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La Caduta. Atto tredicesimo. Della Battaglia di Agripatus.

By 5 Agosto 2021No Comments

Cielo terso, senza neppure una nuvola. Si specchiava nel mare azzurro come forse non era mai stato. Il vento soffiava piano, verso sud-sud-est.
Aristarda Nera, in alta uniforme e corazza, ispirò l’aria pregna di salsedine che pareva giungerle dai confini del passato, da tempi di leggenda. D’altronde, in un modo o nell’altro, quel giorno si sarebbe scritta un’altra pagina di storia.
“Perché non quella della vittoria?”, si chiese.
Aveva consultato gli auspici, che erano risultati alquanto bizzarri.
Eppure… Forse proprio grazie a quell’ambiguità provava quella sicurezza che l’aveva vista decidere di prendere parte alla battaglia invece che assistervi da lontano, in sicurezza.
Il fato talvolta andava scritto, non seguito. E non intendeva lasciare quella battaglia a nessun’altro anche se Nearco, suo fedele ammiraglio comandava ufficialmente la flotta in sua vece. Meglio così. Ma a dispetto di ciò, Aristarda sentiva di dover essere lì.
Aveva avuto troppi segnali per non credere che fosse scritto.

Amsio Calus si sedette sul trono. Era massiccio e ben distante dalla battaglia, circondato dalla sua guardia d’onore. I suoi ufficiali l’avevano assicurato che le forze navali di Aristarda Nera erano ben inferiori alle loro e che l’arrivo della Terza Flotta al completo dal Canale di Seus verso quel braccio di mare avrebbe definitivamente assicurato la sconfitta della sorella di Septimo Nero. Restava solo da chiedersi… viva o morta?
Prendere Aristarda viva avrebbe permesso a Calus di umiliarla, di suggellare il suo trionfo.
Soprattutto, forse avrebbe spronato le province e le forze sotto il suo controllo alla resa.
Ma uccidendola, non avrebbe dovuto preoccuparsi di eventuali tentativi di salvataggio.
Si accomodò sul trono, facendosi servire un calice di vino ghiacciato e un banchetto. Con lui c’erano il figlio Anarsio Calus e alcuni membri della sua corte. Notevole tra gli assenti, era Ausper, che non vedeva dal suo ultimo auspicio, giorni prima.
Con la mente, Calus ripensò agli eventi che avevano portato a quella battaglia così campale e importante…

Quattro giorni prima.
Aristarda Nera entrò nella tenda a passo di carica. Le sue guardie si scansarono. Gli ufficiali attorno a un tavolo e altri due, presenti via radio, s’inchinarono appena.
-Quali notizie?-, chiese, restando in piedi e facendo cenno a tutti di evitare i convenevoli.
-I Variaghi del Nord sono calati sulla Ferencia. Lecneo sta ripiegando con la LXII Legione Auditrix. Non c’è verso che avanziamo via terra. Non con i nuovi rinforzi di Calus.-, disse uno dei presenti. Aristarda annuì. Sapeva dell’intervento delle tribù del nord. Calus si era rivolto ai barbari, prediligendo quel vantaggio all’onore di una guerra tra soli Licanei.
“Posto che uno di noi possa dirsi tale.”, pensò ripensando alle parole di Serena Prima.
Lei poteva discendere da Janus, oppure no. Non importava: il retaggio di Licanes non era carne e sangue, e non sarebbe divenuto mero orpello, non finché viveva.
-Megista?-, chiese. L’indovina, cieca come molti altri, squadrò i bastoncini disposti dinnanzi a sé. Era del Kelreas ma tanto vecchia da essere divenuta quasi impossibile da identificare. La pelle le era divenuta grigiastra, i capelli bianchi e il viso rugoso. La bellezza di tempi che ben precedevano la nascita della stessa Aristarda l’aveva disertata, sostituita dalla veggenza. Megista aveva previsto, le vittorie di Proximo e ne aveva visto anche la fine. Aveva chiesto di accompagnare Aristarda. L’Imperatrix in esilio l’aveva permesso.
-Annientamento. Una speranza viaggia su vele distanti. Le mura di legno eternamente sicure per la tua stirpe.-, disse. Chinò il capo, come in raccoglimento.
-Parla di navi. Una battaglia navale ci garantirà la vittoria?-, chiese un’ufficiale Viragea. Aristarda annuì. Conosceva quell’ufficiale. Ilthea. Un’Amazzone del Kelreas secondo le antiche usanze di quella terra. La sua discendenza dal lontano regno era quasi pura.
-Anche così abbiamo meno navi di Calus. Possiamo chiamare solo l’Ottava e la Quarta Flotta, e pochi elementi della Prima.-, disse Tulibus, uno stratega.
-Le mura di legno…-, disse Aristarda a tutti e a nessuno, -Le galee non sono fatte in legno da secoli. Solo i mercanti le usano in legno… Ora si usano in resina polimerica. È molto più resistente.-.
-Sì. Ma anche più costosa e difficile da produrre.-, ammise un Legato.
-Eppure… una speranza su vele distanti.-, disse Ilthea, -Amici che non conosciamo o nemici destinati a lasciare il campo?-, chiese. Aristarda sospirò. Era una profezia criptica.
-Mia signora. Se persistiamo nell’offensiva perderemo più uomini di quanti possiamo permetterci. Amsio Calus ha ripreso Cartares.-, si permise di dire Loratio, Legato della XXII Legione Viatrix. Ancora, l’Imperatrix annuì. Non capiva.
-Le mura di legno… le mura di legno?-, chiese Tulibus, -E se fossero un forte? Una fortezza in cui rifugiarci? Se la battaglia di cui necessitiamo fosse a terra e non in mare?-.
-Non credo. “La speranza su vele distanti”, è un chiaro riferimento ad una nave.-, rispose Otullo, un campione e prode tribuno della LXII. Era l’ufficiale di grado più alto della sua legione dopo la strage di Leucania dove la LXII era stata chiusa a tenaglia tra i barbari e i lealisti capitanati da Rafidario Siculo.
-Le nostre forze navali sono comunque inferiori a quelle di Calus. Se perdiamo… non avremo più una flotta. E lui potrebbe invadere l’Hibernia, prendere Madridia e chiuderci a tenaglia. Sarebbe la fine.-, fece notare Tulibus. Aristarda rimaneva pensosa, in piedi. Non sedeva sul trono. Non si sarebbe seduta su alcun trono che non fosse stato quello Imperiale, sottrattole dal fratello e negatole da Calus.
-Ma se vincessimo, Calus non potrebbe impedire uno sbarco in Italica.-, ribatté un Legato.
-È un azzardo.-, rispose un ufficiale della VII Legione, -Vincere molto o perdere quasi tutto. Rischiosissimo.-. Altre voci si levarono, ma non quella di Aristarda che scambiò uno sguardo con Ilthea. La Viragea pareva altrettanto combattuta.
-Uscite. Tutti. Tranne Megista e Ilthea.-, ordinò infine l’Imperatrix.
Lo fecero. Rimaste sole, le tre donne si assieparono attorno al tavolo ingombro di mappe tattiche, rapporti e oloproiettori spenti.
-C’è altro?-, chiese soltanto Aristarda, -Non voglio che mi sia nascosto nulla.-.
-Un sacrificio. Un braccio per un pezzo di terra.-, disse Megista dopo aver lanciato e contemplato nuovamente i bastoncini. Era una pratica oracolare antica, provata sin da Licanes ma raramente eseguita.
-Un braccio? L’Imperatrix perderà un braccio?-, chiese Ilthea con uno sguardo stupito e preoccupato. Megista alzò una mano, chiedeva silenzio.
-Un braccio per un pezzo di terra. Un vento di strage.-, disse.
-Dovessi perdere entrambe le braccia andrei lo stesso. Roma mi attende. E quest’Impero da troppo tempo brama insoddisfatto la pace!-, esclamò Aristarda.
-Mia signora! Vi supplico, non ditelo!-, rispose Ilthea, -Voi dovete vivere!-.
-Non vivrò da sconfitta o serva, mia dolce Ilthea. Megista, cos’altro hai visto?-, chiese.
Alla domanda dell’Imperatrix, la veggente rimase silente.
-Io vedo… una lama. Una lama fulgida.-, disse infine la vecchia.
-Una lama?-, chiese Ilthea.
“Una lama…”, pensò Aristarda. Il pensiero di quanto dettole da Serena Prima le passò per la mente, il Coltello della Fondatrice. Non l’aveva consegnato alla Stirpe. E ora? Sarebbe riapparso? L’Esule era forse Alexander Varus? O qualcun altro?
-Le mura di legno…-, iniziò Ilthea.
-Un sacrificio necessario. Un braccio perso.-, rispose Megista, -Non chiedere altro.-.
Aristarda annuì, comprensiva. Bevve appena l’acqua dal calice che le avevano preparato.
-Fai chiamare Nearco. Fagli radunare le flotte. E fai costruire altre navi. Legno o resina non importa. La nostra flotta deve aumentare. Questa battaglia la vinceremo. Ad ogni costo.-.
Ilthea annuì e uscì, seguita da Megista.

Amsio Calus stava copulando piano con Efia. La giovane aveva lo stesso entusiasmo, ma non così l’Imperator, la cui mente vagava tra i ricordi, cercando di capire il senso dell’ultimo gesto di Ausper. Il pensiero non sembrava volergli dare tregua. Lo aveva perseguitato in sonno, durante una riunione al Senato e ora lì, tra le coltri del talamo di Efia. La giovane pareva intuire il turbamento dell’Imperator e si sfilò da sopra di lui.
-Mio signore, cosa vi turba?-, chiese. Calus sospirò. Inutile fingere.
-Devo capire… una cosa.-, disse, -Ti prego di non avermene a male. Non è colpa tua.-.
Lei sorrise, -Ho una ricetta per un elisir della mia gente, nobile signore. Ti renderà nuovamente… possente e spensierato.-. Lui annuì.
-Vallo a prendere. Io ti aspetterò.-. Appena la giovane si fu vestita e fu uscita, Calus si rivestì e fece chiamare Ausper. L’indovino entrò. Piano, lento, senza emettere un suono.
-Mi cercasti, Imperator.-, disse. Nessun altro onorifico, solo Imperator. Solo quello.
-La coppa durante la festa. Cosa volevi dire?-, chiese Calus.
-Ora t’interessa? Notevole quanto tu abbia tentennato. Erano tanto importanti gli affari mondani da distrarti da ciò che ti attende?-, chiese Ausper. La voce pareva un sibilo.
-Ti prego, dimmi. Nobile indovino…-, iniziò Amsio Calus.
-Tu… ti attende una battaglia. Il mare in fiamme. Vedo la morte di eroi ed eroine.-, disse Ausper. Calus annuì, analizzando le parole con mente febbrile. Neanche si accorse di Efia che, avvolta nella sciamma tipica della sua gente, rientrava nella camera con un vaso.
Ausper non parve accorgersene. Alzò una mano scheletrica e prese il braccio dell’Imperator. Calus provò un senso di gelo immane.
-Non toccarmi!-, esclamò. Ausper strinse la presa.
-Aristarda Nera sarà in quella battaglia. Chi vincerà sul mare, similarmente vincerà a terra.-, disse, -Tu devi mandare Ostracio Valio.-.
-Ostracio…-, mormorò Amsio, non capiva.
-Ostracio vuole la tua morte. Il sostegno di cui gode è vasto. Mandalo contro Aristarda e non temere, non sarà più un problema.-, spiegò Ausper.
-Ma la battaglia. Se Aristarda vince… Io non capisco….-, esitò Calus.
-Aristarda… io non vedo se vincerà o meno. Vedo una bandiera distante. Vedo speranza e timore. Vedo… Vedo troppo per poter vedere con certezza. Ma questa battaglia era attesa.-.
Calus annuì. Tremava. Lo sentiva. C’era qualcosa di atrocemente orribile nell’incapacità di Ausper nel penetrare il velo del tempo e dirgli chi avrebbe vinto quello scontro.
Efia, in un angolo, neanche fiatava. Pareva completamente dimentica del vasetto che teneva in mano, inchiodata dalla scena completamente aliena.
-Abbi fede, Imperator. Abbi fede e godi della vita…-, sibilò Ausper con quello che parve un sogghigno. Calus parve sgonfiarsi, rannicchiarsi, senza la benché minima volontà.
-Indovino…-, iniziò Efia, avanzando di un passo. Alzò una mano. Con una rapidità imprevista, il vecchio le afferrò il polso. E con sorpresa di Calus, Efia non fece una piega.
-Voglio sapere…-, iniziò la giovane nera. Un ghigno apparve sulle labbra inaridite.
Sussurrò qualcosa che Amsio Calus non sentì. Poi uscì. Efia rimase immobile.
-Cos’ha detto?-, chiese l’Imperator. La giovane scosse il capo.
-Nulla di che…-, disse, -Ma Imperator, sembrate turbato.-, aggiunse. Si avvicinò, facendo un movimento di anche che faceva presagire piaceri prossimi.
-L’unguento… è quello?-, chiese Calus. Lei sorrise. Aprì il vasetto.
-Spezie afrodisiache. Rendono un uomo vigoroso e una donna passionale. Strappano i pensieri alla mente lasciandovi il godimento.-, disse con sicurezza. Denudò l’Imperator come se fosse stato un bimbo impaurito, con pazienza e delicatezza.
-Lascia che ti unga con questo balsamo, mio signore.-, la mano della giovane fece su e giù lungo il membro, unta di quella mistura che al contatto sprigiono un calore gradevolissimo. L’Imperator gemette, in un momento imprecisato, l’applicazione del balsamo era divenuta masturbazione in piena regola. L’altra mano di Efia era altrove, tra le cosce della nera, oltre il tessuto, nei baratri roventi in attesa di più corpose invasioni.
-Prendimi.-, ordinò lei alzandosi. Si liberò della veste in un gesto. Sotto non c’era nulla. Si stese sul letto. Amsio Calus non riusciva a pensare, non riusciva neanche a considerare altro che non fosse quella donna, e il suo sesso bramoso di possederla.
Affondò in lei trovandola rovente e umida. Efia intrecciò le gambe, avvinghiandolo, intrappolandolo. Spinse il bacino contro il suo. Amsio prese a pompare.
Il suo membro gli pareva aumentato di dimensioni. La vulva della nera pareva insaziabile, stretta più del solito. Sentiva il cuore come una belva autonoma in petto.
I gemiti di entrambi divennero una cacofonia discordante e inumana, finché con un grugnito prepotente e un ultimo colpo di reni, l’Imperator non si versò interamente nella vagina di Efia mentre lei godeva di un altro travolgente orgasmo, crollando come abbattuto. La giovane lasciò che si togliesse e si assopisse accanto a lei, finalmente soddisfatta.

Il giorno successivo, Amsio Calus appuntò l’ammiraglio Ostracio Nivreo come capo della flotta combinata. Le spie supponevano che Aristarda avrebbe tentato uno sbarco in Italica e che le forze traditrici fossero pronte a giocarsi il tutto per tutto visto il pantano che era divenuto il fronte terrestre in Ferencia.
Ostracio Nivreo accolse la nomina con stupore ma anche con lieta felicità. Chiamò a sé i suoi ufficiali e preparò il piano. Aristarda aveva meno navi e doveva attaccare.
Praticamente la battaglia era già decisa in partenza, ma Ostracio non era un ufficiale come troppi altri, baldanzosi e sicuri. In più, era un membro della Stirpe. Un discendente diretto dei Fondatori. Intendeva usare quella vittoria se vittoria fosse stata, per strappare Calus dal Trono e insidiarvisi. Così facendo era certo che Serena Prima sarebbe tornata nei ranghi. Poi, Eria avrebbe recuperato la Lama e tutto sarebbe stato sistemato.
Un piano antico di secoli stava finalmente compiendosi.
Dubitava che Aristarda avrebbe vinto, ne dubitava fortemente e intendeva sincerarsi del suo annientamento.

Aristarda osservava il varo, pensosa. Le navi erano costruite in fretta, rapide ma prive di armi se non le più elementari. E il braccio di mare in cui la flotta nemica stava presentava poche possibilità. Anche se forse… Fu distratta dall’arrivo di Ilthea. La bella giovane dalla carnagione ambrata tipica delle discendenti del Kelreas si avvicinò con piglio serio.
-Mia signora! È giunto un messaggero.-, disse la giovane. Aristarda annuì.
-Di chi?-, chiese mentre voltava le spalle alle operazioni di varo della nave.
-Non l’ha detto. Non ha neppure detto come si chiama.-, Ilthea porse qualcosa.
-Ha detto di mostrarti questo. Che avresti compreso.-, disse.
Aristarda osservò l’oggetto. Un coltello lungo, la lama leggermente curva, un’arma che pareva sfuggita ai miti per tornare nel presente, la stessa ritrovata sulla scena della morte di Socrax. Un arma con un nome breve e lunghissime leggende al seguito. Un Tantō
-Dov’è?-, chiese. Ilthea fece strada.

Il messaggero sedeva nella tenda, al tavolo di guerra con assoluta calma a dispetto delle guardie che lo tenevano sott’occhio. Era un giovane dal viso spigoloso, gli occhi come spilli, marroni. I capelli non c’erano: era rasato. E indossava un pastrano nero, in cuoio. Lungo sino alle caviglie, pareva il suo abito d’elezione, così come gli stivali in cuoio che calzava, visibili grazie al fatto che tenesse le gambe appoggiate su una sedia con apparente noncuranza. All’entrata di Aristarda tuttavia si alzò e s’inchinò leggermente.
-Ave Aristarda Nera figlia di Antonio, Imperatrix per diritto di nascita e di primogenitura.-, disse con voce calma. Unì le mani in un saluto a mani giunte.
-Ave, straniero. Mi è stato mostrato il tuo… coltello. Anche il mio precettore possedeva una lama simile.-, rispose l’Imperatrix. Lo sguardo dell’uomo si velò appena.
-Socrax. Sì. Egli era uno di noi.-, disse. Aristarda s’incupì.
-Di voi chi?-, chiese. Lo sguardo dell’uomo si spostò impercettibilmente verso le guardie.
-Guardie. Lasciateci. Tutte tranne Ilthea.-, ordinò l’Imperatrix in esilio.
Eseguirono. L’uomo riportò lo sguardo su Aristarda.
-È la mia prima guardia. Metto la mia vita nelle sue mani, ogni giorno, da quando Vera è partita. Mi fido di lei come di me stessa. Ha diritto a restare. Se hai problemi al riguardo ti prego di andartene.-, chiarì la donna con tono inflessibile ma pacato.
-Se questa è la tua volontà.-, disse l’uomo.
-Come ti chiami?-, chiese Aristarda.
-Puoi chiamarmi Shrike.-, disse lui.
-È bravo. Silenzioso e mimetico come pochi altri.-, fece notare Ilthea, -Non siamo stati noi a trovarlo, ma lui a sedere in questa tenda. Avrebbe potuto fare molto altro, se fosse stato un nemico. O magari lo farà.-. L’uomo le sorrise.
-Coraggiosa e onesta. Una persona degna di fiducia.-, disse senza ammettere né negare.
-Basta. Chi sei, Shrike? Ti manda Serena Prima? Ricevetti la sua offerta e la rifiutai poiché mi sarebbe costata l’onore. Tu cosa mi chiederai?-, chiese Aristarda.
-Nulla, se non di ascoltare.-, rispose Shrike, -E forse dell’acqua.-, aggiunse.
-Ilthea, chiedi dell’acqua.-, ordinò l’Imperatrix in esilio.
Arrivata che fu l’acqua e congedato il servitore, Shrike iniziò.
-Il mio nome è Mateus Shrike, ma alcuni mi chiamano Il Corvo. Nacqui a Khiavir, ma questo nome non è importante. Ciò che importa è che fui reclutato. Un gruppo chiamato Justicarii mi prese con sé all’età di diciassette anni. In quel gruppo, vi era anche il tuo precettore, Socrax.-, raccontò, -L’obiettivo del gruppo non era semplice o manifesto ma, per renderlo chiaro ti dirò soltanto che siamo… guardiani, custodi e giustizieri. Non tutti operiamo allo stesso modo, alcuni in modo palese, altri nell’ombra, ma tutti agiamo per difendere chi non ha difesa, e portare la giustizia su chi si crede al di sopra di essa.-.
-E cos’ha a che fare questo con me e con Socrax?-, chiese Aristarda.
-Socrax fu uno di noi. Il nostro Ordine precedette la nascita di Licanes, di molto. Esisteva sin da prima della catastrofe. E, se così dovrà essere, continuerà a esistere ancora a lungo. Le nostre lame sono antiche, furono brandite da pochi, poi divennero simbolo di speranza e oggi i più le hanno dimenticate. Ma ancora, a Licanes vi fu chi usò queste forme per forgiare lame a guisa delle nostre, un esempio della nostra influenza, prima che i maggiorenti della città, ubriachi del potere e della ricchezza dessero inizio alla guerra che ne vide la fine.-, spiegò, -Ma neppure questo fermò la nostra missione. Vi fu chi, all’alba dell’Impero fondato dagli Esuli, si arruolò presso di noi. La nostra è una… fratellanza occulta. Siamo costretti a svanire dalle pagine della storia come un mito indistinto poiché nei secoli l’odio di molti ci ha visti bersaglio di attacchi e ricerche e noi intendiamo restare indistinti, come fantasmi nella nebbia.-, Shrike prese un sorso d’acqua e si versò un secondo bicchiere, – Nei secoli, con l’espandersi dell’Impero, molti giunsero presso Roma, sotto mentite spoglie e presero a sorvegliare che la condotta dell’Impero non recasse più danno di quanti benefici garantisse. Purtroppo, ci accorgemmo presto che un altro gruppo teneva d’occhio il Trono Imperiale.-.
-La Stirpe… I discendenti di Janus.-, disse Aristarda. Non era una domanda.
-Loro divennero i nostri nemici e la nostra guerra ombra fu infinitamente più terribile del conflitto che sta dilaniando l’Impero. Inseguimmo i nostri nemici in luoghi maledetti come le rovine di Crynoblia o le Isole Sommerse. Molti di noi non fecero ritorno. Ma la storia dell’Impero continuava, come scritta su pergamena e presto, sorsero despoti e sovrani illuminati, manovrati sia da noi che dalla Stirpe. Eppure, riuscimmo a persuadere uno di loro ad abbandonare le loro vie. Socrax divenne uno di noi. Purtroppo, proprio in quel periodo, la Stirpe attaccò con le sue forze il nostro tempio, l’ultimo nostro rifugio, disperdendo la nostra confraternita ai quattro angoli del mondo.-, spiegò Shrike.
-È follia…-, disse Ilthea, -Staresti dicendo che tu e i tuoi sareste all’origine di molti dei cambiamenti nell’Impero?-, chiese. Shrike annuì appena.
-Non solo noi. La Stirpe manipolò senatori e indovini, finanche gli stessi Imperatoris di intere dinastie, cercando di tornare sul Trono. È quello che vogliono e quando lo otterranno si assicureranno che tutto il mondo divenga dominio di Roma.-, rispose.
-E non sarebbe buona cosa?-, chiese Aristarda, -Non è forse la nostra la più fulgida delle civiltà?-. Shrike scosse il capo.
-Abbiamo assistito al suo innalzarsi dalle polveri di un mondo morente, ma ora assistiamo alla sua caduta. L’Impero è già caduto, Aristarda Nera, che tu lo voglia o no. Avete scelto la smania di potere, perso di vista la verità e perso il favore dei vostri dei e perderete anche il resto. Ma c’è speranza di salvare qualcosa. Poco, ma c’é. E quella speranza è ciò che mi spinge a venire a te.-, rispose.
-Ma… perché? Perché l’Impero è condannato?-, chiese Aristarda, i pugni stretti tanto da sbiancare le nocche. Shrike parve incupirsi.
-Tutto ciò che sale, prima o poi deve scendere. È la via di tutte le cose. Tutto ciò che comincia, finisce.-, disse, -È così che deve essere. E le ingiustizie perpetrate dall’Impero hanno da tempo sancito la sua fine. A te pertiene un compito: aprire la via al domani.-.
-La Stirpe vuole lo stesso. La loro Cerchia esige che la verità si palesi, ma che l’Impero resti. Non avranno pace finché non assurgeranno al dominio del mondo, ma non comprendono che tale dominio non è né mai sarà voluto. Lo imporranno, e a miliardi periranno tra i fuochi della loro ambizione.-, rispose.
-Se l’Impero è condannato… a che serve questa guerra civile?-, chiese Ilthea.
-A preparare la transizione. È una purga. È un conflitto voluto per purgare l’impero dal suo veleno. Purtroppo non saranno solo i marci a morire.-, disse Shrike.
-Voluto da chi?-, chiese Aristarda. Shrike le sorrise, quasi beffardo.
-Tu diresti… dagli Dei.-, rispose. L’Imperatrix picchiò un pugno sul tavolo.
-Basta! Cessa di proferire simili idiozie e dimmi la verità! Che cosa vuoi?-, chiese.
Impassibile, Shrike si alzò, avvicinandosi di un passo all’Imperatrix in esilio.
Ignorando la mano di Ilthea che si muoveva verso il gladius alla cintola, le mise una mano sulla spalla. Aristarda rimaneva immobile, gli occhi piantati nei suoi.
-La verità è che io e i miei fratelli e le mie sorelle siamo con te, Aristarda Nera. Non sei la nostra sovrana, ma sei più degna di altri. E ti aiuteremo nell’ora del bisogno, stanne certa.-, disse con tono fermo.
-Mi aiuterete?-, chiese Aristarda, -Come?-. Persino Ilthea parve confusa.
-Fai vela verso il Mare Internum. La flotta lealista è alla fonda a Agripatus, vicino all’Istmo. Attaccatela. Sarà costoso, ma la vittoria ti garantirà la testa di ponte in Italica che necessiti per chiudere il conflitto.-, Shrike si allontanò di un passo.
-La Cerchia… la Stirpe saprà che so. Reagiranno.-, commentò la donna.
-Sì. Maktub.-, rispose Shrike. Ilthea lo guardò strano.
-Così è scritto, in una lingua antichissima.-, spiegò. Aristarda annuì.
-E come mi aiutereste tu e i tuoi?-, chiese. Shrike sorrise.
-Non sono i miei. Ma non temere. Procedi sulla tua via conscia che siamo al tuo fianco.-.
Porse la mano verso Ilthea. –La mia lama.-, disse. La giovane guardò l’Imperatrix che annuì. Porse il Tantō. Lui lo risistemò alla cintola.
-Non porti altre armi.-, disse Ilthea.
-Le ho, ma voi non le vedete.-, rispose lui, -Se vi avessi volute morte, lo sareste già da molto. E così anche tutti quelli in questo campo.-. Una corrente gelida passò su di loro.
-Aspetta…-, disse Aristarda fermandolo mentre usciva. Lui si fermò. Non si girò.
-Come ti contatteremo per… coordinarci?-, chiese.
-Sarò io a trovare voi, ma non temere: una dei miei è con te da molto, anche se ora è in terre lontane, a cercare un uomo e una reliquia prima che sia un demone a trovarli.-, disse.
-Vera… È una di voi?-, chiese Aristarda, stupita. Vi fu un cenno di assenso dall’uomo.
-E ve ne sono altri, ma stai attenta. Ci sono anche infiltrati della Stirpe. Ne ho uccisi due. I loro corpi sono nel magazzino delle munizioni.-, disse Shrike.
-Chi?-, chiese l’Imperatrix. L’uomo scrollò le spalle.
-Chissà. Servi senza importanza. La Cerchia non è folle: i suoi assetti più rilevanti sono altrove.-. Uscì senza dire altro né fare suoni. Come uno spettro.

-Mia signora, voi gli credete?-, chiese Ilthea. Aristarda non rispose, non subito.
-Non so.-, ammise, -Queste storie di società segrete, di guerre ombra, di congiure e confraternite millenarie sono poco più che racconti da appendice. Cara Ilthea, io posso dirti invero che tutto ciò su cui posso contare è ciò che vedo, e coloro di cui mi fido sono solo quelli che conosco.-.
Le sovvenne alla mente il ricordo di una delle profezie di Megista. Una lama…
“Perché non questa?”, si chiese ripensando al Tantō di Shrike e a quello di Socrax.
-Le nostre spie hanno fatto rapporto?-, chiese. Ilthea scosse il capo. –Non ancora.-.
-Verifica la posizione della flotta nemica.-, disse l’Imperatrix in esilio. Ilthea s’inchinò e uscì. Aristarda invece si avvicinò ad un angolo della sua tenda. C’era una teca. La aprì.
Prese in mano il Tantō di Socrax. L’aveva tenuto per ragioni che sul momento non era realmente riuscita a capire ma ora intravedeva qualcosa. Un disegno perfetto.
Uno schema prossimo a compiersi, l’arazzo di una storia in cui lei non era protagonista, ma occupava comunque un ruolo notevole.
Ripose il Tantō sul letto. Il fodero era laccato, secondo usi che non erano di Licanes ma che non avrebbero sfigurato certamente. Si avvicinò alla sua armatura. Sistemò il Tantō alla cintola. Vittoria o sconfitta, avrebbe portato quella lama con sé.
Attese sino a cena quando Ilthea giunse con le notizie: la flotta nemica era alla fonda come detto da Shrike. E l’Imperatore Calus avrebbe assistito alla battaglia da un punto sicuro, pavido e tronfio come un antico re di Licanes.
Aristarda Nera pregò gli Déi di concederle la vittoria.

All’ombra del palazzo imperiale, due figure ammantate s’incontrarono.
-Dunque? Tutto come da copione?-, chiese una.
-L’Imperator è un idiota. Bada solo a soddisfare la sua lussuria. Ora attende la sua battaglia, nella speranza di vincere.-, confermò l’altra.
-L’Impero con lui terminerà la sua caduta, com’è giusto che sia. Hai fatto un buon lavoro, Efia. Immagino che Ausper ti abbia detto…-, disse l’altra.
-Sì. Quindi il mio debito è pagato? Posso finalmente raggiungere la mia gente?-, chiese Efia. C’era qualcosa in quella voce, consapevole desiderio, nostalgia troppo a lungo trattenuta. L’altra sorrise.
-Un patto è un patto, sorella. La nave attende a Hostea, a poche miglia da qui. Nessuno ti farà domande. Sbarcherai in Numisia e da lì alcuni amici ti porteranno verso il tuo regno.-, disse l’altra. Si fissarono. Occhi negli occhi.
-Grazie, Delsia.-, rispose Efia, -Ma tu cosa farai?-, chiese.
-Io ho fatto la mia parte e da quando la vendetta che aspettavo mi è stata data la vita per me ha perso molto del suo valore. Ho ancora una parte da recitare ma non mi aspetto di vedere la conclusione di tutto questo.- rispose l’altra. Efia non rispose. Si avvicinò appena.
-Mi mancherai.-, disse soltanto. Lo pensava davvero. Delsia Armisa Peonia sorrise.
-Anche tu. Ma ognuno ha la sua strada. Io ho scelto la mia. E ora la devo percorrere sino alla fine.-, disse. Si separarono.

Amsio Calus cercò Efia ma la giovane pareva sparita. La fece cercare dalla sua Guardia per tutta Roma ma di lei nessuna traccia. L’Imperator si consolò presto con altre cortigiane e col pensiero che presto, Aristarda Nera sarebbe stata sconfitta. Dopodiché avrebbe potuto dedicarsi a Nimandeo Feral, con cui sapeva di poter trattare. Quell’uomo non era così folle da volere il Trono. A volte, Calus pensava che sotto tutta la sua pietosa infatuazione per gli usi barbari, Feral fosse stato uno dei pochi sufficientemente accorto da riconoscere il Trono come un premio avvelenato, gravato da troppe ambizioni per essere ancora puro.
Come forse era l’Impero? Se lo chiese.
Forse Efia se n’era andata per via di quella consapevolezza? O forse invece a causa sua?
Amsio Calus non lo sapeva. Non lo voleva neppure sapere.
Ma sapeva che la battaglia finale era vicina. Vicinissima.

Delsia Armisa Peonia attraversava i corridoi rapidamente. Vide dignitari e schiavi. Nessuno fece domande. Il cappuccio calato sul viso, la maschera che riproduceva le fattezze di una donna ben più anziana, poteva essere scambiata per una legista o una burocrate. Vide Variato. L’uomo la notò. Lei gli fece cenno di avvicinarsi.
-Perché sei tornata?-, chiese. Era addolorato, perché come lei sapeva ciò sarebbe stato.
-Ho un compito, e voglio servire. Efia è al sicuro, come promessole. Ora…-, gli diede un biglietto, -Fai ciò che devi.-.
-Non puoi chiedermelo…-, sussurrò lui. Lei gli sorrise.
-Devo. Sei l’unico che può. Calus ha licenziato il resto della guardia ma non te. Penserà di farlo. Devi dargli modo di non farlo. E c’è una sola maniera.-, disse lei.
Variato Antiparo, nobile guerriero di licaneo lignaggio, discendente lontano di Sullastio, uno dei compagni di Janus durante l’Esilio, sospirò. Delsia si tolse la maschera. Lui la baciò, disperatamente, con quell’amore che mai aveva potuto mostrarle, la strinse con forza e lei si strinse a lui. Il loro era un abbraccio di addio, un bacio di commiato.
-Forza.-, sussurrò lei. Lui annuì. E colpì.

Amsio Calus era intento nel banchetto serale quando lo vide. Variato. Il capo della Guardia dell’Imperator. Scortava una donna che sul momento Amsio non riconobbe. Poi la vide bene e si stupì. Era Delsia Armisa Peonia, la donna che aveva ucciso Septimo Nero.
-Delsia Armisa Peonia!-, esclamò, -Come l’hai trovata?-, chiese al milite.
-Era diretta ai vostri alloggi, mio signore. Aveva con sé un pugnale. Mi pare chiaro che sia un’assassina.-, disse lui.
-Pagata da chi? Aristarda? Nimandeo?-, chiese lui avvicinandosi. La donna lo guardò con odio. Odio assoluto. Rendeva i suoi lineamenti più belli che mai, fiera come una leonessa.
-Serena Prima manda i suoi saluti.-, disse sprezzante.
-Serena Prima!-, esclamò Calus. Voltò le spalle alla donna ammanettata e guardò distante.
-A tanto arriva il suo odio?-, chiese a nessuno in particolare.
-Mio signore. Di lei cosa facciamo?-, chiese Variato.
-Sia uccisa. Senza indugio né cerimonie funebri, come spetta agli assassini.-, decretò Calus.
-Ottimo lavoro, Variato. Ora so che posso fidarmi di te.-, aggiunse.
-Grazie, mio signore.-, disse lui composto e fiero.
Poche ore dopo, Calus assistette alla morte di Delsia Armisa Peonia. La donna morì sprezzante, uccisa per decapitazione come previsto dalle leggi di Licanes.
Nel vederla morire, Amsio Calus ricordò la profezia di Eria, dettagli nel Tempio della Dea del Kelreas. “Più forte del Re, il vino. Più del vino, una donna, ma su tutti trionfa la verità”.
La verità qual’era? Se lo chiese. Ma non trovò risposta e preferì concentrarsi sull’organizzare il viaggio che l’avrebbe portato ad assistere al trionfo della sua flotta.

Variato Antiparo aveva amato Delsia Peonia sin dal primo giorno. Il suo era stato un amore silenzioso, un tormento immane consumato nel più assoluto riserbo e senza la benché minima espressione al di fuori di piccoli gesti gentili. Quando Delsia aveva ucciso Septimo, l’aveva aiutata a fuggire. Ma ora…
Ora Delsia Peonia era morta. Uccisa da lui, per compiere una missione terribile e indispensabile. Un sacrificio inconcepibile ai più che lui aveva tuttavia accettato di fare.
Eppure, sentiva che quel vuoto, il vuoto che quella morte aveva spalancato dentro di lui non si sarebbe mai più riempito. Una parte di Variato era morta con Delsia.
Forse, la parte migliore, più umana.
A quel punto, per lui restava solo il dovere. Il ferreo, assoluto, dovere.

Aristarda osservava la flotta. Era notte fonda.
Ilthea, accanto a lei, semplicemente attendeva che l’Imperatrix rientrasse a coricarsi, ma la donna pareva immersa in elucubrazioni che la inchiodavano sul posto, insensibile finanche alla stanchezza. Il silenzio pareva una cappa di piombo che avvolgeva le due donne.
-Non posso restare qui.-, disse Aristarda.
-Mia signora?-, chiese Ilthea. Che significava?
-Coloro che mi seguono vivono e combattono, uccidono e muoiono per me. Penso sia ora di fare lo stesso. Dai l’ordine che io stessa parteciperò allo scontro.-, disse.
-Mia signora! No… Voi…-, Ilthea si fermò. Non si confaceva a una guardia parlar così alla sua sovrana, ma doveva. Doveva!
-Mia signora, potreste morire!-, esclamò Ilthea. Aristarda la fissò negli occhi, i suoi parevano tizzoni brucianti, avvolti da una fiamma eterea di rabbia e vendetta.
-Tutti muoiono, mia giovane Ilthea. Tutti. Giovani o vecchi, uomini o donne, deboli o forti, liberi o servi, potenti o meno. Pensi forse che Yneas, il Dio dei Morti, mi risparmierà per la mia porpora? Pensi forse che esiterà a recidere il filo della mia vita?-, chiese.
-Ed è per questo che non potete andare. Ogni uomo o donna che combatte sotto le vostre insegne lo fa per voi. Per voi! Se moriste… sarebbe la fine.-, insistette Ilthea.
Nei suoi occhi balenò qualcosa. Un dolore appena accennato.
-La fine ci attende in ogni caso. I barbari di Calus stanno preparando un attacco. Se sfonderanno in Ferencia dilagheranno sino in Hiberia. Dobbiamo aprire questo fronte. Dobbiamo sfondare per primi.-, rispose Aristarda, -Se perderemo, sarà come se fossimo già vinti.-. A quelle parole, Ilthea tacque un attimo.
-Mia signora, io… capisco. Ma mi stai chiedendo di mancare al mio dovere!-, esclamò.
-Giammai! Tu verrai con me, dolce Ilthea! E mi proteggerai come sempre hai onorevolmente fatto!-, esclamò Aristarda. Le due donne erano vicine, vicinissime.
-Mia signora… darei il mio ultimo alito di vita per voi.-, sussurrò l’amazzone.
-Lo so. E so che piangerei la tua morte mille e mille volte.-, disse Aristarda. Baciò Ilthea sulle labbra. Le due donne condivisero un bacio lungo, profondo, l’abbraccio più stretto e pieno che potessero darsi. Un’ultima sfida al fato incombente.
Il filo rosso del desiderio parve avvinghiarle entrambe. Si baciarono di nuovo, stavolta più a lungo, senza temere d’esser viste.
-Lo volevo tanto.-, sussurrò Ilthea con il fiato rotto da respiri brevi eccitati.
-Immaginavo. Lo vedevo da come mi guardavi.-, rispose Aristarda Nera, la sua voce altrettanto rotta dal desiderio. Si abbracciarono di nuovo e andarono verso la tenda dell’Imperatrix. Ilthea prese l’iniziativa e svestì piano, con riverente rispetto, l’amata.
Si svestì poi della corazza ma piazzò il pugnale sul tavolo, a portata di mano.
Nude, si avvinghiarono in un nuovo abbraccio. Ilthea era rasata, depilata con cura, e lungo il braccio destro si snodavano cicatrici. Era una guerriera. Aristarda leccò quelle cicatrici, le cercò, come medaglie da glorificare, memento di sacrificio. Baciò i seni dell’amazzone, mentre questa gemeva piano. Si distesero sul tavolo, con Ilthea che, accomodata tra le cosce dell’Imperatrix in esilio, la leccava piano, stimolandone i punti più sensibili con abilità sublime. Aristarda ricordò Proximo per un breve istante. Fu solo un secondo, un singulto di cosciente rimpianto per non averlo più al suo fianco. Poi il piacere prese il sopravvento, accarezzandosi e guidando i movimenti di Ilthea, godette sul viso della giovane dalla carnagione ambrata, schizzando piacere e venendo scossa da un orgasmo che montò come un onda anomala, abbattendosi presto sulle spiagge della sua percezione, lasciandola ansimante nel piacere più intenso che avesse provato da settimane.
-Penso che tocchi a me ricambiare.-, sussurrò Aristarda. Ilthea si stese e l’Imperatrix prese a baciarla dov’era più sensibile, ma fermandosi per prendere un oggetto da una cassapanca vicino alla branda. Incuriosita, l’amazzone si alzò a vedere.
-Questo è un Osilbos.-, spiegò Aristarda mostrandole un sesso maschile doppio realizzato in legno, -So che in Kelreas le Amazzoni lo usavano tra loro quando la penuria di maschi era particolarmente protratta.-, disse notando lo sguardo lascivo di Ilthea.
-Permettimi…-, sussurrò indicandole la branda. L’amazzone si stese. Aristarda si penetrò con il dildo e poi penetrò Ilthea. Si diedero a lungo reciprocamente piacere, godendo l’una dell’altra, l’una con l’altra, mai sazie. I loro capelli formarono un sudario, i loro umori si mischiarono e infine giacquero una sull’altra, abbracciate, alla deriva nel presente, sussurrandosi frasi che non avevano senso, ubriache di godimento.

Calus contemplò il trono. Era alto tre metri, scolpito dal legno bianco degli alberi sacri al popolo dei Rusi delle Isole di Rhea-Sarmatika. Dopo la ribellione di Nimandeo, quel materiale era oltremodo raro nell’Impero. Adorno di bassorilievi e fregi narranti la gloria di Roma e di Licanes, era un meraviglioso scranno su cui osservare la vittoria. Comprendeva anche un olotrasmettitore personale e una postazione vox, oltre a una corazza a rapido dispiegamento in polimeri a prova di armi termiche o a proiettili solidi.
-Perfetto.-, disse. Ordinò di portarlo in posizione.
Presto avrebbe assistito alla definitiva disfatta di Aristarda Nera.

Il rito della vestizione dell’armatura era qualcosa che Aristarda avrebbe potuto non svolgere. Di fatto Ilthea e altri avrebbero potuto farsene carico, vestendola con perizia e rapidità ben maggiore di quanto avrebbe fatto lei da sola.
Ma non l’avrebbe permesso. Non quel giorno.
Dopo la colazione, aveva congedato tutte le guardie, i Legati, i Capitani di vascello e l’ammiragliato, chiedendo di stare sola. Si era seduta nella postura dei monaci Zen-Shura e aveva tentato di centrarsi. Non le era mai riuscita la meditazione.
Poi si era spogliata degli abiti regali restando con il reggipetto e il chitone minimo a coprire le intimità. Si era lavata, cospargendosi la pelle con gli unguenti. Era un rito antico.
Aveva indossato il chitone esteso, una sorta di gonna che arrivava sino al ginocchio. La versione delle amazzoni del Kelreas era poco più corta, quella che fu dei Cimanei arrivava sino al legamento crociato. Sopra di esso aveva assicurato il fiancale in piastre, che proteggeva le cosce e i fianchi. Al di sopra, sul petto fasciato da una veste semplice aveva indossato la Lorica Pretexta, l’armatura imperiale designata sulle antiche corazze licanee a scaglie in materiali ultraleggeri ma resistenti. Poi aveva indossato i bracialia, corazze per proteggere l’esterno delle braccia dai colpi, in metallo sbalzato con fregi beneauguranti.
Infine indossò i calicei bellici, gli stivali comprensivi di schinieri alti quasi sino a metà polpaccio. Li assicurò con nodi rapidi e fermi.
Prese l’elmo. Indossarlo o non indossarlo? L’avrebbe protetta ma, da che mondo era mondo, i comandanti di Roma e di Licanes combattevano a viso scoperto, senza timore per le proprie vite. Indossarlo sarebbe stato prudente ma la prudenza sarebbe stata non presenziare a quello scontro. Ci rifletté. Passò alle armi.
Arco e frecce, secondo la tradizione del Kelreas. L’arco era un composito ultraleggero, capace di scagliare frecce sino a duecento metri di distanza con una forza di poco inferiore a quella di un proiettile. La spada invece…
La guardò. Eccola la sua lama: dritta, un gladio stupendo a vedersi. Il Gladio.
L’arma iconica dei regnanti di Roma. In acciaio damascato, battuto venti volte dai migliori fabbri, dal piatto inciso con immagini della Caduta di Licanes, e della Fondazione.
Quello dell’Imperatrix che era e che si sapeva sarebbe divenuta. Quel gladio che era simbolo di tutto ciò che di giusto era rimasto nell’Impero.
Ma lo era? L’Impero era ancora degno di dirsi giusto? No. Non dopo Septimo. A ben pensarci, neppure lei era pura. Se fosse stato così, non si sarebbe ribellata, avrebbe accettato il suo posto, e non avrebbe conteso a Septimo, suo fratello!, il Trono.
Ma l’orgoglio, il dannato orgoglio che da sempre la accompagnava non l’aveva permesso.
L’altra lama era aliena, e cara. Era il Tantō di Socrax. L’arma di un uomo che Aristarda aveva stimato e apprezzato come nessun altro mai. Un maestro, un esempio.
E un guerriero, anche se nessuno, neppure lei, l’avrebbe mai detto.
Lo prese. Era leggero. Se lo assicurò alla schiena, legandolo alla faretra prima di metterla a tracolla. Sopra di essi, agganciato alle spalle della Lorica, dispose il manto di porpora imperiale. Assicurò alla cintola il Gladio.
Era pronta. Ilthea entrò. La guardò. Annuì. E Aristarda sorrise. Mise l’elmo.
-Sono il vostro scudo e il vostro braccio, mia signora.-, disse Ilthea. L’Imperatrix annuì alla formula rituale e uscì con lei. Era tempo d’imbarcarsi.

Ostracio Nivero, saldamente al comando della flotta lealista, osservava il mare. Sapeva che le sue navi avevano la superiorità numerica, doveva solo spezzare il morale di Aristarda e dei suoi. E, per far sì che non ci fossero fuggitivi, che quella battaglia fosse vittoria totale, aveva ordinato alle navi più piccole di chiudere l’Istmo di Agapore, bloccando l’accesso agli stretti circostanti e costringendo la flotta nemica a scontrarsi in mare aperto. In disperata inferiorità numerica e contro navi molto più potenti.
Aveva saputo da una spia che Aristarda stessa sarebbe stata presente. Era l’occasione di chiudere i conti. Tutti. Poi la Stirpe avrebbe regnato.
Si assicurò che i suoi uomini fossero pronti. Erano tutti leali alla Stirpe e alla sua missione, sia che ne fossero a conoscenza, sia che lo ignorassero.
Ostracio non era nuovo alle battaglie campali. Fu presente come milite di marina durante la sconfitta della Flotta Pirata Cilicia e non poteva dire di ricordare momento più glorioso.
Ma la sconfitta di Aristarda avrebbe certamente potuto rivaleggiare con quel giorno.

Il mare era solcato dagli scafi. Navi principali, rapide corvette che scivolavano su scafi di polimeri, trasporti truppe e le più rapide imbarcazioni in legno.
Aristarda inspirò l’aria di salsedine, chiudendo il passato nella sua mente e concentrandosi sul presente. Sotto l’elmo, sentiva il caldo di un giorno che sarebbe entrato nella Storia. Il peso del fato gravava sulle sue spalle fiere, schiantando esseri inferiori come fuscelli.
Ma lei, immobile sul ponte, arco in pugno e con Ilthea al suo fianco, sorrideva.
Se avesse vinto, avrebbe potuto reclamare il Trono e forse, salvare l’Impero dalla corruzione che lo stava dilaniando. E se avesse perso…
Se avesse perso avrebbe fatto sì di vendere cara la pelle e ricordare ad Amsio Calus che il retaggio di Licanes era per prima cosa la volontà di ardere come fiamme, non pavidi a nascondersi, ma fieri e indomiti sino alla distruzione, affinché Yneas accolga benevolo le anime dei valorosi caduti.
Le navi ai suoi ordini erano ben duecentosessanta, ma molte erano vascelli piccoli e leggeri. Calus aveva il doppio delle navi. Ed erano navi da guerra costruite per quel solo scopo. Il dato, tuttavia, era ormai tratto.
-Ripiegheremo nell’Istmo se le cose dovessero andare male. È largo a sufficienza per imbarcazioni piccole ma non permetterà alle forze di Calus di seguirci con agio.-, disse il capo della flotta, l’Ammiraglio Nearco. Lei annuì. In realtà, era il miglior piano possibile.
Il vento soffiò su di loro. Un vento differente da ogni altro.

Assiso in trono con compiacimento, circondato dalle sue guardie, Calus osservava la sua flotta. Lentamente ma inesorabilmente vide quella avversaria comparire all’orizzonte.
Non trattenne un riso di scherno. A dispetto dei suoi migliori sforzi, Aristarda aveva molte meno navi di lui. Era già decisa, come battaglia.
-Ammira, figlio! Ammira la disfatta dei nostri nemici!-, disse al figlio diciottenne Anarsio.
-Padre, non temi che possa essere una trappola?-, chiese questi. Calus fece un gesto noncurante con la mano, afferrando una pagnotta e strappandone un pezzo con voracità.
-No. Fidati. Non c’è possibilità che lo sia. Potranno solo ripiegare verso gli stretti.-, disse.
-Serviti del vino, figlio. Brindiamo alla vittoria. Alla morte di Aristarda Nera.-, esortò alzando il calice dorato.

Il suono delle trombe che segnalavano l’attacco e segnali di vario tipo spezzò il silenzio. Ordini furono urlati e ripetuti. Non tutte le navi di Aristarda disponevano di comunicatori e quindi si era reso necessario ripiegare su mezzi meno tecnologici per coordinare la flotta.
-Vendetta di Prya, Ala del Corvo, Aristarda Domina, fare rotta verso gli Stretti. Ci assicureremo una via di ripiegamento. Le altre navi, procedere a muro. Balistae e Scorpionis pronti al fuoco. Bersagli prioritari, batterie nemiche e navi maggiori. Le navi più piccole si preparino ad azioni d’attacco.-, Aristarda attese che gli ordini fossero dati, poi, salita sul cassero della nave, alzò la voce. Ilthea le passò un vox comunicator connesso a degli amplificatori che avrebbero permesso di parlare alla flotta e di essere udita da tutta.
-Fratelli! È dinnanzi a noi il giorno dettato dal fato! Oggi conquisteremo l’Impero, o periremo come i traditori che il nemico ci reputa essere!-, l’intera flotta parve ammutolirsi a quelle parole. Aristarda fece appena due passi sul ponte.
-Non temete la morte, mostratele il vostro spirito indomito! Siamo Romanei, siamo Licanei e scriveremo questa pagina della nostra storia con il sangue nostro o quello del nemico! Forse falliremo, forse periremo e forse nessuno vorrà serbare il ricordo di Aristarda Nera e dei suoi uomini, indomiti sino all’ultimo.-, si voltò a guarda Ilthea e la Guardia Victrix che le rivolse sguardi interrogativi, -Ma loro lo sapranno. Il nostro nemico ricorderà! Noi faremo sì che lo faccia! Noi daremo loro un esempio di valore, una battaglia che nessuno mai potrà dimenticare! Guardate l’uomo a fianco a voi, e siate pronti a combattere e a morire al suo fianco, consci che egli farà lo stesso!-, si fermò.
-Il nostro nemico ci crede già vinti! Solo perché siamo in inferiorità di numero e per armamenti. Ma è un errore. Un errore che oggi, io vi prometto, pagherà assai caro!-, Aristarda indossò l’elmo crestato tipico di Licanes dei tempi antichi, prima della guerra contro i Cimenei, -Fratelli! Mostriamo loro che il sacro fuoco della Dea arde nei nostri cuori! Mostriamo agli Dei che hanno lasciato l’Impero che la nostra virtù è ancora salda e che anche da loro maledetti, non ci rassegneremo all’oblio! All’attacco!!!-.
-Aristarda!-, urlarono le Virageae della Guardia Victrix. –Aristarda!-, si levarono urla dalle altre navi. Soldati e marinai, ufficiali e coscritti, uomini e donne.
Un’unica tempra di cuori eroici, uniti in quel giorno, per lei, ma soprattutto, da lei.
-Sono alla vostra testa!-, rispose lei, -Licanes!-.
-LICANES!!!- urlarono come un solo uomo le voci dell’intera flotta.

-Sembrano motivati.-, disse il secondo di Ostracio. L’ammiraglio sorrise, scettico.
-Motivati o no, non hanno modo di vincere. Anche se riuscissero a ripiegare verso gli stretti, la Terza Flotta sta arrivando con i rinforzi. Li schiacceremo.-, disse.
-E le voci…-, iniziò il suo secondo. Ostracio sorrise, indulgente.
-Rubro, comprendi bene che sono solo voci. I Justicarii sono morti nel loro tempio, io c’ero quando accadde.-, tornò serio, -Prepararsi a lanciare. Batterie a fuoco multiplo, colpite i bersagli principali. Le navi di Aristarda non sono pericolose, solo quelle grosse lo sono. Toltele di mezzo, il resto capitolerà.-, disse.

-FUOCO!-, urlarono sia dallo schieramento lealista che da quello avversario.
Poi il cielo e il mare si tinsero di fuoco. Armi a energia divamparono in raggi. Colpirono le navi principali di Aristarda, ma anche dalla flotta dell’Imperatrix in esilio partirono colpi. Le navi più piccole, avvalendosi di maggior velocità, colpivano con balistae, scagliando dardi in ferro ricoperti di pece su cui poi veniva appiccato il fuoco tirandovi frecce incendiarie. In un istante, alcune navi della flotta lealista furono in fiamme. Gli scafi in polimeri resistevano bene al fuoco ma non altrettanto gli uomini e il panico serpeggiò su alcune navi. Tuttavia, per ogni colpo ricevuto, i Lealisti bombardavano le navi principali di Aristarda. Non era una battaglia equa: le navi di Ostracio mossero per accerchiare la flotta nemica.

-La Valdor è colpita!-, esclamò Ilthea. Dai resti della nave danneggiata e priva dell’albero e delle vele si levava il canto del Moripatres, il peana di commiato alla vita degli eroi dei tempi antichi, mentre gli uomini, fedeli sino all’ultimo e a dispetto delle fiamme, continuavano a combattere. Quando una fregata si accostò e i legionari di Calus abbordarono la Valdor, il canto non cessò. Aristarda annuì.
-Dirigi verso la Valdor. Contenderemo al nemico ogni nave che cercheranno di prendere.-, ordinò. Incoccò la freccia. Tese.
-Possa la Dea madre guidare la mia mano. Possa Yneas rendere i miei colpi letali.-, sussurrò. Mirò e tirò. Il legionario che stava per uccidere un ferito crollò trafitto al petto dalla freccia. Ne scagliò altre due, mancando un nemico ma abbattendone un secondo.
-Prepararsi ad abbordare!-, ordinò Aristarda. Calarono i rostri mentre gli uomini sul ponte sparavano sui nemici a gittata e l’aria pregna di fumo e odori di guerra faceva lacrimare gli occhi. L’Imperatrix vide che sulla Valdor gli uomini, decimati, feriti, ma indomiti, ancora combattevano. Il Capitano Ildeo, ferito ma indomito, ancora intonava il Moripatres, circondato da pochi dei suoi contro i nemici in numero ben maggiore.
Quando la passerella d’abbordaggio calò, Ildeo eruppe in un grido di gioia.
Aristarda e la Guardia caricarono il nemico sul ponte della Valdor.

-Non ha senso. Sanno già che è finita.-, borbottò il figlio di Calus, -Perché non si arrendono?-, chiese. Calus gli sorrise, benevolo. –Che importa?-, chiese, -Goditi lo spettacolo.-. S’infilò in bocca un cosciotto di volatile.

-Ammiraglio, la Sigunda Fiera e la Reta sono distrutte. I ribelli stanno spostando diverse navi verso l’Istmo. Non possiamo soccorrere i nostri laggiù.-, disse Rubro.
Ostracio annuì. Lo sapeva.
-Non importa: continuate a bersagliare le navi principali. Aristarda sarà su una di quelle. Morta lei, gli altri si arrenderanno presto. E comunque guardali: non c’è modo che vincano. Dirigi la Tenax, la Furia e il Victor verso l’Istmo. Li chiuderemo là.-.
-Sissignore.-, rispose Rubro.

Il fendente impattò contro la corazza togliendole il fiato. Aristarda rispose rapidamente, colpendo senza pietà. Dopo due attacchi volti a sbilanciare il nemico, lo finì con un colpo al collo. La Valdor, quel che ne restava, era salva. Le forze di Aristarda Nera avevano abbordato la fregata nemica, e ora la contendevano al suo stesso equipaggio a colpi di lama. Era uno scontro impari: la Guardia Victrix era composta dai migliori combattenti dell’Impero, e i lealisti lo sapevano. Non c’era possibilità per loro.
-Mia signora!-, esclamò Ilthea. Era anche lei affaticata, ma pareva incolume.
-Quanti morti?-, chiese soltanto.
-Due terzi dell’equipaggio. La nave sta affondando. Danni ai motori. Le armi primarie funzionano ancora.-, disse l’amazzone. Il Capitano Ildeo pareva indomito, ma era uno dei pochi rimasti del suo equipaggio. E stava vedendo la nave morire.
-Trova dei volontari. Ci serve almeno un’altra salva di fuoco sulle navi di Calus.-, ordinò l’Imperatrix. Ildeo fece un passo avanti.
-Resto io, Imperatrix.-, disse. Altri annuirono.
-La fregata è presa!-, esultò una Viragea. Vittoria dappoco, considerando le forze nemiche, ma una vittoria restava.
-Preparare la bordata. Mirate alla nave nemica più vicina.-, ordinò Aristarda.
-A portata!-, esclamò Ildeo. Spararono un secondo dopo.

La Nicaria avvampò, travolta dal fuoco di una nave morente. Sull’intera scena si levavano pennacchi di fumo, urla e fiamme. Sembrava una scena infernale.
-Padre, sicuro che stiamo vincendo?-, chiese Anarsio.
-Figlio, non essere stolto: non vedi tu le nostre navi? Guarda, Ostracio sta mandando la Ermes e la Rubra a supportare quelle che devono disimpegnarsi per sostituirle.-, senza neppure smettere d’ingozzarsi, Calus sorrise mentre parlava a bocca piena.
-Abbiamo già vinto. Devono solo capirlo.-.

-Nave nemica distrutta. Altre due in arrivo, mia signora. Fregate e corvette verso di noi.-, la voce di Ildeo pareva pregna di stanchezza. Aristarda annuì.
-Prepararsi a evacuare.-, ordinò, -Torniamo sulla nostra nave. Affondiamo la Valdor.-.
-Io rimarrò, mia signora.-, disse Ildeo. Due membri dell’equipaggio annuirono a loro volta.
Aristarda Nera aveva le lacrime agli occhi. Il fumo. Doveva essere quello.
-Non avrei potuto trovare uomini più valorosi di voi. Che Yneas vi accolga benevolo.-.
Si voltò e chiamata a sé la Guardia fece disporre le cariche sulla nave nemica.
-Fuoco!-, ordinò Ildeo. La bordata successiva centrò lo scafo di una delle fregate in avvicinamento a pelo d’acqua.
-Situazione?-, chiese Aristarda. Ilthea cercò di dare risposta.
-La Antares è in fiamme, ma sembra reggere. La Baligant è intatta e risponde ai colpi delle navi nemiche, abbiamo perso almeno otto corvette e numerose navi scorta. I trasporti truppe stanno ripiegando verso l’Istmo, come avevi chiesto.-, disse infine.
-Portaci verso la Antares. Preparare le Balistae eteree.-, ordinò Aristarda. La nave era munita di armi energetiche a media potenza. Sufficienti per aver ragione di una fregata ma non di navi maggiori. Per quelle, avrebbero dovuto pensarci loro.
Colpi di armi piccole impattarono contro la chiglia e lo scafo. Una delle guardie di Aristarda cadde colpita al collo. L’Imperatrix si chinò su di lei.
-Mia signora…-, sussurrò la giovane. Poi giacque immobile. Aristarda le chiuse gli occhi.
Le armi energetiche della Proximo Lario colpirono la nave nemica più vicina, facendone scempio.

La Valdor bruciava. Ildeo sapeva che sarebbe finita così. Ma era pronto.
Aveva cominciato la sua carriera su quella nave e l’avrebbe finita su quella nave.
-Terza salva!-, ordinò. Era rimasto solo un altro membro dell’equipaggio. L’altro era morto quando i colpi di risposta avevano distrutto la sua postazione e il cassero.
La nave gemette, metallo e materiali torturati da fiamme e danni, oltre il punto di rottura. S’inclinò verso babordo.
-Signore. Abbiamo in vista una delle navi principali.-, disse l’altro servente all’arma.
-Allora spara!-, ordinò Ildeo. Sparò. Fu con soddisfazione che vide la nave nemica incassare il colpo. Poi li vide. Legionari, truppe d’abbordaggio. Troppi. Eppure…
Lo sguardo di Ildeo inquadrò la cella energetica dell’arma pesante. Surriscaldata.
Bastava solo un colpo d’arma da fuoco a farla saltare. Attese che i nemici gli arrivassero contro per sparare l’ultimo colpo sulla cella. Mormorò una supplica.
La conflagrazione li divorò.

La vampa di morte della Valdor fu enorme. Aristarda la vide dedicando un ultimo pensiero a Ildeo e ai suoi uomini. Erano morti bene, meglio di troppi altri. Non sarebbero stati dimenticati, non da lei.
-Signora, comunicazione da Nearco. Dice che la via per gli stretti è libera.-, disse l’ufficiale vox di bordo. Aristarda annuì.
-Segnala a tutte le navi che possono di disimpegnarsi, rotta verso gli stretti.-, disse.
-E le navi che non potranno farlo?-, chiese l’ufficiale.
-Le aiuteremo, per quanto possibile.-, rispose l’Imperatrix in Esilio.

-Si stanno disimpegnando. Numerose navi di piccola taglia, almeno una ventina di corvette e qualche fregata stanno lasciando il combattimento. Vanno verso l’Istmo.-, disse Rubro.
-Come previsto.-, rispose Ostracio con un sorriso, -Prevedibili fino in fondo. Prepararsi a fare rotta per l’Istmo. Chiudete la tenaglia sulle navi principali. Poi finiremo la partita.-.
-Perdite attuali stimate in circa dieci navi, a cui però devono aggiungersi le danneggiate e quelle delegate al recupero dei feriti.-, comunicò un attendente.
-Il nemico è messo molto peggio.-, rispose Rubro con un ghigno.
-La Baleria richiede di disimpiegarsi dal combattimento. Hanno incendi a bordo.-, comunicò qualcuno. L’ammiraglio annuì. Era perfettamente in grado di finire lo scontro anche senza quella nave, per quanto essa fosse potente.
-L’ammiraglia nemica?-, chiese Ostracio.
-È ben dietro le loro linee. Ha colpito la Numa e la Tigris.-, riferì l’attendente di prima, una bionda dal piglio severo. L’ammiraglio annuì.
-Ovvio. E c’è una nave che sembra fare la spola tra le loro. È possibile che Aristarda sia su quella?-, chiese a nessuno in particolare.
-Può essere.-, ammise Rubro senza che ce ne fosse bisogno. Ostracio aveva già deciso.
-Prepararsi a colpire quella nave. La morte di Aristarda spezzerà i suoi uomini.-.

La Antares non era messa male. A parte un incendio minore a bordo e diversi morti e feriti, la nave reggeva. Una nuova bordata annichilì una corvetta nemica, centrando il deposito di munizioni. Aristarda annuì.
-Mia signora, dobbiamo andare anche noi. Le navi lealiste stanno chiudendo la morsa.-, disse Ilthea. Era ferita a un braccio, ma nulla di serio. La corazza aveva evitato il peggio.
-Capitano Voldus?-, chiese Aristarda. L’uomo brizzolato e sulla sessantina annuì. Raggiungendola, pareva incespicare. Aveva la corazza graffiata e danneggiata.
-Signora?-, chiese a dispetto della ferita alla gamba. Schegge dovute a un’esplosione.
-Questa nave non entrerà mai nell’Istmo. Si prepari ad abbandonarla.-, disse lei.
-Solo altre tre salve di fuoco.-, rispose lui. Aristarda annuì. E li vide. Navi nemiche, numerose. Veloci e manovrabili. Cercavano di tagliare la ritirata verso l’Istmo.
-Bersagli quelle!-, esclamò Aristarda. Voluds annuì.

-Vedi, figlio? È così che va. Ora scappano verso l’Istmo, ma il nostro ammiraglio lo sapeva e sta mandando le navi veloci a fermarli.-, Calus rideva mentre osservava la scena.
Improvvisamente Amsio Calus vide le navi venire bersagliate. Una parve esplodere, una seconda iniziò ad affondare. La terza e la quarta subirono pochi danni, ma significativi.
Le altre si dispersero per evitare le bordate, ma così persero tempo, persero l’occasione. E altre navi nemiche raggiunsero la relativa sicurezza dell’Istmo tenuto dalle due navi principali di Aristarda che già vi erano giunte.
-È solo uno stallo momentaneo. Ma ora Ostracio sicuramente porrà rimedio.-, minimizzò l’Imperator mentre addentava la focaccia all’olio.

-Nearco comunica che la tenaglia è quasi chiusa.-, disse Ilthea, -Dobbiamo andarcene!-.
-Capitano?-, chiese Aristarda. Voldus annuì.
-È pronta, signora. L’ultima salva la spariamo contro le navi nemiche principali.-, disse.
Aristarda scosse il capo.
-No. Colpite le navi più piccole e manovrabili. Nearco ha portato la flotta nell’Istmo per questo. Le navi principali non possono manovrare efficacemente là.-, ribatté l’Imperatrix.
-Provvedo.-, disse Voldus.
La salva successiva distrusse o inabilitò numerose navi nemiche.
-Fregata nemica!-, esclamò un legionario. Una scarica di colpi lo centrò uccidendolo.
-Ci abbordano! Guardia, con me!-, esclamò Aristarda. Incoccata una freccia, l’ultima, scagliò trapassando un centurione. Afferrò un’arma a energia dalle mani di un moribondo.
-Imperatrix! Dobbiamo andare!-, esclamò Voldus, -Abbiamo altre navi in arrivo.-.
Lo sguardo dell’Imperatrix inquadrò la corvetta nemica. I legionari stavano abbordando.
-Dobbiamo prenderci quella nave. Voldus, preparati ad affondare la Antares.-, disse.
-Subito.-, rispose il Capitano della Antares.

Nearco espirò. Nessun segno di Aristarda Nera. Gli uomini attorno a lui parevano altrettanto inquieti. E lui sapeva bene perché. L’ammiraglia della flotta era pregna di attesa, di dubbi, l’aria stessa ne era intossicata. Aristarda aveva decretato che avrebbe combattuto in prima linea, a dispetto di tutte le voci contrarie. Ora, Nearco attendeva notizie, cercando intanto di rinsaldare gli animi dell’equipaggio.
-L’Imperatrix non è morta. E nessuno di voi lascerà il suo posto, finché io respiro.-, disse l’ammiraglio. Un uomo parve esitare. Nearco spianò la pistola a proiettili solidi.
-Vuoi tu esser ricordato come l’unico codardo in un giorno da eroi, soldato?-, chiese.
-No signore!-, esclamò l’uomo, improvvisamente tremante.
-Allora resta al tuo posto senza esitare. Ucciderò con le mie mani il primo di voi che osa dubitare che l’Imperatrix uscirà viva da quella bolgia, chiaro?-, chiese Nearco.
Anche lui aveva dubbi, ma gli dei sapevano quanto non poteva permettersi di mostrare incertezza. E sarebbe morto prima di permettere all’incertezza di dilagare.

-Avanti!-, urlò Ilthea. Un’altra Guardia cadde colpita da una pugnalata tra petto e collo ma la sua assassina la seguì nell’aldilà poco dopo. I marinai della corvetta rapidamente abbandonavano la nave.
-Voldus, ce l’abbiamo! Vox sulla frequenza di Nearco. Ci stacchiamo.-, disse Ilthea. Aristarda, poco più indietro controllava che fossero tutti morti.
-Ricevuto. Portare l’Imperatrix via di qui. Io e i miei uomini copriremo.-, fu la risposta.

Voldus osservò i colpi arrivare rapidamente sul bersaglio. L’ammiraglia nemica, seguita da un codazzo di navi si avvicinava rapidamente. La Antares non sarebbe riuscita a ripiegare.
Osservò la corvetta andare verso l’Istmo, portando con sé l’Imperatrix.
-Capitano, dobbiamo andare.-, disse un ausiliario di marina.
-Sì.-, rispose lui. Li seguì a bordo della nave da evacuazione.
Una bordata cancellò tre uomini. Voldus non rimase a guardarli.
-Forza!-, esclamò. Intuì più che vedere le armi nemiche puntare la Antares.
Il suo secondo lo scaraventò nella lancia da evacuazione.
Poi la bordata colpì il ponte.

Ostracio Nivreo abbassò il binocolo. La nave nemica era condannata, insieme a numerose altre. La situazione era buona, tutto sommato.
-Siamo pronti a muovere sull’Istmo. Le navi nemiche stanno ripiegando all’interno, anche le più grandi. La flotta nemica è chiusa nell’Istmo, praticamente. Fatto salvo una parte delle loro forze che non è in grado di districarsi, le altre navi sono tutte laggiù.-, riferì Rubro con solerzia. La mappa tattica navale evidenziava chiaramente la situazione.
A dispetto dell’innegabile valore, la flotta di Aristarda stava ripiegando verso gli stretti, e lì sarebbe rimasta inchiodata. L’Imperatrix era già sconfitta.
-Mio signore? Abbiamo notizie della Terza Flotta. Stanno arrivando. Sono a meno di un’ora di navigazione dalla nostra posizione. Ci raggiungeranno in tempo per chiudere la morsa.-, riferì l’attendente bionda. Ostracio annuì. Decise.
-Rubro, la flotta di Aristarda attende il colpo finale. Portaci in posizione. Fai avanzare la Drusus e la Cmenax poi noi. Entreremo negli stretti e costringeremo Aristarda alla resa.-.

L’Imperatrix osservò la flotta nemica. A dispetto dei suoi migliori sforzi erano ancora in molti. Nearco si avvicinò, il viso teso.
-È finita, mia signora. Ci chiuderanno negli stretti. Stanno trasmettendo un ultimatum di resa.-, disse. Tutti guardavano ad Aristarda, consci della gravità della situazione.
Lei, invece pareva guardare oltre. Sapeva che Calus era lassù, da qualche parte, a godersi il trionfo. Si rivolse all’uomo.
-Fai abbandonare le navi principali dopo averle fatte sparare per due bordate sulle navi nemiche a tiro. Ordina agli uomini di suddividersi sulle lance. Non abbiamo perso. Non ancora. E che io sia dannata dagli Dei se mi arrenderò! Meglio morire, mille volte meglio morire che arrendersi a Calus.-, disse.
-Mia signora. Voi… ci hanno chiusi qui, lo capite?-, chiese un uomo dell’equipaggio avanzando verso di lei. La Guardia Victrix s’irrigidì, percependo la minaccia.
-Sì. E qui li affronteremo. Non possiamo cedere. Non è per me, non è per il Trono. È per ben altro. C’è molto più di questo in gioco.-, L’Imperatrix controllò la fasciatura di fortuna a una ferita che aveva riportato alla gamba. Reggeva.
-Cosa? Cosa può giustificare tutto questo?-, chiese l’uomo. Aristarda chiuse gli occhi.
Per un istante, ripensò a Socrax, al tempo felice in cui viveva a Roma…
-Ogni uomo nasce con un destino, alcuni lo comprendono, altri no. Il nostro è questo, brillare, bruciare dinnanzi alla morte della virtù, per ricordare al nostro nemico che può toglierci la vita, ma non può ignorare ciò che siamo. Quell’unica lega, tempra di cuori eroici, di spiriti elevati che fece sorgere Licanes dalle nebbie del caos primitivo di un mondo devastato. Volete voi essere da meno dei vostri fondatori?-, chiese l’Imperatrix.
-Come li affronteremo?-, chiese un altro legionario. L’Imperatrix estrasse il gladio.
-Spada contro spada.-, rispose.

-Guardali! Vanno a prenderli! Ah, che vittoria! Che grande vittoria!-, esclamò Calus mentre alzava il calice. Bevve una generosa sorsata di vino.
-Padre, gli stretti non sono ideali per la nostra flotta. Forse vinceremo ma perderemo molti uomini. Ha senso?-, chiese Anarsio. Calus espirò, stizzito.
-Figlio, tu sei ignorante e pavido? No! Sei un Romaneo e questi difetti ti son preclusi. Non comportarti come i barbari ignoranti! Non possiamo perdere, capisci? Osserva!-.
-Il vento porta nuova speranza sulle ali di un fato nuovo.-, proferì una voce.
Ausper. L’indovino era apparso lì, tra le guardie di Calus, come un fantasma.
Neppure Anarsio pareva essersi accorto del suo arrivo.
-Ausper…-, mormorò Calus con improvvisa soggezione.
-Stai tremando, Imperator.-, disse l’indovino. Come poteva saperlo? Non lo vedeva!
-Mi hai spaventato!-, protestò Calus con tono debole e incerto.
-Eppure, stai trionfando…-, rispose Ausper, -Hai forse motivo di temere?-.
-No…-, rispose Calus. Ausper sorrise. Calus distolse l’attenzione. Notò le bordate di armi energetiche partire dalle navi principali di Aristarda distruggere due navi da incursione.
-Patetico. È il loro canto del cigno. Hai ragione…-, si voltò ma Ausper non c’era più.
-Padre?-, chiese Anarsio. Lui gli sorride.
-Osserva la vittoria di Roma!-, esclamò con un ghigno.

Improvvisamente si alzò il vento.
-Uomini, alle vele! Tutti gli uomini abili lascino i remi e prendano le armi!-, ordinò Nearco.
-Aspettate che entrino negli stretti.-, ordinò Aristarda. Voci e bandiere ripeterono l’ordine.

-Vento contrario. Ai remi!-, ordino Rubro. Ostracio annuì. Osservò le navi principali di Aristarda esplodere. Le avevano immolate. Distrutte per ragioni chiare.
-Sanno di non potersele portare dietro negli stretti. Hanno appena distrutto le uniche navi che potevano impedirci di varcarle. In cuor loro son già vinti!-, esclamò un marinaio.
-Avanzare.-, ordinò Ostracio.

L’ammiraglia dei lealisti fu la terza nave a manovrare negli stretti dell’Istmo.
-Arrivano!-, urlò Rubro. Le navi di Aristarda, rapide e leggere si muovevano agilmente mentre le imponenti galee e le navi principali di Ostracio rivelavano la loro inadeguatezza.
-Ci chiudono! Manovrate adagio!-, esclamò Ostracio.
-La Italica è su una secca! Non può muoversi!-, esclamò qualcuno.
-Navi nemiche in vista!-, esclamò qualcun altro.
-Fuoco! Distruggetele!-, ordinò Ostracio.
E fuoco fu.

Le armi delle navi di Ostracio fecero scempio di alcune delle navi nemiche, equipaggi e gruppi d’abbordaggio furono annichiliti nel giro di pochi respiri.
Ma quelle armi finivano le munizioni e andavano ricaricate.
Globi fiammeggianti s’innalzarono contro il sole del pomeriggio iniziato. S’infransero su ponti e scafi. Fuoco divampò. Bombe piccole, portate da pochi uomini.
-Dannazione! È fuoco di Grecia!-, ringhiò qualcuno. Era una mistura antica. Un fuoco che non si spegneva sull’acqua. Il mare parve rilucere di fiamma.
-La Italica non ce la fa, signore! Chiedono di evacuarla.-, disse Rubro.
-Provvedete. E mandate altre navi verso gli altri ingressi negli stretti!-, ordinò Ostracio.
-Subito!-, rispose l’attendente bionda. E fu allora che la vide. Una nave dalla vela rossa.
Inusuale. Ostracio intuì. Doveva essere quella la nave su cui si trovava Aristarda Nera.
-Fuoco su quella nave!-, ordinò.

Aristarda vide la bordata. Ilthea la vide un istante prima. Si buttò sulla sovrana facendole scudo col suo corpo, cadendo con lei. Il vento rovente dell’energia eterica passò su di loro, falciò vite, vele e armi. Quando l’Imperatrix poté alzarsi, vide che Ilthea giaceva a peso morto su di lei. Non si rialzava.
La girò piano. La giovane pareva dormire. L’arma l’aveva colpita, sciogliendo la corazza sulla schiena e bruciandola in profondità, un calore tale da far evaporare il sangue.
Da uccidere senza quasi poter percepire la morte. Una morte in ogni caso.
E Aristarda Nera decise. Non avrebbe lasciato quell’ennesima morte vana.
Il ponte era pieno di fuoco. La vela mediana era stracciata e l’albero maestro bruciava.
Nearco e le Victrix superstiti la raggiunsero.
-Rotta verso l’ammiraglia nemica!-, ordinò.
-È quasi davanti a noi. La nave prima della loro sta subendo gravi danni.-, riferì un nocchiero. Aristarda annuì. Vincere o perdere… tutto perse d’importanza.
La morte di Ilthea era l’ennesima, un altro fardello che andava a gravare su di lei.
Un ennesima vita troncata per un Trono che Aristarda aveva reputato suo di diritto ma che, con tutto il sangue versato, era divenuto semplicemente disgustoso.
Eppure… era forse quello il volere degli dei?
-La Alecta e la Fincea ci affiancano. A tutte le navi, coprire la Proximo!-, ordinò Nearco.
-Ricevuto! Armi pronte. Ammiraglia in vista.-, disse un servente.
-Fuoco!-, urlò Aristarda. Sospinti dal vento impetuoso, oltrepassarono una nave nemica in agonia e un’altra su cui già si combatteva, verso l’ammiraglia.

Percezione del pericolo. Ostracio Nivero la ebbe. Si buttò a terra. Anche Rubro.
I colpi ad energia falciarono gli altri occupanti del ponte, riducendoli a carcasse bruciacchiate. Il contrappasso.
-Prepararsi all’abbordaggio!-, urlò Rubro estraendo il gladium.
-Alba e Mithra, coprire!-, ordinò Ostracio.
-Impossibile! Abbiamo gruppi d’abbordaggio verso di noi! Difendete il ponte! Non…!-, la voce terminò in un grido incomprensibile. La Mithra aveva smesso di trasmettere.
-Timoniere?-, chiese Ostracio. L’uomo si alzò, sfoggiando una vistosa ustione sul braccio destro. –Presente!-, esclamò.
-Facci indietreggiare!-, ordinò l’ammiraglio.
-Negativo! Siamo inchiodati, ammiraglio.-, la risposta gelò il sangue nelle vene di Ostracio.
Gli stretti erano divenuti un campo di massacro, regioni oscure divenute dominio di demoni, un orribile maelstorm di fuoco, fumo e morte che impediva la vista.
E lui aveva commesso un errore. Aristarda poteva esservi bloccata, ma non era certo a corto d’iniziativa. Aveva sfruttato il vantaggio principale. Le navi più piccole della sua flotta erano molto più manovrabili ed avevano rapidamente ragione di vascelli più grandi e impacciati. La potenza delle navi principali di Ostracio non poteva bilanciare lo scontro.
-Ordina alla flotta di disporsi attorno agli stretti. La costringeremo alla resa!-.
Aveva comunque più navi della flotta nemica. Avrebbe vinto, lo sentiva.
-Terza Flotta in vista signore!-, esclamò un ufficiale dalla divisa bruciacchiata.

-Vedi figliolo? Se la sono giocata bene ma con la Terza Flotta è finita. Aristarda ha già perso. Più di tutto, può certamente dominare gli stretti ma non ne uscirà.-, Calus si rivolse al vox, attivandolo. Guardò le navi della Terza Flotta, galee costruite in legno, giungere.
-Terza Flotta. L’Imperator saluta il vostro arrivo! Aiutateci a finire questa farsa!-.

Aristarda sentì le voci. La Terza Flotta era arrivata. Avevano perso. Anche abbattendo l’ammiraglio nemico, la sua flotta non avrebbe mai lasciato gli stretti.
Ma non importava: non per lei. Non ora. Ostracio Nivreo le era noto. Era un ammiraglio capace, ma non invincibile.
-Il vento.-, disse una voce. Aristarda si bloccò. Sorpresa dalla voce. Non giungeva dalla sua nave. Trasmetteva a tutte le navi, tramite i vox amplificator e una frequenza multibanda.
-Il vento parla di devastazioni e stragi.-, disse la voce.

Aristarda balzò sul ponte della nave nemica, oltrepassando due legionari giunti a bordo per primi tramite le rampe d’abbordaggio. Sferrò un calcio a un nemico, buttandolo a mare. Si aprì un varco tra i nemici colpendo rapidamente e sapientemente, pur non senza subire ferite. Le ignorò. Fosse morta, avrebbe combattuto sino in fondo e reso quel giorno memorabile per i suoi nemici, memento del suo valore.
La Guardia dietro di lei continuò a combattere, prendendo terra, tentando di proteggerla
Giunsero sino al centro del ponte, ingombro di corpi bruciati e di armi inutilizzabili.
-Aristarda Nera!-, esclamò Ostracio. Impugnava il gladio a sua volta.
-Ostracio Nivreo.-, disse lei riconoscendolo. Si tolse l’elmo. Nessun motivo per morire a viso coperto. Si misero in guardia. Attorno a loro gli uomini delle rispettive flotte combattevano senza tregua, senza neppure osare disturbare quel duello.

Ostracio non era l’ultimo arrivato. Combatteva regolarmente con la lama addestrandosi.Riuscì a respingere gli attacchi di Aristarda. Colpì il fiancale riuscendo infine a ferirla alla gamba sinistra, poi al fianco ma senza affondare tanto da rendere la ferita seria o letale, sfruttando l’esitazione della donna, riuscì a disarmarla, costringendola contro la murata. Il gladio di Aristarda Nera cadde fuoribordo, in mare.
-È finita, Aristarda. La Terza Flotta è arrivata. Avresti dovuto accettare l’offerta di Serena Prima quando potevi.-, disse Ostracio puntandole contro l’arma. Lei si alzò. Piano.
Non era una sorpresa che Nivreo facesse parte della Stirpe. Avevano interesse in quello scontro. Ma era irrilevante: quelle serpi in seno al Trono non meritavano clemenza.
-Non avrei mai accettato la sua offerta.-, gli occhi della donna ferita lanciavano saette d’odio, -Non avrei mai barattato il mio onore con l’effimera gioia di un trono insozzato dalla brama senza freni. Non sarei divenuta come Calus.-.
Estrasse l’altra lama, ora Ostracio la vedeva. Un Tantō. La rabbia parve deformare i suoi lineamenti un tempo aristocratici, scavando nel viso tratti bestiali.
-Quella lama non è servita al suo padrone e non salverà neanche te!-, ringhiò attaccandola.

Aristarda parò di piatto e colpì. Continuare a muoversi. Doveva continuare a muoversi! Ostracio Nivreo fu costretto a retrocedere. Il fiato usciva corto, l’adrenalina pompava in vena e il fumo e il calore delle fiamme parevano ovunque.
Se quello non era l’Ade, di certo vi andava ben vicino. Era stremata ma si fece forza a continuare. Continuare a lottare. Per l’Impero. Colpì di nuovo, fendendo la corazza di Nivreo senza danni, ma obbligandolo a indietreggiare. Le sue guardie stavano incalzando l’equipaggio, in netta inferiorità numerica ma molto più capaci dei loro nemici.
-Arrenditi! La Terza Flotta vi annienterà. Salva i tuoi uomini, Aristarda!-, le ingiunse Ostracio. Sferrò altri due fendenti. La corazza di Aristarda gemette. La donna sentì il dolore del colpo contro le costole. Incrinate? Forse. Strinse la lama con forza.
“Non cadrò. Non oggi. Non qui!”. Doveva resistere! I suoi uomini erano morti per lei, avevano attraversato l’Ade per lei! E ora lei doveva resistere, continuare sino all’ultimo, per loro, per tutti i loro caduti e per coloro che ancora si battevano!
Sferrò un primo colpo, poi un secondo. Costrinse il suo avversario a difendersi.
E infine lo sentì. Buccine d’attacco. Da lontano, dalla Terza Flotta.
-Il vento parla di sacrilegi e soprusi.-, la voce parlò di nuovo.
-Il vento parla di rabbia, vendetta e riscatto.-.
Fu in quel momento che il suo avversario fece l’errore. Attaccò rapido, ma incespicò. Aristarda colpì, tagliando l’interno del braccio. Si mosse sui talloni, entrando nella guardia di Ostracio. Puntò la lama del Tantō alla gola dell’ammiraglio.
-Pensi che serva?-, chiese questi, beffardo sino all’ultimo, -È finita.-.
E solo allora, Aristarda Nera si volse verso la flotta. Vide le navi alzare le bandiere.
E anche Ostracio le vide.
Sbiancò.

-Un vento di rivalsa.-, la voce di Mateus Shrike, un guerriero da oltre la fine del mondo spazzò le reti vox e la baia come un vento furente.
-Flotta lealista! La Terza Flotta dichiara la sua secessione dal Trono. Se il Trono è lordo del sangue versato, se i suoi occupanti sono indegni, vi è chi non lo é.-, l’Ammiraglio Malca Thanis, al comando della Terza Flotta parlava con sicurezza e calma nel vox, -Io mi schiero con Aristarda Nera, legittima Imperatrix per diritto di primogenitura e di retaggio. Invito le altre navi della flotta propense a farlo a dichiararlo ora, o verranno considerate ostili.-.
La Terza Flotta faceva vela verso le navi lealiste, i vessilli dei colori di Aristarda Nera garrivano al vento del pomeriggio mentre le batterie puntavano i bersagli.

-Non è possibile… Non può essere!-, esclamò Ostracio Nivreo, sconvolto.
-Non lo è? La Terza Flotta ha scelto me come Imperatrix, Nivreo. Non è un caso. Quanto ti ci vorrà per comprendere che l’Impero non ha più onore alcuno e che anche la Stirpe ha da tempo perso il proprio? Io ho fatto una scelta semplice: non cedere il mio onore, a costo della vita. Tu che scelta hai fatto?-, chiese Aristarda. Attorno a lei, il fuoco e i combattimenti parevano distanti, lontani. Ostracio la guardò con odio. Non poteva stare succedendo! Si rifiutava totalmente di accettarlo.

La Terza Flotta attaccò con rapide bordate le navi nemiche più vicine.
La Thracia e la Licanea furono le prime a venire annichilite da una serie di colpi concentrati. Affondarono piano, quasi pigramente. Poi le navi della Terza Flotta avanzarono per colpire le posizioni nemiche.
Calus osservò il tutto con sgomento. Con rabbia tale da non riuscire a parlare.
-Mio signore.-, disse una guardia, -Dovete andar via. Potrebbero tirare su di noi.-.

Il Vice-Ammiraglio Corantius, veterano di ben tent’anni di marina e combattimenti navali, osservò la flotta che avrebbe dovuto fare da rinforzi che avanzava spietatamente, aprendosi in una manovra militarmente perfetta, colpendo le sue forze ove possibile. Non c’era modo di fermarla, non con la flotta combinata a metà tra gli stretti e il mare aperto.
-Nessuna comunicazione da Ostracio, signore.-, disse la sua attendente.
-Ricevuto.-, in realtà, sapeva già cosa doveva fare. La battaglia era persa.
-Suonare la ritirata.-, ordinò.-.
-Mio signore, possiamo chiuderci a cyclos, resisteremmo…-, iniziò l’attendente. Fu ignorato. Ogni tattica difensiva a oltranza avrebbe solo allungato l’agonia della flotta lealista, ormai. I giochi erano fatti e illudersi avrebbe portato solo ad altre navi e vite perse.
-Suonare la ritirata!-, ordinò di nuovo Corantius.
-Suonare la ritirata!-, esclamò un ufficiale.

Aristarda vide le navi giungere lente. Altre navi, più piccole, sfrecciavano tra le navi della Terza Flotta. Vide alcune di esse fare cerchio attorno alla Marealis, una delle navi principali di Calus e abbordarla. Non aveva mai visto quei guerrieri a dispetto delle loriche da legionari, ma li riconobbe ugualmente nelle lame che brandivano e nella perizia che ostentavano. Justicarii. Erano pochi, appena una decina. Erano delle furie.
Ostracio tentò di raggiungere una lama nascosta nello stivale. Aristarda agì rapida. Trapassò l’ammiraglio nemico al cuore.

-Mio signore!-, esclamò la guardia. Calus annuì, scuotendosi dal torpore. Rovesciò il tavolo e si alzò dal trono. Per un istante, ricordò la frase di Eria. Era quella la verità? Era quella la fine? Era quello ciò che lo aspettava? Non lo sapeva. E la cosa lo angosciava.
-Portatemi via di qua.-, disse con voce strozzata.

-Ammiraglio… Dobbiamo andare.-, disse l’attendente. Corantius scosse il capo.
-No. Ho servito un idiota e questa disfatta è la fine di tutto ciò che consideravo l’Impero. Evacuate la nave. Io aspetterò qui i lealisti e mi consegnerò a loro. Non spargerò altro sangue.-, disse. L’attendente fece per alzare l’arma d’ordinanza ma fu immobilizzata da due legionari, che le bloccarono le braccia rapidamente.
-Traditore!-, sputò la giovane.
-Non è tradimento se il trono è indegno.-, disse Corantius. Si rivolse agli altri.
-Ammainare la bandiera. Chi vuole abbandonare la nave lo faccia.-, disse.
Tre quarti dell’equipaggio lasciarono la Bergusia. I restanti si arresero.

La ritirata della flotta lealista fu lenta e penosa. I nuovi arrivati non pressarono l’attacco, preferendo prestare soccorso agli uomini buttatisi in acqua o ai feriti di ambo gli schieramenti Di quasi trecento navi, ne rimanevano si e no centotrenta, prive di un ammiraglio e di una gerarchia efficace per organizzare una difesa o una controffensiva. La Battaglia di Agripatus si era conclusa con l’inaspettata e devastante sconfitta dei lealisti, una sconfitta che rendeva impossibile per loro mantenere il dominio del Mare Interno.
Ma anche i vincitori erano messi male: delle navi di Aristarda Nera, ne restava appena un terzo scarso. I trasporti che avrebbero dovuto portare le forze di Aristarda verso l’Italica, ben protetti tra gli stretti, non avevano subito che poche, marginali perdite. Il resto della flotta, tuttavia era stato pesantemente sfoltito.
L’Imperatrix prese terra insieme ai suoi, sull’Isola di Kipares, che prontamente rinnegò la fedeltà a Calus, aprendo le porte a colei che l’aveva vinto a poche miglia nautiche da lì.
E lì andò a convergere la Terza Flotta, riunita formalmente alle forze di Aristarda sotto il comando di Nearco. Il governatore di Kipares, Lucio Asiatico Secondo accolse l’Imperatrix in esilio con tutti gli onori, prodigandosi perché le sue forze fossero alloggiate, i feriti curati e i morti onorati come secondo le usanze. Le Vestali del Kelreas accorsero, riconoscendo nell’arrivo di Aristarda un possibile avvento di quella redenzione a lungo attesa.
Con loro giunsero anche i Sacerdoti di Yneas, il culto del Dio dei Morti, officianti le cerimonie per garantire ai caduti una lieta transizione verso l’Oltre, affinché il giudice dei defunti fosse loro benevolo. Non vi era modo di ritrovare tutti, e di molti i corpi erano irreperibili. Aristarda officiò personalmente un servizio funebre ai caduti i cui resti mortali non vennero trovati. Nell’acqua sino alla vita, battuta dalle onde del mare, alzava la fiamma nella mano destra, a simboleggiare il viaggio dell’anima. Grande fu lo stupore dei presenti dacché nessun vento né onda spense il lume. Gli Dei guardavano con favore a quella cerimonia? Nessuno ebbe modo di dare risposta alla domanda. Come nessuno sapeva dove fosse Shrike o i Justicarii, sebbene molti li avessero visti combattere sui ponti di navi nemiche. Il servizio funebre per gli altri caduti fu compiuto secondo le usanze di Licanes, ma vi furono due eccezioni. Ildeo, il valoroso capitano della Valdor, fu insignito dei Laurii Maximi, la massima onorificenza militare di Roma. Non venendo trovato il suo corpo, un’armatura vuota fu tumulata in una tomba che sarebbe rimasta a imperitura memoria del suo valore.
La seconda eccezione riguardava Ilthea. Il corpo dell’amazzone era stato composto secondo i riti del Kelreas, lavato e purificato. Aristarda pianse calde lacrime mentre, alla presenza del neo-promosso Ammiraglio Voldus e di Malca Thanis cantava le lodi alla Dea Madre del Kelreas affinché proteggesse e serbasse l’anima di Ilthea, guerriera coraggiosa e indomita, amata dall’Imperatrix in esilio e prima delle sue Guardie.
-Mia signora, la profezia non si è realizzata.-, fece notare un Legato, -Avete vinto, preso terra a Kipares. L’Italica è in vista e non vi sono flotte nemiche a fermarvi. Le vostre braccia sono ancora entrambe al loro posto!-. L’Imperatrix guardò l’uomo mentre la pira con il corpo di Ilthea bruciava piano e la Guardia Victrix alzava le armi in muto omaggio.
-Ho perso il braccio più prezioso. Quello che reggeva lo scudo, mai ve ne saranno di euguali.-, disse con gli occhi gonfi di lacrime, -Prego gli Dei che Vera Nemlia sia ancora in vita.-.
A quella frase, nessuno osò replicare. Mentre il vento soffiava forte, lo sguardo dell’Imperatrix esule si volse verso occidente e poi oriente.
Dov’era Vera Nemlia? Dov’era Alexander Varus?

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