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LETTERE DA COPENAGHEN – XXVII I PAESAGGI BIANCHI DELL’INVERNO

By 24 Novembre 2008Giugno 28th, 2021No Comments

Africa Coloniale Tedesca, 27 dicembre 1917.

Di tanto in tanto, contemplavo in me stessa le passeggiate nelle campagne presso Amburgo. Erano passeggiate d’inverno, vissute mano nella mano con il mio amato, il mio adorato Friedrich.
Allora, anche l’amore aveva un nome, così come lo avevano i passerotti canori che abitavano nei rovi, i pettirossi intirizziti, che cantavano alla luna, i mulini a vento abbandonati, che affollavano come fantasmi le spiagge lontane, bagnate dal Mare del Nord.
Talvolta, capitava che piangessi, ma di felicità. Lo facevo quando prendevo in mano manciate di neve e le sentivo fredde e leggere sulla mia pelle.
Poche ore dopo il mezzogiorno, il sole era crepuscolare. Lo si vedeva rossastro e basso, mal celato dietro i rami spogli degli alberi e dei cespugli, scossi dal vento lieve.
Qua e là, si scorgevano come delle piccole pozze d’acqua, che sembravano degli stagni: era la neve che aveva ceduto alle tiepide carezze dell’astro del giorno. Alle mie spalle avevo i tetti di Amburgo, offuscati e lontani. Sorridevo.
Man mano ci si appressava alla sera, il paesaggio diventava blu, si accendeva di luci dorate e turchine, vaghe, s’udivano i suoni del tardo meriggio d’inverno. Erano voci di brezza, cigolii d’usci di case abbandonate, scricchiolii di pale di mulini a vento, rumori di passi felpati e lontani, di vetture grigie, che passavano lungo la strada di sassi che costeggiava l’argine grande.
Io parlavo d’amore al mio Friedrich e ricevevo in cambio degli sguardi inebriati di passione.
Poteva accadere che un cigno o un’oca selvatica atterrasse alle mie spalle e si mettesse a giocare con me, facendo la virgola con il suo lungo collo e aprendo e chiudendo il suo grosso becco maestoso. Io lo imitavo muovendo giocosamente la mia mano.
Il volatile apriva e chiudeva le sue grandi ali, come per sgranchirsi dopo un lungo viaggio. Talvolta, faceva sentire il suo verso, che era selvatico ed ispirava tanta malinconia.
Quando mi avvicinavo a Friedrich, con le guance rosse per il freddo, egli mi stringeva forte e faceva il possibile per riscaldarmi. Sapevamo entrambi che non sarebbe durato per sempre, che la vita non era soltanto felicità’ I fantasmi dell’inverno ci ululavano e ci danzavano intorno.
Mi sembrava di vederli. Erano abbigliati con lenzuoli bianchi, volavano sopra i rovi irti di spine, alzavano le mani e le braccia al cielo, urlavano i nostri nomi, mentre io e Friedrich stavamo abbracciati vicino agli stagni, fatti di nevi sciolte dai deboli tepori del meriggio. Di lì a poco, sarebbe ritornato il gelo.
– Ti porteremo con noi, Mirabelle! ‘ mi diceva sempre uno di essi. ‘ Presto, ti verremo a prendere e verrai con noi, lontano da questa terra! Giocheremo insieme per sempre!
Era come se fossero stati i miei fratelli, i miei fratelli’ Allora, udendoli, io mi ripetevo che presto sarebbero spuntati i fiori di primavera. Sarebbe accaduto presto, sì, tanto, tanto presto.
– Verrò con voi un giorno, fratellini cari ‘ sussurravo loro. ‘ Verrò per riabbracciarvi.
Poi, svanivano, lasciandomi sola col mio amante, mentre il cuore mi batteva forte nel petto. Una ad una, si accendevano le stelle della notte.
Un pomeriggio, nei campi fecondati dall’inverno, Friedrich strinse forte tra le sue braccia la sua Mirabelle, che gli dichiarò il suo amore, più e più volte. Poi, lei inciampò e cadde dolcemente all’indietro, senza farsi male, con lui tra le braccia. I due amanti presero a ruzzolare sulla neve, allegramente, affettuosamente, dandosi dei baci ardenti sulla bocca, i loro cappotti erano bianchi, candidi, come quel suolo incantato. Da una torre campanaria lontana giunse loro un’eco di bronzo, che annunziava che ore fossero. Eppure, per i due innamorati, era come se il tempo non esistesse più. Passato e futuro si rincorrevano, in un gioco d’inverno, sì, d’inverno, d’inverno.
Una volta, mi chinai al suolo, in prossimità di uno stagno gelato. A destra e a manca, crescevano vecchie siepi senza foglie. V’era persino un pungitopo. Attorno a me, vidi innumerevoli sassi. Ve n’erano di azzurri, di rossi, di bianchi, di grigi, di giallastri. Fu come se mi parlassero. Ognuno di essi mi narrava la sua storia, ciascuno portava un nome, un amato nome, datogli dall’inverno.
Nelle loro vite precedenti, alcuni di quegli esseri inanimati erano stati vagabondi, principi, fate o stregoni. Poi, la mano del destino li aveva trasformati tutti in pietre tristi.
Il sole del meriggio accarezzava la pelle, sì. Io e il mio amato, a volte, ci spingevamo fin sulla costa o in prossimità di essa. Il cuore mi si stringeva quando vedevo passare di lontano una grande nave mercantile, tutta di ferro, o così mi sembrava. Era grande, immensa, alta quanto un palazzo. Recava il suo nome dipinto a grandi lettere sullo scafo, vicino a dove avevano scritto la sua destinazione: una città dell’Europa o del Nuovo Mondo. Qualche marinaio faceva delle segnalazioni strane verso la costa; poi, quell’apparizione svaniva, nelle foschie che avvolgevano l’orizzonte nordico e fatato. Era come se partissi anch’io.
– Moriremo un giorno? ‘ sussurravo teneramente al mio amico del cuore. ‘ Gli esseri umani vivono, soffrono e poi muoiono’ Dimmi che non &egrave vero, ti prego, dimmi che non &egrave così!
Ma egli non mi rispondeva, chinava il capo e taceva. Io vedevo luccicare forte i bottoni dorati della sua giacca’
Avreste dovuto vedere i grandi campi di colza, pieni di giallo e di verde, oh! Purtroppo si potevano ammirare soltanto nella stagione calda e non in quell’epoca di nebbie e di gabbiani.
Ricordo che in quel tempo d’inverno la mia relazione sessuale con Friedrich era idilliaca. Egli mi accarezzava appena e mi riscaldava con le sue coccole infinite e bollenti di passione. Era un rapporto fatto di baci sulle labbra, di sussurri affettuosi, di mani che si stringevano teneramente e dolcemente, di capelli morbidi che sfioravano le spalle larghe di lui, di membra che si toccavano nel blu di quelle nevi.
Una volta, il mio tesoro si scostò da me per un istante e io mi addormentai sulla coltre bianca, nelle campagne di Amburgo. Poco dopo, udii improvvisamente:
– Buuh’ Buuuuh’ Buuuuuh!
Fui risvegliata dal vento, che mi apparve sotto le sembianze di un contadino pazzo, che teneva il forcone in spalla e portava una maschera di latta sul volto. Mi disse che abitava nella fattoria diroccata, non lontano dai faggi grandi, suoi fratelli.
Io gli chiesi quale fosse il suo nome, il suo vero nome. Ma egli non mi rispose e disparve.

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