Skip to main content
Erotici Racconti

Succhiotto

By 28 Luglio 2004Dicembre 16th, 2019No Comments

Succhiotto

Lo schizzo di sangue è sul vetro.
Secco quasi oramai.
Il vetro è quello del passeggero, quello accanto al guidatore.
Anteriore.
Il sangue è appena uno sbaffo sull’azzurrino temperato.
Il vetro, l’anteriore destro.
L’auto.
La mia.

Non doveva mordere e poi succhiare.
Non doveva.
Non voglio segni..
Non li voglio sul mio corpo.
Non voglio il segno del bacio e il succhio rosso di sangue affiorato sotto pelle sul collo, segni rossi visibili a marcarmi.
Per questo l’ho colpita così forte.
Le ho schiacciato la testa contro il vetro, l’ho percossa.
Lasciata secca, abbandonata sul sedile, dove ho pulito anche il sangue dalle dita e dalla mano sporca.
Lasciando una striscia di sangue rosso che ho con cura poi pulito.
L’auto dev’essere pulita.
La macchia e la striscia di sangue sul vetro l’avevo dimenticata in quella pulizia.
Ora la cancello.
Cancello.
Lei.
L’altra dopo.
E anche la macchia adesso.
Cancello.
La colpa è solo sua tra l’altro e del suo succhiotto rosso, pulsante e irritante con cui mi ha marchiato. Lo sentivo anche dopo, con la macchina pulita e il sedile senza tracce, al pomeriggio quando mi sono fermato accostando l’auto al bordo della strada.
La strada è quella per Opera, la statale delle sedie al ciglio.
Dei viottoli tra i campi e gli orti.
Delle auto impantanate in quelle stradine.
Delle frenate brusche davanti alla sedia più bella.
Alla nera più nera.
Quella con le labbra più rosse.
Quelle che sembrano sangue di succhiotto.
Sangue di labbra.
Di rossetto economico e violento.
Semaforo rosso sulla bocca.
Se non fosse stato per lei al mattino e per il segno rosso che mi ha stampato, la nera che aspettava sul vecchio sedile di autocarro su quel prato starebbe ancora ritoccando il suo rossetto.
La strada era deserta all’ora strana.
L’ora del pasto anche dei camionisti e di chi viaggia per lavoro spesso.
Quando anche i piazzisti e chi corre ad un appuntamento sono tutti già arrivati ormai da tempo.
Quando il piazzale in ghiaia davanti all’osteria dove solitamente mangio a quell’ora è già pieno e ai tavoli si parla.
I clienti abituali si salutano nell’appuntamento che nasce dalle rotte quotidiane e parallele di lavori anche differenti.
Oggi al mio tavolo abituale c’era senz’altro qualcun’ altro.
Angelo, il trattore avrà chiesto ad altri, ..ma sapete se Carlo, quello della Mercedes vecchia oggi viene? Gli tengo il tavolo? C’è una comitiva e non ho spazio’.
La donna, nera di Africa ma col capello liscio di parrucchiere di borgata.
L’ho vista tante volte sulla strada.
Tanta da saper dire persino i giorni del suo ciclo.
Intuibili facilmente dalle assenze di una settimana.
Ciclo dei mesi e della luna scandito dai flussi di sangue di una puttana.
Non mi ero mai fermato ma aveva per me un nome.
La Rossa, l’unico nome adatto a lei’. per le labbra, certamente…
Non per i capelli.
Neri come la notte se la notte è nera e magari hai anche chiuso e serrati stretti sino al dolore gli occhi.
Più neri ancora.
Neri come i sacchi dell’immondizia, quelli grandi, infilati uno nell’altro in cui l’ho infilata alla meglio e poi nascosta nella notte del mio bagagliaio, in fretta.
Prima che la strada per Opera si ripopolasse, alla fine dei pranzi.
Immagino i capelli neri d’Africa nel nero del primo e del secondo sacco in plastica spessa e nel nero del baule posteriore chiuso a chiave.
Più nero di così.
Si muore.
Esatto!
Non sono cliente regolare di donne colte in strada.
Anzi io non lo sono affatto.
Ho solo lo sguardo curioso che rallenta all’accostaggio.
Curiosità di voci e lingue nascoste sempre male sotto l’italiano imparato nel mestiere e sul ciglio o il marciapiede.
Curiosità di prezzi e di tariffe.
Curiosità di catalogo, di offerte promozionali, di sconti tardivi e di campionario di ginnastiche sessuali e prestazioni.
Ma non parcheggio mai in quelle stradine in mezzo all’erba al lato di un fosso secco, abbandonato magari anche dai topi traslocati anch’essi nel paese vicino.
Topi emigranti dalla campagna alla città, topi in trasloco.
A caccia di cibo facile e acqua di rifiuto.
Mi sono fermato solo oggi e proprio lì per quella bocca.
Perché il sangue rosso della bocca era troppo.
Troppo dopo il succhio sanguigno sul mio collo nel mattino.
La donna ha un nome strano, il prezzo nemmeno lo chiedo.
E’ lei a dire, costo poco e bacio anche con la bocca’
E’ lì che ho sentito il dovere.
La necessità inevitabile e prescritta.
L’obbligo.
Il piacere di risparmiare ad altri quel segno a sangue sul collo, sulla bocca o sul colletto aperto di camicia.
Sì è stato credo allora anche se non me ne ero nemmeno conto in quel momento.
Ho parcheggiato sull’erba, seguendo con cura le strisce e i segni impressi nel terreno molle da molte auto prima.
Sai dove fermarti.
Dove si fermano i solchi vecchi e scavati in precedenza.
La donna ha un nome strano.
Che non ricordo.
La chiamerò soltanto la Puttana.
O la Nera a seconda dell’umore e del ricordo del momento.
E’ la Nera a prendermi per mano, con un gesto strano, da ragazza conosciuta.
E’ la Puttana che muove fuori e dentro le labbra e fa luccicare schiudendole i denti.
Denti bianchi di squalo, perfetti.
Bianchi d’avorio lucente nel nero della notte che le tratteggia il viso.
Che riflettono la luce sulle labbra facendole quasi luccicare.
Rosse di incendio come un ’emorragia, uno squarcio in un viso di antracite.
Troppo rossetto e troppo forte e rosso.
La Nera guida la mia mano alla tettoia improvvisata.
Per il mestiere, quella tettoia di plastica ondulata’ che non si fermi nemmeno quando piove il suo lavoro.
Lì siamo nascosti, mi scopi come vuoi, il culo anche ‘dice la Puttana al suo cliente mentre la Nera ancora l’accompagna come a un ballo di paese per la mano.
La Puttana sfila la maglia a righe gialle e rosse che le strozzava il seno.
I capezzoli sono ancora più grossi e prominenti di quanto la maglietta sintetica, misto cotone, un po’ odorosa di sudore forte, lasciasse intravedere nel cammino.
Il seno che è enorme e non balla, nel cammino abituale della Nera.
Quello che la Puttana adesso stringe e accosta maliziosa tra le mani.
Se ti piace di faccio morire qui, in mezzo’
I capezzoli che ruberesti tanto sono belli e scuri e larghi.
Cicche di sigaretta un po’ schiacciate, nere e rugose, corrugate.
La Nera appoggia con cura la maglietta sulla spalliera di una sedia col sedile rotto.
Poi sfila la gonna cortissima, inguinale, in finta pelle.
Fatica con la lampo laterale.
Il fianco è largo e la chiusura tira.
Come tira la tensione adesso sotto i pantaloni di chi guarda quei gesti da amante domestica e familiare e non da mercato stradale.
La Puttana non ha mutande.
Sfrega la fica col palmo della mano, schiacciandola a gambe un poco allargate.
In piedi.
Sotto la tettoia.
La sfrega con la mano piatta.
Schiaccia e immagini spalanchi le labbra alla pressione.
Lo sguardo della Nera è lo sguardo della donna che vuole offrire piacere all’uomo e che si dona e che cerca protezione di cerbiatta in cambio della dolcezza e dell’amore.
La mano nera della Puttana si stacca dal suo sesso, si gira davanti allo sguardo di guarda e offre il palmo molto chiaro, non rosa vero, palmo castano chiaro, come staccato, come se la mano fosse un guanto, fatto di due superfici, due colori cuciti al bordo.
La mano è bruna chiara e luccica bagnata al centro.
Vedi che ne ho voglia, amore? Che sono già bagnata? Se mi dai 20 euro in più ti bacio sulla bocca’
La Puttana appoggia le mani allo schienale della sedia.
Offre allo sguardo le curve grosse e lucenti della pelle tesa di natiche grosse, dure, marmo scuro di notte.
Senza togliere nemmeno i pantaloni in pochi minuti tutto è anche finito.
I venti euro in più non ci volevano proprio.
Perché la Nera li interpreta come il saldo ed un dovere.
La Puttana si avvicina, posa la bocca, porge le labbra,’scosto la mia e le labbra mi si posano sul collo.
La Puttana bacia e lecca lì.
Poi succhia.
Forte.
Sfregando la punta della lingua tenuta apposto dura.
Sotto l’orecchio del cliente. Appena sotto e un poco dietro.
Dove il collo da i brividi al cervello e alla schiena.
Schiaccia e carezza con la lingua e il suo bacio di bocca grossa, troppo rossa, labbra gonfie che sembrano ventose e aspirano nel bacio, succhia e marca di rosso tinto i bordi e di sangue affiorato il cuore.
Il sangue dopo è il suo.
Schizzato contro il faggio del filare.
Non doveva marcare.
Non doveva succhiare.
Non doveva nemmeno fare da semaforo con quel rossetto.
Mi sono fermato perché segnava il rosso con le labbra.
Rispetto il codice stradale.
Mi dovevo fermare.
Nessuno ha visto e ho recuperato i sacchi neri che avevo nel baule, avanzo di un piccolo trasloco di libri da una casa all’altra e di una raccolta di abiti smessi da regalare in Parrocchia, destinati alla Missione.
La fatica del trasbordo del corpo si può facilmente immaginarla.
Poi lo scavo nella casa di campagna.
Attento a non sbagliare punto nel frutteto di mele coltivate a spalletta, già da mio padre prima. E da suo padre ancora, credo.
Lo scavo ‘ con calma, il terreno è grande ed è cintato.
Nessuno da fuori vede.
Nessuno si avvicina se prima io non disserro da casa col comando quel cancello.
Attento solo a dove scavo.
Per non dissotterrare altri vampiri.
Altri corpi che succhiano a sangue il mio sangue.
Quelli che fanno così grandi e così meravigliosamente rosse le mele del frutteto.
Quelle mele tonde e vermiglie con poche striature gialle, che raccolgo in autunno, e che sono così ghiotte quando le porto in regalo, una cassetta per gli amici, là in quell’osteria dove spesso mi fermo all’una.
Massimo una e un quarto.
Mi lavo poi le mani’cambio e metto in lavatrice i vestiti’.brucio la borsetta brutta dopo aver preso i soldi.
Pochi peraltro ma quelli è comunque un peccato bruciarli.
Ne farò elemosine o regali ad un semaforo a qualche disperato.
Nero come lei ma con le labbra chiare.
E penso a come tutto oggi sia nato per quel bacio sul collo al mattino.
Se non mi avesse baciato proprio lì avrei anche mangiato all’ora giusta.
Non mi sarei fermato alla vista di quel rosso.
Immaginando il rosso sul mio collo uguale.
Immaginando il marchio sul mio collo.
Non avrei ucciso per due volte in una giornata.
No.
Non mi sarei fermato e non avrei ucciso ancora.
Non mi ero mai fermato lì.
Dalla Nera.
Ma tutto è nato per la zanzara schiacciata su quel vetro.
Il collo rosso che bruciava e che pulsava.
La striscia di sangue lasciata con corpo infinitesimale di insetto nero sul sedile.
Strisciando il palmo della mano per pulire.
Dal mio sangue e da quello che ad altri prima aveva già succhiato.
Poi, quando ho visto la macchia di sangue strisciata sul vetro, mentre guidavo, e lei al ciglio della statale, è stato tardi.
Tardi per pulire il vetro.
Tardi anche per mangiare.
Il collo bruciava ancora della puntura fresca.
Era sicuramente sporco di sangue il mio collo e rosso.
Troppo rosso per proseguire.
Per andare avanti.

Alla Fine.

Alla fine tutto è nato davvero per una zanzara.
La prima di stagione.
Quasi una primizia.
Schiacciata con fatica e contorsioni sul vetro dell’auto a Città Studi, Milano, pochi giorni orsono.
Schiacciata tardi anche, mi aveva punto proprio sul collo, anticipando da pioniera il tormento dell’estate.
Tutto è nato così, quasi per gioco.

E adesso due parole per le donne che sono venute da lontano.
In cerca di tesori.
E che vivono male in questa città che non ha tesori e se li ha non li regala certo a loro.
Ho preso un treno una sera, prima della notte.
Da Torino a Milano.
Pochi passeggeri di ritorno da incontri di lavoro a quell’ora su quel treno.
Ad ogni fermata invece salivano su donne.
Tutte nere.
Tutte dirette alla notte di Milano.
Vestivano come veste una ragazza o una qualsiasi donna.
A tradire e rivelare le ore che le attendevano nella stagione ancora fredda, quella notte, come quelle prima e quelle dopo, erano i sacchetti del supermercato.
E i capelli che sembravano parrucche.
Nei sacchetti il cambio di vestito per trasformare la Nera che parlava con le amiche, nella donna in vendita al bordo della strada.
Ventiquattrore povera la loro, valigia di cartone quotidiana, per la metamorfosi obbligata da donna in schiava.
Viaggiavano come ragazze, chiacchieravano, parlavano lingue strane.
Sorridevano e ridevano.
Poi in città, in un angolo, avrebbero scambiato d’abito coi loro sacchetti e chiuso in essi anche il sorriso e la risata.
I pochi passeggeri del treno evitavano accuratamente quegli scompartimenti.. diciamo.. riservati. Ad ogni fermata di paese o cittadina sul percorso del treno ne salivano di nuove.
Ho provato fastidio vero e senso di panico.
Non erano puttane da canzone e da poesia.
Erano donne costrette anche a nascondersi lontano.
Erano la faccia scura dell’amore, quella dell’obbligo e della costrizione, quella che violenta e che costringe, quella un po’ infame che perpetua l’asservimento e schiaccia, soffoca, soddisfa ipocrisie e si nasconde pure.

Pendolari di Milano.
Che lo sporco non si veda nel giorno di Milano.

Dedico a loro.
A loro e alla loro libertà di sorridere e ridere, di essere solo ragazze libere alla ricerca della vita, di potere un giorno buttare via lontano i sacchetti da supermercato, allora.
Presto.
Dovunque.
Anche a Milano.

(Secondo passo della trilogia “I Miei Vampiri”)

Vieni a
trovarmi sul mio sito: clicca qui!

Leave a Reply