Turama Jindal irruppe nella stanza come una furia.
Shaibat rimase perfettamente immobile, sorseggiando appena il chai, lo sguardo fisso sul pc.
-Era una trappola.-, disse soltanto. Pacata, composta. L’opposto di Turama.
-Due dei miei uomini sono morti, non abbiamo idea di dove si stiano dirigendo Dalima e in più il capo mi sta col fiato sul collo. Non era una trappola: è una disfatta!-, ringhiò la donna.
La thai, con calma studiata, si girò.
-Rischi calcolati. Credo che entrambe sappiamo che questi rischi esistono.-, disse.
-Rischi che non posso permettermi! I miei superiori vogliono risultati. Li esigono! Non posso agire fuori dagli schemi ancora a lungo, lo sa questo?-, chiese Turama.
-Lo so.-, rispose Shaibat, ancora calma, -Mi permetta di dirle cosa lei non sa.-.
Improvvisamente qualcosa era cambiato nello sguardo della Thai. Un accenno di una nuova emozione aveva fatto capolino tra le sue iridi. E Turama capì. L’indiana si servì un bicchier d’acqua che tracannò quasi d’un fiato. Ne riempì un secondo.
-Sto ascoltandola.-, disse.
Nuovo rifugio, stessa apprensione, sottile. Come un filo nero sul grigio delle nubi. Pioggia fine, fastidiosa. L’uomo espirò appena. Inspirò. Contattare Shaibat. Più facile dirlo che farlo!
Isolati come sono, possono solo sperare che i loro “ospiti” commettano un errore, possibilmente prima di decidere che lui e i suoi abbiano esaurito la loro utilità.
L’uomo inspira ed espira, di nuovo. Davanti a lui la pioggia cade, fine e incessante.
Gocce su gocce che calano a orda sulla metropoli, che pare quasi imperturbata.
Il monsone è un fenomeno accettato. Molto meno di altri da quella parte del mondo.
L’uomo inspira ed espira. L’India era stata il suo sogno, il suo disperato anelito.
Quando, infine era divenuto ciò che era, aveva racchiuso quel desiderio di farvi ritorno nello scrigno del suo cuore, come una pietra preziosa.
Un ritorno che però era divenuto orribilmente più complesso e rischioso di quanto calcolato.
Nô studiò tutto il materiale. Impersonare un’altra donna non le era nuovo, ma il farlo in un simile frangente le era nuovo, oltre a portare l’intera performance su un livello più complesso e letale. Espirò piano. Chiuse gli occhi e li riaprì.
Lei era Kumi Hotsushiki. Si guardò allo specchio, alzandosi in piedi.
I capelli corvini incorniciavano il viso e scendevano verso le scapole. Nuda, valutò di essere sicuramente molto simile. Ma non era l’aspetto fisico il problema, bensì quello mentale, il comportamento, i piccoli tic, le manie a stento celate. Un minimo errore avrebbe allarmato sicuramente Shira Panchari. Doveva entrare nella pelle di Kumi al punto tale che neppure la sua amante avrebbe potuto sospettare alcunché. Espirò. Fuori pioveva ma il caldo restava.
Chiuse gli occhi. Inspirò. Espirò. Riaprì gli occhi. Lei era Kumi Hotsushiki.
E avrebbe dovuto esserlo maledettamente bene: il tempo era molto poco.
James Crowain aveva vagliato pazientemente le opzioni.
Aveva individuato le sentinelle, verificato le loro posizioni. Si era fatto un’idea.
Mappatura del territorio. Preparazione alla fuga… O almeno, valutazione onesta della possibilità di fuggire, di dileguarsi.
La valutazione non era propriamente ottimale. L’edificio in sé non presentava enormi difficoltà a livello strutturale: non era una fortezza e la sorveglianza all’interno era pressoché inesistente. L’esterno però era un altro paio di maniche.
Aveva individuato un paio di sentinelle: uno era un accattone con il viso sfigurato dalla lebbra.
L’accattone faceva lenti giri, incostanti, perfettamente calato nel suo ruolo. Ma gli occhi di James avevano individuato rapidamente qualcosa. La mitraglietta che celava sotto le vesti si scopriva appena quando deambulava. Poco ma sicuro, avrebbe dovuto starci attento.
Nel viavai della viuzza, diversi altri arrivavano. Uomini, donne, vecchi e bambini.
Impossibile dire quanti fossero alleati di Dalima e quali semplici passanti.
Improbabile riuscire a evadere senza sparare. Sicuramente c’erano altre sentinelle.
Ma chi? La prostituta che sonnecchiava appoggiata al muro di un motel di quint’ordine?
Il ragazzino che consegnava Biryani e si guardava attorno?
Il monco reduce di qualche guerra che girava con addosso un vecchio cappotto militare che pareva un residuato dell’ultima guerra mondiale?
La vecchia megera intenta a osservare tutti dal balcone?
A James Crowain sovvenne un ricordo. Tutti loro potevano essere nemici.
In Medio Oriente, la popolazione mal tollerava la presenza occidentale. Era un fenomeno assodato che i vecchi, i ragazzini e le donne, non potendo battersi attivamente, spiassero i nemici riferendo ogni loro mossa ai combattenti locali..
Lo stesso era accaduto anche altrove, e non c’era motivo per cui non sarebbe dovuto accadere anche lì. Erano stranieri in terra straniera. Circondati da falsi amici e letali nemici.
“L’unico modo per avere risposte è cercarle.”, pensò mesto James.
Impossibile uscire. Jhon Kingsword se ne rende conto.
Può solo aspettare. Può solo prepararsi all’inevitabile.
-Stai pensando a qualcosa, Jhon.-, la voce di Dalima Kothil è misurata, pacata.
-Difficile non farlo, ti pare?-, chiede lui. Opta per la sfacciataggine. La donna sorride.
-Sì. In fin dei conti stiamo camminando sulla lama di un coltello…-, il suo tono si è fatto suadente, seducente come pochi.
-E suppongo che tu abbia già una precisa idea su come procedere una volta eliminati gli agenti indiani traditori? Forse anche una precisa idea su come procedere con me…-, continua lui.
Lei sorride. Il sorriso di una dea, o di una demone.
-Sì. Ho qualche idea. Tu sei un buon elemento, e anche i tuoi amici. Ottimi davvero.-, Dalima gli accarezza il viso. Sono sdraiati sul letto di camera sua. Vestiti. Per ora.
La tentazione c’è. Ma Jhon sa. Jhon capisce. C’è qualcosa che Dalima Kothil non sta dicendo.
-Ottimi, già. E scomodi, vero?-, chiede. L’indiana annuisce appena.
-Sì. Ma è un aspetto che si può certamente rinegoziare…-, dice. Allusiva da morire considerando l’ultima “rinegoziazione” tra loro due.
-È un’offerta?-, chiede Jhon. Dalima ha già deciso di farli fuori, una volta finita. Su questo non ha dubbi. Ma forse… Forse potrebbero ancora cavarsela.
-Una riflessione.-, dice la donna. La sua mano scende piano sino al petto, all’addome definito.
Jhon Kingsword conosce bene i lati sbagliati della legge. Cambiare lato richiede flessibilità di mente pensiero. Non è un problema per lui. Sorride.
-Riflessione interessante…-, dice. Ghermisce un seno di Dalima, stringe. La donna non emette un suono. Lo fissa piantandogli gli occhi nei suoi.
-Sarebbe un vero peccato se rimanesse lettera morta…-, dice lui. Lei sorride con un sorriso da sgualdrina. Si allontana di un passo. Uno solo, senza abbassare lo sguardo.
-Mai dire mai.-, dice con quel sorriso ancora in viso prima di uscire.
Jhon sospira. Dalima è una bella donna. Una donna quasi troppo bella e troppo seducente.
Una perfetta regina. In qualunque altro caso, sarebbe potuta essere la sua regina, la sua amante. Ma in questo momento, in questo caso, una distrazione così può essere letale.
Non gli piace per niente come sta andando la situazione.
A Patil Rabhoungham la situazione non piaceva per niente. Il rifugio non aveva telecamere, ed era stato concepito come semplice base di transito in cui soggiornare per breve periodo.
L’impossibilità di tenere sotto controllo gli alleati temporanei lo innervosiva. L’intesa di Dalima con il biondo occidentale gli dava sui nervi. Troppo poco controllo sulla situazione.
E la gelosia non aiutava. Divorò il cibo con rabbia: quel giorno era l’ultimo, l’indomani avrebbero provveduto ad attuare il loro piano, poi…
Poi gli occidentali sarebbero stati solo d’intralcio. Patil non intendeva minimamente lasciarli vivere: sapevano troppo. In più, c’era anche la questione di Dalima.
Vederla scopare con quell’uomo era stato umiliante per Patil. Un oltraggio da lavare.
Improvvisamente, il cellulare suonò. Telefono straccione buono per poche chiamate.
Rispose. E annuì. Problemi.
Turama Jindal odiava sentirsi preda. Ma in quella zona, lo era nondimeno.
Era in pieno territorio nemico, lei, Arjun, e altri due commando ai suoi ordini si erano spinti nel territorio dei Dacoit facenti parte di un’organizzazione che faceva a capo a Dalima Kothil.
La chiamata criptata sul cellulare le confermò, in pochi istanti, che il gruppo dell’hacker thailandese aveva sistemato un altro covo di quella banda. Nessun prigioniero, ma neanche tracce degli occidentali che Shaibat intendeva recuperare.
Nessuna traccia su Dalima Kothil e Patil, soprattutto.
Il lavoro fatto dall’hacker era stato minuzioso: aveva rapidamente tracciato la rotta, individuato possibili nascondigli ed esposto i collaboratori di Dalima Kothil.
Almeno, alcuni di essi. Comunque era sufficiente: l’inseguimento era ripreso rapidamente e Turama aveva potuto ritrovare le tracce del suo nemico.
Il fatto di aver finalmente ritrovato i fuggitivi però era bilanciato dalla consapevolezza che un intervento in forze sarebbe stato complesso da gestire, oltre che confusionario.
In più, Dalima Kothil aveva già dimostrato di essere pienamente in grado di depistarli, e di disporre di notevoli informazioni dall’interno degli stessi Servizi Indiani.
A quel punto, contare sul supporto dei suoi colleghi al di fuori della sua unità era ufficialmente azzardato. Così Turama aveva mobilitato la squadra e unito le forze con Shaibat, concedendo ai suoi associati la libertà d’azione che necessitavano.
Il risultato non si era fatto attendere, e le tracce scovate in rete dalla thailandese sfociavano laggiù. Un condominio, in periferia di una città-satellite di Delhi.
Con l’innalzarsi della tensione con il Pakistan e il Covid, l’India si trovava impantanata in troppe difficoltà, con i servizi interni incapaci di sorvegliare tutto e tutti, anche senza calcolare la possibilità di errori e doppi giochi.
Il che riconduceva a Turama, vestita in abiti civili ma con un giubbotto antiproiettile leggero e una Micro-Uzi nella borsa a tracolla, intenta a memorizzare ogni particolare sospetto.
Localizzò uno dei suoi uomini, al lato opposto della strada. Urtò con una spalla un uomo.
Lui la coprì di insulti in malayalam, lei ignorò, troppo impegnata a cercare di capire chi fosse un nemico e chi no.
Impresa quasi impossibile: potevano benissimo esserlo tutti, o nessuno.
La verità era che quella era un impresa disperata, un’idea malata, l’ultima speranza di riuscire a riprendere il controllo di una situazione sempre più vicina all’inevitabile fine.
Girò un angolo. Vide un uomo sollevare lo sguardo da terra. Un mendicante. Gli allungò una moneta da due rupie. L’uomo unì le mani inchinandosi, in segno di gratitudine. Lei passò oltre.
Fece pochi passi e sentì un rumore dietro di sé. Passi. Il mendicante si muoveva. Piano. Come se avesse avuto tutto il tempo del mondo per spostarsi. E forse era così.
In quel momento sentì una lama sulla gola. Imprecò mentalmente.
-Ora tu e io facciamo una bella chiacchierata…-, disse una voce al suo orecchio mentre al naso le giungeva odore d’alcool e tanfo di sudore. Dacoit. Senza dubbio. La via esterna era quieta.
Nessuno guardava. Nessuno voleva rogne. Nessuno l’avrebbe aiutata.
Era stato il mendicante? L’uomo urtato poc’anzi? Impossibile dirlo. E ininfluente.
Indietreggiando verso l’uomo, come incespicando, Turama si mosse. Strinse il polso dell’uomo, sferrando una gomitata con l’altro braccio. Il Dacoit non si aspettava la reazione.
Cercò di mantenere il controllo della lama. Impresa vana: Turama aveva praticato il Kalaripyattu e il Krav Maga. Ed era più che intenzionata a non morire sgozzata là.
Si liberò dalla presa trovandoselo davanti: uno straccione con il dothi e il petto avvolto da una maglia consunta. Forse pure sbronzo a giudicare dal puzzo d’alcool.
Tempestò di colpi corti l’uomo, strappandogli la lama di mano. Coltello artigianale, arma dappoco. L’uomo indietreggiò. Era completamente impreparato a combatterla: probabilmente era un teppista di strada, bassa manovalanza atta a sorvegliare la situazione.
Lei gli si lanciò addosso. Lo bloccò contro la parete, puntandogli la lama alla gola. L’altro parve ritrovare improvvisamente la sobrietà. Gemette.
-Ora le domande le faccio io.-, sibilò minacciosa l’indiana.
Qualcosa non andava, Dalima Kothil lo capì nel momento in cui incrociò lo sguardo di Patil.
-Rajiv non risponde.-, disse laconico l’uomo.
-Non saltiamo a conclusioni affrettate…-, disse lei.
-No, aspettiamo pure che ci piombino in casa!-, esclamò Patil. Dalima sospirò.
Da quando aveva scoperto la sua tresca con Jhon Kingsword, Patil era divenuto decisamente emotivo. Molto, molto male. La sua espressione non rese necessarie altre parole.
-Anche Alì non risponde.-, riferì uno dei Dacoit. La donna annuì. Non era più un caso.
-Se ne occuperanno i nostri soci. Sarà un modo molto efficace per prendere due piccioni con una fava: in un colpo solo sfoltiremo il loro gruppo, se tutto va bene, ed elimineremo gli intrusi.-, dichiarò. Era un’idea decisamente ottima. Patil scosse il capo.
-Tenteranno sicuramente di fare i furbi.-, disse.
-Hanno troppo da perdere.-, replicò Dalima.
-E molto da guadagnare. Sanno che non lasceranno l’India vivi.-, sibilò lui.
-Allora assicuriamoci che capiscano che fare i furbi adesso non è una buona idea. Tre cecchini, sul palazzo. Incluso te. Al minimo segno di stranezze, colpisci per uccidere.-, ordinò.
Il viso dell’indiano si aprì in un ghigno ridente.
-Gli altri si preparino: evacuiamo in giornata. Distruggete il materiale non essenziale, raccogliente quello prioritario, veloci.-, concluse Dalima.
Brutta situazione.
Per Nô l’idea di essere stati ritrovati dai Servizi Indiani era già una notizia dolceamara, ma il peggio era stato il piano di Dalima: mandare James, Jhon e Qi a occuparsi di chiunque avesse avuto modo di seguirli. Non ci voleva un genio: Dalima voleva costringerli a continuare a cooperare. Lei ovviamente non sarebbe stata esposta a un tale rischio: era vitale per la successiva fase dell’operazione e quindi sarebbe stata scortata al sicuro.
Lo stesso però non valeva per gli altri. Nô si limitò a sperare che tutto filasse liscio.
Anche se non riusciva onestamente più a capire come avrebbe potuto…
Erano armati e pericolosi. L’uomo voleva crederci, specie alla seconda parte.
La verità, lo capiva bene, era che erano in trappola. Battersi contro i Servizi Indiani avrebbe definitivamente mandato a puttane ogni possibilità di un accordo, o di un salvataggio.
Dalima Kothil li aveva in pugno. Di nuovo. Frustrazione e rabbia.
L’uomo superò un vicolo. Si sentì occhi addosso, difficile dire quali. Adrenalina e attenzione.
Incrociò gli occhi di una giovane. Bistrati. Un sarì viola dai colori accesi accarezzava forme piacenti. Una prostituta… Gli sorrise. Lui passò oltre.
Non era né il posto né il momento. La prostituta esclamò qualcosa in Hindi.
L’uomo si voltò. E la vide indicare un angolo. Una sagoma tra due edifici, in nero. Sparì in un istante tra le costruzioni.. Non si perse a pensare: scattò stringendo la pistola.
-Cosa diavolo fai?-, chiese la voce di Patil tramite l’auricolare.
-Ho visto qualcuno!-, esclamò lui. Puntò l’arma muovendosi più lento, ma più preciso.
-Uno dei miei ti copre..-, rispose la voce di Patil. L’uomo sospirò. Non era interamente vero.
Poteva ben immaginare cos’altro il cecchino avrebbe dovuto fare. E non era escluso che avrebbe gradito farlo…
Ma al momento non importava: si buttò all’inseguimento.
Tutto in malora! Turama Jindal aveva interrogato quel bastardo ricavandone poche informazioni sicuramente vere. Posizioni e numeri. I Dacoit non avrebbero tardato a reagire.
Poi l’uomo l’aveva vista. Aveva intuito. Colpa della donna, una troia da marciapiede che sicuramente fungeva da spia per quei bastardi.
Sparò due colpi di pistola. I colpi partirono con un rumore loffio grazie al silenziatore, arrivando a colpire al petto un Dacoit armato di fucile a pompa e con la barba da sei giorni.
L’uomo sparò a vuoto mentre crollava. Fine dell’effetto sorpresa!
Panico in strada, grida, spari altrove. Impossibile dire dove o chi stesse sparando. Le stradine strette e gli edifici sfitti si trasformarono istantaneamente in un dedalo letale.
-Turama?-, Arjun, tramite la radio.
-Tutto apposto. Abbiamo perso la sorpresa ma siamo vicini all’obbiettivo. Chiudiamo la morsa.-, rispose lei. L’adrenalina le pompava in vena, acuendo i sensi, velocizzando le reazioni.
Superò un bancone. Una raffica da fuori tempestò la parete di fondo.
Un colpo non silenziato scagliò un corpo a terra, fuori.
-Preso!-, esclamò Atmhandar, il cecchino del suo gruppo.
-Ottimo colpo. Mi muovo.-, riferì lei. Si alzò dai ruderi. Strappò la mitraglietta ultracompatta dalla borsa. Via le sicure e fuoco rapido. Non era venuta a fare regali.
-Altri ostili, alle tue ore tre!-, riferì qualcuno. Turama alzò l’arma.
-Acquisito.-, disse Atmhandar. Sparò. L’occidentale che stava correndo verso di lei correva a zigzag. Tattica da commando per spezzare la linea di tiro di un cecchino.
Ma non era a lui che Atmanhardar stava mirando: il dacoit poco indietro crollò centrato al collo. L’occidentale si buttò dietro un furgone. Al riparo.
La successiva raffica di Turama falciò diagonalmente una donna che impugnava una AK a canna corta. I Dacoit stavano chiamando rinforzi e i suoi uomini non erano venuti equipaggiati per una battaglia.
Quella cittadina era divenuta una sorta di Stalingrado in miniatura. James Crowain ne aveva vista di merda, ma lì… Sparò costringendo un indiano basso in vesti da turista al riparo.
Difficile dire chi fossero i nemici: i dacoit di Dalima non si distinguevano dai cittadini, come pure i commando. Due spari strapparono schegge d’intonaco dal muro alla sua destra.
Crowain si buttò a terra. Sfilò dalle dita rigide di un dacoit un fucile a pompa. Sentì dei passi.
Sparò. La rosata travolse in pieno una vetrina, e anche un tizio con una MP5K imbracciata.
L’uomo cadde a terra. Rotolò goffamente in copertura. Sicuramente aveva un giubbotto antiproiettile. La rosa di pallettoni non aveva fatto danni. Meglio, da un certo lato.
-Vai a finirlo!-, esclamò un Dacoit straccione con in mano una pistola che pareva aver visto tutti i conflitti dalla Guerra di Corea. James annuì. Si mosse. Il Dacoit lo imitò. Un passo, due.
Sparare a quel commando avrebbe implicato solo una cosa: la fine della possibilità, per quanto remota, dell’aiuto da parte dei Servizi Indiani. Eppure, non c’era scelta.
Jhon Kingsword sbucò dalla finestra. Lo vide. James e il Dacoit. L’indiano era indietro, solo un po’. Misura cautelare. Ancora non si fidavano. Fortunatamente, Jhon aveva rimediato un silenziatore di fortuna. Sparò. Il Dacoit cadde, colpito alla testa.
“Non fare cazzate, James…”, si augurò. Non era un uomo di fede, ma in quel momento le preghiere gli parevano appropriate. Si augurò che Patil non l’avesse visto.
Patil ringhiò di rabbia. I suoi uomini erano bassa manovalanza ma ne erano già caduti parecchi. Impossibile capire con certezza dove fossero i nemici. Strappò il fucile da cecchino a uno dei suoi. Vide un tizio in camicia kaki e pantaloni. La sua arma era un MP5 ultracompatto.
Sufficiente a catalogarlo come un nemico. Sparò.
-Chirag è a terra!-, la comunicazione strappò il fiato ai polmoni di Turama. Il gelo rischiò di bloccarla. Si riscosse: per Chirag non poteva fare molto, ma gli altri erano ancora vivi.
E avevano ancora una missione da compiere.
Percepì il movimento. L’uomo le arrivò addosso. Direzione imprevista,
Aveva saputo sfruttare la sua distrazione. L’indiana sparò a vuoto, più per intimidirlo.
-Fermo!-, esclamò. Lui parve ignorarla: colpì con la pistola tenuta per la canna, a martello. Lei schivò. Se proprio insisteva. Lasciò cadere la mitraglietta e sferrò un calcio.
Il tempo andò in accelerazione. Il calcio basso iniziale è solo una distrazione, serve a conservare l’iniziativa. Ma anche l’uomo non è un dilettante. Blocca, ma non riesce ad applicare la leva. Cerca di sgambettarla e riceve un secondo calcio alla spalla.
Botta notevole, ma tiene duro. Turama sorride, suo malgrado.
È un duro. Lo sa già. Sa che era lui, al bordello, la prima volta che ha incrociato la loro strada.
-Non deve finire così per forza.-, dice lei. Lui ignora. Colpisce cercando di entrare nella sua guardia. Scambio di colpi tutt’altro che trattenuto. Nessuno dei due vuole morire, nessuno dei due vuole uccidere, con tutta probabilità. Ma nessuno dei due intende arrendersi.
-Turama? Cosa succede?-, chiese Atmhandar. Il cecchino non vedeva. L’uomo si mise in posizione di guardia. E anche lei. E fu allora che lo vide. Una parola, sulle labbra dell’uomo.
“Sniper”. Sniper? Uno sniper li stava puntando?
-Atmhandar, abbatti i cecchini nemici.-, ordinò lei. Poi l’uomo le fu addosso.
Patil imprecò. L’altro cecchino, una donna ex-forze speciali pakistane, crollò riversa a terra.
Dead-center a centro massa.
-Dobbiamo andarcene!-, esclamò.
-E gli occidentali?-, chiese uno dei suoi. Patil inquadrò. James Crowain, pistola puntata come in un’esecuzione su un uomo di cui l’indiano vedeva solo le gambe muoversi debolmente. Forse già ferito? Probabile. L’inglese sparò. Patil non vide il bersaglio ma conosceva la tecnica: tre colpi, due al petto e uno alla testa per essere sicuri. L’uomo a terra smise di muoversi.
Si riposizionò, cercando l’uomo senza nome. Niente! Sparito. Ah, no, combatteva a mani nude contro qualcuno. Non riusciva a vedere chi e cercare di capirlo poteva essere letale.
Si abbassò d’istinto. Un proiettile fischiò oltre la sua testa.
Situazione paradossale.
Il pugno lo schiva all’ultimo momento, approfittando della tensione dell’avversaria per applicare una leva. Koteoroshi. Rapida, ma non abbastanza. Lei si divincola. È brava.
E decisamente bella: l’incarnato è leggermente scuro, il viso volitivo e i capelli lunghi.
All’uomo pare di rivivere un ricordo, o un sogno. Un sogno letale.
Evita di misura un calcio basso. Sente il boato. Qualcuno grida. Morto o ferito.
Lo sniper? Quello che l’uomo sa, ricorda di avere puntato sulla sua coordinata?
Non può rischiare. Adagia il peso sulla gamba posteriore. La donna carica il colpo.
Si lancia verso di lei. La botta al braccio destro è bella forte, ma la travolge, buttandola a terra.
Le atterra sopra. Colpi cortissimi da vicino. Quasi nessuna difesa. Incassa al viso e al petto.
L’indiana ringhia qualcosa in hindi. Lui non capisce. Non abbastanza.
Ma una cosa la capisce: sono caduti fuori dal raggio dei cecchini? Vuole crederci.
Anche perché sa che non avrà molto tempo. Una ginocchiata gli centra la coscia.
Sferra un ceffone a mano tesa. L’indiana si difende, punta alla gola. Non deve farsi sbilanciare, non deve! Sente le mani di lei stringerlo. Un passato mai passato che riaffiora di nuovo.
Spezza la presa e stringe alla gola della donna. -Ora basta!-, ringhia.
E qualcosa nei suoi occhi lo spinge a esitare. Lei lo fissa, occhi negli occhi.
“Merda…”, pensa. È già una situazione di merda, se anche le emozioni entrano in gioco è finita.
-Shaibat.-, riesce a dire lei. Nel caos fuori e con l’adrenalina a mille è impossibile capire, ma…
-Shaibat?-, chiede l’uomo. Lei gli sferra una testata. Lo prende male, ma lo prende. Un male cane. Prende il controllo, troneggiando su di lui.
Sono avvinghiati a terra, ancora intenti a cercare di combattersi.
-Shaibat.-, ripete la donna. È sopra di lui. Estrae fulminea qualcosa. Non una pistola. Un cellulare. Roba di qualche anno fa. L’uomo lo prende. Ora che ha capito…
C’è un solo numero in memoria. Lo chiama.
-Ascolta bene…-, dice la voce dell’hacker. Lui annuisce. La voce gli scalda il cuore, insieme anche alle notizie, al fatto che, come già sperava, non sono stati abbandonati.
La donna si alza, piano, lentamente. Si porta al riparo, dietro un bancone. L’uomo si rialza, senza perdere una frase. Dopo aver ascoltato, finalmente, parla a sua volta. Deve.
-Intendono colpire Shira Panchari.-, dice. L’indiana annuisce. Si rivolge ai suoi via radio. Dice alcune frasi in hindi che lui non capta. Probabilmente ordini.
-Lo immaginavo. Ascolta, possiamo recuperarvi.-, dice Shaibat. L’uomo annuisce. Lo sa.
Ma sa anche che dovranno andare fino in fondo: Dalima Kothil e Patil sono parte della cospirazione, forse una parte rilevante, ma non tutta la cupola al comando.
C’è ancora qualcuno nascosto nell’ombra. L’uomo lo sa. Anche i suoi compagni l’hanno capito.
-Turama e i suoi uomini stanno cercando di agire slegati dai Servizi Indiani. Questa cosa… Potrebbe arrivare molto in alto.-, dice Shaibat. L’uomo annuisce. Immagina.
Alla fine, a sporcarsi le mani sono sempre loro. E va bene così. È il loro compito.
Turama, appoggiata di schiena al muro, si passa un fazzoletto sul viso. Graffi, ferite.
Di entrambi. L’uomo annuisce. Si fissano un ultima volta.
-Dicono che il solo modo per giudicare qualcuno, sia di affrontarlo.-, disse lui.
-Se è così, allora l’idea che ho di te, è quella di un uomo decisamente all’altezza delle dicerie.-, rispose l’indiana. Lui annuì con un sorriso. Shaibat e gli altri dovevano essere stati prodighi di dettagli, ma restare a parlare non era un’opzione. Fuori, per strada non si vedeva più nessuno.
-Devo muovermi.-, disse l’uomo. La donna annuì. Sparò qualche colpo, non su di lui. Lui annuì.
Jhon Kingsword rientrò verso la base.
-Stanno ripiegando. Non sparate! Sono io!-, urlò sbracciandosi. Ed era vero. I Dacoit lo guardarono con sfiducia appena celata. Patil non lo degnò di uno sguardo.
James Crowain, poco distante, sosteneva uno dei Dacoit. L’uomo sanguinava da una brutta ferita all’addome. Lo affidò ad altri due.
-Hai ucciso uno dei commando, eh?-, chiese Patil con un ghigno. Attendeva all’ingresso della palazzina. I mezzi dei Dacoit si stavano già muovendo. Mezzi comuni, indistinguibili dai classici veicoli del traffico indiano medio.
-Il bastardo aveva un giubbotto in kevlar. Ma la testa non era poi così dura…-, ghignò James.
Jhon sospirò. Sapeva che l’ex SBS non avrebbe mai osato farlo. Patil rimase inespressivo.
L’uomo, il Giustiziere, emerse da una via laterale.
-Stanno fuggendo. Ma sicuramente staranno per chiamare rinforzi. Dobbiamo muoverci.-, disse mentre riconsegnava la pistola a Patil. L’indiano annuì, prendendola con cautela.
-Naturalmente. Muoversi.-, disse. Indecifrabile. Jhon scambiò uno sguardo col Giustiziere.
L’uomo era pesto e sanguinante. Si scambiarono uno sguardo. Non si metteva per niente bene.
I Gatti Neri non erano soldataglia, erano commando addestrati. Ma nessuno era immortale.
-Mi dispiace.-, la voce venne da una donna. Non Shaibat. Una straniera dal viso simmetrico. Miryam Goldmann. L’altra donna di quel gruppo di occidentali con cui Shaibat lavorava.
Erano arrivati poco dopo, ricollocati là alla svelta. Troppo tardi per essere d’aiuto. Potevano solo costatare, accettare. Accettare la morte di un guerriero.
-Non sono stati i nostri.-, decretò Frank Horst. L’uomo era un biondo, dall’accento strano, che Turama non si era data la pena di definire. Era un buon elemento.
-Nessuno vive in eterno.-, sussurrò appena la donna. Si chinò e chiuse gli occhi di Chirag.
-Il capo non la prenderà bene.-, mormorò Arjun.
-Considerata la situazione non prenderà bene proprio niente.-, disse l’indiana.
-Noi invece che direzione prendiamo?-, chiese Miryam.
-Quella che ci porterà a Shira. E ora, se il vostro amico gioca bene le sue carte, abbiamo un vantaggio.-, disse l’indiana. Lontana, appoggiata a uno dei mezzi, Shaibat sorrise.
-Pensi mai alla morte?-, la domanda colse Frank Horst di sorpresa.
Miryam aveva preso posto accanto a lui nella berlina. L’aria condizionata non esisteva, il caldo flagellava. La stagione dei monsoni doveva essere prossima, ma il caldo sarebbe rimasto.
-Non molto. Alla fine lo sappiamo: la vediamo, la infliggiamo, la subiremo.-, disse l’olandese.
-Già. Gli indiani parlerebbero di Karma.-, disse Miryam. Era al volante. Con loro c’era Shaibat. L’hacker stava dormendo. Neroko Tsubikome, anche lui seduto sui sedili posteriori fissava il vuoto. Da quando Nô era stata rapita pareva aver ridotto il suo universo al salvataggio della donna che serviva come guardia del corpo e secondo.
Frank aveva pensato che tra i due ci fosse stato qualcosa, ma la verità, ora lo capiva, era diversa. Neroko era un devoto. Un samurai moderno. Un raro esempio di fedeltà.
-Ci tocca accettarlo.-, mormorò Frank, -Tutti muoiono.-.
-Sì. Non si scappa.-, ammise Miryam. Superò a destra a 80 km/h. Un sorpasso che in altre parti del mondo sarebbe stato un reato. In India era ordinaria amministrazione.
-Non vuol dire che non ci si debba godere l’intermezzo…-, disse l’olandese.
-Uh-uh.-, fece Miryam. Concentrata sulla guida, forse non aveva afferrato le possibili implicazioni di quella frase. Frank guardò fuori, per un istante. Il paesaggio era interessante, e desolante, a suo modo. Un luogo fuori da ogni tempo. La gente camminava in strada stipata sui marciapiedi, il traffico invece fluiva caotico con un coro di clacson e frenate.
Improvvisamente, l’uomo sentì qualcosa. Una mano. Sul ginocchio. La mano di Miryam.
La donna gli fece appena un sorrisetto. Lui sorrise a sua volta.
Non c’era bisogno di altro. La mano di lei si riposizionò sul cambio e inserì la marcia.
Frank pensò che se la sarebbe fatta volentieri, ma sapeva che le priorità erano altre, e lo sapeva anche lei. Prima la missione, poi, se sarebbero stati ancora vivi, il resto.
Nô fu raggiunta dagli altri. La casa sicura era un luogo dozzinale. La giapponese vi era arrivata avvolta in un sari all’indiana ed aveva aspettato. Immergendosi nel personaggio che avrebbe dovuto interpretare. Cercò di carpire informazioni dalle espressioni dei suoi compagni.
Nulla. Il vuoto. Nessuno di loro mostrò niente.
-Procediamo. Abbiamo ancora poche ore.-, disse Dalima Kothil richiamando tutti all’ordine.
Poche ore prima del colpo. Poche ore per sperare che la situazione non fosse peggiorata.
Nô annuì. In ogni caso, non aveva scelta.
Lei doveva solo recitare la sua parte. E sperare che si presentasse un’apertura per riuscire a sganciarsi e rovesciare le parti di quel gioco folle prima che costasse loro la vita.
Ripassò nuovamente la parte, mentalmente. La memoria fotografica era una dote utile e l’aveva servita bene per molto tempo. Lo fece anche quel giorno.
Kumi Hotsushiki, lei era Kumi Hotsushiki. Attrice di teatro, cantante fallimentare, in cerca di conforto e persa per la sua dea indù, Shira Panchari.
Tutte parti che poteva interpretare. Il suo nome, che in realtà era un soprannome, era dovuto solo ed esclusivamente alla sua capacità di recitare ruoli. Ora avrebbe affrontato la prova definitiva. Quella il cui premio sarebbe stata la vita.
Cercò Qi con gli occhi.
Impassibile. L’uomo si sforza di restarlo.
La cosa peggiore è sapere di poter sperare, di avere la chiave con cui liberare tutti loro e non poter condividere quella verità. Deve aspettare. Deve.
-Avete ucciso delle forze speciali indiane. Non c’è ritorno da questa scelta.-, parole come massi da Patil. Compiacimento? Forse. Forse persino spavalderia.
L’indiano ha veramente mangiato l’esca? L’uomo non lo sa. Non lo può sapere.
Può solo aspettare. Fa appena un sorrisetto.
-Non erano poi così tosti.-, ghigna appena, -La Delta Force avrebbe potuto far di meglio.-.
Non è una battuta tanto per: la Delta Force fu protagonista di un fiasco non indifferente durante una crisi degli ostaggi in Iran. Una missione partita male, maledetta, a detta di alcuni.
Patila annuisce appena, mellifluo come il granito.
Dalima Kothil ammicca, apparentemente più convinta. Gli altri, solo poche occhiate. Perfetti.
I mercenari e i dacoit, sguardi ammirati, timorosi, o imbelli.
-Alquanto spavaldo.-, il commento di Dalima è ammantato di un tono melato ma pare celare una minaccia evidente, -Spero che la spavalderia sia giustificata dal successo.-.
-Mi pare che fin qui ce la siamo cavata benone!-, esclama Jhon Kingsword, mani in tasca, disinvolto. Dalima lo degna di un lungo sguardo.
-Naturale. Siete stati abili. Ma la partita è delicatissima. E non possiamo permetterci errori. Dopo l’eliminazione del primo bersaglio, Shira sarà in guardia.-, dice la donna.
-E poi?-, la domanda giunge da James Crowain. Il commando estrae una sigaretta e accende, incurante della disapprovazione altrui, -Ci saranno altri bersagli?-.
-Forse. È una situazione fluida. Difficile prevederla.-, ammette Dalima.
-In altre parole…-, Jhon Kingsword si stacca dalla postura pigra in cui è scivolato, toglie le mani dalle tasche, fa un passo in avanti in una mozione fluida e priva di sbavature, -Ci stai dicendo che non sai quanti altri bersagli ci siano e se lasceremo vivi l’India.-.
La tensione si alza. L’uomo sospira. La frase non è fuori luogo, ma i dacoit e i mercenari alzano appena le mani verso le armi. Minaccia palese.
-Diamoci una calmata. Per ora collaborare è nell’interesse di tutti quanti.-, calca sulle ultime parole, avanzando tra Jhon e Dalima, frapponendosi tra loro. Tagliando le possibili traiettorie di tiro, -Se non ve ne siete resi conto, abbiamo bisogno gli uni degli altri.-.
-Esattamente.-, annuisce Dalima Kothil. La donna indirizza all’uomo uno sguardo ammiccante, pregno di stupita ammirazione, oppure promessa velata di dolori a venire, -Ed è proprio per questo che propongo di passare alla seconda fase del nostro piano. Shira Panchari.-.
-Shira Panchari.-, disse Shaibat. Metodica, aveva già reperito il materiale, lecito e non.
Aveva violato le reti indiane, i dossier dei servizi, finanche il server di Shira stessa.
-Non esattamente campionessa di virtù.-, disse Miryam Goldmann.
Il ritrovo era un trilocale. Una mazzetta di milleseicento dollari aveva convinto la famigliola a sbaraccare alla svelta. Poco discreto, ma il tempo dei sotterfugi stava finendo.
-Politica rampante, la nostra Shira. E discreta festaiola.-, continuò l’israeliana.
-Droghe. Cocaina, meta, specialmente una particolare nuova droga sintetica chiamata Hoboob.-, aggiunse Frank Horst. L’olandese ghignò, -Tutte a disposizione per chi paga.-.
-E la cara Shira paga eccome. Bonifici e tangenti. Nessuna promessa infrangibile, nessun limite invalicabile…-, le immagini scorsero sullo schermo. Turama Jindal osservava e basta, -E soprattutto nessunissima fastidiosa remora morale.-.
Shira Panchari in atteggiamento da festa, china su una scrivania a pippare coca, intenta a trattare con un ministro del partito opposto, impegnata a consegnare una valigetta a due orientali. Coreani? Cinesi? Difficile dire.
-Agenti di Pyongyang.-, specificò Neroko Tsubikome, -Una vera fortuna che qualcuno abbia avvisato i Servizi Cinesi. Quei due non sono mai arrivati in Corea del Nord. La valigia conteneva informazioni sulle vulnerabilità strategiche della Corea del Sud secondo uno studio dei Servizi Indiani. L’ISI si è adoperato per celare qui documenti. Senza successo. Ma io e i miei associati li abbiamo distrutti. Senza farne nessuna copia.-.
Turama sospirò. Il solo fatto che il giapponese li avesse letti implicava una fuga di dati.
Irrilevante, al momento. Non contava nulla. L’indiana sapeva bene cosa voleva.
-Il che riduce ma non modifica il problema. Shira Panchari è marcia come pochi.-, disse Shaibat. Turama annuì appena. Un cenno del capo di cui neanche lei fu totalmente conscia.
Che i politici indiani fossero tutti più o meno corrotti non era una novità, ma Shira Panchari aveva raggiunto cime abissali nella sua corruzione. Turama si scoprì a desiderare che il loro salvataggio fallisse. Si scoprì a sperare che arrivassero tardi.
-Niente figli né famiglia. Shira è un esempio di femmina indipendente e progressista.-, continuò l’hacker thailandese. Cliccò. Altra immagine.
Il cuore di Turama saltò un battito quando vide quello che si rivelò essere un filmato.
Un filmato abbastanza hot. Shira stava baciando in modo molto passionale una giovane. Una giapponese che sembrava decisamente gradire quelle attenzioni.
-Porca troia.-, imprecò Frank Horst. Shaibat mise in pausa proprio mentre la giapponese svolgeva il sari di Shira dopo essersi levata il vestito a sua volta.
-Già. La nostra cara Shira è decisamente progressista. Sotto più aspetti.-, disse, – Si da il caso che la giapponese sia Kumi Hotsushiki, cantante e attrice di teatro alquanto mediocre ma decisamente molto, molto brava a indulgere in altre attività decisamente poco ortodosse.-.
Altro click, altre foto. Kumi con altre ragazze. Una modella belga, una groupie inglese…
-La nostra Kumi è decisamente molto, molto attratta dalle donne.-, commentò Miryam.
-Il che ci permette di inquadrare il piano di Dalima Kothil.-, disse Neroko Tsubikome.
L’indiana guardò il giapponese in attesa che parlasse.
-Kumi somiglia in modo notevole a Nô Mitsutune. Colei che ho giurato di proteggere.-, spiegò lui, -Colei che ora, insieme ad altri nostri alleati, è ostaggio di Dalima Kothil.-.
Trucco, vestiti, oggetti di scena. Nulla di diverso dal teatro. Nô sorrise, tesa.
Inspiro ed espirò, concentrandosi sulla respirazione. La stanza era spoglia e non c’erano specchi. Pessimo luogo per prepararsi, ma non c’erano altre opzioni.
Nô inspirò ed espirò ancora. Via l’aria cattiva, via anche i dubbi e la paura.
-Nô?-, chiese la voce dell’uomo. Nô si scosse. Aprì la porta. Era ancora vestita con i suoi abiti.
L’uomo entrò. Lento. La guardava. Era preoccupato e si vedeva.
-Qi… -, sussurrò lei. Lui le posò un dito sulle labbra. Il dito fu rimpiazzato della labbra di lui. -Ti amo.-, confessò in giapponese la giovane al termine del bacio.
-Anche io.-, mormorò lui nella stessa lingua, -Abbiamo stabilito un contatto. Verranno a prenderci.-, disse. Nô annuì stringendolo a sé. Disperatamente, aggrappandosi alla speranza.
Sapeva che non li avrebbero abbandonati. -Dobbiamo continuare con la recita.-, mormorò lui.
-Ce la farò ma… Qi… Se non dovessi…-, iniziò lei.
-Non dirlo.-, rispose lui. Le accarezzò il viso. Nô si rilassò contro la sua mano, un rifugio dalle tenebre, dalla follia dell’uomo. Un paradiso all’inferno.
Quell’abbraccio durò un lunghissimo istante. Poi, lentamente, si sciolsero.
Dalima Kothil sorrise. Patil grondava desiderio di uccidere.
-Hanno esaurito la loro utilità e lo sai.-, disse l’uomo, -Non permettere che il cazzo di quell’americano ti fotta il cervello.-. Nessun motivo di urlare, ma solo un’idiota avrebbe ignorato i palesi segnali di nervosismo da parte dell’indiano. Aveva il viso corrugato, il tono basso e i tendini della gola come cordame in tensione.
-Forse quello che sta venendo fottuto sei tu, Patil.-, disse Dalima con calma flemmatica.
La frase fece calare il silenzio. Lei sorrise appena, fredda come ghiaccio dell’Hindukush.
-Di tutti loro, Jhon Kingsword è l’unico che potrebbe considerare di cambiare fronte. Gli altri sono sacrificabili. Ma visto che la loro presenza…-, la donna fece una studiata pausa, -… Ti risulta tanto invadente, forse dovremmo fare qualcosa al riguardo.-.
-Non possono essere controllati! Per quanto ne sai hanno mentito! I miei non hanno trovato altri corpi dei Gatti Neri-, rispose l’uomo.
-Non significa che quei bastardi non se li siano portati via. Non essere ingenuo, Patil. Inoltre, se anche loro fossero in grado di sganciarsi, ormai non cambierebbe nulla.-, disse l’indiana.
-Cazzo! Non so se hai capito cosa rischiamo, Dalima!-, esplose Patil.
-Rischiamo quello che abbiamo sempre rischiato. E otterremo ciò che ci prefiggevamo.-, rispose lei, senza cedere di un millimetro. Patil alzò la mano. Lei lo fronteggiò senza paura.
-Vuoi colpirmi? Fai pure! Ma ti converrà guardarti le spalle da ora in avanti.-, lo sfidò.
Un istante, due. Il braccio di Patil si abbassò. Imprecò a lungo.
-Oppure potresti ascoltarmi. Su una cosa hai ragione: hanno esaurito la loro utilità. E ti occuperai di loro. Ma con metodo e senza sbavature, mi sono spiegata?-, chiese lei.
Patil annuì. Domato, ascoltò gli ordini. Li avrebbe eseguiti.
Era pronta. Non era più Nô. Era Kumi.
-Pronto?-, la voce di Shira Panchari le giungeva dal ricevitore. Inglese perfetto, accentato.
-Sono io… Sono in India. Possiamo vederci?-, chiese Nô. Silenzio. Stupore? Sospetto?
-Non è il tuo solito numero…-, il dubbio fu espresso con una nota di tenerezza.
Shira voleva crederci? Voleva che fosse lei?
-Lo so. Ho avuto un incidente. L’altro telefono si è rotto.-, rispose lei, -Incidenti che capitano.-.
-Capisco…-, la voce di Shira si abbassò appena, -Ci vediamo da me, alle undici.-, sussurrò.
Aveva mangiato l’esca. Molto probabilmente non sospettava. Nô sorrise.
-Non vedo l’ora!-, esclamò con voce in falsetto, come Kumi avrebbe fatto. Appese.
-Abbiamo la posizione.-, disse Patil staccandosi dai computer.
-E abbiamo il piano.-, annunciò Dalima. Avevano tracciato il segnale della chiamata.
Shira avrebbe potuto avere dubbi, ma ormai erano in ballo, Nô lo sapeva bene. Annuì.
-Andiamo.-, disse, -Finiamola.-.
Schieramento rapido. Arjun e i suoi erano rimasti sorpresi quando Turama aveva detto loro che non ci sarebbero state pattuglie davanti all’abitazione di Shira o altro.
-Praticamente permetteremo al nostro nemico di colpirci al cuore, giusto?-, chiese il soldato.
-No. Shira è marcia, come gran parte dei nostri politici. La sua morte sarebbe solo un favore. Inoltre, possiamo chiuderla rapidamente anche dopo che l’avranno uccisa.-, disse la donna.
-Che facciamo se scappano?-, chiese il commando.
Turama tacque. Quello era un bel problema. Se fossero fuggiti…
Se fossero fuggiti l’intera faccenda sarebbe finita male, anzi peggio.
Perché di fatto il politico assassinato al bordello e Shira erano due figure cruciali, non solo per la mera importanza politica. Shira e quell’uomo possedevano entrambi una parte di un codice d’armamento per un’arma nucleare tattica.
Il solo sapere che quel codice potesse cadere in mano dei terroristi, venire usato contro il suo paese, provocò a Turama un brivido freddo, accompagnato da un senso di gelo dentro.
Copertura. Concetto fondamentale, primo assioma della guerra moderna.
L’uomo dietro copre quello davanti. Ognuno copre la propria area. Minimizzare i rischi per la squadra. Ognuno guarda le spalle agli altri. Come nelle antiche falangi greche, una singola mancanza può condannare tutta la squadra. Un anello debole può annichilire tutti loro.
Jhon Kingsword sospira, lentamente. C’è una parola, una parola precisa per la fondamentale componente di qualunque squadra. Fiducia.
Una componente mancante in quella squadra: lui intuisce, sa. Patil e Dalima hanno piani.
Piani in cui molti di loro non rientrano. In cui lui rientra? Non lo sa. Non con esattezza.
Non può sapere, può supporre. E può decidere. In realtà, deve decidere. Deve farlo ora.
-Fanculo.-, sibila al nulla. È un fottuto casino e lo sa. Sa che lui e i suoi sono sacrificabili.
E sa che il momento del sacrificio è prossimo. Dalima e il suo sodale non saranno mai così stupidamente onesti da lasciarli vivere, non dopo tutto quello che hanno visto e fatto.
Il che riporta tutto il discorso alla copertura. Massima tattica di squadra, certo.
O perfetto strumento di eliminazione proditoria.
Jhon Kingsword capisce. Sa. E decide.
James Crowain sorrise. Quella del commando era una vita semplice.
Insegnava, in modo durissimo, a riconoscere una trappola, di qualunque genere.
E quella era decisamente una trappola. Loro con armi da fuoco e dietro i Dacoit di Dalima, schierati come sicurezza (così dicevano). Una trappola palese…
Solo che Crowain sapeva, intuiva, che una reazione andava ragionata. Avrebbe dovuto parlare con gli altri ma lì, sulle macchine di Dalima e dei suoi, in viaggio verso il campo da fuoco, era impossibile. Scambiò uno sguardo con Jhon Kingsword prima che l’altro lo superasse. Dovevano arrangiarsi, confidare nelle loro capacità come gruppo. Ne sarebbero usciti. Tutti.
Se lo ripromise, sperando che con la volontà fosse possibile alterare le probabilità.
La sua posizione era appena sopraelevata, il tetto di un magazzino. Accanto a lui c’erano due dei Dacoit di Dalima Kothil. No, non Dacoit. Erano vestiti da Dacoit ma non lo erano.
I banditi da strada non indossano giubbotti antiproiettili.
Uno alla sua destra, l’altro a sinistra. James in mezzo. Sniper e due spotter.
Prudenza eccessiva da parte di Dalima. James annuisce. Decide.
L’uomo conosce le trappole. Le conosce da parecchio. Sa che questa è una di esse.
Esiste una fine per tutto. Forse quella è la sua. Il pensiero gli attraversa la mente in meno di un istante, un lampo di luce nella notte indiana all’alba delle undici di sera.
-Vita, morte…-. Le parole lasciano le sue labbra come una mera promessa.
L’uomo al suo fianco lo fissa. È un brigante da strada incapace di concepire la filosofia. L’uomo sorride appena. E conclude la frase.
-Solo stati della mente.-, dice. L’altro s’incupisce. Non capisce. Non può.
L’uomo sorride appena. Lui sa. Da molto tempo. Inspira ed espira mentre gli ultimi attimi prima dell’inizio dell’azione.
Shira Panchari s’illuminò d’immenso vedendola.
Lei era la sua musa, la sua amante, il suo giardino segreto. L’indiana sorrise mentre l’altra le camminava incontro con un sorriso altrettanto grande e radioso sul viso.
L’aveva conosciuta quasi per caso, ma fin da subito aveva provato qualcosa, un morboso desiderio. Ci aveva messo un po’, un bel po’ a capire che era amore.
All’inizio era stata pura attrazione, quasi animalesca. Complice il suo ruolo e la mole di obblighi (anche morali) che aveva, Shira non aveva avuto scelta: la sua relazione sarebbe dovuta restare un segreto, gelosamente custodito da due persone soltanto.E tale era rimasto al prezzo di infiniti sotterfugi.
Si erano viste poche, pochissime volte, sempre di sfuggita e senza dar nell’occhio.
Solo due persone erano a conoscenza dei loro incontri: l’agente di Kumi e il bodyguard di Shira. Era giusto così: nessun’altro a comprometterle.
Il Bodyguard di Shira era assolutamente affidabile, essendo un parente. Incorruttibile.
L’agente di Kumi invece era informato semplicemente di un’amicizia con Shira che, a detta della giapponese era proprio solo un’amicizia, peraltro utile all’immagine.
Shira, sin da quand’era piccola aveva percepito di essere diversa. Non vedeva le ragazze come amiche, bensì sentiva qualcosa, un senso di desiderio per loro.
Inutile dire che aveva dovuto tenerlo nascosto, emanciparsi attraverso la più ferrea volontà.
Era stata la volontà a renderla ciò che era. Fedeltà? Lealtà? Tutte scuse. Per Shira contava solo una cosa: vincere. Vendicarsi di quella società patriarcale e priva di remore che relegava troppo spesso le donne al ruolo di mere compagne degli uomini.
La sua ascesa politica, agevolata da vari alleati, fu rapida. Altrettanto rapido fu il resto.
Corruzione. All’inizio semplici tangenti, poi ben altro. Traffici permessi, ordini revocati, pressioni su altri politici, ricatti e illeciti vari.
Manovre e schemi dentro altre manovre e altri schemi. Un gorgo oscuro che minacciava d’ingoiarla. Che l’aveva già ingoiata? La domanda le si presentava spesso.
Quanto marcio poteva essere il marcio? Dov’era il limite?
La risposta era semplice: non c’era un limite. Lei faceva tutto ciò che era necessario per essere l’esempio fulgente di una nuova donna indù. Libera ed emancipata.
Chiaramente la sua relazione con Kumi non faceva parte di tutto ciò: i tempi per una simile rivelazione ancora non erano maturi in India. Con l’incedere del Coronavirus, forse non lo sarebbero stati ancora per molto. Ma quell’incontro… era avvenuto a puntino.
Per Shira era un periodo di tensione: con due alleati morti e numerosi altri spariti dalla circolazione per paura, la donna sapeva bene che la tempesta vera e propria doveva ancora iniziare. I rapporti tra l’India e il Pakistan erano tesi, estremamente.
Presto o tardi, una purga a livello politico era inevitabile e Shira sapeva, con assoluta chiarezza, che avrebbe dovuto fare del suo meglio per trovarsi fuori dalla lista dei cattivi.
Nulla di più facile; le sarebbe bastato fare qualche favore, e chiederne altri ad alleati e conoscenti di vecchia data. Poi, quando le acque si sarebbero calmate, se si fossero calmate, avrebbe potuto tornare sulla cresta dell’onda.
Oppure, se la tempesta avesse superato le sue più nere previsioni… A quel punto avrebbe adattato il suo ruolo di conseguenza. L’ambiguità era una qualità morale nella politica.
I puri non duravano in quell’ambiente. Venivano spezzati, o cancellati.
Attese che Kumi scendesse dal risciò e si sistemasse l’orlo del sari prima di raggiungerla con un sorriso che eguagliava quello di Shira.
Centrata, Nô avanzò verso l’indù. Non era una brutta donna, ma era sicuramente una poco di buono. La giapponese avanzò, il viso aperto in un sorriso radioso.
Indossava un sari che era la perfetta riproduzione di un sari di Kumi Hotsushiki.
Era credibile. Come tutto il resto. La rete di Dalima aveva svolto un lavoro notevole.
Era evidente che si erano preparati per quel colpo sin lì.
“Se noi non fossimo incappati nella loro rete, avrebbero reclutato qualcuno come me, in grado di spacciarsi per Kumi.”, dedusse. L’ironia della cosa era stupefacente: lei era l’ultimo tassello di quel mosaico, finito per pura fatalità tra le mani di Patil e Dalima.
Gli altri con lei erano utili strumenti, ma era stata la sua presenza a far decidere ai due di ingaggiare il suo gruppo, di questo Nô era certa.
Com’era certa anche che non ci fossero altri bersagli: Dalima era stata vaga al riguardo, ma il fatto che avesse messo in campo così tanti dei suoi implicava la volontà di chiudere la partita.
Aveva raggiunto il suo scopo. Quale che fosse stato.
Shira la raggiunse, senza effusioni, cosa che Nô si era aspettata. Erano ancora in strada ed era più che plausibile che qualcuno vedesse.
-È un piacere rivederti, Kumi. Com’è andato il tour nel Kantō?-, chiese.
Nò sorrise mestamente. Non bene: la vera Kumi era stata accolta alquanto tiepidamente, il suo astro era in netta caduta. Ma questo Shira lo sapeva e non c’era motivo di negarlo.
-Non benissimo. Diciamo che i miei connazionali stanno perdendo interesse. L’ultimo film che ho girato ha registrato incassi mediocri.-, articolò la parola come fosse stata un insulto.
Per Kumi lo era: la celebrità aveva dato rapidamente alla testa dell’attrice.
Nô conosceva il tipo: una donna bramosa di tenere stretto il successo, palesemente adirata per il trovarsi a perderlo. Shira annuì, con un’espressione comprensiva.
-Vieni: sarò felice di offrirti del Chai e discuterne a quattr’occhi.-, disse.
Il bodyguard dell’indù, decisamente molto attento, parve scandagliare l’area per pericoli o occhi indiscreti. Nulla. Nô sorrise mentre muoveva i passi verso la casa di Shira.
“Vieni, disse il ragno alla mosca…”, pensò con un pessimo presentimento.
James Crowain puntò il fucile. Inquadrò il bodyguard che ripiegava, voltando la schiena al pericolo. Facile, molto. Ma non era quello il suo compito.
Restare in attesa. Coprire Nô. Assicurarsi che sopravvivesse, quello era il suo compito.
E uscirne vivo. Cosa che i due mercenari di Dalima Kothil non prevedevano…
L’uomo agì. Inutile tergiversare: incespicò fingendo goffaggine. Uno dei due Dacoit biasciò qualcosa. Si protese per aiutarlo. Frazioni di secondo.
L’uomo scattò come una molla complessa. Il Tantō versione mini compare nel suo pugno come per un gioco di prestigio. L’indiano incespica. Emette una sillaba strozzata. L’uomo pugnala.
Da sotto in su. Ascendente. La lama si apre la strada: nervo mandibolare reciso. Sfila e colpisce ancora. L’indiano va giù in una cascata cremisi.
L’uomo non perde tempo: strappa al moribondo la compatta mitraglietta che quello si porta dietro, oltre a un’altra cosa. Scivola tra le ombre. Ora tocca a lui.
Turama Jindal, Miryam Goldmann, Frank Horst e i commando dei Gatti Neri sfrecciavano nella notte a una velocità suicida. Con il traffico delle strade indiane, era un’autentica roulette russa.
-Shaibat. Ti hanno contattato?-, chiese Turama mentre superava un furgone.
-No. Voi preparatevi a intervenire.-, rispose l’hacker thailandese.
-Come facciamo a sapere se sono ancora vivi?-, chiese Frank Horst.
-Lo sono.-, la voce di Neroko Tsubikome non tradiva alcuna incertezza.
Il mezzo guidato da Arjun con a bordo il giapponese e gli altri commandos era appena dietro il loro. Nessun segno di riconoscimento, nessuna mimetica. Normali cittadini che facevano lo stesso tracciato. Sino al luogo dell’azione.
Il Chai era caldo e speziato. Nô non finse di gustarselo: era davvero buono.
La casa di Shira era un open space moderno, con il giusto mix di cultura indù e modernità. Mobili essenziali e statue indiane. Cuscini e divani palesemente locali si accompagnavano a elementi di mobilio chiaramente occidentali, roba costata una fortuna.
Avevano parlato del più e del meno, almeno finché il bodyguard di Shira non si era convenientemente eclissato, rassicurato dalla rilassatezza della sua protetta.
Terminò l’ultimo sorso di Chai con un sorriso.
-Ora… senza nessuno che ci disturbi…-, osò mettere una mano sul ginocchio di Shira. Erano faccia a faccia, separate solo dal tavolino, -Che ne dici se ci dimentichiamo tutto per un po’?-.
Shira sorrise, evidentemente di quell’auspicio.
C’era chimica, tra loro. O meglio, tra l’indù e la donna che Nô stava impersonando.
Anche se, suo malgrado, la giapponese sapeva che non poteva semplicemente fingere: una parte di lei trovava bella Shira. Era bella per gli occhi torbidi, per essere tutto quello che Nô non era. Eppure, era marcia. Irrimediabilmente.
“Avvicinati. Avanti… Solo quanto basta da fare ciò che devo…”, pensò.
Jhon Kingsword aveva un solo compito: tenere d’occhio la strada. Come farlo, quello era assolutamente a suo carico. Così lui aveva scelto l’opzione più semplice: dalla strada.
I passanti erano pressoché nulli: in quella zona nessuno aveva motivo di circolare oltre le dieci e mezza, se non per affari illeciti. Jhon sorrise, le mani a penzoloni lungo i fianchi, avvolto nella mantella per proteggersi dall’incombente monsone. Il perfetto turista occidentale.
Vide uno degli uomini di Patil . L’uomo lo guardò a sua volta. Nessun senso di fratellanza, solo puro riconoscimento. Un messaggio minaccioso ma velato. Un messaggio reciproco.
Le vie erano stranamente meno caotiche di quello che era lo standard per l’India.
Jhon svanì in una stradina secondaria.
Shaibat rispose al primo squillo. Numero indiano, sconosciuto.
-Dimmi.-, disse. Non aveva bisogno di chiedere chi fosse. La voce del Giustiziere le diede i dettagli di cui necessitava.
-Va bene.-, disse con sollievo. Chiuse la chiamata e prese a spiegare la situazione agli altri.
Avrebbero dovuto essere rapidi.
Patil non esitò: il fatto che un suo uomo non avesse risposto non era una buona cosa, voleva dire che almeno uno degli occidentali si era svincolato dal dispositivo di sorveglianza che aveva messo in atto. Imbracciò la pistola. Niente armi lunghe o a raffica per lui: era un professionista. Seguito da due dei suoi, comunicò a gesti con loro.
Era tempo di fare pulizia: di certo la troietta giapponese non ci avrebbe messo molto a neutralizzare Shira e, fatto ciò, l’utilità dei loro alleati diveniva nulla.
James Crowain aveva maturato una certa capacità di fiutare il pericolo. Quando uno dei due finti dacoit si allontanò parlando al cellulare, intuì che la cosa si era appena complicata.
L’altro aveva l’arma in mano un corto MP5. Ma non era in sicura.
James annuì. Inutile attendere ancora.
Il Sako TRG-22 che impugnava era un modello di fucile di precisione fornito anche alle forze speciali indiane. La sua leggerezza lo rendeva perfetto per ciò che doveva fare.
L’inglese agì, strappandosi dalla posizione accucciata e mulinando la canna dell’arma impugnata come una mazza sul viso dell’indiano. L’uomo arrancò cercò di mettere distanza. Riuscì persino a sparare. Il proiettile 9mm sfregiò il fianco di Crowain ma non lo fermò: arrivò a contatto col nemico. Sferrò un colpo con il fucile. Crakc! Il calcio in materiale polimerico si ruppe, probabilmente lo fece anche il cranio dell’indù. L’MP5 sparò altri tre colpi a vuoto prima di passare di mano. L’altro sgherro aveva imbracciato la sua arma, un P90 della FN.
Altra arma da forze indiane non esattamente convenzionali. Sparò in raffica. Centrò il suo amico al petto. L’antiproiettile resse. James, al riparo dietro al corpo dell’indù sparò alto.
Colpito alla testa, l’altro mercenario cadde a terra. Crowain raccolse tutti i caricatori che poté. La base di fuoco era persa. Una fortuna che le armi fossero tutte silenziate…
Quei tizi erano equipaggiati decisamente troppo bene per essere solo dei Dacoit e, vista la situazione, anche l’idea che fossero mercenari perdeva di significato a ogni istante che passava. Non era però quello il momento di pensarci. James filò verso la scala.
Doveva riunirsi agli altri, alla svelta.
L’uomo scivolò tra due edifici, cercando di restare in silenzio. Si riparò dietro una palma cresciuta abusivamente a lato della strada. Sapeva che sparare non era una buona idea: i nemici occupavano posizioni ignote, e il primo che sparava avrebbe segnalato la propria.
Il tempo scivolava via. Nô poteva concludere in ogni istante. E lui sapeva che, una volta fatto ciò, Dalima e i suoi avrebbero chiuso la trappola. Non esisteva che li lasciassero sopravvivere, era palese. Come palese era divenuto anche il loro piano.
Shira Panchari, il politico ucciso a Mumbai, Sanjar Tah. Una cabala in seno allo stato indiano.
Ma quella non era l’epurazione che poteva sembrare: Dalima non lavorava per i Servizi Indiani: Shaibat gliel’aveva reso ben chiaro in poche parole.
C’era uno schema mostruoso dietro a quelle mosse: una volontà ferrea di riaccendere il conflitto solo sopito tra India e Pakistan. Dalima Kothil lavorava per i Servizi Pakistani, da molto tempo. La sua infiltrazione nel campo avversario era stata sicuramente profonda e manovrare gli elementi radicali della politica indiana era stata solo una parte dello schema.
Identificare gli elementi utili al suo piano, colpirli e recuperare dei codici, parti di codici.
Codici… per Agni. Per il fuoco dei fuochi. Per il Dio dei Fuochi.
Si mosse rapido nella notte oltrepassando una villetta e scomparendo in un vicolo.
I dacoit di Dalima dovevano starlo cercando e non aveva modo di sapere cosa ne fosse dei suoi compagni, ma s’impose di non cedere alla paura. Shaibat e le forze speciali indiane stavano arrivando, era sicuro. Doveva resistere. Dovevano sopravvivere.
Jhon Kingsword non aveva mai sprecato un‘occasione. Da piccolo marinava la scuola per apprendere la dura legge della strada. Da ragazzo aveva incominciato un suo giro di smercio.
Non era un puro: era un furfante redento. Non lo negava.
Ma era anche un survivalista. Il Dacoit dietro di lui, il petto ingrossato dall’evidente presenza di un giubbotto antiproiettile, alzò l’arma. Jhon non esitò: si aspettava un tradimento, ma quel bastardo di Patil avrebbe dovuto pensarci due volte.
Jhon aggirò un angolo sentendo i colpi impattare con furia sul muro dov’era stata la sua testa fino a un secondo prima. Estrasse la pistola. Indietreggiò di tre passi.
Il killer uscì dal vicolo, arma puntata. Si muoveva rapido ma non fluido. Era impacciato. Palese che non fosse un professionista, anche se si atteggiava a tale ruolo.
Grave errore. Si voltò lentamente. Troppo fottutamente lento.
Jhon sparò. Due colpi. L’uomo incassò al petto. Steso. Colpo conclusivo alla testa.
Si avvicinò al morto. L’arma era una copia cinese di una mitraglietta ceca. Arma irrintracciabile e silenziata. La prese. Valutò se spogliare il morto ma scartò l’opzione: il tempo necessario a farlo avrebbe potuto costargli la vita. Per quanto utile fosse, l’antiproiettile di quell’uomo non era un’opzione. Prese l’arma. Nô e gli altri… dov’erano?
Nô era convintissima che la sua operazione fosse riuscita, peccato che ora si poneva il problema di come neutralizzare Shira senza armi. Era venuta disarmata: sarebbe stato troppo rischioso venire scoperta con una qualsiasi arma.
-Oh Kumi…-, la bocca dell’indiana si staccò dalla sua per dire quelle due parole.
-Hai…-, belò lei in giapponese. Baciò nuovamente la donna sulle labbra carnose.
Tempo: doveva guadagnare tempo, ma nella sala c’era poco e nulla che potesse usare per uccidere e non poteva rischiare che Shira desse l’allarme.
“Pazienza…”, s’impose mentre le mani dell’indiana le sollevavano il vestito, mettendo a nudo il reggiseno e la pelle. Accarezzò lascivamente il corpo dell’altra, andando a toglierle una parte della veste con una passione solo parzialmente simulata.
In realtà, Nô aveva avuto a suo tempo una relazione saffica con Achiko Mitsutune, la Daimyo del Clan della Montagna Rossa, colei che le aveva lasciato il comando di una branca della Yakuza particolarmente tradizionalista.
Nô conosceva decisamente bene il sesso lesbico e poteva dire che Shira non era certamente una novellina né una superficiale amante incapace di dare piacere.
L’indiana stava leccando i seni di Nô in piccoli cerchi concentrici, partendo dall’esterno e chiudendo sui capezzoli della giapponese con colpi di lingua appena accennati mentre la sua partner si stava dando da fare in carezze sempre più audaci, sempre più vicine al pube dell’indù, languide e piacevoli. Le mani di Shira accarezzavano i fianchi e le natiche di Nô con frenesia. Era evidente che la donna voleva passare al piatto forte della serata.
Per la giapponese andava benissimo: il bodyguard non era in vista ma in quella sala non c’era modo di agire, né la sicurezza che quell’energumeno non fosse appostato a spiarle da qualche parte. Magari dietro la parete divisoria tra il soggiorno e la cucina…
-Qui si sta scomodi, amore.-, sussurrò con tono viziato da bimbetta.
Shira sorrise, alzandosi. Il sari che portava era quasi interamente sciolto. Bastò appena un movimento e scivolò dal suo corpo come una cascata di seta blu chiaro ricamata.
Nô la fissò, sinceramente colpita. Vederla nuda era una tentazione di altro tipo. Non lo era del tutto: le mutande dell’indiana erano ancora al loro posto, nere e di pizzo, ma sicuramente Shira Panchari aveva un corpo spettacolare e non dovevano essere state poche le donne disposte a perdere la faccia pur di assaporarlo. Peccato che quella sarebbe stata la sua ultima notte. L’indiana sorrise.
-Faccio sempre questo effetto?-, chiese con un ghigno.
-Ogni volta come la prima.-, mormorò la giapponese. Non poteva biasimare Kumi: sebbene il sesso avesse la sua importanza, Nô non si considerava una capace di abbandonare tutto per il piacere. Anche con Qi aveva sempre mantenuto un certo grado di lucidità.
Shira era diversa: l’odore della sua pelle, il profumo occidentale sicuramente pagato a peso d’oro mischiato all’aroma naturale di quella donna… erano una droga.
E il resto… la carnagione scura, tipica dell’India del Sud, i capelli, tutto le dava quel tocco di esotismo selvaggio che la faceva sicuramente apparire come un sogno per i maschi.
Peccato che Shira non fosse interessata a loro…
Nô notò qualcosa, disegni. Linee d’inchiostro Partivano dal polso sinistro di Shira e arrivavano al gomito. “Henné.”, pensò, “Tatuaggi con l’henné. Una tradizione. A dispetto di tutto il suo parlare di progresso e di emancipazione…”.
-Belli, vero? Sono recenti.-, disse Shira indovinando dove si posava lo sguardo dell’altra, -Li ho fatti qualche settimana fa. Una piccola concessione alle nostre usanze, che qualche volta si rivelano molto pittoresche.-.
-Ti stanno benissimo…-, sussurrò Nô. Aveva avuto una fortuna sfacciata: Kumi non poteva aver visto quei tatuaggi. La sua copertura reggeva.
-Vorresti fartene anche tu?-, chiese Shira. La giapponese annuì, entusiasticamente.
-Sì! Ma credo che in Giappone non capirebbero, non che m’importi.-, rispose.
-Vieni!-, Shira le prese una mano e la fece alzare. Anche il Sari di Nô scivolò a terra.
La giovane portava mutandine meno ricercate del suo bersaglio, ma comunque apprezzabili…
-Il letto è più comodo.-, sussurrò mentre vi si dirigevano.
James Crowain imbracciava l’MP5 con dimestichezza. Era un’arma nota e affidabile sebbene vecchiotta rispetto ai modelli più recenti. Ma non era l’arretratezza a preoccupare l’ex SBS, bensì il numero di colpi. I suoi nemici avevano addosso solo poche munizioni.
Pessima cosa. Si fermò al riparo di un cassonetto dall’odore nauseabondo.
Il fianco leso gli mandò una fitta. Sanguinava ma non era grave. Strinse i denti.
“Combattere feriti è la virtù del vero guerriero.”, gli aveva detto uno dei reclutatori del SAS.
All’epoca non era stato capace di farlo, ma ora… Ora gli altri contavano su di lui.
Non li avrebbe delusi, non esisteva. Due Dacoit sbucarono dall’angolo a destra, a trenta metri da lui. Avevano delle pistole. Roba dappoco. James selezionò il tiro singolo. Sparò.
Shaibat non scese dall’auto. Neroko sì, insieme agli altri commando.
Erano in abbigliamento civile, i giubbotti in kevlar gonfiavano le camicie. Alla cintura portavano qualche tasca per i caricatori. Le armi erano mitragliette corte.
Una toccata e fuga. Turama era stata tassativa: avrebbero dovuto essere chirurgici.
I commando avanzarono nella notte. Non ci volle molto per vedere i primi nemici. Dacoit messi a fare i pali da Dalima Kothil. Vedette esterne, ad assicurarsi che nessuno interferisse.
Neroko annuì. Salvare Nô era la priorità, per lui, ma quella dei loro alleati era ben altra.
Doveva concedere loro di gestire quella parte della situazione. Coprì l’avanzata di Arjun.
L’indiano si mosse rapido, la pistola silenziata imbracciata in presa Weaver.
Sparò due colpi freddando una delle vedette. Frank Horst, poco distante, neutralizzò l’altra.
Avanzarono. Poi una voce urlò qualcosa in Hindi.
Nô leccava piano. La vulva di Shira si apriva dolcemente e languidamente alla sua lingua. L’indiana ansimava a bocca aperta, travolta dal secondo orgasmo della serata. Il primo era stato raggiunto a metà strada tra il letto e il divano, quando le dita della giapponese avevano trovato il clitoride. Shira biascicò qualcosa in hindi, spingendo la faccia di Nô contro la sua intimità. Erano sole. La giapponese raggiunse con una mano qualcosa. Un nastro di seta.
Pessimo come garrota, ma in mancanza d’altro…
Sentì Shira muoversi e baciarle le cosce. Le aprì, di getto. Sapeva di essere bagnata. Quell’amplesso non le era indifferente. Sentì le labbra dell’altra baciarle le cosce, il pube rasato, la vulva, scendere e risalire. Stava ansimando.
-Prendo una cosa..-, sussurrò Shira, languida. Dopo un ultimo colpo di lingua che fece fremere Nô di deliziosi brividi, l’indiana si alzò, chinandosi ad aprire un cassetto.
-Non ci mettere molto…-, mormorò Nô toccandosi appena, -Voglio insegnarti qualcosa su un’arte chiamata Shibari.-. Si toccava sperando che Shira dimenticasse qualunque cosa volesse prendere e le fornisse l’occasione di cui abbisognava per riuscire a concludere.
-Ho fatto.-, disse la voce dell’indiana. C’era qualcosa di sbagliato in quella voce. Era fredda.
Non era la voce passionale di chi voleva tornare a godere. E fu questo a far irrigidire all’improvviso Nô, come un freddo brivido di timore lungo la schiena.
Il caldo della notte indiana parve annichilito dal freddo siberiano quando la giapponese si rizzò tra le coltri sfatte, fissando la sua amante.
Shira Panchari impugnava con notevole freddezza una pistola semiautomatica. La nudità non pareva intimorirla o distrarla e lo sguardo era d’acciaio. Nô cercò di calmarsi.
-Non ti muovere. Sei stata brava a impersonare Kumi. Mi hai davvero ingannata. Ma hai fatto alcuni errori. Il primo è semplice: Kumi non mi avrebbe guardata con tanto stupore. Il secondo invece… Hai un neo all’attaccatura della coscia destra, Kumi non ce l’aveva.-, il cane della pistola scattò all’indietro. Nô espirò. La farsa era finita. Erano due errori che sarebbero stati impossibili da prevedere. Annuì appena.
-Ora, a dispetto del fatto che mi è piaciuta la tua lingua, è chiaro che non lavori da sola. Sai molto su Kumi e su di me, quindi te lo chiedo: chi ti manda? Rispondi e la tua morte sarà indolore.-, Nô vagliò le opzioni. Parlare o tacere? Quante possibilità c’erano che Shira la graziasse? Nessuna. La scelta era tra morire senza soffrire o morire soffrendo. Tacque.
-Bene. Sono convinta che Alì ti saprà sciogliere la lingua, magari dopo averti spezzato qualcos…-, la voce di Shira si spezzò quando improvvisamente si udirono delle urla fuori.
Insieme alle urla, improvvisamente si udirono anche altri rumori. Spari.
E Nô agì: la distrazione di Shira non si sarebbe ripetuta. Si gettò sull’indiana, deviando la pistola verso l’alto. Rotolarono sul pavimento contendendosi l’arma.
Improvvisamente partì un colpo.
Ai due Dacoit se n’era aggiunto un altro con un vecchio revolver. James non aveva potuto impedire che due colpi partissero. Tuoni da monsone. Poco ma sicuro, ora Patil avrebbe tentato di chiudere la partita. E le forze dell’ordine indiane non ci avrebbero messo molto a sopraggiungere. Ammesso e non concesso che lui e i suoi sarebbero stati vivi per vederlo.
Si ritrasse nella stradina mentre tre colpi si abbattevano sul muro. Una donna urlò qualcosa d’incomprensibile, affacciandosi al balcone.
-Stia dentro!-, ringhiò James. Inutile: uno dei dacoit inquadrò e sparò. La donna cadde all’indietro, colpita. L’inglese imprecò. Alzò l’MP5 e sparò tre colpi falciando il Dacoit che aveva sparato. L’uomo crollò all’indietro, impedendo temporaneamente il tiro ai compagni.
James Crowain ne approfittò per scivolare nell’ombra.
Disimpegnarsi e contrattaccare altrove. Trovare gli altri.
L’uomo sparò due colpi. Il mercenario si rifugiò dietro un cassonetto. L’uomo ricaricò rapidamente l’arma. Non attese di finire il caricatore. Vide un’ombra sbucare dal vicolo.
Sparò. Due colpi a centro massa. Clack! Inceppamento! Scagliò a terra la mitraglietta, precipitandosi sul nemico caduto. Strappò al moribondo la sua arma.
Un Veznek, una pistola mitragliatrice russa, parente alla lontana dell’AK.
Pesante ma affidabile. Con due caricatori per grazia del morto.
Altri passi si avvicinavano. Sparò tre colpi verso la direzione. Udì imprecazioni.
Doveva seminarli! Continuare a muoversi! Evitare di essere circondato!
Turama imprecò. L’operazione era divenuta un casino: quella pacifica periferia era divenuta un campo di battaglia. Inquadrò e freddò uno dei tiratori scelti con una raffica di MP5.
Più distante, Myriam Goldmann si sporse e sparò una corta raffica. Sufficiente a permettere a Neroko e Horst di avanzare, chiudendo altri due Dacoit in una morsa.
Niente prigionieri. Non erano lì per fare regali. Già sarebbe stata dura spiegare…
Ma sorprendentemente, Turama si accorse di non essere realmente preoccupata: l’indiana sentiva di star facendo ciò che doveva, che aveva giurato di fare e per cui era stata addestrata.
Dalima imprecò molto e a lungo: il suo piano era prossimo a fallire.
Gli occidentali erano fuori controllo e i suoi riferivano di nuovi nemici che stavano chiudendo la morsa sull’intero campo di fuoco. Doveva metterci una pezza.
Aveva sostituito l’abito elegante con una mimetica nera e relativo giubbotto tattico con protezioni in kevlar.
-Voi tre. Con me!-, ordinò ai mercenari. Uomini tosti, gente disciplinata, non i briganti di cui si era spesso servita. Afferrò la P90. Non aveva che un caricatore, ma le sarebbe bastato.
Nô si rialzò. Era sporca di sangue. Il proiettile aveva aperto un buco di regolarità quasi geometrica nel petto di Shira, trapassandole il cuore e un polmone.. La giovane sentì i passi.
Il Bodyguard entrò, arma pronta, ma insicuro su cos’avrebbe trovato. Nô simili dubbi non ne aveva: due proiettili calibro 9 centrarono il grosso al collo.
La giapponese rovistò nel cassetto. Uccidere Shira era solo una parte del suo compito.
Trovò qualcosa, una scheda dati, in un doppio fondo nel cassetto dove c’era la pistola. Era ciò che cercava. Non poteva essere altrimenti. Marciò verso l’armadio Claude Dalle.
Si infilò un vestito alla bell’e meglio. Non era il momento di pensare al look: fuori qualcuno stava sparando e questo voleva dire che Dalima e i suoi avevano iniziato la purga, oppure che i rinforzi erano finalmente giunti…
Si permise la speranza. Controllò il bodyguard. Nessun altro caricatore. Prese anche la sua pistola, un’arma italiana. Uscì dalla stanza.
Neroko Tsubikome sparò tre colpi. L’indiano suo bersaglio riuscì a buttarsi a terra, ma il giapponese non si perse d’animo. Era arrivato sin lì e avrebbe affrontato un esercito se ciò avesse significato salvare Nô.
Improvvisamente un’ombra si materializzò dietro il Dacoit. Con una mano deviò verso l’altro il fucile del brigante mente una lama corta ma acuminata gli trapassava il fianco, uscendo con uno schizzo di sangue nerastro. L’indiano crollò a terra mentre il nuovo arrivato ripuliva la lama sulle sue vesti.
L’uomo, il Giusitizere. Neroko ruppe copertura, insieme a Turama e Myriam.
-Sei vivo!-, esclamò l’israeliana. L’uomo annuì, il sollievo evidente sul viso.
-Dov’è Nô?-, chiese il giapponese.
-Dentro la casa di Shira.-, rispose l’uomo. Neroko lo seguì a ruota.
Patil oltrepassò un’arcata, arma in presa media. Vide un’ombra muoversi. Sparò. L’uomo fu centrato al petto. L’occhio vigile dell’indiano non individuò macchie ematiche.
Niente sangue. Il bersaglio aveva un antiproiettile. Tentò di reagire.
Il killer riallineò la mira. Due colpi all’encefalo misero fine a quell’uomo.
Aveva già capito: erano commando indiani. Gatti Neri. Gli stessi del locale a Mumbai e dell’incursione nel loro nascondiglio. Caso o premeditazione? Forse gli occidentali erano veramente riusciti a guidarli. Patil annuì appena: andava bene.
In un modo o nell’altro aveva previsto anche quella possibilità. La via di fuga inizialmente progettata era saltata, ma aveva già approntato le contromisure e diramato gli ordini.
I Dacoit cadevano, abbattuti dai commando in nero. I Gatti Neri stavano conquistando rapidamente terreno. Anche quello era previsto: i Dacoit avevano svolto la loro parte.
Erano sempre stati sacrificabili, pedine comode per garantire a Patil la libertà di movimento di cui necessitava. Essere ricercato dai Servizi Indiani era un inconveniente con cui il killer era da tempo venuto a patti.
Sentì un altro dei suoi urlare. Colpi di arma non silenziata. Vicini. Raffiche brevi.
Vide appena, sbirciando, una sagoma nota. L’uomo. Quello senza nome.
Gli dava le spalle, chino su un corpo riverso. Un dacoit.
Quell’uomo non gli era mai piaciuto: Era spaventosamente capace, freddo e concentrato.
Patil conosceva quella razza di predatori, gente che era ormai ad anni luce dall’universo normale. Era come lui. Un assassino.
Sarebbe stata una cosa facile sparargli lì, in quel momento, ma qualcosa lo fermò.
Onore? Un residuo di nobiltà? O forse solo la consapevolezza che la sorpresa non era assoluta.
Come a premonire ciò, l’uomo si girò. Patil si ritrasse. No: nessuna possibilità di coglierlo di sorpresa se non in quell’unica occasione, che non si sarebbe ripetuta.
Patil tuttavia immaginava, presentiva che lui e quell’uomo si sarebbero scontrati di nuovo.
Un rumore gli giunse. Lo vide arrivare verso di lui.
Jhon Kingsword. Il figlio di puttana emerse dal vicolo, arma in presa bassa.
L’immagine di lui sopra Dalima velò lo sguardo di Patil di rosso. L’indiano sorrise.
Jhon intuì: alzò la pistola. Fu lento. Troppo. Patil non sbagliò.
I due nove millimetri colpirono Jhon all’addome, scagliandolo all’indietro.
Patil si avvicinò. L’americano giaceva riverso nel proprio sangue. Le ferite non erano letali, ma lo sarebbero divenute. Oppure avrebbe potuto dargli il colpo di grazia.
Il rumore di passi nella sua direzione gli fece capire che quella possibilità andava scemando.
La morte di Jhon Kingsword valeva la sua? No.
Imprecando alla volta del suo nemico, Patil corse nella stradina più vicina. Era tempo di evacuare: i dacoit stavano venendo massacrati e presto i Gatti Neri avrebbero avuto in pugno il territorio. SI defilò tra le stradine, riunendosi a tre dei suoi, ripiegando.
Myriam Goldmann ruppe copertura. La strada era libera. Frank-Horst, slack-man, secondo uomo dopo di lei, si posizionò lateralmente.
Dietro di loro avanzava Arjun, mitraglietta con mirino laser al trizio impugnata.
Coperutra perfetta. Avanzamento da manuale. Inutile: tutto inutile. Non c’era nessun nemico là, casomai solo un corpo esanime.
-Jhon!-, esclamò Myriam. Raggiunse l’uomo a terra mentre gli altri la coprivano. La mano andò alla tasca medica. Tutti loro avevano un certo grado di addestramento al primo soccorso. Poteva curare, lenire, ritardare. Poteva allontanare lo spettro dell’Angelo della Morte. Forse.
Esaminò le ferite. Sangue scuro, lacerazioni uniformi. Cercò l’uscita del proiettile. Non la trovò.
Cercò le pulsazioni cardiache. Deboli, ma presenti. Jhon mormorò qualcosa d’incomprensibile.
-Resta con me, uomo!-, ringhiò lei mentre strappava con i denti la chiusura del kit di primo soccorso. Estrasse i guanti di lattice. Ispezionò le ferite dopo avervi applicato garze.
Se la vena o l’arteria iliaca fossero state danneggiate… O forse uno dei proiettili aveva colpito un rene o l’arteria renale? Cazzo, non lo sapeva! Jhon perse conoscenza, improvvisamente.
-Merda! Jhon! Non osare andartene!-, ringhiò Frank Horst, accorso accanto a lei.
-Battito?-, chiese l’ebrea mentre cercava di estrarre il proiettile.
-Debole. Bradicardia. Aritmico.-, riferì l’olandese. Divaricò la ferita dopo essersi infilato i guanti sterili. Myriam annuì, estraendo il proiettile accartocciato. Uno schizzo debole di sangue proruppe dalla ferita. La donna tamponò facendo pressione.
-Ha bsiogno di una trasfusione!-, esclamò Arjun. Due Gatti Neri, di cui un medic si avvicinarono. Estrassero la barella aprendola.
-Lo portiamo fuori noi. Voi procedete!-, ordinò l’indù. Myriam annuì.
Volenti o no, Jhon sarebbe stato in mani migliori se a occuparsene fosse stato un medico vero e proprio. Lei e Frank si scambiarono uno sguardo. Avevano un bastardo da stanare.
Nô incespicò. Le scarpe di Shira le stavano larghe di almeno due misure, ma doveva andar bene. Il vestito era malmesso, ma quel che contava era la periferica che stringeva in pugno.
Shira aveva mormorato qualcosa morendo. Un nome. Jahaghanath.
“L’alba… del fuoco…”, aveva mormorato l’indiana morente. Poi aveva reso l’anima.
Allucinazione? Mero delirio? O forse qualcos’altro? Nô sapeva solo di doverlo ricordare.
Dettagli importanti. Nô tuttavia capiva. Fuoco, nomi criptici…
L’idea che fosse una base di qualche tipo le era alquanto congeniale. Doveva dirlo. Doveva farlo sapere agli altri. Era a quello che puntava Dalima Kothil. Era quello che aveva sempre voluto. La giapponese uscì dalla dimora di Shira.
L’uomo proseguì ad avanzare insieme a Myriam, Neroko e Frank.
James Crowain li aveva incrociati poco dopo. Era ferito a un fianco ed era chiaramente indebolito dalla perdita di sangue.
Neanche a parlarne di fargli lasciare le armi: l’inglese aveva rapidamente additato Horst e uno dei Gatti Neri, muovendosi con dimestichezza e rapidità per chiudere la fuga di tre Dacoit. Gli spari e le urla avevano indicato il suo successo.
L’uomo, Neroko e Myriam avevano proseguito invece, alla ricerca di Dalima Kothil.
Doveva finire lì, in quel momento.
Lui sapeva che se la donna fosse fuggita avrebbe realisticamente potuto scatenare l’Apocalisse.
Dalima imprecò. Individuò una luce. Volanti della polizia. Ci mancavano solo loro!
La trappola si stava chiudendo. Qualcuno le intimò l’alt in Hindi e poi in inglese.
La donna sparò tre colpi verso la voce, imitata dai suoi pretoriani. Qualcuno urlò.
-Muoviamoci!-, ringhiò Dalima. Uno dei mercenari sparò. Fu centrato di risposta da un colpo alla testa che lo abbatté come un tronco d’albero colto da un fulmine.
-La copro!-, esclamò l’altro. Si mise a sparare. Raffiche rabbiose ma metodiche.
Dalima annuì. Inutile insistere. Sapeva che i suoi uomini stavano guadagnandole tempo. Credevano nella causa, ci credevano assolutamente e totalmente. Per essa avrebbero dato la vita, come stavano già facendo. Il loro sacrificio non sarebbe stato vano.
La donna scattò verso la casa di Shira.
Neroko imprecò. Il bastardo che gli stava sparando bloccava loro l’avanzata.
-Attiro il fuoco, cercate di aggirarlo!-, esclamò. L’uomo annuì.
Nô era vicina. Non potevano tardare.
Nô Mitsutune percorse gli ultimi metri sino alla strada. Fuori era un campo di battaglia. Notò un corpo riverso a terra e più indietro, verso le strade secondarie, lampi radiali di spari.
La follia della guerra era giunta anche là. Inevitabile, avrebbe detto qualcuno.
La giapponese si domandò come avrebbe potuto riconoscere i suoi alleati dai nemici.
Decise che avrebbe dovuto sfidare la sorte. Scattò, incespicò e riprese a correre, sino a raggiungere un muro. Si guardò attorno e improvvisamente la vide emergere dalle tenebre come la creatura di un incubo mai veramente dimenticato.
Il trucco aggressivo aveva lasciato spazio ai lineamenti nudi, il viso contratto in espressione furiosa, pistola mitragliatrice P90 in mano e mimetica da urbano. Dalima Kothil.
Nô alzò le pistole, entrambe. Sparò con entrambe. Dalima si riparò dietro un’angolo.
La giovane avanzò appena. Uccidendo Dalima, avrebbe potuto mettere fine a quella storia.
-Molto brava, signorina Nô.-, disse la voce dell’indiana. Percezione: Nô girò di novanta gradi, allineò e sparò. I colpi rimbalzarono su un cartello, distorsero il ferro.
-Tu e i tuoi amici siete stati abili, ma non abbastanza.-, disse la voce di Dalima, da un altro punto. Nô stavolta si girò, ma senza sparare. Non sapeva quanti altri colpi avrebbe potuto permettersi prima di ricaricare.
-E tu vuoi qualcosa.-, rispose la giapponese. Si voltò, credendo di aver percepito un movimento. Di fatto, un grosso sorcio zampettò verso un angolo buio.
Un altro rumore la portò a balzare istintivamente verso sinistra, lontano dal muro.
Fu la sua salvezza: due proiettili bucarono il calcestruzzo dove si era trovata lei poco prima.
-Qualcosa che tu hai. Shira sicuramente non l’avrà ceduta facilmente. Ma non temere: non ti offrirò false speranze di salvezza.-, la voce dell’indiana proveniva da destra ora. Nô sparò.
Un solo colpo, verso un ombra in movimento. Niente: sentì il bossolo rimbalzare. Il colpo era finito a vuoto. La finestra d’espulsione della prima pistola rimase aperta. Colpi finiti.
La lasciò cadere. Inutile portarsela dietro. Impugnò la M9 del bodyguard di Shira.
-Tanta onestà mi commuove…-, osò dire con un tono irridente.
Lo sparo giunse da destra, dalle sue ore tre. Sentì il proiettile superarla, il calore della pallottola lambire la pelle della fronte. La risata di Dalima la schernì mentre si girava, arma puntata in risposta.
-Potevo ucciderti, piccola. Potevo farlo tante volte. Sto solo giocando con te e lo sai. Perché sai che non puoi vincere.-, disse l’arpia. Nô strinse i denti. Non lo accettava.
Ma non poteva permettersi di combattere in preda alla rabbia. Doveva restare lucida.
-Io l’ho capito cosa vuoi, Dalima. Non lavori per l’India, ma probabilmente neppure per il Pakistan, tu e Patil e i vostri siete solo dei disillusi, dei macellai.-, sibilò con rabbia
-Noi stiamo per ricordare a questo paese quello che ha dimenticato grazie a troppi politicanti imbelli: s’impone una resa dei conti e ci sarà.-, ribatté la voce di Dalima.
Veniva da una viuzza laterale, dietro una casa. Nô si buttò verso la voce. Uno sparo le esplose a poca distanza dal piede destro. Si gettò a terra, eseguendo una capriola.
“I miei compagni stanno arrivando, devo solo resistere…-“, pensò Nô mentre raccoglieva e lanciava un sasso, nascosta dietro un cartello. Appena un rumore, accennato.
Il buio della notte e la poca illuminazione della via rendevano l’intero scenario un incubo di tattica. Passi, a sinistra! Nô ruppe copertura, arma pronta. Sparò.
Anche Dalima Kothil sparò.
L’ultimo nemico era caduto per mano di James Crowain. Entrarono nell’abitazione di Shira.
La casa era vuota. A parte i morti. Turama Jindal non sprecò parole o atti.
-Ho sentito degli spari!-, esclamò l’uomo noto come il Giustiziere.
Si precipitarono verso quella direzione.
Dalima si avvicinò, arma puntata. Nô Mitsutune era supina, un buco di perfetta regolarità geometrica nel torace. L’indiana calciò lontano la M9 della giapponese. Nô si agitò debolmente. Un ceffone finale la stordì quel tanto che bastava.
Strappò la chiavetta dalla tasca della giapponese. Sorrise. Eccolo! L’ultimo tassello del piano!
Sentì dei passi. Nô gorgogliò un respiro. Sputò un fiotto rossastro. Non ne avrebbe avuto per molto. Ma Dalima non aveva molto tempo. Prese a correre verso il punto di recupero designato con Patil e gli altri.
Era pronta all’ultimo atto.
Neroko chiamava in giapponese. L’uomo si unì a lui. Nella notte silenziosa, una voce sofferente li guidò sino all’ultima dolorosa verità.
Neroko crollò in ginocchio, il cuore stretto dalle gelide dita del fallimento.
L’uomo provava un dolore non inferiore. Nô aveva il pallore tipico dei morti e le labbra macchiate di sangue. Il petto si alzava e abbassava a singhiozzo, cercando di compensare il collasso del polmone leso. Sforzo vano.
Le labbra della moritura si mossero appena. Poi di nuovo.
-Jahaghanath…-, mormorò appena. Un soffio appena più forte del sibilo del vento.
-Nô… Resisti!-, riuscì a dire l’uomo. Attraverso il velo di lacrime che gli offuscava la vista, la vide reclinare il capo. La mano di Nô divenne improvvisamente rilassata.
Anche il suo viso lo divenne come se tutto il peso dell’esistenza le fosse stato tolto dalle spalle.
“Tutte le cose nascono dal vuoto e al vuoto ritornano…”, pensò l’uomo con un singhiozzo roco che nonostante il dolore immane, non riuscì a divenire un pianto.
Quel pensiero, estrapolato da un più ampio insegnamento orientale, non portò sollievo.
Nô era morta. Come Achiko, prima di lei, come Oleg, come tanti altri. Troppi altri.
Ma non sarebbe morta in vano. Non lo avrebbe tollerato.
-Jahaghanath.-, sussurrò Turama Jindal. L’uomo si alzò. Sentì quel movimento così pesante, come se gli fosse costato lottare contro la gravità di un mondo infinitamente più ostile.
L’aria stessa gli pareva fredda, glaciale a dispetto della temperatura tropicale.
Sirene e allarmi in lontananza. L’uomo guardò tutti loro.
E guardò Turama Jindal. L’indiana restituì lo sguardo, senza timore, ma con un accenno di pietà. Una pietà che lui ora non poteva accettare.
-Nô è morta per dirci questa cosa.-, sibilò l’uomo. La sua voce era intrisa di rabbia.
Non tristezza, ma rabbia.
-Jhon potrebbe star morendo, per questa cosa.-. L’uomo fissò ognuno dei presenti.
-Quindi tu, Turama Jindal, farai quest’ennesimo atto di Dharma.-. Ancora, da Turama nessuna risposta. Solo immobile, paziente, attesa.
-In nome dei nostri morti, miei e tuoi, ci dirai cos’è Jahaghanath.-, decretò l’uomo.
Non era una domanda.
Mamma mia ruben, mamma mia... Ti prego, scrivimi a gioiliad1985[at]gmail.com , mi piacerebbe condividere con te le mie esperienze…
ciao ruben, mi puoi scrivere a gioiliad1985[at]gmail.com ? mi piacerebbe condividere con te le mie esperienze...
Davvero incredibilmente eccitante, avrei qualche domanda da farvi..se vi andasse mi trovate a questa email grossgiulio@yahoo.com
certoo, contattami qui Asiadu01er@gmail.com
le tue storie mi eccitano tantissimo ma avrei una curiosità che vorrei chiederti in privato: è possibile scriverti via mail?