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Io perdo inaspettatamente l’equilibrio sui gradini davanti alla porta a vetri dell’albergo, perché la pioggia che cade pesantemente per terra ha reso le mie scarpe nere da cerimonia insicure e per di più instabili. L’usciere in quell’istante mi guarda con un sorriso mentre io recupero la posizione eretta, individuo velocemente la sala del ricevimento, giacché si trova all’ultimo piano, infine entro nell’ascensore con la moquette rossa. Dopo esco dall’ascensore, davanti scruto che il salone è enorme, là in fondo un quartetto sta suonando dei brani in un angolo sul piccolo palco, cosicché mi dirigo subito al bar e incontro i colleghi sulla strada per l’alcool.

Il capo mi stringe la mano e ripete frasi di convenienza e di tornaconto, sì, certo, un grosso affare è andato in porto anche per merito mio, però dopo l’orario d’ufficio io mi trasformo, in quanto non reggo né sopporto in alcun modo il protocollo né la regola né quelle norme con la giacca e con la cravatta, perché il mio cervello pretende e reclama la sua dose d’alcool per spegnersi fino il giorno dopo. Questo è un extra, un bonus del lavoro, è una serata di gala, che schiettamente e sinceramente non me ne frega un cazzo. Io arrivo al bar, dove la solita e immancabile triste (pseudo) sangria, viene servita da un cameriere peraltro annoiato, che appena mi vede arrivare afferra un bicchiere e cerca di raccoglierne una dose con il paiolo tentando d’offrirmela:

“No, grazie. Io voglio un po’ d’alcool serio se c’è l’hai. Un Negroni per adesso può andar bene”.

Il cameriere fa una smorfia d’approvazione, di limpido benestare, in tal modo mi prepara un Negroni. Lui lo fa carico abbondando, mentre mi dice che probabilmente sono il primo della serata che capisce e che conosce qualcosa d’alcool. Io imparo in fretta, perché credo che starò spesso a parlare con lui stasera, poi a bruciapelo la vedo lì accanto a me:

“Qualcosa d’analcolico per favore”.

Lei è mora, anzi, con i capelli a caschetto neri, la pelle bianchissima e un vestito lungo scuro, si gira verso di me distrattamente, intanto io le sorrido, ma non troppo.

“Buonasera” – dice lei. Raccoglie il cocktail analcolico, si gira e se ne va con un sorriso tediato e stanco, dove noto le spalle larghe sulle quali s’apre una scollatura lunga che segue la colonna vertebrale sino quasi al sedere. Che dire, stupenda.

Un collega mi saluta, poiché distinguo e riconosco in lui lo stesso sentimento che ci accomuna e che ci associa come i pesci fuori dall’acqua, eppure si mette a conversare di lavoro. Io seguo con distratti movimenti d’adesione e d’assenso i suoi discorsi, mentre cerco di riguadagnare e di ritrovare con lo sguardo la donna di poco fa. Un altro collega s’avvicina e comincia a parlare con noi, io m’alzo e m’allontano con il Negroni in mano. Eccola, al presente la punto da lontano, non vado però verso di lei, per il fatto che comincio a girarle attorno e a studiarla. Lei saluta e parla con più persone, ma sempre distrattamente, ma non più di cinque minuti. Io sono attualmente sotto il palco, in faccia al sassofonista, giacché mi lascio andare per un attimo alle quelle note soffiate e sensuali, forse è l’alcool che comincia a farsi sentire.

“Sono molto bravi e validi, vero?”.

Lei è lì, in piedi accanto a me, eppure io non ci avevo fatto caso, io rispondo e lei mi fa un sorriso di circostanza, anche se non so quale stato di cose, dal momento che prima di riuscire a capirlo per ribattere, lei è già sfuggita conversando con un altro. Sulle note di “Stella By Starlight” di Bill Evans la vedo allontanarsi, giacché riesco anche a fiutare una scia di profumo, allorché tento un inseguimento, ma sono intercettato dal mio superiore che mi blocca e si mette a parlare d’altri affari e questioni da finire. Quando riesco a divincolarmi non la vedo più, adesso sono visibilmente a corto di carburante, vado nuovamente dal cameriere che appena mi vede arrivare, abbandona il mestolino della sangria al suo vano destino e tira fuori lo shaker per miscelare gli ingredienti.

Lui si diverte nel preparare i cocktail, poiché sono la sua vera specialità mi confida, cosicché mi prepara qualcosa di pregevole con la vodka. Gioioso e trionfante me lo fa sentire: è un magnifico Long Island, davvero delizioso come pochi finora assaggiati, in quanto la vodka s’addice e sta bene con tutto. Io vedo in lontananza un gruppo di colleghi nella folla dirigersi verso di me, tento la fuga e arrivo fino al palco dell’orchestra, forse sono in salvo, perché sono girato con le spalle verso la gente, il mio smoking è uguale a quello di tanti altri, mimetismo sì, ma con classe. Lascio che le note di “Round About Midnight” di Thelonious Monk m’accarezzino e mi cullino, inaspettatamente capto in modo distinto un gradevole effluvio nei miei paraggi, adesso la vedo palesemente:

“Non c’è niente d’aggiungere, veramente. Lei ha sulla persona una fragranza appropriata e unica, perché solamente una stella può averlo equivalente”.

Lei mi guarda e sorride lusingata, squadra il pianista e poi m’ispeziona, in seguito mi sento toccare una spalla. I miei colleghi m’hanno beccato, ho soltanto il tempo per vederla andare via mordendosi leggermente il labbro inferiore. Il suo sguardo era comunque cambiato, tenuto conto che ci metto più di mezz’ora per sganciarmi da quei rompiscatole e a riprendere la caccia. Savana, leoni, rinoceronti e giraffe, eppure non riesco a trovarla né a vederla, leggermente desolato ritorno dal cameriere che m’appronta un altro cocktail.

Io ho voglia di fumare, trovo una porta a vetri, la oltrepasso e sono sul balcone, quassù ci troviamo all’ultimo piano con le luci della città che si possono osservare confuse e offuscate dalla pioggia. La band suona, la musica m’arriva attutita e felpata, accendo la sigaretta, una boccata di fumo vola via fra la pioggia oltre il parapetto, io sto in quel momento per perdermi nei miei pensieri, nel tempo in cui colgo chiaramente quel profumo. Lei è lì, dietro di me, si ferma a un passo dalla ringhiera e guarda giù. Il suo sguardo è abbattuto, desolato e malinconico, io le offro una sigaretta, però lei rifiuta, in seguito cominciamo a conversare.

Lei è manifestamente annoiata, è disgustata e piuttosto scocciata dalla festa, perché non si trova a suo agio. Il suo sguardo amabile e malinconico al tempo stesso s’accende lentamente, lo vedo tangibilmente mentre parlo, visto che mi guarda le labbra, faccio qualche battuta, ha un sorriso bellissimo che t’incanta. Sulle note di samba, sommessamente m’appoggia la testa su d’una spalla, adagio ed educatamente le tocco la mano intrecciando le mie dita con le sue. Lei mi bacia a occhi chiusi, io ho sempre avuto l’inquietudine delle persone che baciano con gli occhi chiusi, come di quelle che non toccano alcool, eppure stavolta è più forte di me, giacché mi lascio andare alla sua lingua che sussurra dolcemente tastandomi le labbra: è davvero focosa e profumata. Lei m’afferra per mano e mi trascina come una bolla di sapone, apre una porta nascosta dietro una pianta alta sul terrazzo e mi ritrovo al buio dentro uno sgabuzzino. Lei è vorace, vuole la mia pelle, le mie labbra, il mio sesso. Le mie dita scivolano rapide sui suoi fianchi, alzano il vestito e la privano delle mutande, lei mi spinge via, cerca il mio collo, il mio petto fra i bottoni della camicia aperta, la mia cerniera che le cede il suo contenuto.

Il rumore della pioggia aumenta mentre lei m’assaggia, ha i seni piccoli, ma niente reggiseno, il ventre è piatto e il pube è rasato. In quella circostanza assaggio l’unica cosa analcolica che preferisco alla vodka direttamente e senza deviazioni dalla fonte, le sollevo leggermente le cosce e la mia lingua pronuncia parole d’amore, lì dove è sussurrato da labbra mute. La sento agitarsi, mi tira per i capelli, io mi sollevo, lei m’accoglie con un sospiro mentre l’appoggio al muro, dato che s’aggrappa a me con le gambe. Sento i suoi capelli neri in bocca e il sapore amaro del suo profumo, la sento alitare sempre più forte, stringere sempre più forte, fino a che mi tira la testa indietro per i capelli e tutta la sua bellezza si schiude in un attimo infinito senza respiro. In quell’occasione rientro nella sala prima io, faccio il disinvolto e mi giro per vederla entrare poco dopo, la gente sta andando via, intanto che il quartetto suona “The Girl From Ipanema” di Astrud Gilberto e Stan Getz. Aspetto un poco, però non la vedo rientrare, esco ancora sul terrazzo, guardo attorno, giù in strada e nello sgabuzzino, però niente. Un po’ affranto e sconfortato ritorno nella sala ormai vuota, il cameriere m’invita per l’ultimo cocktail, io gli chiedo se ha visto una ragazza vestita di nero con la scollatura, eppure lui nega, smentisce nettamente.

“Gli hai servito pure un cocktail analcolico” – ribatto io più che certo. Lui nega e smentisce nuovamente.

La sala è ormai vuota, il cameriere m’accompagna verso l’ascensore, io sono parola per parola a pezzi, conoscere una donna così stupenda e poi lasciarsela sfuggire, continuo a ripetere verso me stesso afflitto e travagliato. Arrivo repentinamente nell’atrio dell’albergo e lì la vedo, all’interno d’una grande foto in bianco e nero esposta sopra la sala dell’accettazione, vestita nello stesso modo. Il cameriere s’avvicina a me cercando di consolarmi:

“Bella vero?”.

“Direi proprio di sì, davvero un autentico spettacolo” – annuncio io per l’occasione.

“Era la padrona dell’albergo, vent’anni fa esatti. E’ morta cadendo o è stata buttata giù dal balcone della sala dove eravamo”.

In quell’istante io raccolgo i miei pezzi d’anima, di cervello, d’energia e di cuore di poco fa e li butto via, il cameriere m’incoraggia, mi rincuora e in ultimo mi sorride:

“Era lei che cercavi?”.

Il cameriere s’accende una sigaretta, nel frattempo mi prende sotto braccio confortandomi:

“Andiamo, dai che t’offro da bere” – come se avesse capito tutto e per lui fosse comprensibile, normale e umano.

“Forse un whisky, magari un ottimo Tallisker mi farà bene”.

“Ricorda però, diffida e dubita sempre, di chi non beve alcolici e bacia a occhi chiusi la prima volta”.

Adesso ho la gola asciutta e secca, devo bere.

{Idraulico anno 1999}

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