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LETTERE DA COPENAGHEN – XXVIII MIRABELLE E IL FOCHISTA

By 25 Novembre 2008Giugno 28th, 2021No Comments

Africa Coloniale Tedesca, 27 dicembre 1917.

Mi parve di sognare un giorno d’inverno molto freddo, ad Amburgo. Era come se la mia felicità si fosse infranta. Il cielo era diventato di ferro fuso, le poche nubi sembravano di perla, no, d’argento ed avevano mille riflessi turchini.
Io ero rimasta sola nel porto ed avevo paura. Tremavo e sentivo che la felicità mi abbandonava piano piano.
Non sapevo più chi fossi, né da dove venissi.
Gli uccelli marini si posavano sulle bitte, sui moli di legno e tremavano intirizziti. Il fumo che si levava dai motori a vapore e dalle ciminiere era grigio e feriva gli sguardi.
Temevo di avere fatto tardi, ma chi mi aspettava? Nessuno. Era come se nessuno più mi amasse.
Avevo la sensazione di avere perduto tutti i miei affetti, in un solo istante.
Di lontano, mi apparvero le grandi gru dalle braccia di ferro e i container rossastri. Il vento me li mostrava dissolvendo magicamente tutte le nebbie fredde.
E’ triste essere abbandonati da chi ci ama. E’ triste, quanto quelle nuvole turchine, che si rincorrevano senza sosta su nel cielo. Mi sembrava ululassero, sospirassero, muggissero, nella loro corsa folle, in quel vagabondare nell’immenso.
– Il mio amore mi ha abbandonata’ Sono stata abbandonata da chi amavo’
Questo era il mio sospiro melanconico, che se ne andava così, come il fumo del porto nella brezza, come uno stormo di anitre che volava nel cielo della tormenta.
Quattro o cinque operai correvano sul tetto di un deposito vecchio, lungo la ringhiera rugginosa’ Era un edificio cilindrico, grigiastro, alto, che custodiva non so quali merci. Quegli uomini mi sembravano spettri, le loro voci confuse assomigliavano a dei muggiti. Forse, imprecavano o si davano reciprocamente degli ordini. Uno di essi prese a scendere la scaletta di ferro, che congiungeva il tetto del deposito col suolo. Il giovane portava un sacco di juta sulle spalle’
– Nessuno mi ama più ‘ sussurravo al silenzio. ‘ Nessuno mi vuole più bene’ Nessuno più!
L’acqua del porto era gelida. Me lo rivelarono le mie mani nude, allorché mi chinai e cercai di accarezzarla. Fu come se mi rapisse, se cercasse di attrarmi in sé, onde condurmi nei suoi abissi di gelo.
Ebbi la sensazione che il cuore smettesse di battermi nel petto. Fu un’impressione fredda, quanto quel velo di neve vecchia, che ricopriva i tettucci dei battelli, che sembravano abbandonati, dimenticati lungo un molo, legati come dei cagnolini alle piccole bitte di ferro.
– Signorina! Signorina! Non state lì! E’ pericoloso! ‘ mi sentii dire ad un tratto.
Mi scostai. Poco dopo, mi accorsi che ero stata in procinto di scivolare e cadere in acqua.
Avevo il presentimento che non avrei mai più rivisto il mio Friedrich’ Non sapevo per quale ragione egli non fosse lì con me, a riscaldarmi con i suoi abbracci.
Mi voltai e vidi a pochi passi da me un fochista, che andava verso la capitaneria di porto. Aveva il volto annerito dal fumo e dal calore, i capelli bigi e ritti, le mani tozze, gonfie, avvezze a maneggiare sacchi di carbone e ad alimentare il fuoco con il badile. Portava indosso una specie di tuta logora, con le bretelle ed aveva un paio di stivali marroni, macchiati, vecchi. Si tolse i guanti davanti a me, prima di accendersi un grosso sigaro e di mandare un’imprecazione in un tedesco dialettale, da bassifondi. Teneva la pala sottobraccio.
Io avrei voluto chiedergli di violentarmi, di stuprarmi, di profanare la mia femminilità e il mio corpo vano, lì, davanti a tutti, sotto i cieli freddi dell’inverno.
– Scostatevi, signorina, che devo passare ‘ mi disse.
Ma io rimasi immobile e lo guardai con i mie occhi grandi e pieni di passione.
– Scostatevi, signorina, per favore ‘ ripeté il fochista.
Non feci una mossa.
– Scostatevi! ‘ mi chiese, bruscamente, per la terza volta.
A quel punto, mi mise sulla spalla una delle sue mani grandi e mi scostò, quasi a forza. Ero riuscita a farmi toccare da quell’energumeno, viziato e sventurato al tempo stesso.
Il fochista, mi dissi, doveva avere una moglie o comunque una compagna. Andava da lei alla fine di ogni suo viaggio e sfogava su quel corpo di donna tutto il suo erotismo violento e selvaggio, coltivato da giorni di duro lavoro e di sudore madido, che sgocciolava davanti al fuoco delle macchine e al rombo cupo dei motori. Cercavo di immaginare quale fosse la lunghezza di quella verga, quanto fosse dura, aspra, forte, nel ventre di una donna, come potesse tormentare per mezz’ora di congiunzione carnale violenta, su di un letto che scricchiolava, con lei che si lamentava, prima piano, poi sempre più forte. La loro casa era una delle baracche del porto, dai muri dipinti di verde, con le finestre a forma di oblò’ Fuori, passavano i battelli, alla luce vaga dei lampioni, s’udiva lo sciabordio delle onde, che toccavano i moli, le bitte, gli scafi di legno e di ferro, le corde di canapa, che soltanto i marinai più esperti sapevano annodare, da veri lupi di mare.

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