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La Vocazione

By 26 Gennaio 2017Dicembre 16th, 2019No Comments

Credo che tutto sia riconducibile a quella professoressa di lettere del liceo. Avevo 16 anni, e ricordo nitidamente come tutti i maschi avessero occhi solo per lei. Era bellissima, formosa, sensuale, aveva un modo di fare malizioso e complice. Tutti gli altri professori erano austeri e severi, lei invece riusciva a farsi rispettare utilizzando l’arte della seduzione, dell’ammaliamento.
Anche le ragazze, che alle spalle gliene dicevano di tutti i colori, quando se la trovavano in classe non facevano che prestarle attenzione, era una buona insegnante di lettere, ma ancor più di femminilità, da lei traemmo tutte splendide movenze.
Fu la nostra insegnante di italiano per gli ultimi tre anni, e fino alla fine, in classe, anzi, in mezza scuola, non si parlava che di lei.
Per me era diventata un modello, grazie a lei decisi di voler diventare anch’io un insegnante, la ammiravo e invidiavo, e so che se ora sono ciò che sono &egrave tutto grazie a lei.
Certo, io mi sono lasciata prendere un po’ la mano…

Ma cominciamo dal principio.

Quest’anno sono riuscita ad ottenere un posto di supplenza presso un istituto tecnico, sto sostituendo una collega che &egrave in maternità e salterà l’intero anno scolastico. Ho in carico le sue quattro classi.
Pensai che finalmente, dopo anni di studi, il mio sogno si sarebbe avverato, e per i primi tempi fu anche così, ma evidentemente quella sorta di deviazione professionale tramandatami dalla mia passata mentore, e i miei metodi, che definire “anticonvenzionali” &egrave riduttivo, mi hanno portata a quello che &egrave senza dubbio un punto di non ritorno.

I primi giorni le cose filarono lisce, le temperature ancora estive di metà settembre mi permettevano di vestirmi leggera, così scelsi sin da subito di utilizzare dei capi piuttosto scollati cercando nel contempo di avere un look il meno giovanile possibile.
L’emozione del primo giorno mi portò a svegliarmi molto presto e, dopo ore di indecisione, a scegliermi accuratamente un abbigliamento che potesse essere provocante ma adulto al tempo stesso. Il mio problema era che, a differenza della mia vecchia insegnante che era alta quasi uno e ottanta, io dal basso del mio metro e sessantatre e dei miei ventisei anni, se mi fossi vestita come mio solito sarei sembrata una studentessa. Optai quindi per un tailleur estivo abbottonato basso che mettesse ben in evidenza la mia terza di seno sorretta da un immancabile pushup, il tutto corredato da una minigonna ed un paio di tacchi a spillo che mi alzavano di sei centimentri buoni.
L’effetto era perfetto, esattamente ciò che volevo, e gli sguardi interessati dei miei nuovi alunni ne erano la conferma.

La prima classe in cui si iniziò ad incrinare il normale rapporto studente-professore fu una terza ad orientamento meccanico. I primi giorni passarono tranquilli, gli studenti, tutti maschi, dovevano prendere ancora confidenza sia con me sia con i nuovi compagni. Iniziarono a fare casino dal quarto giorno, e le cose peggiorarono la settimana successiva.
Ci si prepara molto dal punto di vista dell’insegnamento accademico, ma per tenere sotto controllo una classe di oltre venti ragazzi serve forza di carattere, ed io in quei giorni appresi di averne ben poca. Non riuscivo ad imporre la mia autorità, mi mancava la capacità di alzare la voce e di tenere un timbro fermo e deciso.
Il martedì della seconda settimana a metà lezione, per l’esasperazione, gridai: “Allora, cosa devo fare per farvi fare silenzio?!”. Quella era la prima volta che alzavo davvero la voce, ma l’evento non li impressionò più di tanto perch&egrave dopo qualche secondo di sbigottimento dagli ultimi banchi si alzò un coro di tre voci che, con tono baritonante, inneggiavano: “Nuuda! Nuuda! Nuuda!”. Dopo qualche secondo ai tre burloni si unirono altri, ed in breve quasi tutta la classe chiedeva una mia svestizione.
In quel momento, con il sangue al cervello e la premura che da fuori non si udisse il disdicevole coro, mi arresi alla folla e risposi: “Va bene ragazzi, fate i bravi ancora quest’ora e a fine lezione vi prometto che mi levo la camicia!”.
Dopo un altro momento di silenzio dal fondo della classe si alza dal banco uno dei ripetenti e con un sorriso da orecchio a orecchio sancì: “Affare fatto prof!”.
Quel giorno mi ero vestita con una camicia slim a maniche lunghe che mi fasciava alla perfezione e metteva in risalto sia il seno, adeguatamente messo in mostra da qualche bottone slacciato, sia il ventre piatto, frutto di saltuarie ma profique visite in palestra.
Sotto avevo un semplice reggiseno a balconcino dello stesso azzurrino della camicia, ed a completare il quadro un paio di jeans chiari e delle scarpe a tacco medio.
I ragazzi furono di parola, da quel momento a parte qualche bisbiglio ed un saltuario lieve vociare in classe si respirava finalmente una tranquillità degna di un convento.
Peccato che dentro di me fossi tutt’altro che tranquilla, sapevo di essermi cacciata in un guaio e le soluzioni che mi si prospettavando avevano entrambe effetti collaterali degni di una cura a base di stricnina.
Potevo ringraziarli della collaborazione e bidonarli sulla camicetta, ma così facendo avrei avuto nella migliore delle ipotesi una classe ingestibile fino alla fine dell’anno, nella peggiore, non so, la macchina in fiamme con la scritta “puttana” sull’asfalto?
Furono quei pensieri a farmi optare per la seconda scelta, ossia quella di tener fede al patto. Sapevo che piegandomi a questo gioco i giorni successivi sarei sempre stata costretta a mercanteggiare la tranquillità, ma la verità &egrave che la classe mi spaventava, e con la confusione che avevo in testa quella sembrava essere la scelta più sensata.
Mancavano cinque minuti all’intervallo, il momento era giunto, terminai quindi con le spiegazioni di storia e, alzandomi dalla cattedra, feci una premessa alla classe: “Ragazzi, sia chiaro che ciò che sto per fare deve rimanere all’interno di questa classe, non parlatene a nessuno, se dovesse venir fuori sarei costretta a cambiare vestiario e sistema di insegnamento. Mi raccomando!”. Detto questo iniziai a slacciare uno alla volta, con mano lievemente tremante, i bottoni della camicetta. Via via che mi sbottonavo si sentivano fischi e qualche “whuu whuu!”, ma l’operazione durò solo una ventina di secondi.
Aperta la camicia, mi resi conto che non avevo slacciato i polsini, sbottonai anche quelli e rimossi completamente l’indumento.
Fischi e applausi riempirono l’aula, mentre io a braccia aperte e con la camicetta in una mano mettevo in mostra la parte superiore del mio fisico coperto dal solo reggiseno. Terminata l’ovazione, che tentai inutilmente di reprimere con un “buoniii” poco convinto ma lievemente lusingato, mi rivestii giusto in tempo per il suono della campanella.
Alcuni ragazzi, passando davanti alla cattedra per uscire dall’aula per l’intervallo, mi fecero complimenti di vario genere ed un paio mi fecero il gesto del lancio del bacio. Rispondevo con “andate, andate”, tentando di simulare poco interessamento, ma in realtà tutte queste dimostrazioni di apprezzamento mi fecero più piacere di quanto potessi prevedere.

Dopo l’intervallo avevo altre due ore con una quinta ad indirizzo elettronico. Classe più tranquilla di soli quindici ragazzi, dei quali nessuno fece allusioni o chiese del mio piccolo e pazialissimo streep. Ciò non voleva dire molto, presumibilmente non c’erano rapporti tra i sedicenni della terza delle ore precedenti e questi diciottenni con indirizzo di studio diverso, sicuramente però durante l’intervallo qualche ragazzo dalla lingua lunga avrà raccontato tutto a qualche amico, ed era solo questione di tempo, ma prima o poi tutti gli studenti mi avrebbero guardata con occhi diversi. Passai il resto della giornata a riflettere su ciò che stava succedendo e sulle emozioni contrastanti che ciò mi provocava. Perch&egrave se era vero che i rischi e le tutt’altro che improbabili conseguenze sarebbero state catastrofiche per la mia carriera, era altrettanto vero che non mi ero mai sentita così tanto desiderata in tutta la mia vita.
Era una follia, eppure più ci ripensavo e più un misto di adrenalina ed eccitazione pervadeva il mio corpo. Razionalmente sapevo che stavo sbagliando, e di grosso anche, ma nel profondo mi immaginavo nelle vesti della mia vecchia professoressa del liceo, e quell’istinto esibizionista che come un tarlo mi infilò nella corteccia quand’avevo sedici anni, ora era cresciuto e si era moltiplicato.
Decisi che dovevo fare qualcosa per arginare la situazione. Riportarla alla normalità era fuori discussione, non avrei potuto cancellare ciò che avevo fatto nemmeno volendo, e non ero nemmeno sicura di volerlo davvero. L’unica cosa che mi restava da fare era volgere la situazione a mio vantaggio, dovevo trovare il modo di ottenere una sorta di controllo sui miei alunni, quel tanto che bastava ad evitare lo spargersi di voci sul mio conto.

Il giorno successivo la prima ora l’avevo proprio con la terza meccanici, e nonostante mi fossi ripetuta mentalmente il discorso centinaia di volte, ero terribilmente nervosa. Da questo discorso dipendeva tutta la buona riuscita del mio piano.
Mi sedetti in cattedra dieci minuti prima dell’inizio delle lezioni ed attesi l’ingresso degli studenti.
Entrarono a gruppi sparsi, disordinati e chiassosi, e dopo aver fatto l’appello e constatato che non mancava nessuno mi alzai dalla cattedra e con un tono abbastanza alto da distrarli dai loro affari iniziai a spiegare quello che definii il mio nuovo “metodo d’insegnamento”.
Cercai di non essere troppo esplicita, ma il sistema che proponevo era semplice: se loro si fossero comportati bene durante le mie lezioni, per ogni verifica di qualsiasi materia, la cui media della classe fosse stata superiore a sette, avrei fatto loro un piccolo show nel mio ultimo quarto d’ora di lezione.
Il discorso fece presa e quando chiesi alla classe di alzare la mano per accettare le mie condizioni vi fu un solo studente che la tenne abbassata. Era uno dei ripetenti.
“Karlin,” chiesi livemente seccata, “preferiresti delle lezioni normali?”
Il ragazzo mi osservò per qanlche istante prima di rispondere. Aeva un’espressione a metà tra il riflessivo e il sarcastico ma nella sua risposta non trapelò alcuna emozione: “No Prof, &egrave che prima di accettare vorrei almeno una piccola anteprima, giusto per esser sicuro”.
“Sì Prof,” si intromise un altro, “ci dia un assaggio!”
Altri ancora si unirono alla richiesta inventandosi tra i più improbabili doppisensi ed io mi resi conto che questa era una piega degli eventi del tutto imprevista.
Credo che sia nei momenti di maggior urgenza o concitazione, quando non abbiamo tempo di ragionare sugli avvenimenti, che vien fuori realmente la vera natura di una persona. Per me quello fu uno di quei momenti, e la persona che ne uscì, beh, credo mi rappresenti abbastanza.
“Volete un anticipazione?!” chiesi retoricamente con timbro deciso, “bene!”, appoggiai la schiena allo schienale della sedia, alzai il bacino e sollevai la minigonna, quindi afferrai il perizoma.
L’operazione avvenne mentre ero seduta in cattedra, la quale però non &egrave totalmente chiusa davanti, ma ha uno spazio di dieci centimetri buoni tra il pianale e l’asse verticale che copre le gambe. Dai primi banchi immagino che, seppur in ombra, avessero una discreta visuale della mia zona inguinale, ma in quel momento avevo troppo sangue al cervello e non ci feci caso.
Spostai il perizoma fino al ginocchio e lo lasciai cadere rimuovendolo totalmente con un abile movimento dei piedi spingendolo a lato della sedia, risistemai la minigonna e raccolsi da terra la mutandina.
Tenendolo con entrambe le mani mostrai alla classe quel piccolo lembo di tessuto nero. Il gesto fu plateale, e fu evidente anche ai più scettici che ciò che avevo fatto, l’avevo fatto davvero.
‘Contenti ora?! Io faccio sul serio, ora dovrete dimostrare di farlo anche voi!’ e con gesto volutamente stizzito gettai il tanga nella mia borsetta appoggiata sulla cattedra.
Ci fù qualche attimo di totale ed incredulo silenzio, ma poi il naturale vociare di fondo spezzò quel momento. Ripensandoci ora mi chiedo a quanti di loro fosse venuta un’erezione, ma allora ero troppo distratta dalle emozioni che provavo per poterci badare. Inoltre avevo da fare ancora 35 minuti di lezione, e riuscire a portarli a termine con la fresca sensazione di libertà che proveniva da sotto la minigonna, la quale, giusto per chiarire, mi terminava una decina di centimetri prima del ginocchio, non sarebbe stata un’impresa semplice.
Feci alcuni profondi respiri, e mentre il cuore rallentava un battito incredibilmente accelerato, anche la mente ripristinava un po’ della lucidità perduta. La classe era sempre la stessa, e l’avvenimento imponeva un’intenso dibattito con i vicini di banco, ma ora avevo un arma in più per tenerli buoni. ‘Ragazzi! Abbiamo un patto, volete che lasciamo perdere?!’ con poche frasi di questo genere il rumore scemava e la lezione proseguiva, e così anche la lezione riuscì in qualche modo ad arrivare a termine.

In quei giorni fui euforica, tutto stava andando alla perfezione, e quell’idea era stata davvero una genialata. Avevo guadagnato tempo! L’anno scolastico era iniziato solo da una settimana e mezza, e prima della prossima verifica speravo ci sarebbero voluti almeno ancora una quindicina di giorni. Nel frattempo i miei studenti avrebbero studiato ed io avrei potuto decidere in pace le prossime mosse. I giorni trascorsero veloci, la seconda settimana si concluse ed un terza iniziò pacifica e produttiva. Nella mia classe regnava quella pace e collaborazione che dovrebbe essere comune a tutte le classi di tutte le scuole.
Lo stesso clima però non si respirava nella mia quarta meccanici ed in entrambe le due quinte ad indirizzo elettronico. Erano classi tendenzialmente più tranquille, ma le voci avevano iniziato a girare, ed uno degli studenti arrivò addirittura a chiedermi conferma di ciò che era avvenuto. Negai cercando di essere la più convincente possibile, ma ammetto di non essere mai stata una gran bugiarda…
In compenso gli sguardi furtivi nei corridoi, le risatine delle ragazze, e le battutacce udite da lontano, mi ricordarono ciò che accadeva al passaggio della mia vecchia professoressa del liceo. Qualunque altra insegnante ne sarebbe stata quantomeno infastidita, per me invece era una soave sinfonia che fino a poco tempo prima udivo solo nei miei più piacevoli sogni.

Le mie previsioni sul tempo a disposizione prima dell’inizio delle verifiche nella mia terza meccanici si rivelarono troppo ottimistiche, in quella stessa settimana si svolsero ben due verifiche ed il martedì successivo verso il termine della lezione chiamai uno ad uno tutti gli studenti e mi feci consegnare i libretti. I risultati furono sorprendentemente buoni, considerando entrambe le verifiche ci furono solo 3 insufficienze, e la media complessiva era abbondantemente sopra il 7.
Mi ritrovai così a dover annunciare ben due esibizioni, una per la prima ora del giorno dopo ed un’altra per l’ultima ora di venerdì.

Giunta a casa non riuscii a pensare ad altro, dovevo decidermi su come realizzare le mie performance da spogliarellista, e la cosa drammatica &egrave che ci avevo pensato molto negli ultimi tempi, avevo addirittura guardato tutta una serie di video di streep tease a riguardo, ma senza mai arrivare ad una decisione vera e propria. Tutto mi sembrava troppo sfacciato ed inadatto a me ed a quello che, a tutti gli effetti, sarebbe stato il mio pubblico.
A questo punto però occorre una piccola precisazione, dovete sapere che sono una a cui piace particolarmente scommettere, ed anche allora non era consigliabile portarmi al casinò con una carta di credito. Avevo un mio piccolo budget mensile che spendevo regolarmente al poker, nei casinò online, e nei momenti peggiori anche al lotto e con i gratta-e-vinci.
Quando mi svegliai la mattina, ancora in piena indecisione, mi lasciai andare e, un po’ rassegnata, come spesso mi capitava nelle situazioni difficili, affidai tutto al caso.

La giornata di mercoledì fu fresca, quindi optai per un aderente pullover grigio di cotone leggero ed un paio di pantaloni di lino di una tonalità leggermente più scura. Sotto ad essi un pushup nero ed uno splendido tanga dello stesso colore.
Ero terribilmente tesa, e riuscii a fare solo mezz’ora di lezione prima che i nervi mi costringessero a dare un taglio agli insegnamenti, che nessuno stava realmente seguendo, presi com’erano dalla spasmodica attesa del quarantacinquesimo minuto. Così, dopo qualche secondo di riflessione, esattamente alle 8.30, cambiai discorso. ‘Ragazzi, togliamoci il pensiero’. Mi diressi alla porta e la chiusi con la chiave prelevata la mattina stessa prima di inizio lezione dalla stanza del personale, estrassi poi dalla borsa un mazzo di carte, le mischiai, e le allineai sulla cattedra coperte.
‘Oggi facciamo un gioco: ognuno di voi pescherà una carta, e per ogni asso che troverete mi leverò un’indumento a mia scelta,’ ebbi un’attimo di indecisione, ma poi spinta da un destino a cui evidentemente non potevo sfuggire, aggiunsi: ‘per la cronaca, ho solo quattro capi addosso.’.
Iniziai a chiamarli uno ad uno in ordine alfabetico. Erano ventiquattro, e statisticamente era piuttosto improbabile che riuscissero a pescare più di due assi, ciò nonostante potete immaginare che scarica di emozioni mi provocasse ogni estrazione.
Il settimo studente pescò il primo asso e quasi fui contenta di dare inizio allo streep, mi levai il pullover e dopo aver zittito la classe ripresi con le estrazioni.
La sorte pareva essere dalla mia parte, in quanto arrivammo al diciottesimo studente senza che altri assi venissero pescati. Il diciannovesimo però interruppe la serie pescando il tanto agognato secondo asso. Sedai schiamazzi ed acclamazioni, mi tolsi le scarpe e, spostandomi a lato della cattedra così da essere ben in vista, mi levai con movimento sensuale i pantaloni.
Ormai l’avrete capito, la parte della spogliarellista mi calzava bene, ed anche la classe sembrava esserne convinta. Le dimostrazioni di apprezzamento si sprecavano, e così vestita con pochi lembi di tessuto non fu semplice farli desistere dal continuare, ma anche loro volevano che lo show continuase, così dopo un po’ si calmarono.
Rimanevano solo cinque studenti per due assi su trentaquattro carte, per un attimo pensai che la giornata si sarebbe conclusa come pensavo, in intimo ma nulla più. Bastò però lo sfacciato gesto d’esultanza del ventesimo studente a mostrarmi che, come spesso accade, c’&egrave un abisso tra le nostre speranze e la cruda realtà.
Sempre posizionata a lato della cattedra misi un braccio a coprire i seni e con la mano libera sganciai il gancetto del reggiseno, una parte di me si sarebbe voluta fermare li, ma sinceramente era una parte piuttosto piccola se comparata alle dimensioni del demone tentatore che aveva preso il mio controllo.
Sfilai il reggiseno continuando a coprire i seni con l’altro braccio e lo appoggiai sulla mia borsetta. Attesi qualche secondo per far crescere la tensione ed osservare le espressioni rapite dei miei studenti, tolsi poi il braccio chiedendo al ventunesimo di venire a pescare la prossima carta.
Mentre lo studente si avvicinava udii dal lato destro della classe un commento sulla mia evidente eccitazione, abbassai quindi lo sguardo e vidi i miei piccoli capezzoli dritti e turgidi.
Ero e sono tutt’ora molto orgogliosa del mio seno, &egrave solo una terza, ma essendo io piccola ed esile averne di più sarebbe eccessivo. Adoro anche i miei capezzoli, ben centrati e con una areola piccola, ma capaci di sporgere spudoratamente quando mi colpisce il freddo, o una certa eccitazione.
Mi sforzai di ignorare l’evidenza, e mal simulando naturalezza mi appoggiai al ripiano della cattedra attendendo le prossime estrazioni.

Ci credete al destino? Io fino a quel giorno non ci credevo, ma dopo che, contro schiaccianti probabilità, anche l’ultimo asso fu pescato dall’ultimo studente rimasto, dovetti rassegnarmi. Il destino esiste e vuole che io mi metta in mostra.
Dopo qualche secondo di acclamazioni concitate calò un silenzio tombale, denso di significato. Attendevano me, mi volevano, mi agognavano. Io ero pronta, l’eccitazione del momento cancellò dalla mia mente qualsiasi remora, non mi importava delle conseguenze, non mi importava più nemmeno del perch&egrave lo stavo facendo, volevo solo farlo, era l’unica cosa che contava.
Mi voltai dando le spalle alla classe, l’attenzione di tutti si spostò sul piccolo triangolino posteriore del tanga nero e sulla forma dei miei glutei ben torniti. Poggiai le mani sui fianchi, feci passare i pollici attraverso i lati elasticizzati e, senza piegare le gambe, come se stessi facendo stretching, lo abbassai lentamente fino ai polpacci, lasciandolo poi cadere.
Rimasi così piegata per alcuni secondi, con i seni che sfioravano le ginocchia ed il viso rivolto verso i piedi. Sentivo i tendini tirare, ed i fischi e le acclamazione riempivano l’aula. Lo spettacolo che stavo dando agli alunni alle mie spalle era spudorato, ed anche con le gambe chiuse, la figa accuratamente depilata e leggermente umida era ben visibile grazie alla forte illuminazione dei neon dell’aula. Il tutto si rese ancora più esplicito quando spostai una gamba per raccogliere il tanga lasciando intravedere anche l’altro peccaminoso pertugio.
Rialzai lentamete la schiena e, con finta e malriuscita nonchalance, feci un passo verso la borsetta e guardai l’ora sul cellulare, mancavano cinque minuti al termine della lezione.

Cellulare…

Cellulare…

Lo smartphone, il telefono intelligente, in grado di fare di tutto, tra cui foto e video.
Come avevo fatto a non pensarci, come potevo essere stata così distratta? Che razza di idiota! Mi voltai verso la classe, cercai di dare uno sguardo generale, ma non scorsi nessuno intento a riprendermi. Ma siate sinceri, ritenete veramente possibile che nessuno mi abbia ripreso? No? No? Ve lo garantisco, nemmeno io!
Mi rivestii e salutai la classe mentre ero ancora scossa dalla terribile certezza di essere stata registrata. Le due ore di lezione seguenti, in quinta elettro, comportarono uno sforzo difficile da descrivere, ma in qualche modo riuscii a portarle a termine ed a sfruttare l’ora buca del mercoledì per riorganizzare le idee.

Non ci potevo fare assolutamente niente, ed era l’unica conclusione logica di qualsiasi pensiero più o meno razionale. Il danno era fatto e a pensarci bene non era nemmeno evitabile. Se avessi sequestrato i telefonini avrebbero portato delle microcamere nascoste o dei cellulari di scorta, o qualche altra diavoleria tecnologica. Ero spacciata, prima o poi la verità sarebbe saltata fuori e le prove dei miei show a luci rosse sarebbero diventate di pubblico dominio.
Mi ripromisi di rinfrescare la memoria ai miei studenti il giorno seguente, dovevano avere ben chiaro che se la cosa sarebbe venuta fuori mi avrebbero persa. Speravo solo che non fosse troppo tardi.

Ovviamente, era troppo tardi… Terminata l’ora di pausa mi recai nella seconda quinta, anch’essa ad indirizzo elettronico, pronta ad affrontare le ultime due ore di lezione con rinnovata speranza.
Ad attendermi sulla cattedra vi era un foglio a righe, piegato in due, con le miei iniziali scritte al centro. Lo aprii, era scritto in corsivo con una calligrafia piuttosto armoniosa. Lessi mentalmente: ‘Sappiamo ed abbiamo le prove. Se ci tiene al suo lavoro a fine lezione attenda in macchina’ e terminava con tre x come firma.
‘Oh dio’ mormorai, infilai il messaggio nella borsetta ed osservai gli studenti. Chi avrebbe potuto scriverlo?
La classe era composta da soli quindici studenti, tra cui anche una ragazza piuttosto particolare, non so se definirla goth o emo, ma spero di aver reso l’idea. Stava sempre in gruppo con due ragazzi anch’essi con lo stesso stile, ed a giudicare dalla grafia del biglietto pensai che a scriverlo fosse stata lei.
Mi sforzai di fare lezione, ed incredibilmente vi riuscii anche. Ormai iniziavo ad abituarmi ad agire sotto forte stress, riuscivo in qualche modo a mettere il pilota automatico, spegnere il cervello, e per un centinaio di minuti esporre linearmente quelle nozioni che tanto avevano significato per me durante gli anni di studio, ma che ora erano solo un intervallo tra un problema e l’altro.
A fine lezione con una calma piena di tensione mi recai in macchina. Il parcheggio era situato sul lato posteriore della scuola, ed era utilizzato sia dal personale scolastico che dagli studenti dell’ultimo anno. Salii sulla mia passat e attesi.
Il veloce flusso di studenti dalla scuola verso la strada adiacente durò circa dieci minuti, ed anche nel parcheggio le auto stavano rapidamente allontanandosi dalla mia vista. Mi guardavo intorno, cercando di individuare gli autori del messaggio, ma tutti sembravano impegnati a lasciare l’edificio il più velocemente possibile e la mia presenza in macchina passò totalmente inosservata.
Anche il gruppetto goth della quinta se ne era andato senza alcun comportamento anomalo. Ero rimasta totalmente senza sospettati.

Dopo qualche altro minuto, che mi parve un’eternità, una delle ultime macchine parcheggiate, una ford focus vecchio modello, invece che procedere verso l’uscita si accostò alla mia volkswagen. Due ragazzi scesero dal lato destro, mentre il terzo rimase a guardarmi dal posto di guida.
Erano Ortiz, Stevenson e Pils, il primo era uno dei ripetenti della quarta meccanici, mentre gli altri erano due ragazzi di quinta B che, con grande nonchalance, avevano appena seguito la lezione.
‘Buongiorno prof’, disse con tono allegro il Ortiz, aprì poi la portiera e, senza chiedere niente, si infilò a sedere sul sedile posteriore. Il secondo fece altrettanto sedendosi accanto a lui, mentre Pils rimase alla guida della ford.
I due studenti di quinta non li avevo sospettati, ma a guardarli bene non sarebbero nemmeno stati da escludere. Mi chiesi per un attimo chi tra Stevenson e Pils avesse la calligrafia femminile, ma il tono strafottente del primo, seduto alle mie spalle, mi riportò immediatamente alla cruda realtà.
‘Prof, &egrave stata proprio una bella sorpresa’, il timbro sarcastico era evidente, ‘certo, l’avevamo capito che era una porcona, ma non immaginavamo fino a questo punto!’.
‘Falla finita’ sbottai, ‘cosa volete?’.
‘Oh, ma &egrave semplice’, rispose, ‘non ci sembra giusto che lei faccia divertire solo quelli di terza, vogliamo uno spettacolino anche noi!’.
‘Si Prof’, fece l’altro ‘che ne dice di venire con noi a divertirsi un po’?’.
Non sono in grado di prendere decisioni d’impulso, e quando ne sono costretta di solito faccio sempre le scelte peggiori. Anche allora lo sapevo, e non riuscendo a trovare le parole per una risposta sensata, mi limitai ad un pensoso silenzio fissando il volante davanti a me.
Una delle due voci alle mie spalle, assumendo un tono più serio, rettificò quasi subito, ‘Prof, ma guardi che non &egrave una domanda, se non fa come diciamo noi questo bel video’ ed allungò il braccio tra i due sedili anteriori, mostrandomi il samsung in modalità riproduzione video, ‘andrà su internet, e saremo ben felici di mostrarlo anche al preside!’.
‘Ed a tutti i suoi colleghi!’ sghignazzò il secondo.
Presi il cellulare e osservai il video. Non era ben centrato ed agli angoli si notava l’ombra nera di qualche oggetto accanto all’obbiettivo, ciònonostate era innegabile che la figura nuda ripresa fossi io. Era una prova inconfutabile.
‘Accenda il motore’ fece il Ortiz, ‘vedrà che si diverte anche lei!’ concluse eccitato Stevenson.

Il viaggio non fu piacevole. Mi dissero di seguire l’auto del loro amico e per cinque minuti buoni rimasero a parlottare fra loro a bassa voce, ignorando bellamente le mie richieste di spiegazioni. Volevo sapere dove eravamo diretti e cosa si aspettavano che facessi, ma l’unica risposta che mi fu data fu un fastidioso ‘non si preoccupi prof, non andiamo lontano’.
In quel lasso di tempo non feci che pensare a cosa mi sarebbe potuto succedere. Sapevo che mi sarei dovuta spogliare nuovamente, ma quello sinceramente era il meno, le mie paure erano altre. Violenza, stupro, mi passò per la mente addirittura la mia morte, ma stavo esagerando e ne ero consapevole. Cosa mi attendesse di preciso era un’incognita, ma non ero sicura nemmeno io fino a che punto mi sarei voluta spingere per mantenere il lavoro. La mia mente vagò tra i ricordi, cercando le varie situazioni più o meno erotiche di cui fui protagonista in passato. Non sono stata proprio una santarellina, lo avrete immaginato, però effettivamente erano passati già quattro mesi dalla rottura con il mio ex, ed in questo periodo ho avuto un solo rapporto occasionale, tutt’altro che appagante. Non sarei dovuta essere così sorpresa allora all’idea che essere scopata da questi tre diciottenni in preda agli ormoni non mi disgustasse del tutto. Eppure lo ero, sorpresa e confusa dalla mia mancanza di raziocinio, la cosa migliore sarebbe stata sicuramente fermarsi subito, farli scendere e mandarli al diavolo, ma ero troppo indecisa sul da farsi per prendere una decisione così drastica.
I miei pensieri furono interrotti da una frase pronunciata a voce più alta, ‘oh, ma possiamo verificare subito quanto sono sode!’, non feci nemmeno in tempo a dedurre il soggetto sottointeso della frase che una mano spuntò alla destra del mio sedile ed iniziò a palparmi il seno.
‘Hei!’ dissi scacciando la mano e provocando risate alle mie spalle. ‘Ci lasci fare prof, vogliamo solo farle un massaggio!’, e la mano tornò alla carica, passando questa volta alla sinistra del poggiatesta per scendere poi sul seno corrispondente.
‘Fermi, sto guidando!’. La mano si interruppe per un momento. ‘Si concentri allora prof!’ e ricominciò a palpare. Una seconda mano nel frattempo spuntò nuovamente a destra del sedile e raggiunse l’altro seno. Il massaggio era rude ed un po’ maldestro, ma quando la mano destra decise di passare da sotto il maglioncino era già qualche minuto che la tortura continuava, e la perseveranza stava cominciando ad avere effetto. Mi stavo eccitando.
Non riprovai più ad allontanare quelle mani invadenti, la voglia di oppormi era scivolata via insieme alla mia capacità di analizzare la situazione, così le lasciai fare. Mi sollevarono il maglioncino fino alle ascelle, piegato sopra il reggiseno, e mentre la sinistra continuava il massaggio, la destra si spingeva dietro la schiena. Un attimo dopo il gancetto fu aperto ed il seno, con delicata insistenza, esposto al liberatorio contatto dell’aria.
Mi trovavo quasi in trance. L’erotico massaggio al seno si era trasformato in una lenta tortura ai capezzoli, ormai durissimi per l’eccitazione. I commenti sarcastici e pungenti dei due torturatori, uniti alla consapevolezza di essere mezzanuda alla guida e diretta verso un probabile stupro crearono un mix esplosivo di pensieri e sensazioni che indussero il mio cervello a quello che definirei un blackout intellettivo. Non capivo più niente.

Quando il viaggio terminò mi accorsi di non ricordare quasi nulla della strada percorsa, avevamo viaggiato per un po’ in superstrada, ma otre a quello ricordavo con chiarezza solo la partenza.
Avevamo parcheggiato di fronte ad un grande cancello scorrevole di uno sfasciacarrozze, dalla focus parcheggiata accanto a noi uscì il ragazzo che in seguito scoprii essere il figlio del proprietario. Si avvicinò al cancelletto pedonale e fece cenno di seguirlo.
I due dietro di me allontanarono finalmente le mani dai seni, mi sistemai il reggiseno ed abbassai il maglioncino mentre scendevo dalla macchina.
Ero animata da sentimenti contrastanti, l’idea di entrare con loro non mi entusiasmava, ma ero anche eccitata, e forse non solo per l’ipersensibilità che mi avevano lasciato ai capezzoli.
‘Non si preoccupi prof,’ fece il ragazzo che aspettava sulla soglia d’ingresso scorgendo la mia indecisione, ‘oggi &egrave giorno di chiusura e non c’&egrave nessuno, ma non deve aver paura, vogliamo solo uno spettacolino tutto per noi!’.
‘Andiamo prof!’ fece Stevenson, mettendomi il braccio intorno alle spalle e accompagnandomi all’interno.
Il suono del cancelletto che si richiudeva alle mie spalle sanciva la mia definitiva resa. I tre mi accompagnarono per un altra trentina di metri all’interno dello sfasciacarrozze fino ad un piccolo prefabbricato. Pils, il figlio del proprietario, aprì ed entrammo in quello che era evidentemente un ufficio.
‘Ok prof, si metta al centro e si spogli’ disse Ortiz con fare autoritaio, ed insieme agli altri, spostò le sedie dell’ufficio disponendole verso di me e mettendocisi comodo.
Non dissi nulla, mi limitai ad osservare per un attimo i loro sorrisi sornioni e, per la seconda volta della giornata, cominciai a spogliarmi di fronte a dei miei alunni. Con il senno di poi vi dico che avrei dovuto denudarmi più lentamente, avrei dovuto allungare il brodo, far gustare ai ragazzi uno streep fatto come si deve, così da eccitarli fino al limite e ridurre tutto ciò che sarebbe venuto dopo ad un veloce pompino o addirittura una semplicissima sega. Ma non fu così, volevo che tutto questo finisse subito e, senza pensarci, mi tolsi velocemente il maglioncino, le scarpe, i pantaloni ed anche il reggiseno. Ebbi un solo momento d’esitazione sul tanga, ma fu giusto per un attimo, il tempo di riprendere coraggio, di rigustarmi l’eccitante sensazione di mostrarmi completamente nuda, e con un gesto ormai collaudato lo abbassai lasciandolo cadere a terra.
I tre ragazzi si dissero qualcosa sottovoce, poi quello più a sinistra mi si avvicinò, raccolse dal pavimento i vestiti e li appoggiò su uno scaffale, gli altri due intanto avevano estratto dalle tasche i loro cellulari.
‘Che ne dice di un bel servizio fotografico prof? Sarebbe un peccato non tenere vivi i ricordi di una così bella giornata, non crede anche lei?’. Il sorriso sulle loro facce era quasi inquietante.
‘No ragazzi, avete già il video, che ve ne fate anche delle foto?’. Controbattei con poca convinzione.
‘Prof, ci lasci fare, vedrà poi che il risultato piacerà anche a lei, faremo delle foto in HD!’, disse Pils piegando la testa di lato ed osservandomi con attenzione. ‘Senta, noi non la vogliamo obbligare a fare nulla, se se ne vuole andare &egrave liberissima di farlo. Certo sarebbe una delusione, ed oltre a diffondere il video credo che ci terremo anche i suoi vestiti. Sa, se non possiamo avere le foto, vogliamo almeno un souvenir!’

Mi immaginai in macchina, nuda, per le vie del paese, poi dal box auto fino all’atrio del palazzo, diretta verso le scale, o meglio ancora in attesa dell’ascensore per raggiungere il mio appartamento al terzo piano.
Non feci in tempo ad immaginare anche tutte le persone che mi avrebbero vista nel tragitto, che uno dei miei aguzzini, scocciato dalla mia scarsa reattività, si rivolse a me dandomi direttamente del tu.
‘Ora da brava, sali sulla scrivania, apri le gambe ed inizia a sditalinarti. Ti prometto che una copia delle foto la invieremo anche a te!’
“Si prof, e ci metta impegno!”, fece Stevenson mimando volgarmete il gesto con le dita.
Controbattere ormai non aveva più senso, mi abbandonai quindi al loro volere, mi sedetti sulla grossa scrivania dell’ufficio mettendomi al centro, aprii le gambe appoggiando i piedi ai due angoli del pianale ed inarcai la schiena, facendo forza sui glutei e cercando di mostrare tutto ciò che era possibile mostrare, divaricando le cosce fino alla loro massima apertura. In quel momento rimasi in silenzio, ma in piena frenesia avrei voluto gridare: ‘Mi volevate vedere?! Eccomi allora, bastardi! Fotografatemi o filmatemi, fate di me quel che cazzo volete!’ e mentre la mia mano iniziava un lento movimento rotatorio sul clitoride i flash dei cellulari si ripetevano.
Non so quante foto mi avessero già scattato quando le mie dita decisero quasi autonomamente di separarsi dal clitoride per farsi spazio tra le labbra ed affondare profondamente scoprendomi ben più umida di quanto avrei immaginato.
Chiusi gli occhi, il piacere stava prendendo nettamente il sopravvento sulla logica degli eventi. Non me ne fregava più niente se di fronte a me c’erano tre miei alunni che mi stavano fotografando e forse anche filmando. Stavo rincorrendo il piacere, ed al mio corpo non interessava ciò che la mente riteneva giusto o sbagliato, l’orgasmo si stava avvicinando, contava solo quello.
Fu quasi uno shock quando sentii una mano prendermi il polso per allontanarlo dalla mia fonte di piacere. “Ferma! Non vorrai mica venire prima di noi?!”, fece Stevenson, il più alto dei tre, guardando gli altri due in segno d’intesa.
“Perché ora non ti metti in ginocchio e non assaggi il mio bastone invece?”, e senza mollarmi il braccio mi accompagnò giù dalla scrivania.
Il ragazzo era alto almeno uno e ottantacinque, e quando mi ritrovai inginocchiata con il viso a pochi centimetri dal suo pene in piena erezione, nel mio stato di eccitazione più totale non mi feci scrupoli, iniziai a lavorarmelo come meglio sapevo, leccandolo per tutta la sua notevole lunghezza ed accogliendolo sul palato, avvolgendolo con le labbra ed accompagnandolo in un continuo massaggio.
Non sarebbe durato molto, ma gli altri due si stufarono subito di rimanere in disparte. Delle mani conosciute mi avvolsero i seni e scorsero giù fino ai fianchi tenendomi con forza e sollevandomi. Appena fui in posizione Ortiz mi penetrò con decisione.
Mi ritrovai così in piedi, piegata a novanta gradi, eccitata alla follia, a dover fare un pompino mentre alle mie spalle venivo scopata con forza in quel lago di umori che doveva essere la mia figa.
Resistetti veramente poco, un orgasmo intenso e dirompente mi bloccò per qualche secondo facendomi contrarre tutti i muscoli e mugugnare dal piacere.

Una risata alle mie spalle mi riportò immediatamente alla realtà. La stessa voce esclamò poi con un certo sforzo: “Guarda come gode questa cagna!” e mentre lo diceva si piegava leggermente verso di me avvolgendomi nuovamente i seni con le mani ed aumentando il ritmo delle penetrazioni.
L’orgasmo appena passato mi tolse le forze, ma mi fece riguadagnare quel minimo di coordinazione sui movimenti per poter ricominciare il lavoro di bocca in maniera efficace. Il ragazzo alto sembrò apprezzare, e mentre con la coda dell’occhio vidi Pils che mi passava sotto con il cellulare per delle evidenti riprese ravvicinate, il suo amico mi inondava il palato di un caldo e denso fiume biancastro.
“Bevila tutta, mi raccomando!” mi bisbigliò all’orecchio il figlio del proprietario di quel desolato cimitero di rottami, e subito dopo spostò la fotocamera del cellulare in modo da riprendermi ottimamente il viso.
Purtroppo non &egrave semplice deglutire quando si ha la bocca aperta, ed in quel momento non solo avevo ancora un cazzo comodamente appoggiato sulla mia lingua, ma avevo anche Ortiz, che alle mie spalle continuava con profonde e vigorose stantuffate, una delle quali mi fece colare sul mento un rivolo di sperma.
Il ragazzo se ne accorse subito e con finto tono indispettito si rivolse agli altri: “Oh, &egrave proprio una delusione! Non riesce neanche a tenere la bocca chiusa, merita una punizione!”. Si allontanò quindi per mettersi in tasca un oggetto preso da uno degli scaffali dell’ufficio.
Stevenson nel frattempo decise di sfilare finalmente il membro dalla mia bocca, mentre Ortiz dietro di me iniziò a rallentare il ritmo. Non appena Pils fece ritorno, tornò subito ad inquadrarmi il viso con lo smartphone, “Su Prof, ora ci mostri la bocca e ci faccia vedere quanto le piace la sborra! Se la ingoia tutta da professionista la punizione sarà più leggera!”
Per mia fortuna non sono mai stata una di quelle ragazze schizzinose, mi era già capitato in passato con quello che ai tempi era il mio ragazzo, e sebbene lo facessi più per lui che per me, il sapore era accettabile e mi piaceva assecondare l’atmosfera del momento comportandomi un po’ da troia.
Non ebbi quindi troppe difficoltà ad esaudire la richiesta. Il ragazzo alle mie spalle continuava con lente ma profonde penetrazioni, ed un rinnovato stato di eccitazione mi fece agire quasi fossi una pornostar. Spalancando la bocca mostrai tutto il liquido bianco che conteneva e con fare provocatorio ingoiai tutto.
“Brava la nostra professoressina! Dato che ti sei comportata bene sarò buono con la punizione, ti lascerò bagnare il manico di questo timbro prima di infilartelo nel culo!”
E mi mostrò l’oggetto che aveva prelevato dallo scaffale. Un vecchio timbro di pregevole fattura che probabilmente non veniva più usato da anni, ma tenuto come soprammobile. Aveva un manico di circa cinque centimetri in legno laccato ed ottone, la forma per fortuna era estremamente regolare e dalle linee arrotondate, il diametro nella parte più bombata non superava i tre centimetri.
“Merda!” pensai tra me e me, “Se si mettono in testa di volermi scopare anche il culo sarà uno schifo!”. Non che l’atto di per s&egrave non mi piacesse, non lo praticavo spesso, ma sapevo come renderlo accettabile. Il problema però &egrave che il sesso anale richiede una certa preparazione.
“Non sono… pulita”, dissi tra una spinta e l’altra, mentre alle mie spalle il ragazzo aumentava il ritmo avvicinandosi e riavvicinandomi all’orgasmo.
“Cosa?”, mi chiese Pils, mentre mi portava il timbro vicino alla bocca. “Oh, ho capito”, aggiunse un attimo dopo ridacchiando, “non preoccuparti, questo te lo tieni dentro fin quando non torni a casa!”.
Mi fece poi inumidire di saliva il manico del timbro, e, con un mio certo disappunto, disse al suo amico dietro di me di fermarsi. Il ragazzo sfilò il membro, e prima di allontanarsi mi bisbigliò all’orecchio, ‘riprendiamo dopo’.
Mi mancava davvero poco al secondo orgasmo, e quando mi ordinarono di tornare sulla scrivania ed inginocchiarmi fui tentata di mandarli al diavolo e finire l’opera da sola.
Il più alto dei tre però mi afferrò per le spalle, e quasi come se fossi un’entità priva di peso, mi diresse in posizione. Risalii sulla scrivania sperando che, se avessi mostrato loro quanto ero bagnata, avrebbero soddisfatto anche la mia di eccitazione.
Divaricai leggermente le gambe ed alzai il fondoschiena vero il mio aguzzino, l’oggetto non era grosso, e quando me lo appoggiò sullo sfintere ci volle poca pressione per fargli varcare la soglia. La mia saliva stava svolgendo il suo lavoro e lentamente quel corpo estraneo ma ben lubrificato venne spinto giù finché la testa del timbro non poggiò invadentemente tra i miei glutei.
“Brava la nostra professoressa!”, fece Stevenson, apostrofando il complimento con uno schiaffo non troppo forte sulla natica destra.

Rimasi ferma per qualche secondo, mentre alle mie spalle i ragazzi commentavano la scena e mi fotografavano ripetutamente in quella posa volgare. Constatando che i tre non sembravano avere intenzione di soddisfare la mia voglia, appoggiai due dita al clitoride per darmi finalmente piacere.
La forte eccitazione mi portò velocemente ad una masturbazione più vigorosa, dopo una breve massaggio al clitoride passai a profonde penetrazioni prima con due dita e poi con tre, e nel mentre le foto si facevano sempre più esplicite e ravvicinate.
Le mie speranze per un potente e liberatorio orgasmo vennero però infrante nuovamente. Lo squillare di un telefono mi fermò per un attimo, giusto il tempo di sentire l’esclamazione del figlio del proprietario: ‘Cazzo &egrave mio padre!’, un secondo prima che si allontanasse.
Provai a terminare l’opera riprendendo dove avevo interrotto, ma come prevedibile venni nuovamente fermata.
‘Forse non ti &egrave chiaro,’ mi disse Ortiz, che poco prima mi aveva portato ad un passo dall’orgasmo, ‘non hai il permesso di venire fin quando non te lo diciamo noi’. Mi girò verso di lui, e sempre rimanendo sopra alla scrivania mi trascinò la testa verso il suo membro in piena erezione, ‘hai un lavoro da finire!’
Appoggiai quindi l’avanbraccio sinistro al bordo della scrivania per sorreggermi in una posizione che non era proprio delle più comode. Nonostante questo, l’eccitazione che avevo fino a quel punto accumulato aveva ormai disgregato anche la più piccola delle remore morali che mi erano rimaste, e con l’espressione più sexy di cui ero capace iniziai a leccargli il glande, mentre con la mano destra mi aiutavo masturbandolo lentamente.
Sentivo che non mancava molto. Il ragazzo aveva dimostrato di saper resistere più di quanto mi aspettassi, ma il mio lavoretto stava per dare i suoi frutti ed il suo movimento ondulatorio del bacino sincronizzato con quello della mia testa ne era una conferma evidente.

Se devo essere onesta, non mi sarei fatta problemi ad ingoiare nuovamente. Ero ancora in quello stato pre-orgasmico in cui non ci si preoccupa delle conseguenze, ma si agisce al solo scopo di inseguire il piacere, quella condizione in cui i propri limini esistono unicamente per essere superati, ed in quei momenti l’idea di avere nello stomaco lo sperma di due ragazzi contemporaneamente era esattamente il traguardo che volevo raggiungere, quello che avrebbe alzato l’asticella della mia perversione al livello successivo.
Ortiz però credo fosse più uno di quelli a cui piace vedere le ragazze imbrattate, e così, prendendomi quasi di sorpresa, pochi attimi prima del suo orgasmo, mi afferrò i capelli con la mano sinistra allontanandomi il viso quel poco che bastava, con la destra quindi direzionò il primo getto esattamente sulla mia fronte, proseguendo poi sulle guance, sul collo, ed infine lasciando gli ultimi spruzzi per il seno.
Mentre tutto questo avveniva Stevenson continuava a riprendermi con la fotocamera del cellulare, e bench&egrave io in quei momenti non ci stessi facendo caso, il materiale raccolto fino a quel punto arrivava già a sfiorare un’ora di video.

La telefonata ricevuta dal figlio del proprietario terminò poco dopo, mentre io, ancora tutta imbrattata, riguadagnavo una postura più comoda e donavo un po’ di solievo al braccio sinistro, indolenzito per la posizione di prima.
Pils pareva agitato, ‘Merda, dobbiamo andarcene in fretta!’, esordì appena rientrato nella stanza, ‘mio padre sta arrivando, ha notato che mancano le chiavi da casa e pensa che siamo qui a fumare!’. Si avvicinò alla matassa dei miei vestiti che era appoggiata su un ripiano, ne raccolse le scarpe, e le lanciò facendole scivolare per terra vicino a me. ‘Prof, il resto dei vestiti glieli lascio in macchina… così si da una mossa!’, e ridacchiando uscì dall’ufficio.
Non riuscii nemmeno a dirgli di fermarsi, ero travolta dagli eventi e la mia mente non riusciva ad essere abbastanza veloce da processarli per tempo. Mi rimisi le scarpe in fretta e venni accompagnata fuori con urgenza da Ortiz, mentre Stevenson continuava a riprendere la scena divertito.
Corsi alla macchina coprendomi il seno con un braccio ed appoggiando il palmo della mano sul monte di Venere, sperando di non essere vista dalle due macchine che stavano passando sulla strada di fronte in quel momento.
Salii al volo sul posto del guidatore, ritrovando sul sedile l’ammasso di vestiti che oggi avevo messo e tolto qualche volta più del necessario. Li spostai al posto del passeggero e mi sedetti. Sentii una pressione improvvisa, ma non fastidiosa, scaturire dal basso. Ciò mi ricordò che avevo ancora dentro di me il manico del timbro, e quasi istintivamente, con un’inconscia voglia di massimizzare la sensazione, accavallai le gambe ed assaporai il piacere che velocemente stava risalendo lungo la spina dorsale come una leggera scossa elettrica.
Ero ancora incredibilmente eccitata, ma al contempo sapevo che finalmente le follie della giornata erano finite ed avrei potuto rivestirmi. Combattendo contro un’insensata voglia di rimanere nuda rovistai tra gli indumenti appallottolati a fianco in cerca del mio tanga nero.
‘Prof!’ mi chiamò Pils, picchiettando sul finestrino, ‘Queste le tengo io,’ mi disse, facendo roteare su un dito le mutandine, ‘giusto come promemoria! E ora si muova ad andarsene, che mio padre sta arrivando!’. Così dicendo si infilò il mio più intimo indumento in tasca, salì sulla sua ford imitato dagli altri due, accese il motore e si allontanò in velocità.
Le ultime parole del ragazzo mi avevano messo un po’ di agitazione, pensai che probabilmente non avrei avuto il tempo per rivestirmi nuovamente, considerando che mi sarei anche dovuta togliere le scarpe per rimettermi i pantaloni; quindi, con l’ultimo barlume di razionalità che mi rimaneva, decisi di infilarmi semplicemente il maglioncino e partire così. Avrei trovato dopo un posto dove fermarmi e finire la vestizione.

Ricordo che, quando spensi l’auto alla prima piazzola di sosta della superstrada, come prima cosa mi guardai allo specchietto retrovisore: ero uno spettacolo indecente, avevo ancora il volto sporco di sperma, un po’ del quale era finito sul misto lana e sintentico del maglioncino, macchiandolo in maniera evidente vicino al collo ed all’altezza del seno. Proseguii l’ispezione abbassando lo sguardo e notando che avevo anche imbrattato il sedile della volkswagen con i miei umori e constatai che in quel momento, rimettendomi i pantaloni, avrei probabilmente macchiato anche loro. Quel maledetto timbro inoltre mi aveva provocavato una costante stimolazione, acuita dalle vibrazioni dell’auto, e solo la preoccupazione che una volante della Stradale potesse venire a vedere cosa stavo facendo mi dissuase dalla tentazione di regalarmi lì una liberatoria masturbazione.

Mi risistemai alla meglio, rimossi il timbro e mi rivestii. Quando arrivai a casa ero quasi in stato confusionale, mi spogliai per l’ultima volta della giornata, buttai tutto il vestiario nel cesto della roba sporca, e mi concessi un’indispensabile ed agognata doccia.

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