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Nanà Capitolo 6

By 8 Aprile 2020Aprile 9th, 2020No Comments
Gianfranco l’aiutò a prelevare il bagaglio a mano che lui stesso le aveva riposto nell’apposito vano al di sopra del passeggero. Glielo porse e prese sotto braccio la cartella che conteneva la doviziosa documentazione degli studi “promo” accuratamente preparata da Nanà.
 
La costruzione moderna dell’aeroporto li accolse; sempre asettica come un non luogo, ma, in sostanza, carina. Le distanze, enormi nei moderni hub, qui erano ridotte e funzionali, a misura d’uomo. Dopo aver recuperato il bagaglio in stiva dai nastri trasportatori uscirono all’esterno della costruzione. 
 
All’ingresso un uomo in divisa grigia li attendeva. Alzava un cartello su cui riconobbero il nome della ditta del loro cliente. Aspettava loro. Il giovane, all’apparenza, sembrava gioviale; sorrideva sempre; non troppo alto; tipicamente mediterraneo. Pelle olivastra, capelli ricci impomatati, baffetti neri era un perfetto “hombre”. 
“Buenas dias, señorita y señor!” e li accompagnò alla macchina dopo aver prelevato i due trolley che fece volare con estrema facilità, riponendoli nel portabagagli. 
 
Aprì la portiera, li fece accomodare sul sedile posteriore della macchina e si sistemò alla guida. Col sorriso stampato sulla bocca, si volse ai passeggeri, avviando il motore: “Vamos al Hotel Catalonia”. e aggiunse – “Es uno de los mejores en Zaragoza.” E partì a razzo verso “Zaragoza” sulla “Carretera de Bárboles”, come i due passeggeri lessero sul cartello autostradale.
 
“A qué hora vengo a buscarlos?” chiese Manuel, quello era il suo nome, pilotando l’auto verso l’ingresso del centralissimo Hotel. Alle spalle c’era la stupenda Catedral de Pilar che si stagliava con i suoi pinnacoli e campanili, affacciata sulla riva dell’Ebro. Concordarono l’orario per la sera ed entrarono nell’Albergo.
 
Nanà ritirò la tessera magnetica della camera 308 e Gianfranco ebbe la 309. Le due ampie stanze, attigue, erano elegantemente arredate. Alle 19 il portiere annunciò l’arrivo di Manuel e dopo un quarto d’ora scesero entrambi nella hall. L’autista li pilotò fino alla sede della Società. Li aspettava un funzionario che fece loro strada verso il primo piano dove li attendeva il Direttore Generale. 
 
Presero accordi per l’indomani e poi andarono tutti a cena. El Festín de Babel li accolse piacevolmente. Anfitrione della cena era il Presidente della Hidalagrìcola, accompagnato dal Direttore della Fabrica. Fecero onore al menù. La conversazione fu brillante, mentre i fumi dell’ottimo vino facevano salire di giri Nanà insieme a tutta l’allegra brigata. Si fecero le ore piccole e lasciarono il tavolo insieme. 
 
Salutarono i boss spagnoli, con effusione di baci e abbracci, come degli amiconi,  e salirono al loro piano, ridendo e scherzando. Gianfranco l’accompagnò alla sua stanza e si soffermò con le mani in tasca e guardandola negli occhi. Nanà ricevette una scarica elettrica; ebbe una leggera esitazione. Non che volesse darne occasione a Giangi, come scherzosamente e confidenzialmente lo chiamò per la prima volta quella sera, ma indubbiamente lui avvertì l’abbassare della guardia ed entrò chiudendola in clinch alle corde. 
 
Un abbraccio che l’avvolse completamente e lei, stronza, che non oppose nessuna resistenza, anzi…! Collaborò a tal punto che lui passò dallo sfioramento delle labbra al bacio appassionato prima di penetrarla con un french-kiss, prontamente ricambiato. Cazzo! La stava trapanando dalla gola  senza passare dalla vagina. Così ebbe il tempo di ridacchiare nei fumi dell’alcol che l’avvolgevano.
 
Giangi, rotti gli argini,dilagò facilmente. Al termine del primo bacio,le tolse la tessera magnetica della stanza, che lei aveva dimenticato nella mano destra, e l’infilò nella fessura della serratura alle spalle di Nanà. Sslat, fece la serratura della porta che si aprì sotto la pressione dei due corpi avvinghiati. Ruotarono insieme nella stanza, mentre lui la chiuse sulla parete accanto allo stipite interno della porta che si scattò automaticamente con un flap a cui nessuno dei due badò.
 
Ansavano entrambi. Sembravano due lottatori di greco romana, impegnati a divincolarsi dai vestiti, mentre erano impediti dall’impiccio della stretta dell’altro e minacciavano di cadere a terra. Preferirono la posizione orizzontale e si rotolarono sulla moquette della stanza, ormai nudi, prima di raggiungere il letto. Ogni presa era un bacio, un morso, un succhiotto, un gridolino, che ritardava l’arrivo all’agognato talamo. Si fermarono ai piedi della meta, perché Giangi la stava deliziando con un ditalino che le faceva strabuzzare gli occhi dal piacere.
 
Si contrasse e distese mille e mille volte, godendo del tocco delicato e profondo delle dita del partner che la penetravano. Sentì che non ce l’avrebbe fatta più a trattenersi, quando lui infilò la lingua nella fessura vaginale inturgidita e arrossata dallo sfregamento. Fu l’attimo fatale. Eruppe e zampillò come una fontana, mentre il clitoride indurito si tendeva, fuoriuscendo dall’apice della vulva come un serpe velenoso. Lei ne fu sorpresa, prima, poi atterrita. Quei getti provenivano dalle sue viscere e non le aveva mai avute. Mai nulla era uscito da lì dentro. 
 
Ebbe la sensazione che si fosse liberata di qualcosa che l’aveva oppressa da sempre. Cazzo! È bello sborrare. Il liquido colloso intanto cementava l’amante al suo corpo. E lui, impigliato in  quella fantastica rete che l’avvolgeva, si beava, tanto che volle provare a berne, mentre i flussi si ripetevano come una vera, lunga eiaculazione. Poi stampò la bocca su quella di lei, fradicia com’era del liquido dorato che non sapeva di piscio, bensì assumeva il sapore di nettare consevando l’odore di carne fresca della fichetta che aveva leccato un attimo prima. Si affrettò a condividerne l’essenza con la compagna.
 
La sollevò di peso, mentre il cazzo indurito lo precedeva, ballonzolando, in cerca dell’ingresso che, nella foga, tardava a trovare. La poggiò brutalmente sul letto e la penetrò. Le schiaffò l’attrezzo, imbizzarrito dal piacere che inseguiva, nella fessura che si dilatava, pronta a partecipare al festino. Nanà lo attirò contro la vulva, artigliandosi con le unghie alla carne viva dei glutei del suo audace esploratore. Spinse tanto che al povero Giangi, così innestato, gli parve di raggiungere il Paradiso.
 
Poi, si sfrenarono in un galoppo serrato. Di solito si sa chi cavalca e chi è cavalcato, ma in quel caso la foga era di entrambi e entrambi scudisciavano l’altro per indurlo a dare il meglio di sé. Le gambe alzate di lei che, da supina, si dilatava al massimo anche con le dita delle due mani per agevolare la penetrazione profonda. Sbuffando e soffiando, lei prese l’iniziativa, com’era abituata, e passò su di lui, in posizione eretta. Lo sovrastava con irruenza. Nanà s’infilò a candela su di lui, in cerca di dare sfogo alla sua smodata libidine, donandosi all’amante  e centuplicando gli appetiti di lui. Sessi e carni si arroventarono alla “braceria della passione”.
 
Erano due ossessi. Le carni sfrigolavano quasi, generando difficoltà al libero scorrimento dei corpi che solo l’abbondante sudore riusciva in qualche modo a superare. Nonostante l’aria fresca che sparava l’efficientissimo condizionatore, sudavano a fiotti. Nudi, stuzzicavano i loro sessi, stimolavano le loro parti erogene, masturbandosi vicendevolmente. Si provocavano, toccandosi nelle parti erogene fino ad accanirsi quasi con cattiveria, mandando l’altro in estasi, trattenendosi in prossimità dell’orgasmo, per poi ricominciare. 
 
Giangi, disteso, col “pinnacolo” in erezione, attendeva che lei si accoccolasse, volgendogli le spalle. A perpendicolo su quella piramide di carne violacea, dura come la pietra, turgida di sangue, divaricò le labbra della fica, spalancandole tra l’indice e il pollice delle due mani. Zuuum. S’infilò su di lui, assumendone  la stecca per intero, fino alle palle. 
 
Un Samurai che avesse praticato il Seppuku, il lucido suicido, non avrebbe saputo fare di meglio. Infilò la testa del fallo di Giangi, contenedola fra le labbra della “fornace” e poi si precipitò sulla lama facendola scorrere nel ventre. La  ghigliottina delle sue cosce calò inesorabile, fino a schiacciare la sacca dello scroto. Kaputt!
 
A Giangi sembrò che la peggio l’aveva patita lui. Le sue palle avevano adempiuto al sacrificio. Si agitò per il colpo a sorpresa; strabuzzò gli occhi, emise un “Uff!”, restando col fiato mozzo. Lei stava troppo avanti con l’eccitazione e si dimenava, agitando il gingillo nel suo corpo, come un’indemoniata.  La canna minacciava di schiantarsi ad ogni botta. Lui era un fantoccio in balia della turbinosa corrente del torrente in piena che lo travolgeva, sbattendolo giù, di balza in balza. A un tratto Nanà snudò la spada dell’amichetto e con estrema voglia si dilatò l’ano, premendo la testa dell’esterrefatto cazzone che restò di sotto, rincitrullito, ad ammirare lo sfintere dell’amante.
 
Un colpo di karaté e il buco era rotto. Lei tremava ora, più per il piacere che per il dolore. Provò a ballare su quel cazzo che stentava a sostenerla. Il bruciore la prese! Si sentiva ardere, ma andò avanti imperterrita. E fece bene, perché ben presto il dolore si trasformò in goduria quando il glande ebbe superata la strettoia. Continuò a smaniare, danzando per il suo Giangi che quasi veniva a mancare per il piacere e per la fatica di quel rapporto selvaggio.
 
“Cazzo, che donna!” ebbe un barlume di coscienza, Giangi, ma fu travolto dal frenetico andirivieni di chiappe e seni che gli sfuggivano e lo invadevano da tutte le parti. Non sapeva dove mettere le mani. Fra capezzoli, chiappe, fica, ventre, culo, chiappe…ma quante ne aveva! Le dita erano dieci ma non bastavano per tutti i buchi che dovevano tappare.
 
Stava quasi per esplodere, quando Nanà, rapida come una scimmia in calore, si girò di centottanta gradi e incollò le labbra sulle sue, mentre la sua mano indirizzava la lancia dell’idrante nelle profondità del pozzo senza fine della sua “natura” vogliosa.
 
Giangi non resse più e, questa volta, furono fuochi d’artificio davvero. Il palo, infisso nelle profondità oscure di quel “misterioso antro”, aveva funzionato da esca e il detonatore aveva fatto il resto Gli sembrò che tutto intorno saltasse in aria, in mille girandole. Stringeva gli occhi ad ogni botto dietro le palpebre che restavano chiuse, mentre le immagini violente di lampi trapelavano fra le palpebre chiuse, brillando e spegnendosi senza soluzione di continuità, scuotendolo con i loro boati.
 
Il sangue tumultuava nelle arterie; il cervello era in subbuglio, mentre il cuore impazziva. Giangi si sentiva polverizzato, ridotto in mille schegge, mentre Nanà succhiava e beveva il midollo da quella fonte inesauribile che l’inondava, ebbra di piacere. Giangi gridò, forse; urlò, sicuramente, Nanà. Dopo di che  per entrambi fu l’ascesa in Paradiso; sembrava levitassero. Ressero fino all’ultima goccia di frenesia. Poi, esanimi, accartocciati l’uno sull’altro, rantolarono, dimentichi di dove fossero.
 
Il respiro affannoso cominciò a regolarizzarsi. Si districarono da quell’intreccio di gambe, braccia, sessi e bocche. Si rivoltarono, supini, restando in una specie di trance. L’estasi li aveva disgregati, separando i loro corpi. Nudi, sembrò loro di restare sotto i fari abbaglianti che li perlustravano nella loro fantasia annichilita dal lungo, delizioso coito delirante. 
 
La prima a riaversi fu Nanà, che, grata, ma esausta, si gettò sul torace del compagno, baciandolo appassionatamente. La “carcassa” di Giangi ebbe uno scossone, come se si fosse risentito di quel tocco. Ma era solo un riflesso condizionato dei centri nervosi nel subire la bollente pressione delle labbra di Nanà. Restarono, quindi, immobili, una sull’altro. Storditi, incoscienti! Di certo insensibili al mondo che continuava, indifferente alla loro esistenza.
Nina Dorotea

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