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LETTERE DA COPENAGHEN – XXIV MIRABELLE, I DELFINI E LE STELLE MARINE

By 20 Novembre 2008Giugno 28th, 2021No Comments

Africa Coloniale Tedesca, 22 dicembre 1917.

Friedrich aveva sempre mille premure affettuose nei confronti della sua Mirabelle. Poteva passare un’intera giornata a coccolarla, baciarla, vezzeggiarla, lodare la sua bella chioma e le sue membra formose.
Il paradiso baciava le labbra dei due amanti, il paradiso li cullava, li univa nei suoi abbracci, il paradiso mormorava in loro e spirava nella brezza, che volava intorno, spargendo nell’etere tranquillo i suoi mille e mille profumi, che sapevano di una primavera felice e senza fine.
L’Europa era lontana, la rivedevamo nei nostri pensieri, lui la leggeva, la sognava negli occhi pensosi di lei, che brillavano d’Amburgo, di Parigi, di Amsterdam e di lievi follie amorose.
Mirabelle era diventata la sua Venezia, la sua Francia romantica e senza tempo, da godere, da toccare, da accarezzare, ella era morbida, come i suoi capelli, che avevano le fragranze del mare.
– Andremo a vedere i delfini, al largo ‘ gli dissi un giorno, sospirando d’amore in uno dei suoi orecchi.
Il nostro amico barcaiolo ci avrebbe fatti salire sulla sua chiatta, per poi condurci in alto mare. Era un negretto, cresciuto all’ombra delle palme, da una donna che non era sua madre. Si raccontava che costei lo avesse trovato nella tana dei leoni, che lo avevano svezzato. Accadeva anche questo, quaggiù, nel cuore dell’Africa.
Mi vestii come una signorina borghese, ricca e perbene: la gonna lunga, color crema, ornata di frange nere, il busto stretto, il petto leggermente scollato, le spalle nude, i guanti bianchi, che arrivavano fino al gomito e tanto risaltavano sulla mia blusa turchina. Tenevo in mano un ombrellino per signore, giallo, col manico d’avorio. I miei capelli erano raccolti in lunghe trecce e mi facevano assomigliare ad un manichino di porcellana.
– Partiremo con il treno delle vedove, quello che passa per la savana ‘ mormorai negli orecchi del mio Friedrich, che mi rispose con una risatina.
Mentre mi facevo aiutare dal mio uomo a salire sul vagone, impresa non facile dato che la scaletta era scivolosa e stretta, spiegavo a me stessa che il nome di quell’espresso era dovuto al fatto che un giorno aveva trasportato dieci vedove, di ritorno dalla città dopo avere appreso che i loro mariti erano morti al fronte, nella lontana Europa.
Al termine del viaggio, si provava la sensazione di essere deviati verso un binario morto. Era come andare verso la fine di tutto. Io mi dicevo che quel tragitto assomigliava vagamente alla vita: all’inizio tutto era interessante, divertente e giocoso, poi arrivavano le noie ed i fastidi, che erano destinati a cedere il passo alle malinconie della fine. Forse, succedeva perché così facendo ci si allontanava dal paradiso.
Il negretto barcaiolo si chiamava Albert. Questo era il suo nome europeo; quello in lingua originale aveva il sapore della luna e della pioggia, della siccità e del diluvio equatoriale, delle scimmie che urlavano sugli alberi e delle pantere che ruggivano nella giungla impenetrabile.
La leggenda narrava che i suoi genitori lo avessero concepito fra le rocce di una cascata, durante una notte di plenilunio, per poi essere costretti a separarsi, in quanto ciascuno faceva parte di una tribù che, per motivi magici, non poteva mescolare il proprio sangue con quello dell’altra. Ma gli stregoni mascherati si accorsero di quell’accoppiamento sessuale, consumato contro le antiche usanze tribali e fecero piangere il sole e tutte le stelle. Fu così che gli amanti non poterono più incontrarsi e la negra partorì il frutto delle proprie viscere in una grotta, abitata dal Leone Saggio. Costui, insieme alla sua sposa, crebbe il piccolo africano fino a quando un’altra donna non poté occuparsi di lui. E gli insegnò a ruggire, a lottare, a vivere senza voltarsi verso il passato e a fecondare, così come la pioggia feconda la terra dopo il fuoco delle estati.
Albert venne a prenderci alla stazione di legno, in sella al suo asinello, che trasportava borracce d’acqua. La spiaggia e le sue sabbie non erano lontane. Il negretto ci fece salire sul suo modesto destriero ed egli ci seguì a piedi, fino al mare. Avremmo pernottato nella sua capanna di paglia, per poi salpare l’indomani, all’alba.
Dalle fredde acque marine saliva una nebbia leggera, che però non sapeva d’Europa, bensì d’Africa e d’oceano. Voi non sapete, oh, davvero, voi non sapete quale fosse il suono languido e fatato che veniva da quei flutti tempestosi, che si abbattevano sulla costa! Era un sospiro che inebriava, era l’estasi che parlava al tormento, era il pianto appassionato di una sposa che ha perduto il suo amato.
La chiatta era di legno, il negro l’aveva ormeggiata presso uno scoglio. Gliel’aveva riparata di recente il venditore di ancore, perché, sapete, aveva dovuto affrontare una tempesta.
– Il tempo sarà bello! ‘ dissi, mettendomi a prua e riparandomi dal sole con l’ombrellino, mentre facevo delle segnalazioni verso la spiaggia con il mio fazzoletto bianco, come per salutare qualcuno.
Avevo sognato le stelle marine, sì. Lo dissi a Friedrich, che rimase ad ascoltarmi tutto attento e quasi commosso.
– Questo non essere tratto di mare da balene ‘ spiegò ad un tratto il marinaio di colore. ‘ Essere tratto di mare da delfini e da meraviglie!
E rideva, dicendolo, mostrandoci i suoi grandi denti bianchi, che brillavano nel sole, insieme a tutta la sua allegria. Sembrava un paradiso. Io però provai del timore, tanto che chiesi alla nostra guida se vi fossero dei serpenti di mare. Ma l’altro mi rispose che quelli erano poco più che un mito e lui non ne aveva mai visti, da quelle parti.
Poi, avvistammo i delfini. Ne vidi più di due dozzine: erano turchini, balzavano sull’acqua, come per salutarci e le loro pinne sembravano ali fatate. Volli chiamarli per nome, come se fossero stati figli miei. Mi chinai e misi la mano nell’acqua, per accarezzarli. Alcuni si avvicinarono a me e si lasciarono toccare. Erano così cari e buoni!
Ad un tratto, provai una stretta al cuore, perché ebbi la sensazione che la chiatta urtasse qualcosa, il mio Friedrich cadesse in acqua e arrivasse uno squalo, che spalancava le sue fauci gigantesche e si preparava a divorarlo. Poi, un grido, il sangue.
– Friedrich! ‘ urlai disperata, con tutte le mie forze.
Ma era solo un’illusione dei miei occhi. Quando me ne accorsi, risi della fantasia di Mirabelle, mentre un raggio di sole illuminava la mia felicità, per poi scintillare sui flutti dorati.

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