfetta forma. Cambiata di corsa dopo una giornata di lezioni, ma se non riesci a essere di corsa a diciannove anni quando lo sei? Un’ora di step e tapis roulant accompagnata dalla musica delle mie cuffiette, e la mente già completamente all’aperitivo. Conosco poca gente, qui a Milano, e i compagni di corso mi aspettano per il rito più milanese che c’è. Dopo un’ora a sudare, sono in spogliatoio; niente di troppo chic, Milano non è il Veneto, qui trovi le palestre in offerta ma sono buchi ricavati da vecchi caseggiati anni 40. Doccia con acqua tiepida, e via di corsa all’armadietto. Ma cazzo, c’è qualcosa che non va, cazzo. Non ho portato il ricambio. E sono in gonna, cazzo. E sebbene non cortissima, è ua gonna a ruota, per di più. E devo pure andare a prendere l’aperitivo e di sicuro non riesco a passare per casa, visto che sono già in ritardo come al mio solito. Di mettere il peri che avevo durante l’allenamento, non se ne parla proprio: è sudato, troppo. Così, mentre mi trucco ancora avvolta nell’asciugamano e poi, mentre mi asciugo i miei lunghi capelli biondi, decido che non ho tempo: l’ho fatto solo un paio di volte, ma mai di giorno e mai con una gonna così corta; esco senza. Libera sotto. Mentre mi siedo sulla panchina, mille pensieri mi passano per la testa. E se se ne accorge qualcuno? No no, quasi quasi abortisco l’aperitivo con una scusa. No dai, Debbi, non è così corta la gonna nuova. Insomma. Vabbè, ci provo. Ma se non mi sento a mio agio, torno a casa subito. Meno male che ho fatto la ceretta lunedì dai, sai mai che se si vede almeno faccio la figura di quella curata, vaneggio tra me e me. Imbarazzatissima, noto che una ragazza di qualche anno in più ha visto (e sentito, viste le mie imprecazioni) la scena. E’ seduta di fronte a me. Vede la mia faccia diventare paonazza quando tiro su la gonna e mi alzo in piedi, e sono sicura mi stia fissando mentre mi siedo per indossare gli stivaletti. Deve divertirsi un sacco, devo essere tanto goffa. Esco facendo un’attenzione pazzesca mentre salgo le scale che portano all’uscita, e appena fuori accendo una sigaretta. Non dovrei dopo lo sforzo, ma la situazione la richiede, anzi, la esige. Sento fresco sotto. La ragazza esce qualche minuto dopo di me, tira dritto. Forse non vuole farsi vedere mentre ride, penso. Finita la sigaretta, vado verso la fermata del tram: è già quasi buio, e per strada non è che ci sia tanta gente, ma mi sento come se tutti mi guardassero male perché sono senza mutande. Non possono saperlo, non possono immaginarlo, ma io sono convinta che si noti. Mentre salgo sul tram trovo fortunatamente un posto libero sulla panchina di legno: che faccio, mi siedo? O resto in piedi? E se viene qualche porco dietro? No no, meglio seduta. Mi siedo facendo attenzione, piegandomi prima la gonna dietro e dopo mettendo le mani davanti mentre accavallo. Sono terrorizzata ma ammetto che la situazione mi sta piacendo. O cazzo, di fronte c’è la ragazza della palestra. Deve essere salita alla fermata prima. Rossa, divento rossa. Bordeaux. Abbozza un mezzo sorriso. Noto solo ora che è in gonna anche lei, per giunta più corta della mia. Provo a tenere basso lo sguardo per non incrociare il suo, ma non voglio nemmeno sembrare scortese, in fin dei conti nessuna delle due ha ammazzato nessuna. Così vedo che mi fa un mezzo sorriso. Accavalla due volte lenta, e non capisco perché. Poi sorride e allarga leggermente le cosce. Sono di fronte a lei, e capisco. Capisco tutto. Anche lei non le porta. Suona il campanello e si alza, va verso l’uscita: “Sono Francesca, domani vediamo di ricordarcele, io sono in palestra alle sei”, mi fa con accento toscano questa bella ragazza mentre strizza l’occhiolino. Scende e va via. E con il tram al semaforo fermo, rimango a guardarla mentre va via sicura e si accende una sigaretta. Non sono lesibica, anzi, ma sotto è un ribollire. Non doveva succedere, ma sarà la situazione: mi bagno. Scendo dal tram che sento l’odore fin le mie narici, ma forse è solo un’impressione; arrivo all’aperitivo e dopo essermi sistemata in bagno e aver bevuto due americani (sarebbe stato comico se avessi scritto “fatta due negroni”, come dicono qui, alludendo ovviamente al drink), stando seduta con le mani davanti alla patata tutto il tempo per “allungare” la mia gonna a ruota e aver fumato cinque sigarette per il nervosismo senza essermi goduta la serata, vado a casa. Chiudo a chiave, mi distendo a letto, apro oscenamente le gambe. C’è Francesca nella mia testa, anzi, c’è quella situazione sul tram, quella mezza frase. Vorrei sfiorarmi e fare le cose con calma, ma non ci riesco: in un minuto sento già gli sconquassi di un orgasmo violentissimo. “Rilassati'”. Me lo ha detto sorridendo. E’ passato quasi un mese da quella sera in palestra, e da quello scambio di battute sul tram. Ci siamo incrociate altre volte, senza la stessa magia; due parole in spogliatoio, un “come va?” durante lo stretching, un commento su quel figo della madonna che viene ogni mercoledì sera. C’è sempre stato un po’ di imbarazzo nell’aria, forse più da parte mia. Debbie e Francesca, quelle che in una serata di inizio ottobre si son dimenticate il ricambio. Non sono nemmeno sicura di averle mai detto il mio nome. Per certe cose noi donne siamo un po’ così: situazione divertente, ma ci si tiene sempre a una certa distanza, c’è complicità ma non a sufficienza per iniziare un’amicizia. L’altro giorno pioveva tanto. La classica giornata grigia, inutile, in cui vorresti sparire oppure restare a casa sotto il piumone, mangiando schifezze e fumando sigarette una dietro l’altra senza neppure alzarti per passare il tempo: l’università è appena cominciata, e . Del resto, dopo qualche giorno di baldoria, ci starebbe tutto. E invece sono uscita per andare in palestra, giusto per fare qualcosa; zero trucco, ma almeno non mi sono messa in tuta, non so perché a dire il vero. Jeans skinny, maglioncino lungo e stivali, una delle mie divise per questo inutile autunno. Sono arrivata con l’ipod nelle cuffie, e il cappuccio dell’impermeabile Geox a coprirmi i capelli per evitare che si bagnino; odio gli ombrelli, non li sopporto proprio. Ero all’altezza del bancone a cercare nella mia solita borsetta troppo piena l’abbonamento, quando mi son sentita battere sulla spalla sinistra. “Ciao”. Era lei.
“Andiamo a fumare?” mi ha chiesto.
“C-ciao – ho risposto sovrappensiero mentre nelle cuffie suonava Little Talks -, in realtà sono appena arrivata”.
“Ah. Sappi che lo step non funziona”, mi ha detto. Ho fatto cenno di no con la testa. “Sicura? Daaaai, sigaretta, che è una giornata di merda”.
Ho sorriso e l’ho seguita. Un minuto a cercare l’ultima sigaretta del pacchetto, lei si è accesa una Marlboro Touch, le stesse che fumo io.
“Sciogliti e rilassati un po’, mica mangio eh”, mi ha scherzato con un inconfondibile accento toscano. Io non sono timida cazzo, ma mi ha messa in soggezione. Non tanto per la vicenda delle mutandine dell’altra volta, quanto per i pensieri (e le azioni) che ho fatto dopo quando sono tornata a casa.
“Ciò – ommioddio quanto odio essere veneta a volte -, ci provo eh”, ho risposto aspirando la prima boccata.
Siamo scoppiate a ridere, come due amiche vere. Così finita una, mi ha offerto una seconda sigaretta, e mi ha raccontato di come per lei fosse stato un ponte di merda, tra lavoro e uomini. Io ascoltavo.
“Fregatene della palestra, andiamo a bere”.
Mai chiedere di bere a una veneta, anche se è domenica, non ci sono tanti posti aperti e sono le quattro di pomeriggio. Reggo. Fidati. Così ci siamo ritrovate in un piccolo bar gestito da cinesi, tuttosommato carino nonostante lo squallore della zona. Uno spritz, due mojito, altro spritz. Ero sciolta, e le ho parlato a lungo della mia nuova vita da fuori sede, senza addentrarmi in particolari troppo’particolari. Lei mi ha raccontato della sua vita da praticante avvocato. Dovevo sospettarlo dall’eleganza: anche la domenica è venuta con una gonna poco sopra il ginocchio e degli stivaletti con il tacco. “Sai, anche la domenica mattina spesso mi tocca lavorare, che palle questa Italia che ti sfrutta a ogni ora del giorno e della notte”.
“Devo comprare sigarette, si è fatto tardi e andrei verso casa”, le ho detto un po’ intontita dall’alcol.
“Prendile sotto casa mia, abito dietro l’angolo in fondo alla strada, ti accompagno e poi torno a casa”. Stava diluviando, merda. Un diluvio di quelli che senza ombrelli ti inzuppi per fare cinquanta metri. I metri saranno stati cento. Così ho comprato le sigarette e ho detto a Francesca che andavo alla fermata del tram.
“Sei matta? In queste condizioni? Passa su da me che ti asciughi e ti fai una doccia, tanto hai la roba della palestra”.
La doccia no, non ero così zuppa, ma aspettare che spiovesse poteva essere un’ottima idea. Così sono salita da lei. Mi ha dato subito un asciugamano, e mi ha chiesto se volevo una tuta.
“No grazie, dai, mi asciugo in cinque minuti”.
Cinque minuti dopo però ero molto più bagnata. Ma bagnata sotto. In questi cinque minuti Francesca mi ha toccato i capelli per sentire se erano davvero asciutti come dicevo io, e mi ha tirata leggermente a sé scherzando. Ci siamo guardate due secondi. Poi mi ha baciata, anzi ci siamo baciate perché lo volevo anche io. “Non sono lesbica” le ho detto. “Neppure io”, mi ha sussurrato. Io ero tesa. “Rilassati, non ti mangio”, mi ha ripetuto. Ma io volevo essere mangiata. Volevo che il suo morso proseguisse. Ho giocato da sola il bottone dei jeans, mentre lei mi accarezzava leggera. La sua mano si è insinuata subito tra la maglia e i jeans sul mio ventre piatto, e io ho usato la solita tecnica, la stessa che uso con i ragazzi e che fa loro perdere la tesa. “No dai non si può”, mentre tiro in dentro la pancia e con gli occhi chiedo tutt’altro. Ecco, così ero bagnatissima, il mio slip somigliava alla sabbia del bagnasciuga quando arrivano le prime onde del cambio marea, si riempiva di umori e di voglia.
“Vedo che le hai ricordate oggi”, mi ha come ripreso.
Così un po’ per curiosità un po’ perché ormai la situazione era completamente compromessa le ho toccato le cosce sui collant, sollevandole la gonna. Cristo, autoreggenti. Con la faccia più sorpresa del mondo sono salita. E la sorpresa è stata ancora più grande. Nulla. Nulla di nulla. E solo sfiorando la sua zona più liscia ho capito quanto lei mi volesse esattamente come la desideravo io in quel momento. Due laghi. Labbra che si toccano, lingue che si intrecciano. Cioè Fra nello spogliatoio della palestra – per carità, non sarà stato affollato come durante la settimana ma qualcuna ci sarà stata – si è messa autoreggenti e gonna senza intimo. Mi sono immaginata in un flash la scena. La volevo.
“Sono sbadata, a volte le lascio a casa” ha detto scostandosi. Il mio cellulare suonava, ma non ho risposto. Siamo andate di là, in camera sua. Siamo cadute abbracciate nel suo letto doppio, io con i jeans ancora addosso lei con la gonna alzata che lasciava vedere la balza delle calze. Mi ha spogliata con decisione, mi ha messa a pancia in su e quindi ha cominciato a toccarmi, mentre io le accarezzavo la gonna in seta e il sedere. Sussurri. Brividi. Si è spogliata rimanendo solo con le calze. Le nostre due “cose” si sono toccate per un attimo, quindi ci siamo masturbate a lungo, fuori e dentro, tanto che mi è sembrato di essere venuta cinque volte dico; a un certo punto ho assaggiato i suoi umori dalle mie dita e ho le ho detto “tanto’.ormai”, prima di rovesciarla gambe all’aria. L’ho leccata prima io, era dolcissima. Non era la prima volta che facevo sesso con una ragazza, ma era la prima volta che capitava con qualcuna che non fosse una mia amica. Sapeva di proibito. La leccavo e nel frattempo la penetravo con indice e medio. E’ venuta subito. La sua pancia tremava e la testa si muoveva come colpita da epilessia. “Tocca a te”, le ho detto implorandola.
“Non l’ho mai fatto”, mi ha risposto Francesca facendomi temere che non avrebbe proseguito. “Ma non sarà difficile”. Così è scesa e ha iniziato succhiandomi l’interno coscia, quindi è salita disegnando dei cerchi sul clitoride. Ho chiuso gli occhi. “Perché non è così con gli uomini”, mi ricordo di aver pensato prima di godere per due minuti buoni con versetti e gridolini. Perché solo una donna sa cosa vuoi, mi verrebbe da rispondermi ora. Gli sconquassi sono arrivati mentre mi succhiava le labbra sotto piano piano e io con una mano le accarezzavo i capelli e con l’altra mi toccavo furiosamente il clito. Penso di aver provato poche volte in vita mia sensazioni così intense. Poi ci siamo accese una sigaretta a letto, e siamo scoppiate a ridere.
“Fra, capita” le ho detto.
“A me così non era mai capitato però, non con ragazze”, mi ha detto Francesca.
“Neppure a me”.
“Ti ho detto una bugia, non è vero però che non l’avevo mai fatto”.
“Lo so, l’ho capito da come sei brava”, ho sussurrato mentre ci soffiavamo il fumo in viso senza quasi volerlo, e prima di un bacio mordicchiandoci le labbra.
“Comunque non mi era capitato neppure di farlo con qualcuno di cui non sapessi il nome”. Merda, non mi ero davvero mai presentata. “A me si, ma ragazzi. Comunque Debbie'”. Abbiamo riso. Fuori aveva smesso di piovere, ma avrei voluto restare lì a lungo.

Deb

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