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LE PERLE DI GOMA

By 25 Maggio 2010Giugno 28th, 2021No Comments

CAP. 1: IL LAGO GELATO

– Parto alla fine di settembre, Pa’

Lo aveva detto così, distrattamente, mentre infilzava pezzetti di tonno dalla scatoletta e li portava alla bocca con la punta del grosso coltello da caccia.
Donato Marco Rolhilala Fabbron, questo era il suo nome, ma per tutti era semplicemente Zulù, era salito al lago gelato insieme a suo padre, ed ora stavano seduti lì di fronte allo spettacolo dei piccoli iceberg piatti e tondi, come quelli dei fumetti, che galleggiavano sulla superficie del piccolo alveo alpino.

Erano partiti all’alba di quella giornata di metà agosto nella luce incompleta del giorno, avevano attraversato la foresta dei violini fino all’imboccatura del sentiero che saliva.
Erano saliti quasi in silenzio fino al lago Cece, poi verso Caserina ed ancora più su, fino allo straordinario scenario del lago gelato.

-Allora hai proprio deciso di partire… Tua madre non la prenderà bene, lo sai.
In realtà, non l’aveva presa bene nemmeno suo padre: lui e sua madre stavano invecchiando, e avevano sperato che il ragazzo potesse prendere in mano l’attività di bar ristorante e bed & breakfast di famiglia.
E magari fare anche la guida alpina a tempo perso, come faceva lui.
Zulù aveva 30 anni, era stato un figlio e uno studente modello: quando c’era da aiutare qualcuno in paese, non si tirava mai indietro, quando il padre non poteva per gli impegni, o non poteva più per la difficoltà della salita, andava lui ad accompagnare i clienti nelle arrampicate sul Lagorai.
Certo che rimanevano stupiti a vedere questa statua nera come l’inchiostro di china alto quasi un metro e novanta per poco meno di ottanta chili di fisico perfettamente definito, che saliva sulle rocce come uno stambecco e parlava con forte accento della trentino.
Il colore della sua pelle rivelava le sue origini bantù, adottato all’età di un anno dai Fabbron che a tutti i costi volevano un figlio e l’avevano trovato in un bimbetto gracile e piagnucoloso, nerissimo e con gli occhi di ossidiana.
Quel bimbetto gracile era poi divenuto un giovane uomo alto, robusto, atletico e intelligente.
A quindici anni aveva salvato una turista ventenne dal morso di una vipera… e questo gli aveva successivamente procurato la sua prima avventura erotica…

I suoi avevano insistito molto affinchè studiasse da geometra, di geometri c’è bisogno sempre, diceva suo padre, e sua madre gli dava manforte.
Così, aveva finito per studiare da geometra, benchè preferisse le ore nei boschi a quelle in aula, ed era anche riuscito a diplomarsi con un bel voto, non il massimo, ma nemmeno tanto lontano.
Finita che ebbe la scuola, venne la naja, naturalmente negli alpini: anche qui, per essere uno che preferiva vagar per monti in assoluta libertà al farlo sottoposto a gerarchia, non solo s’era adattato benissimo alla vita militare, ma aveva anche trovato modo d’offrirsi volontario per una missione all’estero.
Qui aveva scoperto che al mondo c’era un sacco di gente che stava molto peggio di lui, che stava male davvero…
E cominciò a farsi strada nella sua mente un tarlo che lentamente rosicava i suoi pensieri: quel tarlo gli diceva che lui era stato molto fortunato, che se il fato non l’avesse voluto adottato dai Fabbron, nell’Italia che si avviava ad entrare nel salotto dei Paesi ricchi, sarebbe stato anch’egli un povero diavolo affamato e senza futuro nei Bantustan del Sudafrica segregazionista.
E il tarlo diceva anche: ‘prima o poi devi pagare il conto’…
La missione all’estero gli aveva fruttato un po’ di soldi, una parte la mise in posta, con un’altra parte del ‘bottino’ si comprò un’ Alfa Romeo 75 twin spark usata, ma tenuta bene, con la quale girava con gli amici e cercava di rimorchiare le ragazze.
Qui cominciarono a palesarsi i primi segnali di una tendenza che, negli anni a venire sarebbe poi diventata un problema sempre più grande: l’importanza del colore.
Si, perchè in realtà quando giravano per discoteche a rimorchiare, erano gli amici che rimorchiavano, lui… invece…
E se è vero che non era uno spigliatone, non era nemmeno deficiente, solo che quel gigante nero come la pece le ragazze le intimoriva, faceva… strano.
All’inizio pensò che dovesse trattarsi di un problema legato alla chiusura della gente nei paesi di montagna, pure nel suo paese l’avevano chiamato Zulù perchè era nero, almeno all’inizio con l’intento di sfotterlo, prima che quell’appellativo finisse per diventare solo un banale soprannome, anche simpatico.
In quel periodo, il nord est cominciava a riempirsi di fabbriche e capannoni, il Veneto che era stato terra d’emigrazione per non morire di fame aveva scoperto d’avere una vena imprenditoriale notevole e ovunque nascevano imprese d’ogni tipo, dal mobile all’elettrodomestico, dalle calzature all’abbigliamento, alla meccanica.
Così Marco si trasferì a Oderzo, nel trevigiano, alle dipendenze di una ditta di costruzioni industriali incaricata di costruire capannoni.
La nascente industria del nordest cominciava ad attirare manodopera emigrata, così che nelle fabbriche cominciavano a vedersi magrebini, romeni… e africani vari ed assortiti.
Così che spesso, quando andava sui cantieri a controllare lo stato d’avanzamento dei lavori, gli capitava che lo scambiassero per un muratore e spesso il committente faceva fatica a credere che quel nero poco più che ventenne fosse un geometra diplomato con mansioni di supervisore del cantire.
– Ostrega, me tocà un perito moreto, no ghe xera mai visto!
E anche qui, fuori dal lavoro, non c’era un cane che gli facesse compagnia, nè uomini nè donne.
Così, passava il tempo libero a fare vasche in piscina, girare in bicicletta e cazzeggiare nella piazza principale di Oderzo o in piazza dei Signori a Treviso.
Ma appena poteva se ne tornava al paese, pigliava l’attrezzatura, allacciava il coltello alla cintola, prendeva il suo cane e spariva per una giornata intera nei boschi.
A volte stava via l’intero fine settimana, se c’era ponte festivo, da solo nella foresta: alla sera accendeva un piccolo fuoco con l’acciarino, ci metteva sopra un po’ di legna e ci cucinava le salsicce che lui e il cane si divoravano quasi in silenzio, gli occhi di luce nera del giovane e quelli di ghiaccio dell’animale brillavano alla fiamma gialla della legna resinosa d’abete che diffondeva intorno calore e fumo aromatico.
Poi mettevano su a bollire un po’ di vin brul’: Zulù beveva dalla tazza molto lentamente, il cane guaiva goloso e lui gli lasciva leccare le ultime gocce dal cucchiaio che aveva usato per mescolarlo.
Poi stavano lì davanti al fuoco fino a che non si spegneva, il cane annusando l’odore della notte.
L’uomo intagliando legno e pensando…
Poi era venuta la trasferta a Trieste…
La ditta per cui lavorava aveva un cantiere a Trieste: Marco lavorava già da tre anni e si era sempre comportato in maniera eccellente, sia sotto il profilo professionale che del comportamento, così fu nominato capocantiere.
Era una costruzione importante, nella zona portuale e si richiedeva la sua presenza continua: dovette fare armi e bagagli e trasferirsi.
La ditta gli aveva procurato una camera in affitto nelle vicinanze del porto, così che potesse anche andare al lavoro a piedi e gli pagava vitto e alloggio senza strafare.
Ma Zulù era uomo di poche pretese, abituato alla naturale parsimonia delle genti di montagna, quindi non aveva di che lamentarsi e la diaria di trasferta bastava e avanzava.
Ogni tanto pigliava la macchina e passato il confine a risaliva fino a Nova Gorica, poi più su fino a Idrija e alle sue miniere di mercurio per arrivare poi ai piedi del Triglav.
Qui salì fino ai laghi del monte nero, poi al monte Kanin, vide le sorgenti dell’Isonzo e del Natisone, fatto il passo di Vr’ič, le valli di Tamar e di Vrata.
Ogni tanto, invece, si perdeva a guardare il mare e le navi che andavano e venivano dal porto.
– Ti sono cadute queste
– Scusa?
– Le chiavi della macchina, ti sono cadute
– Ah, grazie. Non so perchè le avevo in tasca, l’auto l’ho lasciata a casa… grazie comunque
– Di niente…
La ragazza lo fissava, gli occhi nascosti da occhiali da sole marroni, il fisico magro ma senza esagerare, i capelli castani, una polo da tennis e pantaloni al polpaccio, sandali neri a tacco abbastanza basso.
Poteva avere vent’anni.
-è tanto che stai qui?
-una mezzora, ci vengo ogni tanto a guardare le navi, quando non lavoro. Comunque anche quando lavoro sto qui vicino, lavoro al cantiere laggiù
-lo so che sei qui da mezzora, sono arrivata prima di te, stavo ripassando degli appunti… intendevo se è tanto che sei qui in Italia: parli molto bene l’italiano…
-parlo bene l’italiano!? E certo! Sono italiano!
Non sapeva se essere più irritato o stupito: poi vide che la ragazza l’aveva detto senza malizia, veramente in buona fede…
Era sinceramente stupita:
-Italiano? Ma sei… sei…
– Sono nero, lo so. Sono nero dalla nascita: solo che una volta ero anche piccolo e mi chiamavano calimero, poi hanno smesso.
-ah, e come ti chiami invece?
-Marco. Ma tutti mi chiamano Zulù.
-Eh… chissà come mai… non avrei mai detto.
Scoppiarono a ridere tutti e due.
-scusa, ho fatto proprio una figura di merda: sei stato adottato, immagino.
-si, i miei mi hanno adottato che avevo un anno: non ricordo nulla di prima, ovviamente. Però non sono Zulù davvero, quello è solo un soprannome.
– e cosa … saresti?
– in teoria sarei un bantù, ma a parte me allo specchio non ne ho mai incontrato uno, quindi per me bantù o zulù non fa differenza, vengo dalle valli del Trentino, la mia famiglia è lì che sta, io sono qui per lavoro, fino a che il cantiere non chiuderà.
Stettero a chiacchierare per un tempo infinito, fino a che il sole cominciò a tramontare verso occidente, allora andarono a bersi un caffè, che poi diventò un aperitivo che poi…
Poi finì che tutti i momenti in cui non lavorava, Marco andava al porto e passava il pomeriggio con Silvia.
Lei gli fece conoscere gli angoli nascosti di Trieste, di una città bellissima che, una volta, era la porta dell’ Impero Asburgico.
Una sera, dopo che avevano anche cenato in un ristorantino di pesce, la vista sul golfo, stavano rientrando a piedi quando scoppiò un terribile temporale: nel giro di qualche minuto si rovesciò a terra una quantità d’acqua impressionante.
In un attimo la gente sparì dalle strade, rese invisibili dalla coltre di pioggia scrosciante.
Marco e Silvia si misero a correre, riparandosi come potevano, ma l’impresa era improba.
Ad un certo punto, ormai fradici di pioggia, s’infilarono in un portico d’una via secondaria.
Era buio, c’era la pioggia che copriva tutto come una coperta di vetro smerigliato…
C’era…
Si guardarono, erano da strizzare, il fiato grosso per la corsa,risero…
Poi non risero più…
Per un tempo lunghissimo e lento si guardarono negli occhi, Silvia si sentì cadere in quel nero d’ossidiana degli occhi di Zulù, ancora più neri nell’ombra del portico, che le dicevano cosa avrebbe voluto farle.
Ma lo dicevano i suoi occhi, lui era lì, immobile, che ingoiava saliva per respirare rosso in volto ‘ almeno lui sapeva di essere rosso in volto.
Gli si butto al collo; e lui capì.
La strinse forte a sè cominciò a baciarla, la sommerse di baci da non poter respirare.
Poi lei si staccò un attimo, lo guardò intensamente, in un modo che voleva dire ‘prendimi’…
Lui la avvicinò a sè e sentì la sua mana che gli faceva scendere la cerniera dei jeans e cominciava a frugare.
Lesse un lampo di stupore negli occhi della ragazza, quando questa afferrò un membro molto più grosso di quanto aveva conosciuto finora, poi la prese, la sollevò agevolmente e la spinse contro il muro del portico.
Le sollevò la gonna, le scostò le mutandine e la penetrò in un solo colpo.
Silvia si fece sfuggire un lamento appena sentì la grossa punta entrare forzandola un po’, ma l’eccitazione era tale che si bagnò in fretta, tanto che il resto dell’asta entrò fino in fondo strappandole solo qualche gemito di piacere.
Zulù era forte, giovane, allenato fisicamente, avrebbe potuto tenerla in braccio per ore…
La tenne in braccio per quaranta minuti: ogni volta che affondava dentro di lei la sentiva gemere e godere, stringersi sempre di più, assecondare i suoi movimenti.
La ragazza era persa nel piacere, la pioggia scrosciante copriva i suoi gemiti sempre più frequenti e intensi, finchè urlò di piacere.
Urlò e sentì dentro un piacere intenso, metallico, che non voleva saperne di finire.
Ma lui non si fermò, sempre più ansimante continuava a sbatterla con forza fino a che si rese conto che gli mancava poco.
Negli occhi neri lei gli lesse una luce, un misto di paura di rimanere dentro, e di infinito dispiacere all’idea di uscire da lei…
-Mettimi…mettimi giù… dai mettimi giù
Alla fine uscì da lei, la lasciò scendere e…
E lei si inginocchiò sul travertino che pavimentava il portico, gli lanciò un’occhiata assassina dritto negli occhi; ingoiò quell’asta lunga e grossa, tanto grossa che faceva fatica a tenerla in bocca, la bocca spalancata mentre cercava di succhiare.
Con un po’ d’assestamento riuscì a prendere il ritmo, sentì le grosse mani dell’uomo sulla sua testa che cercavano di forzarla più giù.
Ma durò piuttosto poco: ormai al limite lui gemette fortissimo, lei allora se lo attirò a sé e stette ad attendere l’onda calda che le invase la bocca e la gola.
Era tantissima: cercò di ingoiare tutto, ma non ce la fece, ad un certo punto dovette rassegnarsi, si ritrasse e gli ultimi schizzi le finirono in faccia e fra i capelli.
Quando la pioggia cessò, la riaccompagnò a casa…
Ed erano felici.

CAP. 2: L’IMPORTANZA DEL COLORE

Quella ragazza cominciava davvero a prenderlo: non faceva che pensare a lei, e non vedeva l’ora di finire il lavoro al cantiere per vederla.
Ormai si vedevano quasi tutte le sere.
Ma i giorni passavano, il cantiere avrebbe chiuso fra non molto.
Zulù decise allora di portare quella ragazza a casa sua, in montagna.
Lei aveva appena dato un esame ed aveva qualche giorno di libertà, accettò subito di andare in montagna con lui, ma c’era una formalità: non voleva raccontare una balla ai suoi e dire che andava via con le amiche, voleva dire loro la verità e quindi…
-dovrei venire a cena a casa tua?!
-Beh, si, così ti presento la mia famiglia… mia sorella, e i miei. Eddai, Zulù! Mica voglio dirgli una balla! E se gli dico che sparisco per due giorni in montagna con un tipo che manco hanno mai visto…
-Ma almeno sanno chi sono o nemmeno hai detto niente che sono tre mesi che usciamo tutte le sere o quasi? Lo sanno vero?
-beh… ni
-che significa, ni? Silvia… Silva… che cazzo vuol dire ni?
Silvia distolse lo sguardo da lui per qualche secondo, poi, tutto d’un fiato:
-ecco, vuol dire che … che sanno che mi vedo con un certo Marco e che questo è un geometra che lavora alla costruzione del nuovo molo al porto però…
Marco cominciò ad intuire…
-Però non gli hai detto ‘come è’ questo Marco, vero?
-In che senso, scusa?
-Silvia, non mi pigliare per il culo, hai capito cosa intendo, non gli hai detto che io sono…
-Abbronzato?
-Silvia!
-Eddai, ma cosa vuoi che gl’importi se sei nero! E poi mica sei straniero, no?
Vedrai che andrà bene!
Non andò proprio benissimo…
Marco si presentò con la macchina appena lavata, lustrata e profumata, col vestito migliore, bello come il Sole, suonò al campanello della villetta di Prosecco dove Silvia abitava; lei gli corse incontro, gli gettò le braccia al collo e lo baciò con entusiasmo.
Lui ricambiò i suoi baci, poi, alzato lo sguardo dal viso della sua ragazza, vide una signora di meno di cinquant’anni sulla porta di casa che lo fissava con un misto di stupore e di terrore negli occhi.
La cena si svolse in un’atmosfera surreale, tipo ‘indovina chi viene a cena’ con Spencer Tracy: tutti furono gentilissimi con lui, ma si vedeva che erano maledettamente a disagio.
Non ci volle molto che le domande di rito divennero un piccolo interrogatorio: così venne fuori dove abitava, cosa faceva, cosa facevano suo padre e sua madre, che gli piaceva giocare a calcio, arrampicare in montagna e… che lo chiamavano Zulù.
Questo saltò fuori perchè Silvia lo chiamò così: i suoi genitori la guardarono stralunati e lui gli mandò un’occhiataccia come a voler dire ‘c’era proprio bisogno?’ così dovette spiegare anche quello.
– E’ una storia un po’ lunga, sapete… in un paesino di montagna non è come qui in una città… sapete, io ero nero… cioè… sono nero e … insomma, mi hanno chiamato così perchè alla TV c’era Orzowei… è rimasto così… insomma
– E’ buffo, ma in fondo è carino come soprannome!
La sorella di Silvia l’aveva tolto dal fuoco, mentre era già tutto rosso, ma almeno questo particolare passava inosservato.

-Non è stata una bella idea, Silvia…
Erano davanti alla sua macchina, mentre stava per andarsene, l’aveva appena baciata dolcemente, stringendola, aspirando voluttuosamente il profumo dei suoi capelli…
-Perchè dici così? Sei stato male?
-No,no, io sono stato benissimo, ho anche mangiato un arrosto fantastico, ma…
-ma?
-Ma non sono ancora pronti per me, Silvia: e forse non sono i soli in questo Paese.
-Che vuoi dire?
Ma Silvia aveva capito benissimo, la sua era semplicemente un tentativo di rifiutare l’evidenza dei fatti, che la sua famiglia così progressista, liberale, che le aveva insegnato che tutti sono uguali e che la pelle non conta, in realtà,sicuramente in buonafede, non per cattiveria, era rimasta choccata da quel ragazzo bellissimo, gentilissimo, educatissimo e… nerissimo.
-Hai capito benissimo, Silvia: l’Italia non è il mio piccolo paese di montagna, la gente non è ancora preparata a convivere con gente che viene da posti diversi e da culture diverse.
Che poi, se vogliamo ben vedere, anche al mio paese fino a dodici anni mi pigliavano per il culo, che ti credi che Zulù me l’abbiano affibbiato come vezzeggiativo?
-Ma tu non vieni da un posto diverso, tu vieni da un posto distante qualche centinaio di chilometri.
– Si, ma guardami: ti sembro l’archetipo dell’italiano medio? Hai voglia ad essere mediterraneo con sto colorito tenue!
Lei scoppiò a ridere.
-dai cazzo!, dico sul serio, e smettila di ridere!
Ma rideva sempre di più ed alla fine rise anche lui.
-Domani e dopo mi devo portare avanti col lavoro, venerdì sera partiamo.
-OK, ciao.
Lo baciò ancora, e poi rientrò in casa senza staccare gli occhi da lui un secondo.

Partirono.
Arrivati al paese Marco si affrettò a presentare Silvia ai suoi e agli amici.
– Oh, hai visto che bella figliola che s’è trovato il Zulù?
– Eh già, perchè lui c’ha un sacco di argomenti di discussione, grossi argomenti!
– Ma vaffanculo, va! e io che vi sto pure a sentire! Ma che figura mi fate fare, penserà che qui c’abbiamo ancora la sveglia al collo
– E l’anello al naso. Uhè, guarda che è meglio al naso che al dito l’anello.
– e poi, è vero che c’hai grossi argomenti
– e tu che ne sai? Marchi a uomo o a zona?

E via così, nel bar di suo padre, tra un’ombra di vino, un caffè e qualche birra fino a tarda sera: Silvia non faceva che ridere.
-Domani andiamo lassù
E indicò la strada che portava su al lago di Caserina.
I genitori di Marco furono bene impressionati da quella ragazza, triestina come sua madre, che sembrava tanto gentile e tanto innamorata del loro figliolo.
Il buon Zulù, dal canto suo, era innamorato perso…

La mattina, quando si svegliò, Silvia trovò Marco in garage che preparava l’attrezzatura: la tenda da montagna, i sacchi a pelo, i viveri, la cassetta del pronto soccorso, contenitori per l’acqua, una lampada da campeggio, una torcia con batterie di ricambio, l’acciarino, il suo coltello.
Era ancora molto presto.
-giri sempre con quel coltellaccio?
Alzò lo sguardo e la vide, già bellissima…
Sorrise.
-No, solo quando giro nei boschi: una volta ci ho dovuto incidere un polpaccio con questa lama
-Ah si, alla tipa che era stata morsa, vero?
-si, proprio così… e…
-E?
-Niente, niente
Gli si avvicinò e gli pose un dito sotto al mento per fargli alzare lo sguardo:
-E?
-E va bene… insomma … la sua amica qualche giorno dopo cercò di sdebitarsi… ecco.
-Uhmm, interessante, non me lo avevi detto prima.
-non c’è niente da dire…
Lei era sempre più curiosa e insistente e lui sempre più confuso.
Silvia si divertiva da matti a vedere come quel pezzo di ragazzo che avrebbe potuto farla volare via con una manata fosse in realtà timido e riservato.
Anche con lei.
-Cosa fece per sdebitarsi? Fece così?
E gli sedette sulle ginocchia
-O cosi?
E gli ficcò la lingua in bocca in un bacio appassionato.
-uhm, no… smett…ila , Silvia, dai.
-oppure, era così riconoscente per la sua amica che… andò oltre?
Fu questione di centesimi di secondo: lei vide il lampo nero in quegli occhi sempre più accesi.
-Tombola! è andata così, vero?
-Silvia, no, dai… insomma… è … che…
-che?
Ma aveva già capito da sola: scese dalle sue ginocchia, si posizionò fra le sue gambe e glielo tirò fuori dai calzoni.
Marco era già eccitatissimo, ma si sforzò di guardare verso la porta del garage, che non arrivasse nessuno, cercò di controllarsi, ma quando quelle labbra calde di rosa lo avvolsero, perdette ogni collegamento con la realtà.
Furono alcuni minuti di intenso vellutato piacere, fino a che le venne in bocca copiosamente: questa volta Silvia era pronta a riceverlo e ce la fece a bere tutto senza perderne nemmeno una goccia.
-E’ andata così, vero Zulù? Amore?
Lui la guardò, mentre si rimetteva l’uccello nei calzoni:
-Beh, non proprio: arrivò mia madre sul più bello e ci interruppe, mi venni in mano come un deficiente.
-Beh, allora è andata meglio questa volta!
Lo disse ridendo.
-Decisamente si… ma non dovevamo farlo, capace che anche stavolta…
Lo zittì con un bacio.
-vado a prepararmi, così andiamo.

Attraversarono la foresta e lei volle vedere il punto in cui aveva salvato la ragazza e quello dove suo padre e il forestale avevano trovato l’altra assalita dal cinghiale, dove il suo cane, Baldo, era stato ferito nella lotta con l’animale selvatico.
-L’hanno trovato là, avresti dovuto vederlo allora, oggi comincia a farsi vecchio, vero Baldo?
Il cane lo guardò in modo interrogativo, il suo pelo ispido e nero cominciava ad ingrigirsi e i suoi occhi color del ghiaccio sporco, si stavano schiarendo ancora di più.
Salirono fino al lago di Caserina, in quel periodo di turisti ne giravano pochi, e ancora meno che si facessero una scarpinata così.
Silvia non era certo un’esperta di montagna, ma avere vent’anni aiuta, così, anche grazie all’aiuto di Marco, arrivò fino al laghetto verde circondato da boschi e prati verdissimi.
-Non pensavo ci fossero posti così, mi sembra di essere Heidi
-Si, ma io e Baldo siamo Peter e Nebbia dei poveri, ma va là, Heidi!
E cominciò a ridacchiare.
Proprio non riusciva a trattenersi.
-Che c’è da ridere?
-niente, niente
E ridacchiava sempre di più…
-dai! Smettila, fai ridere anche me, cosa ho detto di così divertente?
-niente, è che stavo pensando ad Heidi e… no, niente dai… non lo posso dire-
-Basta!, adesso me lo dici
Ma non riusciva a restare seria nemmeno lei.
-ecco, e va bene … pensavo che Heidi… insomma, mica li faceva i pompini a Peter
-Scemo!
Gli saltò addosso e ruzzolarono nel prato, sotto agli occhi stupiti del non più giovane Baldo che doveva pensare ‘il mio padrone così non l’avevo mai visto’…
Gironzolarono per quasi tutto il pomeriggio, poi Zulù montò la tenda, vi pose i sacchi a pelo, la lampada da campeggio e il resto del bagaglio.
-Vado a fare un po’ di legna, ti lascio qui con Baldo: è una buona guardia, anche se non ci vede più come una volta.
Stropicciò la testa del cane che sembrò gradire molto.
Era via da circa un quarto d’ora che sentì gridare ‘aiuto, Marco, aiuto, una vipera!’
Corse indietro a grandi falcate dandosi del cretino per aver lasciato la ragazza da sola, ma pensava anche ‘Ma che cazzo sta facendo il cane?perchè Baldo non abbaia?’.
Quando arrivò, vide la ragazza in piedi, rigida come una statua di bronzo, e un rettile lungo circa cinquanta centimetri che stava strisciando a non più d’un metro e mezzo da lei.
E Baldo seduto poco distante ad osservare la scena.
-Una vipera! Una vipera!
Marco tirò fuori il coltello e si avvicinò, poi scoppiò in una fragorosa risata.
-Che c’è da ridere?!, uccidila! Fai presto! E il tuo cane… è lì che non fa niente… Uccidila!
Marco, sempre ridendo, si chinò e posta la lama di piatto sotto all’animale strisciante, lo alzò e lo avvicinò al viso di Silvia.
-Ahhhh, ma che fai!?
-Stai calma, non è una vipera. A dire il vero non è nemmeno un serpente, anche se sembra.
-non è un serpente?
-No, non è un serpente: è un orbettino, una grossa lucertola senza zampe. Per questo Baldo non ha fatto niente. Deve anzi aver pensato che sei proprio strana se pianti tutto sto casino per una lucertola.
Posò la lucertola fra i cespugli.
-io… io… mi sono spaventata a morte, vi strozzerei tutti e due!
L’abbracciò e le carezzò i capelli castani profumati.

Accese il fuoco, vi pose la legna che aveva trovato e cucinarono le salsicce.
bevettero un paio di bottiglie di birra poi Zulù preparò il vin brul’.

-vieni spesso qui?
– ormai meno di una volta, ma nella mia vita, tutte le volte che avevo bisogno di pensare venivo da queste parti. Ho imparato presto a girare da solo nella foresta.
-E i tuoi non si preoccupavano?
Gettò un altro ciocco nel fuoco, mentre sorseggiò un poco di vino caldo.
-a dire il vero no: mio padre mi ha portato in montagna con lui sin da quando avevo quattro anni, a undici mi regalò questo coltello. Quando Baldo è arrivato da noi che aveva poco più di un mese, io avevo dodici anni, l’anno dopo era già grande come adesso ed io ero solo una quindicina di centimetri più basso: insieme abbiamo girato ogni angolo di queste montagne.
Lei lo guardava affascinata, ancora più nero nella luce rossastra della legna che ardeva.
-abbiamo visto cervi e stambecchi, stanato le vipere , però questo non te lo far scappare che i miei mica lo sanno che lo facevo, inseguito i cinghiali e osservato i galli cedroni.
Indicò un bosco dall’altra parte della valle:
-una volta, io Baldo abbiamo visto anche un orso bruno laggiù, ma da lontano fortunatamente.
-perchè fortunatamente?
-Perchè da vicino, un orso che magari s’è innervosito, è veramente pericoloso… meglio che lo abbiamo visto da lontano.
Ci fu silenzio per un po’…
-riguardo all’altra sera a casa mia…
La guardò, rossa in viso per il riverbero della fiamma.
Ogni tanto qualche monachella volava nella brezza leggera della sera, e Baldo, nel sentire il crepitio che le originava, alzava il muso e le seguiva fino a che non si spegnevano come lucciole in autunno.
-non dire niente, non ce n’è bisogno: non è colpa loro
-sai, i miei non sono come pensi… loro…
-io non penso niente. Sono brava gente, solo non sono preparati a… non sono preparati a noi due…
-io… cioè loro…
-lascia stare…
La prese; la baciò intensamente prima che potesse opporsi.
-Baldo, vai a fare un giro, sciò! Vai!
Il cane, a malincuore, si alzò, guardò il suo padrone per essere sicuro…
Alla fine si rassegnò: si voltò e sparì nel frinire della notte.
Marco adagiò la sua ragazza sull’erba, la spogliò lentamente, senza smettere di coprirla di baci.
Si fermò solo per cominciare a spogliarsi a sua volta, aiutato dalle sue mani piccole.
Scese fra le sue gambe e cominciò a leccarla dolcemente, strappandole sospiri di piacere.
Poi la prese.
Fu lento, dolce e lento, attorno a loro solo il rumore della foresta nella notte e della brezza sull’acqua cheta del piccolo lago.
Venne prima lei,per poco, lasciandosi sfuggire un lungo profondo sospiro, un gemito sommesso.
Quando si rese conto che toccava a lui fece per uscire…
-noi, resta… puoi…
Spalancò gli occhi, poi li richiuse nel piacere, spinse un po’ più forte e la riempì.

I giorni passavano, e i due ragazzi non tornarono più sull’argomento della famiglia di Silvia.
Ma la famiglia, invece, sull’argomento Zulù ci tornava spesso con la ragazza e, anche se lei cercava di non darlo a vere, Marco cominciava a sospettare.
Ogni tanto la trovava nervosa o triste, e nemmeno riusciva a farle cambiare umore scherzando o portandola in giro.
A volte non riusciva nemmeno a farla godere quando facevano l’amore…
Dopo qualche tempo anche il cantiere chiuse, e Marco dovette tornarsene a Oderzo, ma fece e disfece fino a che il suo capo si convinse a rimandarlo in Friuli,di lì ad un paio di mesi, questa volta a Monfalcone, per un altro lavoro, un capannone industriale stretto fra il mare e le colline del Carso.
Un giorno di novembre, Marco e Silvia ebbero la brillante idea di fare una gita a Verona: presero la macchina e attraversarono la pianura da Prosecco fino alla città di Giulietta.
Giro turistico classico: arena, San Zenone, balcone di Giulietta etcetera etcetera.
Erano appena usciti da un bar dove avevano preso una cioccolata calda, stavano camminando mano nella mano quando…
-Ehi, ma hai visto un po’ là?
-Guarda sto negro di merda che se la fa con una delle nostre!
-ehi tu, fermati!
Si fermarono, Marco si voltò;vide quattro giovinastri, fra i diciotto e i venti, giubbotti di pelle, anfibi e capello rasato.
-dite a me?
-si, dico a te gorilla!
Silvia lo tirava per la manica.
-andiamo via, dai, non gli dare corda.
Zulù di corda non gliene avrebbe data, ma quelli furono più lesti e i due ragazzi si trovarono circondati.
-voi negri di merda dovete smetterla di venire qui a rubare. Prima rubate il lavoro, poi volete pure le nostre donne. Ma desso basta, ci avete rotto i coglioni, vi insegniamo noi come dovete stare.
-si adesso ti diamo una bella lezioncina, faccetta nera.
La parte irrazionale di Marco avrebbe voluto farli a pezzi, ma quella razionale tentò di farli ragionare:
-Oh, guarda che vi sbagliate, io mica sono straniero, sono italiano come voi, non lo senti come parlo?
-ma vaffanculo, questo ci piglia per fessi, italiano! E da quando ci sono negri italiani?
Marco avrebbe voluto replicare, ma qualcuno fra i quattro aveva cominciato a spintonarlo.
Non voleva reagire, pensando che forse si sarebbero stancati e li avrebbero lasciati in pace.
Poi Silvia commise l’errore di intromettersi:
-Basta! Lasciatelo stare, imbecilli!
– zitta te, puttana! Ti piace pigliare cazzi neri eh? Troia!
E quello la spintonò così forte da farla cadere.
Quel giorno Marco imparò due cose che, negli anni a venire, non avrebbe dimenticato mai: la prima era che in Italia il colore della pelle, per qualcuno, è maledettamente importante, mentre a lui non era mai fregato niente di essere bianco nero o ciclamino.
La seconda, quanto potesse essere devastante la sua forza fisica se non era controllata.
Quello dei quattro che aveva spinto Silvia, sentì una grossa mano posarsi sulla collottola e un’altra afferrargli la cintura dei pantaloni sopra alle natiche…
Poi si trovò a volare come una bambola di pezza per atterrare due metri e mezzo più in là, sul selciato, picchiando rovinosamente la spalla destra e rotolando con la testa sui sampietrini fino al marciapiede.
I tre teppisti ebbero un attimo di smarrimento, poi quello più vicino a Marco, quello che lo stava già aggredendo verbalmente, tentò di colpirlo: gli andò malissimo.
Marco gli piazzò un destro potentissimo sul muso e lo mandò lungo e disteso per terra mezzo rintronato dalla botta fortissima.
Il compare provò a cogliere l’occasione per colpire il nero con un calcio.
Ma Zulù aveva i riflessi abituati dal giocare a calcio e dalle scalate in cordata, dove le decisioni spesso si pigliano in frazioni d’istante, se si vuol portare a casa la pelle…
Con la mano sinistra gli afferrò la caviglia in volo, si abbassò leggermente egli assestò un cazzotto di destro nelle palle.
Quando gli mollò la caviglia, il balordo stramazzò al suolo tenendosi le palle e contorcendosi dal dolore.
Ne restava uno…
Questo, capito che a cazzotti non c’erano speranze, raccolta da terra una piccola bottiglia di birra vuota la spaccò e si parò davanti a Marco.
Silvia gridò, alla vista del coccio mentre Marco cercava mentalmente un modo per uscirne.
-fatti avanti muso nero, dai che ti faccio un bel taglio in faccia! Dai! Bastardo!
Il ragazzo indietreggiava e cercava di allontanare Silvia…
-Ehi, voi, fermi! Cosa fate? Fermi!
-Gli sbirri!,. via!via! gli sbirri andiamo dai, alzatevi! Cazzo, via!
Il giovinastro buttò il vetro rotto, i suoi compari, ancora rincoglioniti dalle botte lo seguirono dileguandosi nei vicoli.
I due poliziotti videro la bottiglia rotta e immaginarono.
-ci hanno aggrediti-
Disse Silvia.
-tu, documenti e permesso di soggiorno!
-ma lui…
-Non s’immischi, signorina
-Anche voi…
Non seppe mai come fece a trattenersi dallo spaccare la faccia a quei due agenti, ancora sotto l’effetto dell’adrenalina dello scontro, ma si limitò ad una lunga sequenza di bestemmie in puro dialetto valligiano, mentre con la mano destra tirava fuori il portafogli e mostrava la carta d’identità.
-il permesso di soggiorno non ce l’ho…
Lo stupore dell’agente fu piuttosto evidente nel leggere il documento:
-aspettate un attimo qui.
Andò alla macchina, ci stette per un qualche minuto; tornò:
-tutto a posto signor Fabbron, può andare.
-Possiamo andare?! Ma quei balordi ci hanno aggredito e voi ci avete quasi presi per delinquenti!
La ragazza era veramente infuriata.
-Lascia stare. Grazie agente, buona sera.
-se vuole può seguirci al commissariato e sporgere denuncia.
Marco guardò la ragazza, sul punto di piangere dalla rabbia, poi si rivolse agli agenti:
-No grazie, non ne vale la pena, erano solo dei teppistelli.
-come vuole.
Se ne andarono.
Abbracciò la ragazza, le cinse le spalle col braccio e si avviarono alla macchina.
Quella sera la portò nella sua stanza e la scopò con rabbia, con energia, lei godette ed urlò più volte, fu generosa e comprensiva…
Poi la accompagnò a casa.
-Marco io…
-Niente, non è successo niente.
La baciò ed attese che rientrasse in casa.
Avviò l’auto e sentì il tarlo che lo rodeva e gli diceva ‘hai capito ora? Stai cominciando solo adesso a pagare il conto.

CAP. 3: IL DOTTORE

La famiglia della ragazza venne a sapere dell’incidente di Verona e il pressing su di lei si fece sempre più incalzante: ogni pretesto era buono per tornare sull’argomento e per litigare.
Silvia era sempre più tesa e nervosa e, chiaramente, sempre più combattuta.
Finì anche il lavoro a Monfalcone, e per Marco ripresero le trasferte a Prosecco da Oderzo, ma un po’ il suo lavoro, sempre di più impegnativo, un po’ gli impegni di studio di Silvia, i suoi genitori, la distanza…

Era una bella giornata di primavera, quando glielo disse:
-Zulù, vado a Londra per un po’ a studiare…
-A Londra?!
I gabbiani volteggiavano sul golfo, le prime vele bianche si godevano il vento.
-Si, devo andare via per un po’, i miei mi stanno dando il tormento…
Marco guardava i gabbiani e le barche a vela: in quel momento, anche se non era mai salito su una barca, avrebbe preferito essere laggiù piuttosto che ascoltare…
Ne parlarono a lungo, quel giorno e i successivi, poi non potè fare altro che salutarla all’aeroporto mentre si imbarcava.
Doveva stare via sei mesi: dopo due trovò il modo di andare a Londra a trovarla.
Le fece da guida turistica, fu gentile, fecero anche l’amore, ma Marco capì che qualcosa stava cambiando.
Alla fine dei sei mesi questi divennero un anno…
Un giorno, tornado a casa dopo il lavoro, e dopo essersi fatto un’ombra in piazza, trovò una lettera di Silvia.
In modo cortese, gentile, ma fermo, gli diceva che aveva deciso di terminare gli studi a Londra e che…
Beh, forse era meglio che la si finiva lì.
E’ un po’ come quando starnutisci ma stai bene, e non credi di avere l’influenza, poi un giorno ti svegli al mattino con la nausea e le ossa rotte.
Fu un colpo terribile…
Marco sentiva il bisogno di riflettere, così chiese una settimana di ferie, sì un’intera settimana: lui aveva un mare di giorni di ferie arretrate e il capo non gliela negò.
Andò a casa sua, in montagna e raccontò in breve sintesi ai suoi amici e alla sua famiglia come era andata: tutti restarono male, tutti fecero a gara per cercare di distrarlo, ma non era per questo che era tornato.
Due giorni dopo il suo arrivo, prese Baldo, caricò la macchina dell’attrezzatura da montagna, e tornò verso il Friuli.
Attraversò il confine, passò il paesino di Kobarid, la Caporetto così nefasta per gli Italiani settant’anni prima, si fermò ai piedi del monte nero e intraprese la lunga via di trekking che dal Carso porta alle pianure di Ptuj.
Lui e Baldo camminavano per l’intera giornata, avanti, da un rifugio all’altro, in silenzio.
Persino il cane non si permetteva di disturbare il suo padrone, che avvertiva triste e dolorante.
Ogni tanto incontravano qualche altro escursionista, spesso tedesco o austriaco, si salutavano ‘ il dolore non gli aveva fatto perdere le buone maniere del galateo di montagna- poi ognuno per sè e Dio per tutti.
Dormiva nel sacco a pelo, in vista dei rifugi, sotto gli occhi stupiti degli altri passanti che non comprendevano come mai preferisse la nuda terra ad un letto caldo.
Ebbe anche modo di rendersi utile: trovò, infatti, una coppia in difficoltà, lei era caduta in una piccola foppa e s’era storta una caviglia.
Marco scese giù a prendere la signora, circa sui quarant’anni e quasi di peso la portò indietro fino al precedente rifugio.
Il marito voleva almeno offrirgli da bere, un inglese sulla cinquantina, ma lui rifiutò cortesemente e, chiamato il cane, tornò sui suoi passi.
Un altro giorno, invece, ebbe un incontro ravvicinato con un forestale del giovane Stato Sloveno: vedendo che Baldo girava libero e senza guinzaglio all’interno del Parco Nazionale la guardia gli intimò, in inglese di metterglielo.
Zulù rispose, in ottimo italiano, che non era affatto necessario tenere al guinzaglio quel cane, lì dov’erano a oltre duemila metri di quota fra le rocce lunari del Triglav.
Quello insisteva; insistette anche lui.
Il forestale si fece minaccioso, avvicinandosi a Marco con la faccia dura, ma Marco, che lo sovrastava di una testa non si fece intimidire: fece la faccia dura anche lui, che poi nera com’era sembrava anche più cattiva.
Le dita della mano destra sfiorarono inavvertitamente il pomo del manico del coltello…
La guardia lo vide: la mano destra sfiorò la pistola di ordinanza…
Stettero così, alcuni secondi lunghissimi, a scrutarsi, mentre Baldo cominciava a ringhiare…
Poi…
-fa bene, pero tiene suo cane ala cinta in paese OK?
-Ok, agente, in paese gli metto il guinzaglio, promesso.
-molto bene, nesvidenje.
-nesvidenje.
E la crisi diplomatica Italia-Slovenia terminò così.
Quando dopo una settimana Marco tornò a casa, aveva già preso la sua decisione.
Nelle settimane che seguirono cominciò a mandare curriculum a tutte le imprese di costruzioni di cui conosceva o che aveva sentito nominare, purchè fossero lontane.
Ricevette tre risposte positive da Milano.
I primi due colloqui furono surreali, Marco potè vedere chiaramente negli occhi lo stupore dei selezionatori nel vederlo ‘ ovviamente aveva firmato le lettere Marco Fabbron, mica aveva detto di essere nero-.
Poi la chiacchierata prendeva una piega strana, che gli faceva capire che la sua preparazione non era in discussione, ma che non lo avrebbero assunto ugualmente.
Il terzo colloquio stava prendendo la stessa piega:
-sa, dobbiamo valutare la sua posizione perchè sa… siamo nel mercato residenziale e abbiamo una clientela molto selezionata, il capo cantiere avrà anche il compito di mostrare ai potenziali clienti gli immobili in costruzione e lei… capisce…
‘Capisco che ti imbarazza l’idea che i clienti mi vedano là in mezzo ai magrebini, con la mia carnagione candida’.
Stava per andarsene, quando entrò il titolare dell’impresa.
Salvatore Cuffaro era un siciliano di circa 60 anni, di quelli venuti su con la valigia di cartone e lo spago: aveva fatto il garzone, poi il muratore, poi il capomastro.
Una vita sui ponteggi, poi, vent’anni prima, aveva fondato la sua ditta.
-GGiovanni, a che punto stiamo con sta camurria del nuovo capo cantiere ah ? Ce l’ho abbisogno, mica posso andare io alle villette di Arese, minchia, mica c’ho vent’anni!
Giovanni era il tipo che stava intervistando Marco.
-Ecco, stiamo vedendo dei candidati, il geometra è uno di questi, ma mi serve ancora tempo…
-Che tempo e tempo! nun ce nò di tempo, devo consignare! Sta cosa mi sta facenno niscire pazzo!
Tu, geometra sei?
Marco lo guardò tra lo stupito e il frastornato:
-Si, certo: ho risposto all’inserzione e…
-fammi un po’ vedere.
Prese in mano il curriculum e lo lesse attentamente.
-Hai fatto davvero tutte queste cose, ah?
-Si, è tutto vero.
-Allora sei quello che cerco io.
Giovanni si intromise:
-ma Signor Cuffaro, io non so, forse dovremmo pensarci bene, abbiamo anche altre persone da vedere, il geometra…
-Il geometra va bbene. Lo piglio i nun me fare incazzare, che non ti piace il ragazzo?
-no, non è che non mi piace, ma… vede …
A quel punto Marco decise di scoperchiare la pentola:
-Senta, credo di aver capito qual’è il problema: la mia faccia, o meglio, il colore della mia faccia.
Chissà che pensano gli acquirenti a vedere sta faccia da africano, è così, vero? è questo il problema? Non voglio causare problemi a nessuno, signori. Arrivederci, e grazie del caffè.
Fece per alzarsi, ma una mano d’acciaio lo spinse sulla sedia.
-Non dire minchiate ragazzo, qui comando io e amme nun me ne frega nenti si c’hai la faccia nivura, amia m’importa che travagli bene e che sai stare al posto tuo, che fai travagliare gli operai e che nun te arrobbi gli attrezzi e i sordi della ditta. Quello che pensano i clienti del mio capo cantiere non sono cazzi miei. Intesi, ah?
Eppoi, macari io sono stato africano, sissignori, quando era ragazzo e facevo il garzone. Annoi terroni ci chiamavano, e pure africa ‘ uhe africa m’ves che sem minga chi a gi’gaa a la lippa’ che poi, che minchia era sta lippa non l’ho mai capito.

Così, qualche giorno dopo dette le dimissioni, saldò l’affitto dell’appartamento in Veneto e si trasferì in una cittadina dell’hinterland di Milano.
Salvatore Cuffaro, un giorno scoprì anche che il suo geometra aveva un buffo soprannome: quel giorno un amico di Marco lo aveva chiamato in ufficio perchè aveva bisogno un consiglio per una pratica edilizia e urlando al telefono, perchè non si sentiva bene, aveva finito che tutti sentirono che lo chiamava Zulù.
-E che minchia mi significa Zulù, che è un nome?
Il titolare lo guardava un po’sorpreso.
-Beh, è un soprannome, al mio paese mi chiamano così. E da tanto tempo che molti manco se lo ricordano il mio nome vero.
-Anche ammia passa cussì: mi chiamano Tano Pesce. Tano perchè di secondo nome faccio Gaetano e pesce perchè da giovane pescavo i pesci col fucile. Minchia, mi dovevi vedere!
Zulù… è più corto di Tano Pesce.

Marco era uscito a pezzi dalla storia con Silvia, così si buttò a capofitto nel lavoro: lavorava molto, non protestava mai per gli straordinari da fare e per le domeniche di visite in cantiere da parte dei clienti, Cuffaro pagava bene, anche se pretendeva tanto, e lo aveva preso in simpatia, e per restare impegnato il più possibile, si iscrisse anche ad uno di quei centri fitness dove puoi fare di tutto.
Così, quando non era in qualche cantiere, andava in palestra, in piscina oppure a giocare a calcetto.
Milano era piena di stranieri di ogni tipo e sembrava che a nessuno, in fondo, fregasse niente di come aveva la pelle: l’importante era avere i soldi.
Quelli non erano un problema: aveva messo da parte un po’ di soldi durante il periodo veneto e triestino, alla sua vecchia Alfa 75 era quindi succeduta una 156 nuova e ancora glie ne restavano per non farsi mancare niente.
Ma restava comunque un montanaro, e i soldi non li gettava dalla finestra.
Scoprì che le donne erano più facili di quanto pensasse: un sacco di gente andava in palestra per lo struscio e al rimorchio.
Cominciò ad avere una vita sessuale piuttosto varia.
Quelle con cui si trovava meglio erano le sudamericane: erano calde, porche e passionali, e facevano poche domande.
La sua ultima conquista era stata una ballerina brasiliana, nera quasi come lui, bella come la luce…
E non riusciva a farsi una ragione di quanto fosse brava a pigliarlo nel culo: era più brava lei a pigliarlo che lui a metterglielo.
Si frequentarono per qualche mese, finchè lei non si trasferì a Roma.
Ogni incontro lo lasciava senza forze: lei gli montava sopra e lo cavalcava gemendo e gridando come a lui non era mai capitato di sentire, ma non veniva se non la girava a pecora e non glielo sbatteva di colpo in culo.
A quel modo, la sbatteva senza sosta, la sentiva gridare come una gatta in calore fino a che non veniva contraendosi tutta, stringendo il buco del culo così tanto da fargli male al cazzo, poi lui accelerava fino a riempire il preservativo dentro il suo intestino.
Solo non faceva pompini, unico suo difetto.
Ogni tanto, invece, capitava nel suo letto qualche bella signora quarantenne, separata o divorziata o sposata ma annoiata, in cerca di avventure esotiche che quel ragazzone grande e grosso sembrava promettere.

Nei cinque anni che seguirono, quella fu la vita di Zulù, lavoro, lavoro, palestra, lavoro, montagna dai suoi, lavoro, qualche scopata, lavoro…
Una specie di monaco laico.
Ormai Tano Pesce si fidava quasi ciecamente di Zulù tanto da delegargli sempre maggiori responsabilità.
Ma non andava sempre tutto bene.
La vita milanese, in fondo, cominciava a sembrargli un po’ alienante, a volte si vedeva a lavorare altri trenta anni così, sempre allo stesso modo, a vivere così… e sentiva che ciò era al di sopra delle sue capacità.
In quei momenti gli mancavano gli amici, il paese, Baldo, i suoi genitori… Silvia.
Non aveva più avuto un’altra ragazza, solo cose da una botta e via.
-No es amor, mi cari’o, es solo un juego…
Gli aveva detto una bella ragazza argentina, tempo prima.
Ma sentiva anche che era incompleto, che gli serviva altro per realizzarsi.
Nè erano mancati gli episodi spiacevoli: come quando non lo facevano entrare in discoteca con una scusa, come quando sentiva i clienti, allontanandosi dall’ufficio vendite dopo la visita dire:
-ma l’hai visto il capocantiere? Ma che ditta è una che mette qui un nero…
E altre amenità del genere.
Quando entrava in un ufficio pubblico per una pratica o per una cosa che lo riguardava di persona era un cinema: o non se lo filavano di pezza oppure lo mandavano allo sportello stranieri.
-Ma io sono italiano!
Di solito l’impiegato, a quel punto restava basito davanti alla carta di identità e si decideva ad ascoltarlo.
Ma il tarlo rosicava e rosicava sempre di più.

Una notte, aveva ventinove anni, verso le due, stava tornando dalla casa di una ragazza moldava che si era appena scopato con mucho gusto quando venne fermato da una pattuglia di polizia:

-scendi dalla macchina, patente e libretto e documenti
Scese.
Si trovò una pistola puntata e una mano che lo spingeva ad appoggiarsi all’auto:
-fermo lì, appoggiati alla macchina! Dove l’hai rubata eh?
-la macchina è mia
-vediamo se è tua, fammi vedere i documenti. Sei clandestino? Ce l’hai il permesso di soggiorno eh? Di un po’?
-guarda che se lo scopriamo da noi poi è peggio.
Intanto quello che lo aveva fatto scendere dalla macchina aveva aperto il baule e aveva trovato il grosso coltello di Marco: il fine settimana precedente era stato in montagna nella valle del Vajont e probabilmente se l’era dimenticato in macchina.
-guarda un po’ cosa abbiamo qua! Che ci fai con questo ? avanti, non ci fare perdere tempo.
Marco tentava di girarsi, ma l’agente che lo puntava lo forzava a restare con lo sguardo verso il tetto dell’auto.
-la macchina è mia, sono italiano! Mi chiamo Marco Fabbron, il coltello l’ho usato in montagna domenica e forse l’ho dimenticato nel baule.
-Italiano? Ehi, ma ci pigli per il culo?
-Guardate i documenti! Guardateli!
Marco stava per sballare…
Uno degli agenti prese i documenti e si allontanò in direzione dell’auto di servizio.
-Senti, è meglio che ci dici cosa fai in giro di notte su questa macchina, che sicuro che l’hai rubata, armato di coltello, è meglio che non ci provi a farci passare da fessi altrimenti…
Ma l’agente non finì la frase che il suo collega si intromise:
– Altrimenti niente. La macchina è sua davvero ed è italiano. Si chiama davvero come dice, è un ex alpino e pure un automobilista modello: nemmeno una multa per divieto di sosta.
– E il coltello?
– Il coltello lo uso in montagna, l’ho già detto. E comunque non è porto di coltello, al massimo è trasporto, non ho commesso alcuna infrazione.
Ed era vero…
Alla fine i due poliziotti farfugliarono qualche parola di scusa e lo lasciarono lì, sfinito dalla tensione.
Quell’episodio fu la proverbiale goccia: il vaso era colmo, ma non sapeva come fare a cambiare vita.
Ma…
-Marco, vai al cantiere Mirasole, che oggi pomeriggio ci viene il dottore Franceschini, è un cliente importante che ce l’ha mannato un amico mio, nu paesano, ctrattalo bene, me raccomando
-Certamente signor Cuffaro, prendo la pratica e vado.
Il ‘dottore’ Franceschini era, per dirla a modo di Tano Pesce, un cinquantino di bell’aspetto, con moglie un po’ più giovane ed era dottore veramente, nel senso che era medico.
L’amico di Cuffaro lo aveva mandato lì perchè cercava un villino per la figlia che si sposava di lì a un anno: Marco lo guidò nel cantiere, gli mostrò i disegni e il capitolato, fu gentile e professionale, perfetto.
Il dottor Franceschini, lo invitò a bere un aperitivo e uno snack tira l’altro così venne a sapere la storia di Marco, della sua adozione e di tutto il resto.
-E non sei mai stato ‘ erano passati al tu- in Sudafrica, a vedere dove sei nato?
-no, non ci sono mai stato. Francamente non è che la cosa mi abbia mai interessato molto-
-Ah, capisco.
Domenico Franceschini sorseggiava il suo Martini rosso…
-In che senso ‘capico’?
-nel senso che è strano, di solito quelli come te prima o poi maturano al curiosità verso le proprie origini.
Marco trangugiò un po’ di prosecco:
– Mah… non so, non ci ho mai pensato… sono altre le cose che mi danno da pensare…
– Tipo?
– Tipo…
E Marco vuotò il sacco: raccontò della sua avventura di qualche giorno prima con la polizia di notte, raccontò dei teppisti di Verona.
Parlò di Silvia.
Alla fine i prosecchi erano diventati tre, i Martini due.
-Alla fin fine, non credo di trovarmi male qui, ma mi sembra che questa vita sia un po’ troppo uguale, e che per tanta gente io sono meno uguale degli altri. Non so se mi spiego.
Il dottore vuotò il suo secondo Martini:
-ti spieghi benissimo… Senti, io lavoro, tra le altre cose, anche per una ONG olandese che opera in Africa, in Sudafrica, ma anche nel Sahel e nell’Africa nera: si occupano di salute , istruzione cose così… Costruiscono scuole e ospedali, e pozzi per l’acqua, e cose del genere: uno con la tua esperienza di costruzioni e di cantieri farebbe comodo.
Anche Marco vuotò il bicchiere alla goccia,poi si trovò con gli occhi dilatati e interrogativi ad osservare Domenico Franceschini.
Uscirono nelle prime ombre della sera, l’aperitivo era diventato un lungo discorso.
-Come te la cavi con l’inglese?
-Beh, più o meno mi faccio capire…
-penso che dovrai fare un corso…
-Perchè?
-Perchè in Africa ti servirà!
-Ma io non ho nessuna intenzione di andare in Africa! Io sto bene qui.
Il dottore sorrise, poi posò le mani sulle spalle di Marco e guardandolo dritto negli occhi:
-No, ragazzo mio, tu non stai bene qui,lo sappiamo tutti e due… però magari mi sbaglio.
Prese un biglietto da visita e lo porse a Zulù:
-Pensaci. Se ti va di provare, chiamami che ne parliamo.

CAP.4: LA CITTA’ DEL SOLE

Marco passava le sue giornate come sempre, tra i cantieri di Tano Pesce ‘ che tra l’altro aveva voluto sapere tutto della visita del dottore Franceschini, e si era fatto raccontare per filo e per segno tutto almeno tre volte-, la palestra e le sue donnine allegre.
Però, tornato a casa, poggiato il borsone della palestra, se non usciva con qualche ragazza, si trovava a pensare a Domenico Franceschini.
Aveva appoggiato il suo biglietto da visita vicino alla televisione: ogni volta che pigliava il telecomando in mano lo vedeva.
Ogni tanto lo rigirava fra le dita: lo chiamo? Non lo chiamo?
Lo riponeva sempre accanto alla TV, e non si decideva.
Un po’ come quando non si ha il coraggio, da ragazzi, di chiamare una tipa per chiederle di venire al cinema con te, aspetti, ti fai coraggio, poi non la chiami, poi la vuoi chiamare…
Poi aspetti…
Zulù attese quindici lunghi giorni, poi si decise.
-Facciamo così, Marco, domani pomeriggio mi è saltata una visita, ce la fai ad essere nel mio studio in via…., per le 15.00 ?
Pensò rapidamente alla giornata di domani…
-Si, credo di si…
-allora ci vediamo domani, buona serata.
La mattina successiva fece in modo di portarsi avanti col lavoro, poi avvisò la segretaria di Salvatore Cuffaro che aveva un impegno personale e che non sarebbe rientrato in ufficio al pomeriggio.
Lo studio del dottore era al quarto piano di una via elegante di Milano, le luci soffuse, le pareti imbiancate di un verde rassicurante,profumo di pino e musica classica.
-Vieni Marco, accomodati pure, vuoi un caffè?
Accettò il caffè che fu portato da una graziosa biondina poco più che ventenne firmata da capo a piedi.
Poi parlarono.
Franceschini gli spiegò la faccenda: un suo amico, un certo Frank de Rijek, olandese di Utrecht, aveva fondato una ONG specializzata in costruire strutture sanitarie e scolastiche in Africa.
Il grosso delle operazioni era nella Repubblica Sudafricana, nelle townships e negli ex bantustan, ma erano in corso anche interventi nella fascia del sahel, come in Niger, e nel ex Zaire dilaniato dalla guerra civile.
-Tu saresti proprio utile, sai? Frank adesso vive stabilmente in Sudafrica, ma ci vediamo ogni tanto, perchè tiene conferenze anche qui in Italia, guarda, sarà a Bologna il mese prossimo e parlerà all’università, se vuoi te lo presento, sono certo che gli piacerai.
-Ma io, veramente non so… mi sembra una cosa così… così…
-Così?
Marco non trovava le parole esatte:
-così strana, Domenico, io non so se riesco a fare quella vita lì che mi dici.
Domenico Franceschini gli sorrise, poi si alzò e prese una specie di faldone da dietro la sua scrivania: era pieno di vecchie foto.
Si vedeva un Domenico trentenne, un po’ più magro, coi capelli scuri e un po’ più folti, senza baffi insieme ad tipo piccoletto, pelato, con gli occhi chiarissimi ma di taglio vagamente orientale.
-questo è Frank: qui siamo in Niger, circa venti anni fa. Ne abbiamo avute di avventure laggiù!
Marco prese le foto e le osservò attentamente: donne velate, bambini sorridenti o tristissimi, uomini col turbante, cammelli, altre situazioni in cui comparivano Domenico e Frank.
– Lavoravamo senza sosta in un ospedale da campo, i mezzi erano pochi, la gente da curare tante, spesso vedevamo morire pazienti che qui, senza grossi problemi, avremmo salvato sicuramente.
– C’era bisogno di tutto: così Frank ebbe l’idea di costruire un ospedale vero e una vera scuola: mise in moto tutte le sue conoscenze, io feci altrettanto sentendo amici, colleghi, colleghi degli amici, amici dei colleghi, ogni volta che tornavamo in Europa cercavamo di fare più pubblicità possibile al progetto.
Marco ascoltava in religioso silenzio…
-alla fine raccogliemmo abbastanza soldi, c’erano voluti due anni: mancava però chi costruisse materialmente gli edifici, e non c’erano…
Ancora una volta ci mobilitammo e riuscimmo a mettere assieme un po’ di giovani di buona volontà che, chi per qualche settimana, chi per qualche mese, ci aiutarono a costruire una scuola e un ospedale: ci sono ancora e tuttora funzionano egregiamente, gestite dal personale dell’associazione che Frank fondò al suo rientro in Olanda.
Quando finì l’apartheid, decise di andare in Sudafrica a verificare la situazione: Marco, ti assicuro che là c’è un sacco da fare. Lui ha un sacco di progetti: tu gli potresti veramente semplificare la vita.
-si… capisco… ma…
-ma non è facile, lo so: ci devi pensare bene Marco, molto bene. Vieni con me a Bologna: ti parlerai con Frank e vedrai che ti convincerà.

Quel mese fu terribile per Marco: passava da momenti in cui avrebbe mollato tutto all’istante per volare in Africa, ad altri dove avrebbe preferito non aver nemmeno mai incontrato Domenico Franceschini.

Finchè giunse il giorno fatidico, un venerdì lui e il dottore si recarono a Bologna, all’università per ascoltare Frank de Rijek.
L’olandese tenne la conferenza in un italiano sorprendentemente buono, Marco s’era atteso una faticaccia a capire dall’inglese, invece…
Invece quell’uomo ci sapeva fare, anche se i vocaboli non erano sempre perfetti, sapeva come affascinare la platea.
Quando si sedettero al tavolo del ristorante, Marco sentiva già una fortissima tentazione ad accettare la proposta del suo amico dottore.
-Domenico mi ha parlato bene di te, tu sei un po’ africano, bantù e sei cresciuto qui.
Secondo Marco, lui di africano non aveva proprio niente, ma non gli andava di fare polemiche.
-diciamo di si, per semplificare.
-Ja, per semplifikare, ja.
-Vedi Frank, secondo me la sua esperienza nei cantieri ti potrebbe essere utile, stavo pensando a quel tuo progetto a Sun City…
-Ja,ja! Si, fero! Sun City, la città del Sole… la città della fantasia…
-Scusate, cos’è questa Sun City?
Domenico prese la parola:
-E’ una specie di Las Vegas sudafricana: in Sudafrica il gioco e la prostituzione erano fuorilegge, così i bianchi costruirono Sun City in uno dei bantustan: intorno alla città c’è solo miseria.
-Capisco…
-No, no credo che tu capiski, no por completo, no… no credo: defi federe, con i tuoi okki, per capire! Una intera popolazione tenuta come skiavi, ja? Capisci? E i ricchi afrikaner facevano , come si dice holyday ah si, vacanza in Sun City.
Furono due ore di pressing a tutto campo: il ragazzo era affascinato e terribilmente tentato da quell’esperienza, ma una parte di lui resisteva.
-E poi, potrai vedere dove sei nato tu: Sun City è vicino al posto che mi hai detto.
Domenico l’aveva buttata lì così, sta frase, come quando si scoprono le carte e si butta sul tavolo un full servito.
-No so, Frank, ci penserò…
-pensaci in fretta, ja? La preparazione è un po’ lunga: corso di inglese, nozioni sul Paese, vaccinazioni… ci vuole cuasi un anno per partire, ja.
Io torno in Suid Afrika fra trenta ciorni: fai sapere ke pensi ja? Parla con Domenico, lui mi trova, sa tutti posti dove tengo conferenza.

Zulù tornò da Bologna ancora più confuso, ma piano piano si faceva strada in lui il desiderio di toccare con mano la realtà di cui Frank e Domenico gli avevano parlato.
Ogni giorno si scopriva a fare la lista dei pro e contro di quella scelta: dirlo ai suoi, il lavoro da Tano Pesce, le ragazze, ma anche i soprusi, il razzismo strisciante della società in cui viveva, la vita ogni giorno identica al giorno prima.
Il ventiduesimo giorno chiamò Franceschini:
-Ciao Domenico
-Ah, ciao Marco, non ti avevo riconosciuto subito, dimmi…
-beh, ecco io… ho deciso di accettare la proposta del tuo amico Frank.
-Bravo! Marco, io lo sapevo che avrebbe finito per convincerti! Quell’uomo non sbaglia mai, e nemmeno io mi sono sbagliato su di te, sei sprecato per stare qui a far su villette, hai sicuramente cose più nobili a cui dedicarti!

Una settimana dopo incontrò di nuovo l’olandese: questi gli fornì un biglietto aereo per Amsterdam da cui, in treno, si recò ad Utrecht per una settimana di presa di contatto con la ONG.

Qui cominciarono ad istruirlo e a presentargli la realtà in cui si sarebbe trovato ad operare: gli consigliarono di iscriversi ad un buon corso di inglese intensivo, dove si parlasse più di quanto si studiasse la grammatica, e gli fecero capire che prima di partire avrebbe poi dovuto fare uno stage ancora a Utrecht per otto settimane.
L’Olanda gli sembrava un posto bello e starno: strano perchè gli olandesi avevano abitudini diversissime dalle nostre e perchè pioveva sempre ma tutti giravano senza ombrello, bello perchè era pieno di gente di ogni razza e colore e a nessuno, ma proprio a nessuno fregava niente della sua faccia bantù.
Una sera, mentre era assorto davanti alla seconda pinta di Amstel, percepì una presenza che lo fissava; alzò gli occhi; vide una giovane donna dall’aspetto scandinavo, alta quasi un metro e ottanti, più i tacchi, gli occhi chiarissimi, i capelli come lampade accese.
-posso sedermi?
In inglese perfetto.
-certo
La ragazza lo fissava, sorridente, come se attendesse una sua mossa.
Zulù stava diventando rosso, ma tanto lo sapeva solo lui.
Poi capì:
-ti va di bere qualcosa
In un inglese lontano dalla perfezione.
-Si, una birra anche per me
Marco ordinò
-Ce l’hai un nome?
-Si… certo… mi chiamo Marco, sono italiano.
-Italiano? Oh dear! Mai visto un italiano così!
Marco sorrise:
-beh, qui è pieno di Olandesi che non sono diversi da me.
-E’ vero, darling, è proprio vero… io mi chiamo Greta e sono svedese, di Lulea, sai dov’è?
Marco non lo sapeva, lei gli spiegò che stava nel nord, quasi in Lapponia.
– cosa ci fai qui? Sei in vacanza?
– No, diciamo che sono qui per lavoro, per il prossimo lavoro: dovrei andare in Africa, a costruire scuole. E tu?
– Io lavoro qui, mi occupo di computer.
– Ah
Terminarono le birre…
-Che vuoi fare?
-In che senso, scusa?
La ragazza sorrise:
-sarai mica l’unico italiano a cui non piacciono le donne bionde?
Zulù la guardò stralunato, non era abituato ad un attacco così frontale.
-Abito qui vicino, ti va di venire da me a bere una vodka?
Decise che gli andava.
La vodka divenne due vodke, poi tre, poi si sentiva leggero e contento: l’Italia, l’Olanda, Sun City, tutto era in un’altra dimensione.
Lei si spogliò, lentamente, poi spogliò lui, lo sdraiò sul divano e gli salì sopra mettendogli la fighetta bagnata in faccia.
Cominciarono un 69 da urlo.
Lei gli si strofinava sopra gemendo in modo sordo, col cazzo dell’uomo in bocca.
Ogni tanto si staccava e biascicava parole in una lingua sconosciuta.
Alla fine venne innarcandosi tutta e Marco bevve il miele dolce e delicato.
Allora lui se la tolse di dosso e prese il preservativo che lei aveva posto sul tavolino insieme alla vodka, se lo infilò, la mise a pecora e cominciò a sbatterla.
-ahhh ja ja….. guut….guut…. jaaaa
Ansimava, gemeva, urlava per quel cazzo grosso che la apriva completamente ogni volta che lui spingeva.
Venne una seconda volta.
Lì davanti cominciava ad essere congestionata, allora Marco lo tirò fuori e cercò di incularla.
-No!, No, noooo , lì nooo
Ma lui ficcò le dita nella sua figa bagnata e con quegli umori andò alubrificare il buchetto, infilandoci prima un dito, poi un altro.
Greta sentiva il fastidio di quella intrusione, ma cercò comunque di assecondarlo.
Poi Zulù la leccò lungamente, cercando di infilare la lingua più dentro possibile.
Infine la girò a pancia in su, le mise sotto le natiche un cuscino del divano, le spinse le gambe verso il petto e la impalò.
La ragazza cacciò un urlo, non appena il grosso membro dell’uomo le aprì il buco e continuò a gemere fino a che sentì le palle dei marco contro le chiappe.
Quando l’ebbe preso tutto, lui cominciò a stantuffarla, prima lentamente, poi sempre con più forza.
Dopo qualche minuto, il dolore s’era tramutato in un piacere intenso e caldo: Greta riprese a farfugliare in svedese mentre quel coso le scorreva in profondità nel culo.
Alla fine Marco venne urlando nel preservativo.
Quando lo tirò fuori e se lo tolse, la ragazza prese a leccarlo avidamente bloccando la detumescenza che intanto era cominciata.
Leccò e succhiò fino a farlo tornare duro, poi, quando sentì le contrazioni, lo tolse e stette in attesa del getto, ormai non potentissimo, che la colpì sul viso.
Tornò a Milano con la certezza di avere preso la decisione giusta.
Si iscrisse ad un corso di inglese tosto: quando finiva di lavorare andava al corso,tre giorni alla settimana.
Le altre sere, tornato dalla palestra si metteva a studiare e tirava le due di notte.
Per dei mesi, nada scopate…
Fece anche le vaccinazioni e si preparò all’idea dei due mesi di tirocinio in Olanda.
Quando ormai era sicuro di fare il passo, ne parò con i suoi genitori.
Non la presero bene, del resto non si aspettava che la cosa facesse loro piacere: pensavano che ci fosse chi sa quale motivazione dietro…
Ma furono sorpresi quando lui raccontò loro le sue varie disavventure a sfondo, per così dire, razziale: pensavano che loro figlio fosse italiano e perfettamente integrato nella società, che gli sfottò erano cosa del passato, di quando era ragazzino, non una cosa da adulto.
Scoprirono che le cose non stavano proprio come se le immaginavano e che quel ragazzo, da anni viveva una certa inquietudine, una situazione in cui la parte di lui che gli diceva, razionalmente, che era come tutti gli altri si scontrava con il tarlo che gli proponeva mille situazioni in si rivelava che non era completamente così.
Furono dei giorni piuttosto tesi, soprattutto sua madre era intrattabile: il fatto che il luogo di destinazione fosse vicino a dove Marco era nato le risultava ancora più grava da accettare.
Mentre si trovava in montagna, successe anche un altro fatto spiacevole: morì Baldo.
Era ormai un vecchio cane stanco, alla soglia dei diciotto anni morì di vecchiaia.
La sera prima, ormai non si muoveva quasi più dalla sua cuccia, riuscì ancora a scodinzolare per Zulù, mentre questi lo accarezzava, il cane non mangiava quasi più, ma riuscì a leccare un po’ di vin brul’, come faceva quando passavano da soli le notti nella foresta.
Alla mattina era morto.
Lo seppellirono nel giardino di casa e Marco si scoprì con le lacrime agli occhi, per la prima volta da quando aveva dodici anni.
L’ultima volta che pianse, infatti fu da dodicenne, durante una partita di calcio con la squadra di un paese vicino.
Ci fu un contrasto piuttosto maschio, durante un’azione di gioco, e ciò risultò in un diverbio fra lui ed il suo avversario, un certo Alberto Righi, figlio del fornaio del paese in cui la squadra di Marco si trovava in trasferta.
-Era fallo, stronzo!
-ma che fallo, faccia di merda, sei tu che non sai giocare
-faccia di merda a chi? Testa di cazzo
-tua madre quella zoccola
E terminò in bellezza:
-ma vaffanculo negro di merda!
Al ‘negro di merda’, Zulù appioppò ad Alberto una cinquina sulla faccia che gli costò il rosso, l’espulsione, la sconfitta della sua squadra, restata in dieci, per 1-0 e un pianto di rabbia.
Alberto, invece, il rosso se lo tenne una intera giornata sulla faccia, in forma di cinque dita, e per tutti divenne ufficialmente ‘il cinquina’.
Marco se lo ritrovò compagno di classe alle superiori e, ironia della sorte, Alberto Righi finì per diventare uno dei suoi migliori amici, ma rimase ‘il cinquina’.
Anche ora che arano quasi trentenni, quando si incontravano, si salutavano così:
-Uhè Zulù!
-Uhè Cinquina!

Ed ora era lì, davanti al lago gelato con una scatoletta di tonno in mano insieme a suo padre.
-Lo sai perchè lo faccio: mi mancava qualcosa, voi non c’entrate niente. Per anni ho creduto che il mondo fosse come questo posto fra le montagne, ma non è così. Ho un conto da saldare con la fortuna, con quella sorte che mi ha portato a crescere qui invece che in un posto di merda come i bantustan. Quando avrò saldato il conto, tornerò qui.
Non ho intenzione di restare in Africa tutta la vita. Il primo periodo è di un anno, da rinnovare.
-E se poi ti penti?
-Se mi pento torno in Italia, e poi vedo: o qui o a Milano qualcosa trovo da fare.

In effetti, quando aveva dato la notizia a Salvatore Cuffaro, questo siciliano di sessantacinque anni cresciuto nei cantieri edili della Lombardia, s’era anche commosso: ormai faceva molto affidamento su di lui…
Fu dispiaciuto, ma quando Zulù raccontò a Tano Pesce il motivo della sua decisione, questo capì.
-Tanticchia ti capisco, picciotto, ti capisco… però, se cambi idea o se ti passa la gana di stare in Africa a costruire scuole, qui sempre un posto hai ah. Parola di salvatore Cuffaro!

Alla fine di Settembre partì per l’Olanda.
I due mesi seguenti furono intensi, per l’impegno, per lo sforzo di imparare tante cose che gli sarebbero state utili in servizio, per lo sforzo di comunicare costantemente in inglese.
E il tempo era pure uno schifo, pioggia e pioggia e ancora pioggia…
Ogni tanto, unico svago, usciva a farsi una birra o andava a vedere qualche partita di calcio in un locale col maxischermo.
Un paio di volte riuscì anche a rimediare una scopata: si fece una cameriera indonesiana e una turista tedesca di passaggio.
Ottenne di tornare a in Italia per qualche giorno per salutare la famiglia, prima di partire per il Sudafrica.
Passò una settimana dai suoi, gli regalò un cucciolo destinato a sostituire Baldo e che lui aveva chiamato Tano in onore del suo ex capo.
Aveva passato una notte su al lago per imprimersi nella memoria ogni sospiro del vento, ogni sussurro del bosco, ogni cresta dell’acqua.
A metà dicembre, ormai trentenne, si imbarcò a Verona via Londra diretto a Johannesburg.
Ad attenderlo trovò Frank che lo accompagnò con un fuoristrada grigio fino a Sun City e da qui,un altro volontario dell’associazione, su un fuoristrada dello stesso colore lo portò in un villaggio di baracche e polvere nell’estate cocente del ex bantustan di Bophuthatswana distante una trentina di chilometri dalla città del sole.
Quando scese davanti alla sede dell’associazione, Marco si trovò catapultato in una realtà fatta di polvere, odori, caldo soffocante, gente che ciondolava per le strade senza un’occupazione definita, oppure stava in fila in cerca di essere visitata da un medico o semplicemente per avere qualcosa da bere o da mangiare.
Si era preparato molto, ma la realtà superava di molto la sua fantasia.

Le prime due settimane furono terribili: quella gente aveva bisogno di tante cose che per lui erano scontate, mentre lì erano un lusso per pochi.
Il Paese era faticosamente uscito dall’apartheid solo cinque anni prima e il buon Mandela, se era riuscito ad impedire il bagno di sangue, non era riuscito a risolvere con immediatezza gli enormi problemi della massa dei neri, per decenni tenuti lontani dalla vita politica della Nazione e privati di ogni diritto civile.
Tutto era emergenza: la sanità, l’istruzione, il lavoro, la crescente violenza e la disperazione delle masse.
Marco credette di non farcela, credette di sprofondare nella depressione: vide gente litigare per qualche spicciolo, vide gente arrivare all’ospedale dell’associazione giusto in tempo per morire come mosche.
Vide in che stato era la scuola.
Per resistere fece quello che faceva sempre in quei casi: si butto a lavorare a capofitto.
IL progetto per la scuola esisteva già, lui fece modificare alcuni aspetti e cominciò a guidare le squadre che lo dovevano costruire.
Ma spesso era gente del posto che l’associazione assumeva per avere la scusa di dare loro qualche soldo e tenerli lontani dalla bottiglia: pochi sapevano lavorare davvero.
Inoltre, gente cresciuta in una società dove si faceva solo ed esclusivamente quello che volevano i bianchi, non avevano la minima autonomia, e tutto gli doveva essere spiegato con dovizia di particolari, anche più volte di fila.
Per non farsi scoraggiare, aveva preso l’abitudine di fare anche un po’ del lavoro fisico, in modo da essere d’esempio per gli uomini.
Ci vollero nove mesi, ma alla fine la prima scuola degna di questo nome nelle campagne di Sun City fu completata.
Venne inaugurata con canti e balli e Zulù,che gli indigeni guardavano con curiosità perchè quello straniero era proprio identico a loro, per la prima volta da mesi, si sentì felice e realizzato…
Lì, nella notte australe, con una bottiglia di birra in mano, davanti al falò dove i canti e le danze sarebbero durati sino all’alba.
Il giorno dopo decise che si sarebbe preso una giornata libera: sarebbe andato a Sun City.
CAP. 5: STRIA

Partì la mattina, verso le 9.00 con il fuoristrada grigio e con calma guidò sulla strada polverosa verso Sun City.
Non era la prima volta che vedeva la città del sole, ma si era sempre trattato di situazioni di passaggio: quel giorno aveva tempo di provare con mano di cosa si trattava.
Sun City era una specie di Las Vegas ma molto più pacchiana, una città assolutamente avulsa dal territorio circostante.
C’erano grandi alberghi e resorts con piscina, campi da tennis e naturalmente casinò e prostituzione.
IN giro si vedevano ragazzine nere vestite con improbabili abiti da sera, il trucco marcato, i tacchi alti e le calze velate, cazzeggiare nei momenti di pausa tra un cliente e l’altro.
Ovviamente, negli alberghi e nei casinò si trovavano solamente bianchi in cerca di trasgressione e di divertimento tutto compreso.
A pranzo s’era fermato in un bar, stava guardando le auto che passavano quando sentì il cameriere discutere animatamente con un cliente: il motivo del contendere era che l’uomo non voleva attendere mentre tutti i tavoli erano pieni.
I due stavano discutendo in afrikaner: Marco, dopo nove mesi, qualche parola la capiva:
-Come sarebbe a dire che devo attendere almeno un’altra mezzora?
-Oom, deve attendere poiché, lo vede, tutti i tavoli sono occupati.
-Lo vedo, ma guarda un po’ chi occupa quel tavolino lì? IO dovrei attendere mentre quel negro sta lì comodo e tranquillo? Questo Paese sta andando a puttane, altro che! Solo dieci anni fa, avrebbe pagata cara questa sua impudenza!

-Oom, guardi che ora hanno il diritto di stare qui, Oom…Signore.

Questi si era avvicinato a Marco e lo fissava con disprezzo.
L’italiano, con molta calma aveva sollevato lo sguardo:
-Qualcosa non va, signore?
Lo aveva detto in inglese.
-Non va che quando questo era un Paese civile, la feccia come te stava nelle riserve non qui in mezzo alla gente per bene di razza bianca.
Marco sorrise.
-La gente perbene di razza bianca… La sorprenderà, ma da dove vengo io, la gente perbene non è necessariamente di razza bianca, anzi. E nel mio Paese, la gente come lei andrebbe in galera per razzismo.-
-Ma come ti permetti! Brutta scimmia…
Non fece in temo a terminare la frase: Marco si alzò di scatto sovrastando l’uomo di un buon venti centimetri.
-Ascoltami bene, viso pallido: ti do esattamente trenta secondi per uscire da qui.
-Mi minacci! E se non esco cosa succede, eh?
Marco scosse la testa, si passò la mano sinistra sulla bocca; con la mano destra afferrò la cravatta dell’uomo e poi gli pose la sinistra sul collo, dietro la testa.
-Sennò ti metto su una sedia a rotelle, Oom…
-Ma io!
-Ti sembra che scherzo?
L’uomo fissò Marco negli occhi e quello che vide lo ammutolì: per un attimo ebbe l’esatta sensazione che quel nero grande e grosso lo avrebbe massacrato di botte senza nemmeno pensarci un istante, e senza far fatica.
Marco lo lasciò andare, l’uomo se ne andò imprecando, ma solo quando fu sufficientemente vicino alla porta.
Ma ormai il danno era fatto: Marco finì in fretta di mangiare, saldò il conto e andò via.
Passò il resto del pomeriggio in un casinò, un po’ vinse e un po’ di più perse.
Dovette scacciare almeno tre ragazzine, neanche ventenni, che gli si offrirono.
Alla fine, lo schifo ebbe il sopravvento: riprese l’auto e uscì dalla città.
La natura delle campagne era comunque spettacolare, una savana dorata come ci si immagina che la savana debba essere, il cielo blu nonostante fosse inverno, un po’ di nero minaccioso distante all’orizzonte…
Decise di fare una deviazione e di andare a vedere il villaggio dove era nato.
Guidò per un’ora e mezza, arrivando che già la luce cominciava a diminuire in un villaggio di capanne di fango e casette di lamiera, come altri ne aveva visti da che era lì.
Le strade erano polverose e sudicie, le donne in strada avevano attorno sempre qualche bimbo con gli occhi troppo grandi e le gambette troppo magre, gli uomini per lo più ciondolavano di qua e di là guardandolo con sospetto.
Fuori dal paesino, trovò l’ospedale dei missionari comboniani.
Lo accolse un pretino più giovane di lui, spagnolo, col quale si capirono un po’ in italiano e un po’ in inglese: Marco gli raccontò cosa era venuto a fare.
Ovviamente, dei missionari che erano lì quando era nato lui, non c’era più nessuno, nè più nessuno si ricordava di lui: gli mostrarono un registro ove era annotato il permesso delle autorità del Bantustan ‘ allora formalmente indipendente dalla Repubblica del Sudafrica- di dare in adozione il piccolo Marco Rolhilala, figlio di una certa Uhura, di venticinque anni, padre sconosciuto.
Ovviamente le autorità bianche di Pretoria non avevano opposto alcuna obiezione, anzi: ogni bambino nero adottato fuori dal Paese era un nero adulto in meno dentro al Paese!
-Vedo che lei è diventato un uomo grande e grosso, e, a quanto mi dice, fa anche del bene-
Era un certo padre Guglielmo, italiano di Perugia.
-beh, grande e grosso sicuro, quanto al bene… ho solo aiutato a costruire una scuola, niente di più. In fondo era il lavoro che facevo anche in Italia e che tornerò a fare, quando avrò finito qui.
Padre Guglielmo poggiò la tazza del thé che aveva davanti e sorrise amabilmente, poteva avere un cinquanta, cinquantacinque anni.
-Quando avrà finito qui?! Gli anni che il Signore mi concederà di vivere, e tutti quelli che concederà a lei, non sono sufficienti a finire. Non qui.
-In che senso? Io ho un periodo di un anno, nove mesi, come le dicevo, sono già trascorsi, fra tre mesi torno a casa.
-Allora dica ‘quando tornerò a casa’, non ‘ quando avrò finito qui’: quantunque qui ci resti anni, scoprirà che ciò che avrà fatto sarà sempre poco. Sa che ci sono Paesi da cui si torna, ed altri dai quali non si torna più?
Marco, un po’ imbarazzato, bevve qualche sorso di thé:
-Non saprei… ma immagino di si, ci sono Paesi nei quali uno si trova così bene che non pensa più a tornare indietro.
Padre Guglielmo ancora sorrise e scosse la testa in segno negativo:
-No, mio caro signore, è il contrario. Non nego che se uno si trova molto bene finisca per rinunciare all’idea del ritorno, ma sono molti di più i casi di persone che non tornano da posti in cui si sta male.
-Continuo a non capire Padre…
-Vede, Marco, lo schifo che c’è in giro in certi luoghi, la miseria materiale e spirituale, la corruzione, lo scempio dei diritti umani, ci danno un tale senso di vergogna e di nausea che solo la fede nel Signore ci permette di sopportare. Ma la fede non è un telecomando che ci fa agire come robot, no, il Signore ci lascia liberi di scegliere in ogni momento, ogni giorno della nostra vita cosa vogliamo essere e cosa vogliamo fare, cosa è importante e cosa non lo è.

Marco ora osservava con attenzione e rispetto il sacerdote che aveva di fronte, quasi calvo e con i pochi capelli quasi bianchi, gli occhi vispi e intelligenti.

-qui c’è così tanta gente che ha bisogno del nostro aiuto che spesso noi ci sentiamo schiacciati da questo peso e subiamo la tentazione di andarcene, ma se lo facciamo, se ce ne andiamo, lasciamo questa prigione senza sbarre: nessuno ci fermerà, ma noi non avremo scontato la nostra pena.
-La nostra pena?
-Si, la nostra pena. Sa perchè sono qui?
Marco scosse la testa.
-Non saprei, immagino per aiutare il prossimo.
-Certo, per aiutare il prossimo. E scontare i miei peccati. Aspetti qua, le mostro una cosa.
Il sacerdote si alzò e si assentò un paio di minuti; ritornò poi con un vaso di vetro vuoto e diversi vasi uguali ma pieni.
-Nella vita è necessario scegliere cosa per noi è importante, fuori dai condizionamenti che la nostra società ci impone, osservi bene.
Il prete riempì il vaso di sassi bianchi, della dimensione di biglie da spiaggia, prelevandoli da uno dei vasi pieni: lo riempì fino all’orlo, tanto che un altro sasso non ci sarebbe stato.
-E’ pieno il vaso?
Marco non capiva che senso avesse tutto ciò, comunque rispose:
-Si, è decisamente pieno fino all’orlo.
Il sacerdote sorrise:
-Stia a vedere:
Prese dei sassolini di quarzo bianco, piccoli come mezza unghia del mignolo di un bambino, e li forzò dentro lo stesso vaso di prima, fino a che ce li fece stare tutti.
-Adesso è pieno veramente?
-Adesso si, non ci può stare altro lì dentro.
Ancora un sorriso…
-Guardi ancora:
Il sacerdote prese della sabbia finissima e, un cucchiaio alla volta, la fece scendere nel vaso fino a riempire ogni interstizio lasciato libero dai sassi grandi e da quelli di quarzo.
-Forse è pieno solo adesso, vero?
Marco era sempre più interdetto:
-Si, direi che ora è proprio pieno.
Padre Guglielmo, allora, prese la teiera e ne versò il contenuto nel vaso:
-I sassi grandi rappresentano le cose importanti della vita: l’amore, la salute, la fede, l’amicizia, il bene. I sassi piccoli, le cose meno importanti: il lavoro, il denaro, la posizione sociale. La sabbia rappresenta il superfluo: il possesso materiale, il piacere, lo svago. Se si parte a riempire il vaso con la sabbia, non resterà spazio per tutto il resto più importante.
Marco voleva dire qualcosa, ma non riusciva a fare altro che osservare gli occhi vispi del sacerdote.
Alla fine:
-E il thè, quello cosa rappresenta?
Padre Guglielmo rise:
-Niente, vuol solo dire che anche in una vita impegnata, un po’ di tempo per bere un thè con un amico si deve sempre trovarlo.
Anche Marco rise…
-Lei ha messo nel vaso tanti sassolini piccoli, e anche un bel po’ di sabbia, credo, con quel fisico da palestra… ora ci tocca mettere dentro anche qualche sasso grosso, altrimenti il vaso si farà colmo e troppo in fretta.
Marcò capì: per la prima volta da quando aveva lasciato la sua valle, capì.
-Credo di aver capito, padre.
-Lo so, lo vedo dai tuoi occhi…
Terminarono il thé, poi il prete gli chiese ancora di attenderlo per un paio di minuti.
-Prendi questo libro, me lo diede tanti anni fa padre Giacomo, quando ero giovane e inesperto.
Marco si ritrovò in mano una copia del Don Chisciotte, in italiano: si sarebbe atteso un Vangelo o una Bibbia, non un’opera del genere.
-Che significa?
-Leggilo: lì dentro si insegna la libertà. Va ora, e che Dio ti protegga.

Marco riuscì a biascicare un saluto, poi saltò sul fuoristrada e rientrò alla base con molti più dubbi di quando era partito.

In ogni caso, c’era comunque molto da fare: Frank era veramente soddisfatto di come Marco aveva condotto a termine la costruzione della scuola e cominciò a mandarlo in giro per tutta la regione a fare sopraluoghi per cercare nuovi posti dove costruire scuole, centri di aggregazione, ospedali.

Un giorno, mentre si trovava a tre ore di auto dalla sede, dopo un sopraluogo per la costruzione di una casa famiglia per donne sole, stava avviando l’auto, in pieno villaggio, quando sentì dei guaiti acutissimi di un cane, e delle grida di persone.
Richiuse lo sportello e si avviò verso la fonte del rumore: svoltò un paio di angoli e si trovò di fronte ad una scena assurda.
Un tipo stava pigliando a bastonate un cane un po’ più piccolo di un pastore tedesco: il pelo ispido, il corpo emaciato, stava rannicchiato in mezzo alla strada polverosa e cainava sotto ai colpi dell’uomo.
Lì vicino un altro tipo che sghignazzava e tutt’intorno, appoggiati alle baracche altri uomini, spesso lattina o bottiglia in mano, che guardavano, a volte sorridevano e nessuno muoveva un dito.
Zulù non ci pensò ne uno nè due, corse fino all’uomo col bastone e lo fermò:
-basta! Fermo!
E lo spinse via.
-Che cazzo state facendo qui? Eh? Vi divertite? Perchè non ve la pigliate con qualcuno che si può difendere?

Non fece in tempo a girarsi che sentì un ‘click’: si voltò e vide che quell’altro, quello che sghignazzava, aveva in mano un coltello a scatto.
Marco, allora, gli si avvicinò con le braccia alzate, in segno di resa, la faccia sorridente come a dire ‘su dai, scherzavo’…
Chissà perchè, tutti tendono a dimenticare che l’avversario non ha solo due braccia, ma anche due gambe: Marco, appena gli fu sufficientemente vicino, tirò un calcio come se dovesse battere una punizione dal limite dell’area con effetto a rientrare.
Colpì il ginocchio sinistro dell’altro, di fianco, all’altezza della rotula e sentì nitidamente un ‘crack’.
L’uomo col coltello finì giù come se gli avessero tolto la sedia da sotto al culo.
Ma quello col bastone aveva avuto tutto il tempo di riprendersi dalla sorpresa: Zulù intuì, prima di percepire, la bastonata che stava per arrivare.
La fermò in volo con la mano sinistra e gli apparve in volto una smorfia per il dolore della botta.
Poi con la destra gli strappò di mano il bastone e lo picchiò violentemente sulla bocca al tipo: le labbra esplosero in un getto di sangue e quello si trovò con le mani al volto, piegato dal dolore.
Giusto per sicurezza, picchiò una tremenda bastonata anche sulle dita della mano destra di quello col coltello: sentì un altro ‘crack’, probabilmente il pollice fratturato.
-Nessun altro che vuole provare?
Lo disse in italiano.
Gli uomini con le lattine in mano lo fissavano seri, ma nessuno si fece avanti.
Marco prese sottobraccio il cane, che poi era una cagna, e con il bastone nella destra si avviò al fuoristrada.

Solo qualche ora dopo realizzò che qualcuno di quei balordi poteva avere un’arma da fuoco e farlo secco all’istante…
Da quel giorno prese la decisione di girare col suo coltello da caccia alla cintola, ma non gli capitarono più episodi di violenza.

La cagna, intanto, ebbe bisogno di essere curata: era un pulciaio, piena di piaghe e ferite, malnutrita e con una zampa rotta dalle bastonate.
Marco convinse uno degli infermieri a steccarle la zampa e a dargli le medicine necessarie a curarla: quello non gliele voleva dare, pensando che fossero più utili ai cristiani che ai cani, e dovette intervenire Frank de Rijek in persona.
Ma alla fine Marco riuscì nell’intento: due mesi dopo Stria, che in trentino significa strega, divenne una cagnona grossa come il buon Baldo buonanima, devota e inseparabile da Marco.

-Allora tra due settimane torni a casa?
Sua madre al telefono fremeva per sapere quando suo figlio, passata la fisima africana, sarebbe tornato:

_beh, ecco… a dire il vero non so ancora, sai… Frank avrebbe per le mani un progetto grosso vicino a Johannesburg e io… insomma, vorrei vedere di che si tratta.

Sua madre la prese malissimo, e lui si disse che aveva fatto bene a raccontargli solo una parte della verità: in realtà lui aveva già deciso di prorogare la sua permanenza per altri due anni e di accettare l’incarico che Frank gli voleva conferire per la township di Soweto.
Si trattava di un progetto in varie fasi: due scuole, un asilo d’infanzia, un ospedale, un centro ricreativo, una casa famiglia per le donne e un orfanotrofio per gli orfani dell’AIDS.

Proprio quest’ultimo aveva convinto Marco…
Inoltre, l’incontro con padre Guglielmo lo aveva colpito molto: era stato ancora a trovarlo un paio di volte e sempre aveva percepito l’enorme carica di energia e di entusiasmo che il sacerdote emanava per quella che considerava la mia missione.
Un pomeriggio che avevano appena terminato di bere del thé, il sole stava già tramontando di quel rosso che tipicamente tinge la fine del giorno in Africa, Marco stava già sulla portiera dell’auto, si girò:
-Padre Guglielmo?
-Si?
-Ho finalmente capito quella cosa del vaso.
-Ne ero sicuro, che avresti capito.
-Ah, Padre…
-Si?
Marco prese un po’ di fiato:
-Grazie…
-Di niente: è il Signore che ti ha condotto da me, io sono stato solo un suo strumento. Sia lodato Gesù Cristo.
-Sempre sia lodato.

Chiuse lo sportello, avviò l’auto e partì.

Soweto lo accolse in una sarrabanda di colori, disperazione, curiosità e folclore.
Era la township più conosciuta al mondo, culla dell’ANC di Mandela, e cominciava a togliersi di dosso la patina di anni di segregazione.
Ma anche lì c’era molto da fare, molto da costruire, molto da aggiustare.
E non solo di materiale.
Girare di sera era di fatto impossibile, anche per un forestiero nero, alto e grosso, con un acgnone a fianco e armato di coltello da dieci pollici.
Ogni tanto i cannoni facevano ‘bang’ nella notte di Soweto.
Marco, che cominciava ad avere un ruolo, dopo i primi mesi si trasferì in una casetta solo un po’ meglio di quella della nascente classe media nera, in modo da cominciare a vivere il luogo da dentro.
Intratteneva uno scambio epistolare abbastanza frequente con la sua famiglia, con Domenico Franceschini e anche con padre Guglielmo, quest’ultimo specie nei momenti di difficoltà riusciva sempre a tirargli fuori il meglio di sè.

Ma Soweto non era solo questo, era anche moda: giovani da mezzo mondo, ventenni un po’ idealisti venivano lì per cercare di aiutare.
Il più delle volte scappavano dopo un mese o due con un bagaglio di aneddoti da raccontare al rientro in Europa o USA.
A lui toccarono due ragazzine danesi, poco più che ventenni mandate dalla facoltà di sociologia di Copenaghen…
Le portò in giro, gli fece conoscerei posto, la gente, i pericoli, gli fece da traduttore dalla lingua Xhosa, che ormai, al pari dell’afrikaner, cominciava a masticare decentemente.
Evitò che si mettessero nei guai.

Ma l’uomo, non è di legno e… insomma, due fanciulle bionde e carine, molto liberali che se ne andavano in cerca d’avventure nell’emisfero australe, nel continente nero…
Finirono nel suo letto: prima una, poi l’altra, poi insieme…
Quella volta ne aveva una che lo stava cavalcando e l’altra sulla faccia, lo stavano semplicemente facendo impazzire.
Dovette faticare del bello e del buono per scoparsele tutte e due: mentre ne scopava una a pecora, l’altra le teneva la testa fra le gambe, poi fecero cambio.
Quando Marco non ce la fece proprio più, le vide lesbicare ancora per un’altra mezzora e godere come pazze.
Fu un mese complicato: di giorno passava ore in cantiere, e spesso tirava la carretta, di notte o una o l’altra delle due vikinghe, pretendevano le sue cure.
‘Un giorno o l’altro troveranno solo le mie ceneri’
CAP. 6: COME CONRAD

Marco aveva preso di petto la realizzazione dei numerosi progetti di Frank de Rijek: un anno se n’era andato nella realizzazione di una seconda scuola, poi aveva attaccato con l’ospedale, il centro d’aggregazione, la casa famiglia.
Ormai parlava un inglese quasi perfetto, un buon Afrikaans e si destreggiava pure con lo Xhosa: al primo rinnovo di ‘ferma’ ne erano seguiti altri, e altri tre anni erano trascorsi in quel di Soweto.
Ormai lo conoscevano tutti, lui e la sua grossa cagna che era come fosse la sua ombra: dove andava lui, andava anche lei, con una fedeltà ed una tenacia che, forse, non aveva avuto neppure Baldo.
I genitori di Marco s’erano di fatto rassegnati a che lui se ne vivesse in Africa: lui tornava in Italia un paio di settimane l’anno nelle quali sembrava il Marco di sempre, lo Zulù di sempre.
Vedeva gli amici, andava in montagna, stava al bar di famiglia a raccontare particolari sempre nuovi della sua vita africana.
-Ho visto Silvia, un paio di mesi fa.
Il Cinquina stava seduto su una panca, davanti al bar dei genitori di Marco.
Lui e Marco si stavano godendo una birra fresca dopo una partitella a calcetto con gli amici.
Zulù non lo guardò nemmeno, continuando a bere.
-Ero stato a Trieste, per certi affari e l’ho incontrata, non ero sicuro che fosse lei, poi l’ho riconosciuta: è sposata adesso, ha due bambini. Mi pare che insegni da qualche parte.
Marco posò la mano con la lattina sulla coscia e guardò lontano.
-Forse non te lo dovevo dire, Zulù…
Zulù si voltò verso Cinquina:
-No, è passato tanto tempo… è normale che adesso si sia sistemata. Suppongo che il marito non sia nero.
-Dai Zulù, non c’entra un cazzo se te sei nero o no, doveva andare così, probabilmente.
-Già. Probabilmente…

I lavori previsti dal progetto di Frank erano praticamente terminati, mancava ormai pochissimo, Marco si chiedeva se valeva la pena restare lì o forse avrebbe fatto bene a tornarsene in Italia.
Sono pensieri questi, che vengono a chi sta da tanto tempo via…
Alla fine si convinse a restare un altro anno ancora: l’idea di Frank era quella di usare Marco come formatore di personale locale, lì a Soweto.
Ma come spesso accade, le buone intenzioni spesso non si riescono a realizzare…
Marco era seduto sotto al pergolato della sua modesta casetta di Soweto, Stria era sdraiata ai suoi piedi: aveva lavorato tutto il giorno, era stanco e per rilassarsi stava intagliando il legno, proprio come faceva da ragazzo.
Vide Frank entrare dal suo cancello a grandi falcate e con l’aria corrucciata:
-Ciao Frank, come mai quella faccia? Problemi?
Ormai parlavano in inglese fra loro, o addirittura in Afrikaans:
-Si, Marco, problemi grossi.
-Siediti, vuoi una birra?
Frank accettò la birra e si sedette sulla panca di fianco a Marco:
-Ho un problema grosso in Congo, a Goma. Negli ultimi mesi c’è stata una ripresa delle ostilità: alcune nostre istallazioni sono state date alle fiamme, alcuni dei nostri sono stati uccisi… uno era un mio amico, di Utrecht…
Frank si passò la mano sugli occhi stanchi.
-Ora sembra essere tornato tutto alla normalità: l’ONU ha inviato un contingente pakistano a tenere divisi i belligeranti, ma là la situazione è un casino: bisogna ricostruire l’ospedale velocemente e anche una struttura che faccia da scuola e da centro di accoglienza. Ho bisogno che sta roba sia pronta nella metà del tempo solito.
Marco cominciava a capire.
– Il mio amico Philip si occupava di tutto laggiù, ma adesso non ho nessuno che posso mandare là, ci andrei io, ma la mole di lavoro che abbiamo qui, mi impedisce di farlo: tapperei un buco e ne aprirei uno più grande… e … quindi…
– E quindi Oom Frank?
Frank fissò per un attimo la strada al di là del cancello; inghiottì una lunga sorsata di birra, poi si rivolse a Marco:
– Quindi, mio caro Zulù, non ho altra scelta che chiederti di andare a Goma, provvisoriamente, si intende.
– A Goma?! No Frank, tu sei matto! Non posso andare laggiù, è escluso.
– Immaginavo che avresti reagito così, ma non avevo altra scelta che chiederlo a te: non posso obbligarti. Grazie della birra Zulù.
Frank si alzò e fece per andarsene, a testa bassa.
-Frank!
-Si?
-Come stanno messi adesso laggiù?
Frank sorrise:
-stanno messi di merda, amico mio: se non trovo nessuno disposto a prendere le redini della situazione, dovremo andarcene da Goma e per un bel po’ di gente, soprattutto bambini, donne maltrattate, vecchi, uomini che hanno rifiutato di combattere con le bande di irregolari, sarà una specie di condanna.
Si voltò, la mano sul cancello…
Marco si profuse in una sequenza di bestemmie in dialetto trentino, poi:
-va bene Frank, ci vado.
-davvero?!
-Si, davvero, ci vado
Frank lo stava letteralmente stritolando in un abbraccio e non stava più nella pelle.
-Oh, ma sia chiaro, un mese, non un minuto di più!
-Eh no, di mesi me ne servono almeno cinque!
-due, Frank, due
-facciamo quattro?
-Facciamo tre e solo perchè sei mio amico, viso pallido.
-Ok per tre.

Marco dovette farsi un bel giro di vaccinazioni e imbarcarsi medicinali d’ogni tipo.
Ebbe anche da avvisare la famiglia: ovviamente si guardò bene dal dire che là ci doveva stare tre mesi, disse che era per un mese soltanto, che già così, sua madre quasi sveniva all’altro capo del telefono.
Una settimana più tardi partì.
Frank aveva combinato un charter di una compagnia poco raccomandabile, di quelle che si vedono nei film di avventura, per mandare a Goma, insieme a Marco anche un bel carico di medicinali, viveri, materiale sanitario, attrezzatura da lavoro etc…
L’equipaggio Ucraino non aveva nessuna intenzione di caricare a bordo il cane di Marco… ma un paio di pezzi da cento dollari e una bottiglia di vodka aprirono a Stria le porte della stiva dove, sotto sedazione viaggiò fino al Congo.
Quando scese dall’aereo, Marco si trovò catapultato in un mondo devastato da anni di guerra civile, di brutalità come in Europa non se ne vedeva dal medioevo, dalla fame, dalla malattia.
Soweto sembrava Montecarlo.
Un addetto dell’organizzazione aveva caricato lui e il cane su di un fuoristrada e l’aveva condotto fuori città fino alla sede.
C’erano dei tendoni, pieni di gente, altra gente semplicemente accasciata fuori, nell’erba, lo sguardo rassegnato, le mosche che ronzavano tutt’intorno, l’odore della malattia e della morte.
E c’erano i resti di due grosse strutture di legno parzialmente crollate, i legni anneriti dalle fiamme.
-Buongiorno, mi chiamo Marco, Frank de Rijek mi ha mandato qui per ricostruire la struttura.
La donna stava chinata su un bambino, gli stava ispezionando la gola.
-Ho detto che sono…
-Ho capito benissimo chi sei, ma ora sto lavorando, non vedi? Fatti dare qualcosa da bere.
Marco restò esterefatto: aveva volato su una carretta del cielo da Johannesburg fino al buco del culo del mondo, stava crepando di caldo, la camicia appiccicata alla pelle per l’umidità soffocante dell’equatore e questa tipa manco si peritava di salutarlo?
Si sedette all’ombra di un albero, chiese a qualcuno una birra se ne avevano.
Si, l’avevavo: stette lì sotto, il bagaglio di fianco, Stria sbanfante nel caldo torrido all’altro fianco, bevendosi la birra…
Alla fine, la stanchezza prevalse e s’addormentò.
-Sveglia bel principe!
-ma ..cosa…
-Ti sei addormantato.
Marco alzò gli occhi.
Vide una donna bellissima, bella anche se vestita come Robert Redford ne ‘La mia Africa’, maglietta kaki, bermuda, scarponcini, un camice bianco aperto davanti.
Aveva la pelle colore del cioccolato al latte, i capelli, stranamente, castano molto chiaro, schiariti ulteriormente dal Sole equatoriale, le labbra pronunciate, le mani piccole.
E gli occhi…
Due piccole perle nere.
Aveva più o meno l’età di Marco
Marco restò senza parole, così, a fissarla rapito da tanta bellezza.
-hai perso la lingua?
-Eh? A no, no, stavo solo…
-Stavi solo?
-Niente, niente. Piacere, sono Marco, ma gli amici mi chiamano Zulù. Frank mi ha mandato qui.
-Si, questo lo hai già detto prima di addormentarti. Mi chiamo Jean Duval, sono medico e sto qui da cinque anni: adesso, se non ti sbrighi a ricostruire ste baracche, ce ne dovremo andare e non sarà una bella cosa.
Intanto stava cominciando a piovere: Marco ebbe modo di scoprire nei giorni seguenti, che ogni giorno il cielo rovesciava la sua quantità d’acqua.

Jean Duval era francese, medico, specializzata in malattie tropicali, e, oltre alla sua lingua, parlava anche inglese, spagnolo, tedesco, si arrangiava con un italiano da turista e s’arrabattava almeno in un paio di dialetti del posto.
Stava lì da quando aveva finito l’università e ne aveva viste di tutti colori: gente fatta a pezzi col machete, donne violentate, bambini massacrati, un paio di volte i guerriglieri erano giunti fino quasi al campo.
Una volta erano stati scacciati dai soldati regolari, che lei aveva provveduto a corrompere, nelle persone degli ufficiali, per evitare che questi saccheggiassero la base.
Un’altra volta i guerriglieri stessi avevano rinunciato per dedicarsi ad altre razzie alla periferia della città.
E qualche giorno prima dell’arrivo di Marco, Jean e i suoi ospiti, erano stati costretti a scappare in città per salvare la pelle.
La pelle l’avevano salvata, ma quasi tutto il resto era andato perduto.

L’impresa era improba: se Marco, a Sun City aveva trovato gente raccogliticcia che non sapeva lavorare, a Goma le cose erano decisamente peggiori.
Gente poca, terrorizzata che si aspettava da un minuto all’altro che arrivassero i ribelli a farli a pezzi.
Materiali pochi e di scarsa qualità, nessuno o quasi che avesse tenuto in mano una cazzuola.
Gli scontri recenti avevano avuto l’effetto di ammassare una gran quantità di gente alla periferia della città, gente scappata dalle campagne in fiamme e dai massacri.
Gente che si riversava sul sito dove Jean e qualche infermiere congolese cercavano di fare il possibile.

-Ho bisogno che sistemi quelle maledette baracche!
Gli occhi di perla nera di Jean erano quasi cattivi.
-E cosa pensi che stia facendo? Non mi pare di stare a giocare!
Litigavano spesso, lui e Jean, ma appena finito, non poteva fare a meno di notare quanto bella e affascinante fosse.
Spesso questa realtà gli sovveniva proprio mentre tentava di replicare e restava lì, muto, a fissare quegli occhi neri…
-Che c’è, hai perso la favella?
Si riprendeva di colpo.
-No, non ho più niente di intelligente da dire.

Marco si impegnava invece alla grande: alla fine del primo mese furono ricostruite due delle tre baracche crollate, aveva lavorato come un matto, da mane a sera…
Ma una sera…
Erano quattro giorni che il cantiere non poteva andare avanti, una pioggia torrenziale s’era abbattuta senza sosta e aveva trasformato le campagne attorno a Goma in una palude di fango senza limiti e confini.
La pioggia aveva tenuto lontano anche la gente dall’ospedale, Marco e Jean avevano passato lunghe ore a parlare, davanti all’immancabile tazza di thé fumante.
Le aveva raccontato della sua vita in montagna, dei perchè che lo avevano condotti in Sudafrica, di Frank.
Anche Jean aveva avuto una storia analoga: nata nella Guadalupa francese, figlia di un marinaio bretone e di una ragazza del posto, aveva studiato a Parigi, vissuto nelle banlieues in mezzo al degrado, agli spacciatori, alle battone.
Ai tipi che ci provavano e che se non ci stava tentavano di violentarla: un paio di volte aveva evitato lo stupro per un pelo: una volta il tipo era scappato perchè una volante di passaggio li aveva illuminati coi fari, la seconda volta era stata più veloce lei.
Il tipo le aveva messo il coltello alla gola, lei aveva finto di starci, il tipo aveva allontanato il coltello di un apio di centimetri dalla sua carotide, quel tanto ch’era bastato perchè Jean con la sinistra afferrasse la lama e con la destra partisse con le unghie verso gli occhi dell’aggressore.
Finì con il tipo con le mani al volto urlante di dolore, lei di corsa sul selciato freddo, la mano sinistra tagliata attraverso tutto il palmo, appena sotto all’attaccatura delle dita.
Sei punti, aveva ancora il segno.
– Tutto il mondo è paese, quindi…
– Già, la Parigi che ho conosciuto io non è la Tour Eiffel e Montmartre…
– Beh, a me è andata meglio: nessuno ha mai cercato di violentarmi.
– Ma vaffanculo!
E risero bevendo altro thé…
Stavano ancora conversando quando udirono un rumore sordo, come un tuono ma molto più lungo, poi videro nell’ombra della sera una cascata di fango scendere dalle colline.
Uscirono di corsa, lui, Jean, Stria e gli infermieri congolesi…
La massa di fango passò in mezzo al campo, schivò la casa dove erano stati fino ad un minuto prima a bere il thè.
Passò di fianco ad una delle baracche che marco aveva appena ricostruito, piena di degenti…
Investì in pieno la seconda.
In un battibaleno la baracca sparì nel fiume marrone di fango turbolento: Marco e la ragazza videro le assi di legno del tetto trascinate per metri.
Pioveva ancora, come getto d’idrante dal cielo, e la notte divenne improvvisamente scura, perchè l’acqua fangosa aveva travolto anche i generatori a gasolio.
Alla luce delle torce, Zulù, Jean, gli infermieri, gente che poteva muoversi, Stria, tutti coloro che potevano si misero a scavare nel fango, sotto la pioggia incessante.
L’alba illuminò un paesaggio irreale, di lamenti e gemiti e dall’aspetto di deserto lunare.
Marcò, per prima cosa, rimise in funzione i generatori a gasolio, poi mandò uno dei congolesi al campo delle forze pakistane per farsi mandare uomini e mezzi.
Scavarono ininterrottamente per tre giorni: al secondo giorno una camionetta militare depose un paio di ragazzoni in mimetica e basco azzurro muniti di pala e scandaglio.
Purtroppo nemmeno i militari pakistani potevano fare di meglio: avevano dozzine di posti dove prestare soccorso.
Recuperarono venti persone vive, nella baracca ce n’erano quarantasei.
-Vattene a dormire, non puoi pensare di andare avanti così ancora molto
Jean era distrutta, Marco non lo era meno, ma fisicamente molto più prestante aveva assorbito meglio la fatica.
-No, c’è da fare, non posso
E tentò di riprendere la via dell’ospedale.
Marco l’afferrò per il braccio, la girò e la tirò a sè.
L’aveva immaginata più pesante, e se la ritrovò quasi in braccio per effetto dello strattone.
Lei restò a bocca aperta, come se avesse voluto dirgliene quattro ma senza trovare alcuna ispirazione.
Restò lì, a pochi centimetri dall’uomo grande e grosso e nero come la notte che aveva di fronte, i suoi occhi nero perla lucenti e stanchi che lo fissavano…
Marcò restò come ipnotizzato, affogando nel mare nero di quegli occhi che aveva di fronte poi…
Recuperò la situazione, allentò la presa:
-se non vai a dormire, ti ci mando a pedate nel culo.
Lei si svincolò.
-va bene, va bene buana…
-Buana un cazzo, ti sembro bianco io? Vattene a riposare e lascia fare a noi.
La ragazza sia avviò agli alloggi, ogni tanto voltava la testa a guardare Marco che non le staccava lo sguardo di dosso fino a che la vide sparire nella baracca.
Ci vollero tre settimane per ricostruire la baracca distrutta, ma alla fine Zulù ce la fece anche stavolta.
La sera che la inaugurarono, il personale congolese decise di dare una piccola festa propiziatoria.
Ci furono balli e canti attorno al fuoco, la birra scorreva a fiumi… in lontananza, ogni tanto, giungeva il rumore di uno sparo.
Stria scattava in piedi, ogni volta che sentiva gli spari, e fiutava l’aria inquieta mentre Marco, stava lì, appoggiato ad un palo del portico con la sua bottiglia in mano a guardare il buio preoccupato.
Ad un certo punto sentì un brivido di freddo, si accorse che stava sudando, decise di cercare Jean che gli desse una guardata: la trovò vicino al fuoco, che parlava con delle donne…
Fece per avvicinarsi, ma tutto intorno a lui prese a girare vorticosamente e… cadde a terra come un sacco di patate.
Quando si svegliò, erano passati due giorni, stava a letto stanco e distrutto, debolissimo: Jean lo stava fissando.
-che… che mi è successo?
-Che sei stato febbricitante per due giorni: un attacco malarico, caro, mai fatta la profilassi?
-si, 4 anni fa…
-beh, era meglio che la rifacessi. Comunque sei fuori pericolo, ti abbiamo dato tanto di qual lariam che tutto insieme non s’era mai visto: ho dovuto farmene arrivare dai militari e ho chiesto a Frank di mandarmi qui un altro carico di antimalarici appena può.
-Grazie, ma ora ho da fare
Fece per alzarsi, ma crollò di nuovo sul letto come un sacco vuoto.
-non ci pensare nemmeno! Tu, almeno per una settimana non ti muovi di qui, guardati, sei pallido come un lenzuolo.
Jean lesse lo stupore negli occhi dell’italiano e in italiano:
-che ti credevi, guarda che sono scura anch’io, mi accorgo quando uno è pallido o… rosso…
Zulù arrossì di colpo, e stavolta arrossì ancora di più visto che sapeva che lei sapeva che…
-Lo vedi, come adesso… sei diventato rosso, ha ha ha…
-Minchia, Jean, sparisci!
La ragazza uscì dalla stanza e nel chiudere la porta, gli sorrise.
Marco resto a sentire il rumore dei passi che si allontanavano dalla sua stanza, poi chiuse gli occhi e s’addormentò.

CAP 7: L’ACCIARINO DEL SOLDATO

Per uno che negli ultimi dieci e passa anni ha vissuto nei cantieri dandosi da fare, l’immobilità è peggio della malattia: Zulù non vedeva l’ora di tornare alle sue faccende e a rimettere in piedi le strutture, ma Jean glielo impediva costantemente ‘per una settimana niente’, diceva…
Alla fine non ne potette più, si sentiva abbastanza in forze anche se lo scherzetto gli era costato quattro chili di peso, si alzò, preparò degli abiti puliti sul letto e andò verso il bagno del personale per farsi una doccia.
La doccia la si faceva con acqua piovana conservata in serbatoi sul tetto, non che la si potesse bere, ma lavarcisi, anche se non era da grand hotel, era comunque piacevole.
Si fece una doccia hollywoodiana per togliersi di dosso la sporcizia di cinque giorni, lasciò scorrere l’acqua appena tiepida sulla pelle e si sentì finalmente a posto.
Era appena entrato in camera, un asciugamano legato attorno alla vita quando la porta si aprì dietro di lui.
Si voltò; vide la porta richiudersi; Jean lo stava guardando con l’espressione di chi ha appena inghiottito un grosso boccone.
-io… avrei dovuto bussare… forse
Le era uscito dal cuore, in francese.
‘si, forse avresti dovuto… e adesso?’ , pensò Marco.
Poi, per effetto dell’istinto che, ogni tanto, prende il sopravvento, si avvicinò alla ragazza, la sua pelle nera, satinata disegnava un fisico praticamente perfetto, ancora più asciutto per la perdita di peso subita nel corso della malattia, gli occhi più neri del buio cercarono le piccole perle.
Restarono così per un tempo indefinito, poi lui la prese fra le braccia, senza dire nulla lei si lasciò sollevare da quella specie di gigante e si lasciò deporre sul letto.
Lui cominciò a spogliarla, lentamente, con metodo, sempre senza dire nulla: solo gli occhi rivelavano un desiderio sempre più grande, sempre più acceso.
Quando ebbe finito di spogliarla resto così, senza fiato ad osservarla ‘ mio Dio quanto è bella’, senza nemmeno sfiorarla, come per paura che se lo avesse fatto sarebbe svanita, fatta del tessuto dei sogni che dissolvono nella luce dell’alba.
Forse lei capì; gli sorrise, si sollevò quel tanto che bastava per poterlo baciare.
Si baciarono tantissimo, una lunga pioggia di baci che non voleva saperne di finire mai…
Poi lei gli tolse l’asciugamano dai fianchi, scoprendo un membro duro e grosso e pronto.
S’accucciò sulle lenzuola, gli lanciò un’occhiata di fuoco nero e lo prese fra le labbra.
Non era una dea del sesso orale, Jean: una pratica che, in fondo, non amava realmente, ma ci sapeva fare quanto basta per far felice un uomo.
Cominciò ad andare su e giù con dedizione.
Zulù dopo un po’ la fermò, la sollevò come se fosse un peluche, si sdraiò sul letto e se la fece accomodare sopra, nella classica posizione del 69 e cominciò a darsi da fare.
Almeno inizialmente, lei tentò di riprendere a succhiare, ma quella lingua fra le gambe la mandò in breve in un mondo parallelo.
Alla fine, tolto l’uccello di bocca, si trovò mugugnante a contorcersi di piacere… fino a venire con un urlo strozzato.
Allora lui le montò sopra, la penetrò forzandola un po’, ma la resistenza fu poca, nonostante le dimensioni, perchè era bagnata come la pioggia, e cominciò a sbatterla sempre più forte.
Jean non capiva più niente, forse avrebbe voluto partecipare più attivamente, ma il piacere che quell’uomo le stava infondendo le annebbiava completamente il cervello.
Venne per la seconda volta, gridando più intensamente.
Zulù rallentò un attimo e lei ne approfittò, fece leva con l’anca e riuscì a farli rotolare e a trovarsi sopra: si sedette sopra di lui e cominciò a scoparlo roteando il bacino.
Di tanto in tanto stringeva forte i muscoli per strappare da quel grosso membro di ramo ogni possibile briciola di piacere.
Marco non sarebbe durato ancora molto, lo sapeva e voleva riprendere le redini del gioco, ma lei tendendosi tutta gli impedì di muoversi.
E fece una cosa che nessuna donna, a Marco, aveva fatto mai.
Mentre roteava il bacino, s’infilò le dita nella fighetta bagnatissima; se le passò sul buchetto, ripetutamente.
Poi, dopo aver lanciato uno sguardo a Marco che voleva dire ‘guarda cosa faccio adesso’, si sfilò da lui, si spostò un po’ più avanti e cominciò a farselo scivolare nel culo.
Lentamente, sentì che quel coso la stava aprendo come non l’avevano aperta mai lì, sentì del dolore, anche perchè la lubrificazione non era molta, ma sopportò e centimetro dopo centimetro lo pigliò tutto fino in fondo.
Marcò restò senza fiato, sentiva il cazzo stretto da quel culo in cui la ragazza lo aveva fatto entrare a fatica: sentì che sarebbe durato pochissimo.
Ma lei fece di tutto per farlo durare ancora un po’: saliva e scendeva lentamente, sculettava dolcemente ed ogni tanto stringeva il buco per dare all’uomo e a sè stessa una scarica di piacere intenso.
Sentì montare dentro di sè il terzo orgasmo, allora si decise a saltare su e giù con maggior forza e vigore.
Marcò crollò prima di lei: le riversò dentro una mezza dozzina di schizzi intensi e bollenti; quando Jean percepì il calore liquido dentro di lei, venne intensamente e finì lunga e distesa su Zulù, ancora impalata dietro sul suo uccello.

-Ce ne hai messo di tempo… mi sa che non è più vero che gli italiani lo fanno meglio
Stavano bevendo un po’ di caffè nero, appena s’erano rivestiti…
Marco arrossì:
-beh… non so, forse se non fossi entrata senza bussare nemmeno ci avrei provato… sei… sei…
Jean lo guardò da sopra la tazza del caffè.
-sono?
– Sei troppo bella, più di qualsiasi altra donna che abbia mai visto, qui o in Italia, in tutta la mia vita.
Le tolse delicatamente la tazza del caffè dalle mani e la baciò dolcemente.

Marco riprese le sue attività e riuscì anche sistemare il campo e le strutture meglio di prima e per un po’ di tempo le cose filarono lisce.
Spesso, di notte Jean veniva a trovarlo: facevano l’amore intensamente, ma dolcemente.
Niente più sesso anale, ma spesso lei lo cavalcava strappandogli un piacere intenso e caldo…
E lui la lasciava fare, sempre più innamorato di quella donna che gli era entrata dentro, come non gli capitava più dai tempi di Trieste.
Ma spesso, quando avevano finito, e stavano a carezzarsi e baciarsi dolcemente come due fidanzatini, gli spari nella foresta li facevano sobbalzare.
-sono sempre più vicini: è da un po’ che li tengo d’occhio. Anche Stria è sempre più nervosa…
-Ma c’è l’armistizio, e ci sono le truppe dell’ONU…
-I pakistani sono bravi ragazzi, ma sono pochi: se quei pazzi là fuori decidono di riprendere a sparare alla gente e a farsi a pezzi col machete, potranno fare ben poco.
Una notte gli spari si fecero vicini, intensi e, soprattutto non erano più sporadici, erano costanti.
Per due notti ancora si ripetè la sarabanda di spari: la mattina del terzo giorno comparvero due camionette dell’ONU.
Marco stava in veranda, era metà mattina e stava facendo una pausa bevendo un po’ di thé molto zuccherato, Jean lo aveva appena raggiunto.
-Salla’m alleykum
-Wa alleykum sall’am, signore.
Davanti a loro, stava un ufficiale pakistano, tuta mimetica e basco azzurro, baffetti alla Chaplin, alto circa un metro e sessanta, sui quarantacinque d’età.
-sono il maggiore Latif Muhammad A’ly al Raysuly, comandante della guarnigione pakistana.
-buongiorno maggiore, io sono Marco Fabbron e questa è la dottoressa Jean Duval, gestiamo questo campo per conto della… cosa possiamo fare per voi?
Il maggiore si guardò intorno, indicò le camionette e i suoi uomini, tutti giovani, che il più anziano non arrivava a venticinque anni:
– Mollare tutto e venire con noi.
– Molare tutto? Come sarebbe a dire molare tutto? Noi abbiamo da fare qui!
Marco fece cenno a Jean di tacere e di lasciare parlare lui:
– Perchè dovremmo venire con voi?

Il maggiore si accomodò su una sedia:

– L’accordo di tregua è saltato: da una settimana sono ripresi gli scontri, ed ora la guerriglia è intenzionata a saldare i conti in sospeso: sono poco lontani da qui, se vi trovano vi fanno a pezzi.
– E l’esercito regolare?
Il militare sorrise beffardo:
-non faccia affidamento su quella gentaglia mister Fébron: sono male armati e peggio motivati, spesso sono ubriachi fradici, i più disertano davanti al nemico. Sono convinti che i guerriglieri siano protetti dai demoni della giungla e siano invulnerabili alle pallottole. Del resto pure i guerriglieri si credono immortali.
-si credono immortali?
Marco l’aveva chiesto al pakistano, ma Jean fu più veloce:
-Si, Zulù: sono pieni di droga fino ai capelli, si credono invincibili e invulnerabili, immortali, pensano che i demoni della giungla li proteggano. E sotto l’effetto degli stupefacenti fanno cose che non ti puoi nemmeno immaginare: stupri brutali, gente fatta a pezzi e poi mangiata, feti strappati dal ventre squartato delle madri, ed altri orrori del genere.
Marco avrebbe voluto dire che no, che non poteva essere vero…
– La doctora ha ragione, mister Fébron: fanno queste cose veramente. Dovete andarvene.
– E naturalmente portate via anche la gente dell’ospedale, vero?

Stavolta Latif Muhammad A’ly al Raysuly si fece serio:

-no doctora: solo voi, forse gli infermieri congolesi, ma nessun altro, non sapremmo dove metterli.

-Allora è escluso, da qui non ci muoviamo!

-Miss Duval, per favore, cerchi di ragionare: fra pochi giorni saranno qui, vi uccideranno…

-Senta maggiore, facciamo così: manderemo un messaggio al quartier generale della nostra organizzazione, nel giro di qualche giorno organizzeranno un punto di raccolta d’emergenza, a quel punto verrete a prenderci. Ci dia una settimana di tempo.

Il pakistano scosse la testa:
– No mister Fébron, quanto lei mi chiede è impossibile.
– Senta noi…

Ancora una volta Marco zittì la ragazza:
-cinque giorni, maggiore, le giuro che sistemeremo tutto in cinque giorni poi ce ne andremo.

L’ufficiale avrebbe voluto replicare ma capì che quella gente credeva veramente in ciò che faceva, quello strano europeo nero e la dottoressa mulatta non avrebbero mai accettato di andarsene.

-Ok. Ok mister Fébron; cinque giorni, non uno di più. Se per allora non sarete a posto, vi trascineremo via con la forza, sta bene?
-Sta bene, maggiore, grazie.
– Non mi ringraziate: saranno cinque giorni molto pesanti, mi creda, e molto pericolosi. Che Allah vi protegga.

Zulù e Jean, tramite il telefono satellitare riuscirono ad avvertire Frank il quale, scomodando mezza Africa riuscì ad ottenere che una ONG americana accettasse di farsi carico dei degenti dell’ospedale,provvisoriamente, a duecento chilometri ad ovest della città, in zona ancora sicura.
Non sapevano come Frank avesse fatto, ma gli americani furono eccezionali: mandarono anche un camion, beh camion era una parola grossa per quella carretta tenuta insieme col fil di ferro, per trasportare la gente nel campo provvisorio.
Ci vollero più viaggi, ma a un po’ per volta svuotarono il campo…
Ma non completamente…
Nel campo restavano ancora dodici degenti, due degli infermieri congolesi più Marco e Jean, erano passati tre giorni.
Ormai gli spari e i colpi di mortaio si sentivano senza sosta, ma quel giorno alcuni colpi caddero a poche decine di metri dall’ospedale e nella notte si sentivano anche gli schiamazzi dei bivacchi dei guerriglieri, paurosamente vicini.
-Non abbiamo più tempo Jean: devo andare dai pakistani e convincere il maggiore a venire e portarci via tutti, noi e i pazienti
Jean lo guardava preoccupata, lei che ne aveva viste di tutti colori, per la prima volta in vita sua, aveva paura di morire.
Sapeva che se l’avessero presa viva, la morte sarebbe stato il meno dei problemi.
-non ci andare, sono vicini, ti possono prendere, e poi qui come facciamo?
-facciamo che hai ancora due uomini qui con te, se non vado non ne usciamo vivi.

Jean provò a convincerlo a non andare, ma alla fine Marco la spuntò.
Prese lo zaino con acqua un po’ di cibo, la cassetta del pronto soccorso, una torcia, le batterie di ricambio, il coltello.
Caricò lo zaino sul fuoristrada grigio, prese con sè Stria, baciò per l’ultima volta la più bella dottoressa d’ Africa e parti alla volta del campo ONU.

-E’ escluso Mr. Fébron: io vi faccio venire a prendere anche subito, ma dei pazienti non posso farmi carico.
Da mezzora Zulù stava tentando di argomentare per convincere l’ufficiale pakistano.
-cazzo maggiore! Non abbiamo rischiato la pelle fino adesso per lasciare crepare quella gente, la dottoressa Duval è qui da cinque anni, ha curato tutti a rischio della vita…
– la doctora Duval… io posso fare che non rischi più ma non posso fare nulla per i pazienti, non ho i mezzi.
-Ma…
-niente ma, Mr. Fébron: stanotte ho perso cinque uomini e una camionetta: vuole che le racconti in che stato ho trovato i corpi? Le darò una scorta, andrà al campo e caricherà la doctora e tornerete qui.
-Temo di non poterlo fare maggiore. Ci sono cose che valgono più della pelle, almeno della mia, io resterò là ad aspettare quelle bestie. Se non porta via anche i pazienti Jean… cioè, volevo dire, la dottoressa Duval, non se ne vorrà mai andare: la caricherò io di peso sulla vostra jeep, ma io resterò là.
Il maggiore lo fissò a lungo; versò del thé nero e bollente in due tazze e ne porse una a Marco:
-Jean… credo di aver capito…
-No, io intendevo dire…
Il maggiore lo fermò con un gesto della mano:
-so cosa intende dire Mr. Fébron, lei mi è simpatico, lo sa?
Ascolti, fino a domattina non posso veramente fare niente per voi, dovete resistere una notte, domani avrò qui da Kinshasa dei rinforzi e potremo venire a prendervi: lei, la doctora, i congolesi e tutti i pazienti che Allah li guardi. Ma fino a domani siete soli.
Marco guardò gli occhi di quell’uomo piccolo e tostissimo e capì perfettamente il significato di quelle parole.
-faremo del nostro meglio, maggiore, grazie.
Finì il thé, saltò in auto.
-Mr Fébron!
-Si?
-Prenda questa, le servirà, la sa usare?
Il maggiore gli porse una beretta calibro nove con un paio di caricatori ed uno già inserito.
-Grazie. Si, la so usare.

Appoggiata la pistola sul sedile del passeggero, riprese la strada del campo.
Quando fu a qualche chilometro di distanza vide del fumo che si alzava dalla foresta nella direzione dell’ospedale.
Accelerò, col presentimento che qualcosa stava andando storto ma fatta una curva, vide in lontananza un vecchio pick up sgangherato, con tanto di mitragliatrice sul tetto, alcuni uomini attorno, che bloccava la strada, a circa trecento metri di distanza.
Quegli uomini erano fatti o ubriachi perchè non videro il fuoristrada di Marco, nè s’accorsero dell’inchiodata e della retromarcia precipitosa dell’auto.
‘cazzo, un posto di blocco, hanno tagliato la strada fra il campo ONU e noi, adesso che cazzo faccio?’
Nascose la land rover in una cunetta a lato della strada, scaricò lo zaino e prese la via della foresta, Stria davanti a fiutare la pista.
‘è come quando cercavamo i cervi, io e Baldo’.
Scivolò lentamente nella giungla, procedendo a fatica, metro dopo metro, strisciando spesso nel fango e nella mota.
Stava procedendo così da due ore con grande sforzo quando, ormai in prossimità del campo, vide tre uomini di fronte a lui, nella foresta a non più di una ventina di metri di distanza.
Stria ringhiò, ma Zulù le afferrò il muso per zittirla, stettero lì il cane e l’uomo ad aspettare, pronti a vendere cara la pelle.
Attesero dieci lunghi minuti, poi i tre uomini sparirono nella giungla, verso nord.
Marco stava per riprendere il viaggio, quando avvertì un formicolio sulla coscia sinistra, abbassò lo sguardo e vide un enorme ragno, sarà stato di un buon mezzo chilo, che gli si stava arrampicando addosso.
Fece uno sforzo per vincere il disgusto, poi, lentamente, estrasse il lungo coltello dal fodero e usandolo come una spatola fece cadere il ragno a terra per poi tagliarlo in due con un colpo feroce del suo bowie.
Ripresero il cammino.
Ormai a limitare del campo sentirono delle urla acutissime.
-Cazzo, Stria, vai vai!
Il cane si lanciò avanti, Zulù lo seguì tentando di correre ma scivolando quasi ad ogni passo per la vegetazione disordinata e il fango sottostante.
Quando finalmente vide la luce della radura restò agghiacciato.
Vicino alla veranda dell’ospedale c’erano due uomini a terra, scomposti, uno era decapitato, vicino al cadavere si vedeva una vecchia doppietta.
Qualche metro più in là tre uomini stavano tentando di stuprare Jean: due la tenevano e un terzo le strappava i vestiti di dosso.
La ragazza era già mezza nuda e resisteva come una tigre, tentando di scalciare e urlando come una pazza, ma il farabutto tra un vestito strappato e l’altro la riempiva di pugni.
L’ultimo pugno fece perdere i sensi a Jean, ma fu anche l’ultimo che l’aggressore riuscì a sferrarle: Stria si lanciò su di lui in piena corsa e questo finì a terra tentando di proteggersi il volto e il collo dai morsi del cane.
Uno degli altri due allora prese il machete e fece per colpire Stria, ma sentì un dolore caldo alla spalla sinistra.
Si voltò e vide un gigante nero che correva con una pistola in mano: il terzo complice diede un calcio al cane, che rimase tramortito, poi i tre scapparono nella giungla.
Marco sparò alcuni colpi dietro di loro, ma fu tutto inutile.
Jean era una maschera tumefatta, i due infermieri congolesi erano stati uccisi, c’era sangue dappertutto.
Marco trascinò Jean nell’ospedale e cercò di medicarla, la ragazza era sotto choc e piangeva continuamente, seppellì in qualche modo i due congolesi, testa mozzata compresa, sforzandosi di non vomitare, prese la doppietta, la pistola e il coltello, sprangò tutte la porte e le finestre e si apprestò ad attendere la notte.
La ‘visita parenti’ cominciò attorno a mezzanotte: urla, fuochi e spari di armi automatiche.
Marco ordinò a tutti i pazienti di stare sotto al letto e di non avvicinarsi alle finestre per nessun motivo, prese Jean e le fece ingoiare abbastanza valium da stordire un toro, poi la chiuse nello sgabuzzino degli attrezzi nascosta sotto a dei teli.
I proiettili a fondo corsa cominciarono a battere sulle imposte delle finestre.
Poteva vedere le ombre nella notte di Luna piena: erano vicini, tenevano in mano delle torce.
Marco ogni tanto alzava lo sguardo, sparava qualche colpo in rapida successione, allora le torce si allontanavano.
Alle due i colpi della beretta erano finiti.
Prese la doppietta, aveva a disposizione una manciata di colpi, pallini da caccia, non certo adatti ad ammazzare un uomo.
Ma quelli la fuori non lo sanno, pensò…
Sentì ancora dei passi di corsa venire verso la sua finestra, contò mentalmente ‘uno, due, tre, quattro’, al cinque si alzò di scatto e sparò in sequenza i due colpi della doppietta.
Vide la torcia cadere a terra, un uomo piegarsi in due e tornare indietro zoppicando.
Ricaricò e sparò altri due colpi.
Ne restavano solo altri due.
Sentì delle raffiche ravvicinate, poi sentì chiaramente dei colpi di mortaio in lontananza.
Poi il silenzio.
Per oltre un’ora non ci furono altri tentativi di assalto.
Alle tre e trenta sentì un rumore fortissimo, la porta era stata sfondata: Zulù si rese conto di essersi appisolato, vinto dalla tensione e non si era accorto che degli uomini erano riusciti ad avvicinarsi così tanto, il suo cane era già in piedi ringhiante.
Vide comparire nell’anticamera una figura scura con un machete in mano: prese la doppietta e fece fuoco.
Inavvertitamente aveva premuto entrambi i grilletti, scaricando contro la figura entrambe le cartucce.
Sentì un urlo, e vide l’ombra portarsi le mani al volto, poi, barcollando, scappare da dove era venuta.
Ne entrarono altri due, Marco ne stese uno con la doppietta usata a mo’ di bastone, picchiando una legnata furibonda sul viso dell’aggressore che stramazzò al suolo.
Il secondo fu buttato a terra da Stria che tentò di azzannarlo alla gola, ma senza riuscirci poichè l’uomo si difendeva con gli avambracci.
Entrò un terzo uomo, machete alla mano, sguardo invasato, urlando in maniera agghiacciante.
Marco aveva nel frattempo messo mano al coltello, ma il nuovo arrivato gli sferrò un colpo di machete che tentò di parare finendo a terra per la violenza della botta.
Il coltello, per il colpo, era volato ad un metro e mezzo da Marco.
Stria lasciò la sua preda e si gettò sul tipo col machete, azzannandogli il braccio armato: quello mollò la lama e tentò di divincolarsi.
Quello che era stato in precedenza assalito dal cane, riuscì a rialzarsi e afferrato il machete del compagno sferrò un terribile fendente a Stria.
La colpì sulla schiena, tagliandola quasi in due…
Marco urlò e preso il coltello da terra si lanciò in avanti, inciampò nell’uomo che aveva ancora il cane attaccato al braccio.
Quello col machete vide Marco a terra e alzò la lama per finirlo, ma Zulù fu più veloce: con la forza della disperazione spinse la lama del grosso bowie nella coscia sinistra dell’uomo armato.
La grossa lama affondò nella coscia, il dorso rivolto verso l’osso, il filo della lama recise di netto l’arteria femorale.
Marco vide un getto di sangue potentissimo schizzare fin sulla parete opposta imbrattandola per metà.
Poi lo sguardo dell’uomo si fece di nebbia e crollò a terra.
L’altro s’era liberato del cane, gettato a terra come un pupazzo di pezza, ma non riuscì a fare nulla, Marco, raccolta la doppietta da terra la pestò più e più volte sulla testa del guerrigliero, fino a che non vide il cranio spaccarsi.
Raccolse Stria che ancora respirava, per qualche lunghissimo secondo si guardarono, poi un brivido si portò via il cane.
Zulù urlò come un animale sgozzato, ripetutamente, poi pianse…
Infine si accasciò contro la parete ad aspettare la morte.

Ma la morte non arrivò: probabilmente i guerriglieri avevano ritenuto che le perdite fossero state troppe e avevano lasciato il campo, non prima di aver rubato tutto quello che si poteva e incendiato le due baracche vuote.

Marco fu svegliato dal maggiore pakistano:
– Si svegli, Mr. Fébron, si svegli! Dov’è la doctora? E gli infermieri?
– La doctora? Jean!

Marco scattò come una molla e si diresse allo sgabuzzino: Jean era sveglia, ma terribilmente intontita.
L’ufficiale lo aveva seguito, fece cenno a due dei suoi di prendersi cura della donna.
-gli infermieri sono stati uccisi, maggiore: li ho sepolti io.
Il maggiore fece cenno di comprensione.
-Come sta Mr. Fébron?
-Di merda, grazie: ero sicuro di morire maggiore. Mi ha salvato il mio cane, guardi cosa le hanno fatto!
Ancora una volta l’ufficiale annuì.
Uno dei suoi uomini aveva portato fuori il guerrigliero che Marco aveva steso con la doppietta: si sentirono due colpi di pistola.
Zulù guardò stupito il maggiore…
-non posso fare prigionieri, Mr. Fébron, e fossi in lei non mi dispiacerei più di tanto.
I militari pakistani caricarono tutti i degenti e anche Jean:
-Zulù… stai bene? E i malati?
-stanno bene Jean, tutti bene, il maggiore vi porta tutti da lui, starete bene.
-e gli infermieri?
Marco abbassò gli occhi.
-non ho fatto in tempo.
Jean singhiozzò sommessamente, Marco le prese la testa vicino a sè.
-Finisco di sistemare qui, poi vengo anch’io.
Marco mise fuori uso i generatori a gasolio, almeno quelli che erano rimasti perchè non cadessero in mano ai ribelli.
Poi prese tutti i documenti dell’ associazione e li fece a pezzi, li mise su una catasta di vecchi pallets e legna, vi adagiò sopra il cadavere di Stria avvolto in un lenzuolo.
Prese dell’alcool e del gasolio e di versò sulla catasta.
Vide che uno dei soldati pakistani aveva con sè un acciarino:
-Excuse me Sir, may I have your mag lighter?
Ma quello rispose malamente:
-è solo un cane, non sprechiamo fuoco per una bestia.
Marco si lanciò sul soldato, lo afferrò al collo e cominciò a stringere, stringere, stringere.
L’uomo diventò paonazzo, stava per soffocare, e afferrò la baionetta con l’intento di sventrare il nero.
Latif Muhammad vide la scena:
-Mr. Fébron, fermo!, fermo o sono costretto a sparare!
Marco mollò la presa e vide l’ufficiale che impugnava la pistola d’ordinanza col braccio parallelo al corpo.
Poi urlò qualcosa in urdu al suo soldato e questi gli lanciò l’acciarino.
Il maggiore si avvicinò alla catasta, fece brillare alcune scintille e appiccò il fuoco.
-Non ci faccia caso Mr. Fébron: i miei uomini sono musulmani, e i musulmani non amano i cani.
-quel cane mi ha salvato la vita maggiore, è morto per questo.
-capisco. Era un bravo cane.
-Già… lei non è musulmano?
-si, ma ho studiato a Sandhust: ho visto quanto voi europei siete legati ai vostri animali.
Stettero un po’ a guardare le fiamme che divoravano la catasta e il corpo del povero cane.
-va tutto bene Mr. Fébron?
Marco si voltò a fissare l’ufficiale:
– No, maggiore: ho ucciso due uomini stanotte. Un poeta del mio Paese una volta scrisse ‘se gli sparo in fronte o nel cuore non avrà tempo che di morire, ma a me il tempio resterà per vedere gli occhi di un uomo che muore’. Ha mai ucciso qualcuno maggiore?
Il calore delle fiamme faceva sudare i due uomini…
-Si, Mr. Fébron, mi è capitato quando ero fresco di accademia, nel Kashmir. Avevamo sconfinato per errore, per un mio errore, e le truppe indiane ci tesero un’imboscata.
Marco guardava le fiamme rosse.
-dovemmo difenderci, dovetti difendere i miei uomini: ci fu uno scontro a fuoco, uccisi un soldato indiano con un colpo di pistola, era arrivato a pochi metri dai miei soldati.
– Non aveva scelta, quindi.
-Forse, ma forse avrei dovuto studiare meglio le carte prima e non sconfinare: quel soldato era a casa sua, eravamo noi ad essere fuori posto.
Marco lo fissò con intensità ed annuì.
-forse avevo anche io un’altra scelta: avrei dovuto ascoltarla quando è venuto al qui la prima volta.
Latif sorrise e pose una mano sulla spalla di Zulù:
-no, non c’era un’altra scelta: se foste venuti via, quegli ammalati sarebbero stati fatti a pezzi. Non c’erano altre scelte: sei una brava persona Mr. Fébron.
Marcò annuì e sorrise.
-Mi lasci finire qui
-Come vuoi Mr. Fébron: lascio qui una jeep con quattro uomini, quando hai finito ti porteranno da noi. La vostra macchina l’abbiamo trovata crivellata di colpi.
Le fiamme si stavano lentamente abbassando.
-Che Allah ti protegga Mr. Fébron
-Che protegga anche te maggiore, posso chiedere un ultimo favore?
-certamente: di che si tratta?
-una telefonata col satellitare.
L’ufficiale urlò in urdu e un telefono satellitare comparve all’istante portato da un soldato.
Marco lo prese, si avvicinò un po’ alla catasta in fiamme, compose il numero.
-Pronto?
Riconobbe la voce di suo padre.
-Ciao Pa’, se non ricordo male è il tuo compleanno, vero?
-Marco?! Ma che sorpresa!, Come va figliolo?
Marco fissava le fiamme, sentiva gli occhi riempirsi di lacrime calde.
-va tutto bene Pa’, buon compleanno… fra poco torno a casa.
-quando?, quando torni?
Marco chiuse la comunicazione e lanciò il telefono al soldato.

CAP. 8: ZIO MAMBA

Frank sapeva già tutto, era stato informato di quanto era successo a Goma, sapeva della distruzione del campo e dell’intervento dei caschi blu.
Sapeva della bruttissima avventura dei suoi.
Marco aveva scelto di stare accanto a Jean per tutto il tempo che questa era rimasta in ospedale a Kinshasa.
Ne aveva avuto per due settimane.
I soldati pakistani avevano spedito i malati congolesi al campo della ONG americana, poi, con un C130 avevano spedito lui e la dottoressa francese nella capitale.
Lì la guerra civile sembrava lontana: quell’immensa metropoli era come quasi tutte le capitali d’Africa, un inno alla disuguaglianza sociale, calda e soffocante di giorno, pericolosa di notte.
Marco alloggiava in un residence di una catena alberghiera belga, in un buon quartiere, l’essere nero lo aiutava a muoversi senza attirare l’attenzione di malintenzionati.
Passava il giorno in ospedale con Jean e la sera vagava per la città fino a tarda notte…
Di notte, del resto, non riusciva più a dormire: ogni volta che chiudeva gli occhi si vedeva davanti la testa mozzata dell’infermiere e quello sguardo allucinato del tipo col machete.
Vedeva Stria morirle fra le braccia.
Risentiva le urla di Jean… ‘se arrivavo cinque minuti dopo…’.
Poi il sonno finalmente veniva, ma il mattino lo trovava più stanco della sera prima.

La luce filtrava dalle veneziane della sua stanza al residence, striando d’ombra la sua pelle e quella della donna che stava gemendo sotto di lui.
Le sue labbra la stavano divorando di baci; lei teneva gli occhi socchiusi dal piacere e sospirava ad ogni affondo.

Lui la sentì contrarre ed infine lasciarsi andare ad un orgasmo prolungato, quindi uscì da lei, non prima di averle dato un paio di spinte potentissime, si spinse all’altezza del suo viso e le appoggiò la punta alle labbra.
La donna aprì le labbra umide come fragole ricoperte di rugiada e se lo lasciò infilare dentro.
Ma lui non lo spinse tanto in fondo, prese a spingere in maniera ferma ma dolce scivolando su quella lingua di seta che lei, per agevolarlo, faceva in modo che fosse sempre a contatto con quel membro.
Durò qualche minuto, poi l’uomo si inarcò e le scaricò in bocca una buona quantità di liquido che lei inghiottì senza smettere di guardarlo.

-Vieni a Johannesburg con me… Frank non dirà di no…
Erano sdraiati sul letto, ancora nudi: la dottoressa era appena stata dimessa dall’ospedale e Zulù se l’era portata la residence ed erano finiti a letto un attimo dopo aver chiuso la porta.
Lei s’intristì, lo guardò dritto in volto:
-non posso venire a Soweto con te, Zulù, ne abbiamo già parlato in questi giorni. Il mio posto è qui, la mia gente è qui. Il mio lavoro è qui.
Marco lanciò un paio d’improperi in dialetto…
-il tuo posto è qui?! Ma cosa vuoi ottenere eh? Ma ti rendi conto che siamo vivi tutti e due per un semplice miracolo? Non ti ricordi cosa ti stavano facendo? Cosa ti avrebbero fatto se fossi arrivato soli cinque minuti dopo?

Jean voltò lo sguardo e le lacrime bagnarono i suoi occhi.
‘ che imbecille che sono!’ pensò…
L’abbracciò; la strinse a sè; prese a carezzarla dolcemente.
Poi le prese dolcemente il mento e la fece voltare verso di lui.
-Scusami, non volevo. Ho detto una cazzata.
Lo disse in italiano; in italiano lei gli rispose:
-Non fa niente. Ma io non posso venire.

Marco ci provò anche la settimana successiva a convincere la sua bella a venire con lui a Soweto, ma non ci fu niente da fare: un paio di volte litigarono anche di brutto.
Frank gli aveva procurato un biglietto aereo di linea per Johannesburg: la sera prima portò Jean in un ristorante francese elegante, perchè si sentisse a casa, poi fecero l’amore per tutta la notte.
La mattina dopo, con le occhiaie e il cuore a pezzi prese quall’aereo.

Frank lo attendeva all’aeroporto: fu gentile, lo accompagnò a casa, fece in modo che il frigorifero fosse pieno di roba da mangiare a e da bere.
Gli fece pure trovare una bottiglia di Teroldego ‘ come ci fosse riuscito era uno dei tanti misteri dell’olandese-.

-prenditi un paio di giorni di vacanza, poi parleremo… se vuoi…
-Frank… io…
-non mi dire niente, sarebbe affrettato: riposati, fai il turista, divertiti, vai a donne…
Frank vide un’ ombra passare nello sguardo dell’amico… e cpì d’aver detto qualcosa fuoriposto…
-beh, volevo dire… insomma… hai capito no? Ci vediamo fra un paio di giorni.

Marco lo prese in parola, almeno limitatamente al riposare e fare il turista: visitò la città come uno straniero in vacanza e cercò di dormire, compatibilmente con gli incubi.
Ma ogni volta che si distraeva un attimo, si trovava a pensare a Jean.
Si vedeva davanti quella pelle di velluto beige.
E quegli occhi piccoli e neri come due perle…
Le perle di Goma…
Il terzo giorno trovò il coraggio di andare dall’olandese:

-Frank, me ne torno a casa.
-Ma tu sei a casa, ragazzo mio!
-Frank, non mi prendere per il culo, hai capito benissimo cosa intendo: torno a casa, in Italia, a casa mia sulle montagne.
-Ma… parliamone, hai avuto una disavventura, ma… dai, vedrai che col tempo si sistema tutto… vedrai…
-Non vediamo niente Frank. E’ finita, me ne torno a casa.
L’olandese capì che stavolta Zulù faceva sul serio: quello che aveva vissuto a Goma era superiore alle sue capacità.
Quello che non sapeva era che in realtà Marco non stava fuggendo dalla morte che lo aveva sfiorato a Goma, ma dalla vita che da Goma e Kinshasa non aveva voluto seguirlo.
Dall’unica donna da anni che gli fosse entrata dentro…
-Ma tu dovevi formare il personale, come faccio adesso?
Frank aveva ragione, Marco lo sapeva, non poteva lasciarlo lì in braghe di tela…
-Ok Oom Frank, starò qui ancora tre mesi, vedi di farteli bastare: non un giorno di più.
Frank avrebbe voluto ribattere, al solito, che no, che tre mesi erano pochi e bla bla bla, ma capì che stavolta non avrebbe funzionato.
-Va bene, Marco: non ti posso costringere a stare qui se non vuoi: dovevi stare un anno e sei rimasto quasi cinque, un sacco di gente ti deve la possibilità di mandare i figli a scuola o di potersi curare in un posto decente e adeguato. Hai fatto tanto: tentare di averti qui ancora è puro egoismo. Resterai qui tre mesi, poi sarai libero di tornare alle tue montagne.
-Grazie Frank.
Frank sorrise un po’ triste, diede una pacca sulla spalla a Zulù e uscì dall’ufficio.

Era passato un mese dal ritorno di Marco dal Congo: per trenta giorni non aveva avuto nemmeno il tempo di fiatare.
Il lavoro era rimasto indietro da quando era partito per Goma e la prospettiva di avere solo tre mesi invece che un anno davanti, rese ancora più frenetica la sua attività.
Arrivava a sera stanco morto, si sedeva sulla panca sotto al pergolato, lattina di birra in mano, e spesso si scopriva a cercare Stria con lo sguardo…
‘Povera bestia…’.
Tirava lunghe sorsate e si sforzava di non pensarci.
Prima di partire, ogni tanto, riceveva la visita di un signore quasi settantenne, nero come lui, ma con la barba e i capelli bianchissimi, che a Marco ricordavano la copertina de ‘la capanna dello zio Tom’, di quando era alle elementari.
Quel vecchio signore faceva il tassista, lo aveva fatto sempre, anche in pieno apartheid,uno dei pochi a Soweto.
Lo chiamavano Zio Mamba, nonostante si chiamasse Joshua Inkelhe Lumumba.
Era stato militante dell’ANC, quando Mandela già era in prigione, aveva aderito alla lotta armata, s’era rifugiato in Mozambico, aveva fatto la guerriglia.
Poi una brutta ferita, la cattura, le torture…
La galera.
Era uscito di galera dieci anni prima, quando Mandela era ancora il prigioniero politico più famoso del mondo.
Aveva rinunciato alla lotta armata in cambio della grazia presidenziale.
Così era finito a Soweto a fare il tassista con una vecchia mercedes di quinta mano.
Zio Mamba aveva preso in simpatia Marco, fin dai primi tempi di Soweto, aveva anche scoperto che lo chiamavano Zulù, e così lo chiamava lui, gli aveva insegnato un po’ di Xhosa.
Ogni tanto Marco e Frank usavano Zio Mamba per portare gente o materiali, o per accompagnare qualcuno in aeroporto o viceversa.
Spesso poi Zio Mamba si fermava all’ombra del pergolato di Zulù.
-Uhé Zio Mamba, ti va una birretta gelata?
E stavano lì, a guardare la strada gustandosi la birra.
A volte parlavano: il vecchio chiedeva dell’Europa, dell’Italia…
E raccontava di quando faceva il guerrigliero, nella giungla del Mozambico.
-li ho visti morire tutti i miei compagni.
-Una sera le troppe sudafricane ci hanno stanato, erano settimane che ci davano la caccia:erano bene armati, equipaggiati di primordine, noi eravamo un branco di straccioni con poche pallottole, qualche fucile russo o cecoslovacco e un po’ di bombe a mano.
Ci hanno circondato;molti sono morti; molti ci hanno preso.
Il racconto finiva sempre lì e ricominciava con la grazia presidenziale: della prigione non voleva parlare mai.
Marco gli passava un’altra birra, e stavano allora in silenzio a sentire i rumori della sera australe.

Era passato un mese dal suo ritorno, Marco era seduto sotto al pergolato, la solita lattina in mano, quando Zio Mamba comparve al cancello:
-Ciao Zulù, posso entrare?
-Certo Zio, la porta è sempre aperta, vuoi una birra?
-Si, ma ci ho pensato io stavolta
E mostrò una cassa da sei.
Il vecchio entrò, si sedette sulla panca e scarto le lattine, ne prese una per sè ed un ala diede all’italiano.
Cominciarono a chiacchierare del più e del meno, della squadra di calcio di Soweto e di come cominciassero ad arrivare anche i turisti.
Era molto loquace Zio Mamba, troppo più del solito, e mai era capitato che la birra la portasse lui…
-Che c’è Zio? Non sei venuto qui per parlarmi di calcio e di turismo. E non s’è mai visto che portassi una lattina a casa mia, figurarsi una cassa da sei. So, what?
Avevano parlato in inglese fino ad allora, il vecchio passò allo Xhosa, segno che erano cose importanti quelle che aveva da dire:
-radio baracca dice che te ne vai…
Marco scostò lo sguardo
Zio Mamba annuì in silenzio, poi si chinò a prendere altre due lattine, ne aprì una e porse l’altra al giovane.
-allora è vero…
Marco accettò la lattina, la aprì, tirò una sorsata:
-Si, Zio Mamba. Si. Torno a casa.
-Torni a casa? Quale casa? Tu vivi qui.
-dai Zio, hai capito: torno in Italia, nel mio Paese.
-Nel tuo Paese, già…
-Si, nel mio Paese, perchè? Non è forse il mio Paese quello?
Zio mamba sorrise:
-Certo, certo… come no! Quel Paese dove ti scambiavano sempre per un clandestino? O forse era quello dove la tua donna non ti poteva portare a casa dai genitori?
Marco bevve a goccia la lattina e la stritolò con rabbia:
-fatti i cazzi tuoi Zio, non t’immischiare in cose che non ti riguardano. Stanne fuori.
Il vecchio gli porse un’altra lattina di birra.
-Già, hai ragione. In fondo noi non siamo la tua gente, anche se sei uguale a noi. Forse qui non ti trovi bene…
-Dai, smettila, lo sai che non è così: qui sto benissimo, solo… solo che…
-Solo che? E’ per quello che è successo in Congo?
-E tu come lo sai?
Un sorriso:
-Mio giovane amico, è il mio mestiere sapere le cose: mi ha salvato la pelle tante volte quando facevo il guerriero. Dunque, è per qualcosa che è successo a Goma?
Marco annui grave, abbassò il capo, poi guardò il vecchio Bantù dritto in faccia.
-Si, è così. E’ per quello che è successo a Goma.
Zio Mamba annuì e finì la sua lattina.
-Ho rischiato di morire, ho sparato a della gente, ho visto gente mutilata. Ho ucciso due uomini.
-Capisco: ma lo hai fatto per difendere della gente inerme, a volte succede in guerra.
-Ma io non sono in guerra con nessuno Zio. Io sono un geometra nato per caso qui, per caso cresciuto in Italia e faccio solo il mio lavoro. Io costruisco edifici, non faccio ‘il guerriero’ come dici tu.
-Già. Ma nessuno fa il guerriero per scelta: a volte le scelte le fanno gli altri.
Marco capiva che era stato così.
-Forse, ma questo non cambia niente.
Zio Mamba aprì l’ultima lattina:
-Capisco, quindi te ne andrai, quando?
-Fra due mesi: ho promesso a Frank che gli avrei dato una mano almeno a tamponare il casino che lascio andandomene.
-Bravo, hai fatto bene. Ma dimmi: la guerra non c’è qui, vero? Non ci sono i ribelli, vero?
-ma certo che no! Che cazzo stai cercando di dirmi?
-Beh, che se la guerra sta in Congo, e tu sei qui ma senti lo stesso che qualcosa non va, e tu non sei più là dove c’è la guerra… ecco…cosa ti fa pensare che la guerra non ti seguirà sulle tue montagne?
Marco stava per rispondere male, ma un flash nel cervello gli disse che Zio Mamba aveva ragione…
-Buonanotte Zulù grazie per la compagnia…
Dette una pacca sulla spalla a Marco poi, lentamente, s’avviò verso il cancello; mise in moto la mercedes scassata e sparì dopo un ultimo sorriso.

Passarono altre due settimane di lavoro intenso, ma quando veniva sera oltre ai fantasmi di Goma e al pensiero ricorrente di Jean sentiva le parole di Zio Mamba tormentarlo come un tarlo.
Alla fine si prese paio di giorni liberi e andò a trovare Padre Giacomo.

– Che sorpresa, Marco, sono contento di vederti, raccontami cosa stai facendo ora.
Il missionario lo aveva accolto come sempre con entusiasmo e l’immancabile teiera.
– sto facendo il formatore di personale locale.
– Bravo! Sono sicuro che sei la persona giusta e poi hai tanta esperienza ormai.
Marco era serio in viso.
-c’è qualcosa che non va?
Padre Giacomo s’era fatto più preoccupato, e lo fissava con la tazza in mano.
-Beh, vede padre… sono stato in Congo qualche mese e… beh, sono successe un sacco di cose.
Marco vuotò il sacco, parlò ininterrottamente per più di un’ora: raccontò dell’arrivo a Goma, della fatica per costruire le baracche, della cascata di fango…
Di quello che era successo la notte dell’attacco.
Raccontò di Jean e della sua bellezza da togliere il fiato, di quei suoi occhi di perla…
Il prete stette a sentire parola per parola, in rigoroso silenzio:
-per questo te ne vuoi andare?

Marco annuì:
-si padre, per questo: dimenticare tutto e finchè resterò qui non lo potrò fare. Ogni sera mi trovo a cercare il mio cane, ogni sera finisco per pensare a Jean: a volte mi sveglio di notte pensando di averla vicino. Ogni notte rivedo gli occhi di quell’uomo opachi prima di morire, e il sangue che schizza sulla parete.
-Anche Mosè uccise un uomo e scappò, ma non potè scappare da sè stesso e il Signore aveva un progetto per lui.
-Io non sono Mosè, padre: voglio tornare a casa.
Padre giacomo annuì, poi gli pose le mani sulle spalle:
-Capisco figliolo: se qui non ti senti più a tuo agio è bene che torni alla tua famiglia. Ma sappi che non avrai scontato la tua pena fino in fondo. Un giorno verrà che te ne renderai conto, ma sarai troppo vecchio per saldare i debiti.
-forse ha ragione. Ma ho deciso: torno in Italia. Grazie per avermi ascoltato.
-Di niente, è stato un piacere per me, come sempre: scrivimi ogni tanto dall’Italia.
-Certo, lo farò di sicuro.
– che Dio di benedica figliolo.
-Grazie padre, ne ho bisogno.
La visita al missionario non gli aveva portato serenità, anzi: ai fantasmi, ai pensieri, alle parole di Zio Mamba e ai giornalieri tentativi di Frank di fargli cambiare idea, si aggiungevano le parole del sacerdote, specie quelle sulla pena non scontata.
Così, fece quello che faceva sempre: lavorava, lavorava e quando aveva finito, passava ore a preparare il lavoro del giorno dopo.
Faceva in modo di arrivare a casa a notte inoltrata, tanto stando da riuscire a dormire come un sasso.

Erano ormai passati due mesi e mezzo dal suo rientro dal Congo, aveva già in tasca il biglietto aereo per l’Italia, aveva bruciato le tappe per cercare di aiutare il più possibile Frank a cavarsi d’impaccio.
Quel giorno aveva finito di lavorare un po’ prima del solito, era tornato a casa, s’era lavao e sbarbato e cambiato d’abito,s’era poi seduto sulla solita panca sotto al pergolato.
Aveva preso in mano il suo coltello ‘ da quella dannata notte non lo aveva più toccato- trovandolo scheggiato in più punti, soprattutto dove era stato colpito dal machete.
Prese la pietra diamantata, vi versò un po’d’acqua sopra e cominciò a restituirgli l’affilatura.
Era concentrato, si accorse dell’auto che si era fermata davanti al suo cancello solo quando questa ripartì.
Alzò lo sguardo nella luce del tramonto, vide la mercedes di Zio Mamba che ripartiva sputando fumo d’olio,il vecchio lo salutava con la mano.
Aveva lasciato un passeggero, il vecchio tassista, di fronte all’ingresso.
Nella luce aranciata la figura si voltò…
E lui vide due piccole perle nere di fra i capelli castano chiaro, sulla pelle di velluto.
La pietra gli sfuggì di mano; posò il coltello.
E sorrise.

Questo racconto è dedicato al mio amico Maurizio Barbini che nell’Africa australe la pelle l’ha rischiata veramente, e per questo è stato decorato con due medaglie.

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