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Morgana -Seconda pergamena-

By 1 Maggio 2016Febbraio 9th, 20202 Comments

“Ah! Puttana!”

Asia saltellò su una gamba sola, imprecando contro uno dei volumi che le erano caduti sul piede mentre passava accuratamente l’aspirapolvere sulla libreria. Non era proprio un’attività spassosa, ma ogni tanto andava fatto, in quella casa così piena di libri che tendevano a creare coltivazioni di pulviscolo.
“Ok, per oggi basta, vaffanculo!” sbuffò la bionda, rimettendo in ordine i libri, spegnendo l’aspirapolvere e trovando subito più interesse nell’andare in cucina a farsi un bicchiere di latte con qualche biscotto. D’accordo, numerosi biscotti. Più o meno, tutto quello che rimaneva delle sue scorte alimentari fino a sera, quando sarebbe tornata a casa sua per le vacanze estive.
Spulciò sullo smartphone la lista delle cose da fare e sistemare.
Bagnare le piante… Impostare il timer del rubinetto del terrazzo per farlo… chiudere il gas… frigorifero sul minimo…

Sembrava tutto sistemato, almeno tutto quello che poteva fare per lasciare la casa vuota con una certa tranquillità, sperando che Marco, ad un eventuale ritorno a casa imprevisto, non lasciasse poi porte e finestre spalancati.
Asia sorrise, scrivendo al suo coinquilino: “tutto a posto, spengo anche il frigorifero!”
Il ragazzo rispose con un pollice in su. Chiudendo la conversazione, la biondina si mise a cestinare alcuni dialoghi avuti sul telefonino.
Non c’era bisogno di tenere in memoria due messaggi della sua compagna di corso sulle pagine da studiare per un esame già passato, un link ad un filmato idiota… I nomi e le parole scorrevano sotto il pollice affusolato di Asia, portandola indietro nelle settimane e nei mesi.

“Stai tranquilla.”
Il messaggio di quella conversazione le balzò all’occhio dopo settimane. L’aveva letto e riletto mille volte da quando lo aveva ricevuto, mesi prima, ma anche il programma, e Marco, confermavano.
Era l’ultima cosa che le aveva scritto Morgana, giorni prima di andarsene. Da allora, nessun segnale. Dovunque fosse, non era certo in dotazione del telefono, e un piccolo timore attraversò la mente di Asia, subito scacciato da una certa razionale irritazione. Dovunque fosse Morgana, se la sapeva cavare, non faceva altro che ribadirlo tutti i giorni, e la biondina non si era scordata della sensazione di essere presa per i fondelli da lei. Asia chiuse la porta di casa con tutte le serrature possibili e immaginabili, salutò la portinaia una volta saltellata fuori dall’ascensore trascinando la pesante valigia, e si gettò nel caos della Grande Città verso la sua vecchia stazione, senza pensare a Morgana, alla Morr’gan, e a tutte queste cose, fino a che non mise il culetto snello e sodo sulla sua poltrona. Sfortunatamente, come sempre accade, la sensazione di potersi godere un po’ di spazio svanì all’ultimo secondo ad opera di altri tre viaggiatori nello stesso gruppo di posti.
“Sempre all’ultimo, sempre!” sospirò mentalmente la biondina, prendendo nota dei suoi compagni di viaggio, e stabilendone come sempre le capitava in caso di lunghi viaggi, un indice di “pericolosità”:

Un corpulento signore che sembrava piuttosto preso dallo sbrigare alcune faccende di lavoro sul treno per non portarsele a casa: livello di disturbo possibile da 1 a 10… 4, se non avesse dovuto cominciare a telefonare avrebbe pensato a liberarsi delle incombenze tra fogli e computer portatile.

Un possibile trentenne con uno smartphone: livello di disturbo possibile, 7. La vicinanza di età poteva portarlo a chiacchierare con Asia, il che sarebbe stato un 8,5, ma contemporaneamente avrebbe fornito forse una piacevolezza al dialogo, il che abbassava il grado.

Il vero rischio era la signora 60enne che sbuffava ansiosa già da quando si era aperta la porta, il passeggero capace di attaccare bottone, lamentarsi, infastidire, rumoreggiare, con chiunque e senza alcuna remora, un 10 su 10 quasi certo, e proprio di fianco a lei!

La mente di Asia cominciò ad elaborare dei piani di fuga, mentre sorrideva di circostanza alla signora che si lamentava del caldo e dell’auspicata aria condizionata in funzione. Piano di fuga! Piano di fuga! Evacuare! Evacuare!
L’allarme le risuonava nella testa mentre istintivamente infilava la mano nella borsa e ne tirava fuori un libro. “The Great Queens: Irish Goddesses from the Morr’gan to Cathleen N’ Houlihan”. A botta sicura, qualcosa che non avrebbe dato nessun modo allapasseggera di attaccare bottone, avrebbe smorzato ogni parola sulle labbra della signora.
Così come stava facendo con quelle di Asia, che non ricordava minimamente di aver messo in borsa quel libro. Stava, sì, dando un’occhiata ai possedimenti letterari di Morgana, ma non tanto da portarsene dietro uno.
“Se lo rovino mi ammazza” pensò la bionda, che per evitare sguardi della signora, aprì il volume e si immerse nella lettura per un’oretta buona, prima che la monotonia del viaggio, scandita dal ritmico rumoreggiare delle dita del corpulento signore, le facesse chiudere il libro e scivolare nel sonno con un sorriso sulle labbra… Bealtaine

Nel crepuscolo della brughiera battuta dal vento, avanzavano alcune figure incappucciate, silenziose, stremate da quell’aria sferzante che non cessava mai di battere sui loro visi da quando avevano voltato verso Nord.
In mezzo a loro una figura più piccola e minuta avanzava con ancora maggior fatica, portandosi dietro un fardello di domande e timori più pesante di quello che le gravava sulla spalla.
Non voleva chiederlo, ma non riusciva più a trattenersi. “Madre… Quanto manca ancora?” chiese la ragazza alla figura dinanzi a sé. La donna rallentò il passo in modo da farsi raggiungere dalla figlia. Era una donna seria, amorevole ma dura con sé stessa e con gli altri, una leader.
“Credi che R’th Cruachan possa essere dietro l’angolo?” chiese, con una punta di retorica.
“No, madre, certo che no. Sono solo stanca, ho bisogno di riposare e di un po’ di caldo.”
“Quando arriveremo potrai riposarti e riscaldarti attorno al fuoco, come tutti noi.”

Un ragazzo dal fisico atletico si accostò baldanzoso alle due donne. Faticava come tutti gli altri, ma non poteva certo darlo a vedere, lui era uno dei guerrieri designati a scortare il gruppo fino a destinazione.
“Per l’appunto, mia Signora, dato che la destinazione sembra essere così confortevole e ricca di comodità, rinnovo la domanda di Sua figlia: quanto manca?”
La donna sospirò, divisa tra il desiderio di colpire con il suo bastone la figlia e il giovane -soprattutto il giovane- a titolo di insegnamento, e il rispondere. Ma colpirli avrebbe richiesto più fatica della risposta, così con il capo dalla pelle candida indicò la collina di fronte a loro. “Oltre quella collina, ancora un miglio. Non &egrave molto, vedremo già i fuochi dalla cima e ci guideranno loro”.
La risposta parve sollevare i due giovani, che si guardarono per un istante con un sorriso, che si rinnovò quando realmente, dalla dolce curva della terra, scorsero i fuochi degli accampamenti attorno a Rathcroghan.
Tutte le genti dell’isola partecipavano a loro modo a Bealtaine, ma la Signora era lì per una ragione precisa. Da generazioni, la sua tribù si recava in quel luogo magico in uno dei due giorni in cui la barriera trai i due mondi si faceva così sottile che era liberamente possibile attraversarla. E in quei giorni, da sempre, si usava tentare di ingraziarsi le potenti entità dell’altromondo con canti, balli, offerte di ogni tipo.
“Di ogni tipo…” pensò la Signora, guardando la sua giovane figlia. Un moto di dispiacere le sfiorò le viscere, quando gli occhi azzurri della ragazza incrociarono i suoi, ma subito si riscosse, concentrandosi sulla meta. Era così da generazioni, quel tipo di offerta, spettava a lei, alla sua tribù, la figlia ne era cosciente…
E poi non era detto che l’offerta fosse accettata. Nessuno ne avrebbe fatto una colpa: se ci fosse stata un’evidenza che il dono, seppur rifiutato, era stato egualmente apprezzato.

La Signora e il suo seguito giunsero agli accampamenti, e dopo aver deposto le armi come chiunque al di fuori del circolo dell’accampamento, vennero salutati con grande gioia dagli altri delegati di altri popoli. La giovane figlia della Signora era ovviamente al centro delle attenzioni, anche se non ne aveva certo un grande piacere. Non riusciva mai a distinguere tra la cortesia sincera di qualche personaggio, e il mero calcolo politico.
La festa era una festa, era sacra, ma sarebbe stato incredibilmente sciocco pensare che non fosse anche l’occasione di accordi, rinnovi di alleanze, pacificazioni e, perché no, anche nuove inimicizie.
“Madre, posso riposarmi un poco in tenda?” chiese la giovane, appena le sembrò educato rivolgere la parola alla Signora. “Vai pure” disse con un sorriso la donna. In fin dei conti le discussioni tra personaggi importanti non la riguardavano, non c’era bisogno che persino lei si annoiasse, ed una comoda tenda piena di pelli era già stata predisposta per loro, vicino al centro dell’accampamento in disordinata crescita costante.
“Ovviamente, non perdetela d’occhio” disse con tono pacato alle guardie e al ragazzo, che annuirono marziali, accompagnando la giovane al giaciglio. Non c’era bisogno di loro, poiché anche se circondata da persone con le quali uno scontro era sempre possibile, la Signora era riverita e potente, onorata e rispettata.
Queste cose nascevano dalla sua fermezza, dalla sua diplomazia, anche se a volte lievemente intinta nel sangue, o nel sesso. La Signora non si era mai sottratta alle conseguenze e le necessità di essere la testa del suo popolo.
Seduta vicino ad una fiamma, discorreva delle ultime novità delle sue terre con altri personaggi. Si dimostrava come sempre altera ma disponibile, gentile ma non espansiva. Aveva decisamente voglia di bere un po’ di birra e di riposarsi come la figlia. La riunione ebbe termine dopo circa due ore, più di convenevoli e chiacchiere utili ad aggiornare sulle novità di ogni regione i partecipanti che altro. I veri incontri, i veri calcoli, si sarebbero fatti nei giorni successivi, e la Signora sarebbe stata pronta. Ma ora aveva bisogno, soprattutto, di sdraiarsi e dormire.
“Auguro una serena nottata a tutti voi, credo raggiungerò mia figlia nel dolce sonno ristoratore”, si accomiatò la Signora, posando il suo boccale di idromele vuoto e il suo piatto, ed andando nei suoi ‘locali’.
Le guardie la accolsero frementi di scoprire eventuali novità, ma rimasero presto delusi, non aveva voglia di parlare, e lasciava al giorno successivo ogni notizia, raccomandando solo di non perdere d’occhio la figlia, nel caso fosse uscita dalla tenda per qualsiasi motivo. Si chiuse nella sua tenda, mentre il capobanda divideva i turni di sorveglianza. Nessuno voleva perdersi i festeggiamenti, l’alcol, il cibo gustoso preparato quasi ad ogni quartiere dell’accampamento dalle belle giovani con cui ci si sperava di appartare per qualche momento di piacere, ma egualmente nessuno, realmente, si fidava di nessuno.
Men che meno la Signora. Sola, finalmente. Si tolse la pesante cappa che l’aveva protetta dal freddo, e si riavviò i capelli dorati che ormai tendevano ad avere qualche ciocca color neve. Si guardò nell’acqua di un bacile che le era stato lasciato, trovandosi, nonostante il viaggio e la stanchezza, ancora con lo sguardo sveglio e attento. Soppesò per un istante la possibilità di fare una passeggiata tra le tende ed i festeggiamenti, come quando era giovane…
La mente andò indietro negli anni, quando lei era al posto di sua figlia, e la grande festa le era sembrata qualcosa di irripetibile e definitivo. Ma non lo era stato. Non era colpa sua. Non era colpa di nessuno, ma aveva sempre vissuto quell’avvenimento come… Una piccola macchia, che non amava ricordare.
“Meglio dormire e lasciar perdere i ricordi”, si disse, sdraiandosi nel giaciglio, per poi saltare subito in piedi, ed andare alla pesante cappa che aveva abbandonato su uno scranno. Nascosto in una tasca interna, sfilò un pugnale di ossidiana e lo nascose velocemente tra le pesanti coperte e le pelli. La lama nera brillò per un istante alla luce delle lanterne nella tenda, dandole un brivido di sicurezza. Nessuno avrebbe voluto attaccare briga durante Bealtaine, sarebbe stato un atto di guerra vero e proprio, ma era meglio non rischiare. Ne aveva uno anche la figlia, sperava si fosse ricordata di tenerlo a portata di mano. Non si poteva mai sapere.Da qui, le guardie, da qui, il pugnale nero e letale. Si distese su un fianco nel giaciglio, con una mano a un millimetro dall’impugnatura, e scivolò nel dormiveglia.

“…La prudenza non &egrave mai troppa, vero?” disse una voce, scivolandole sulla pelle della guancia.
La Signora si svegliò di soprassalto, girandosi di scatto e cercando di afferrare la lama nel giaciglio. Non c’era.
Una risata cristallina scoppiò nell’ombra del locale. “Ahahahah! Sei lenta, Medb!”. La Signora, colei che nei rituali serviva come ambasciatrice e tramite tra i due mondi, lei che regina e sovrana era sempre pronta ad ogni evenienza, onorata e rispettata, si sentì gelare il sangue nelle vene a sentire quella voce.
Non la sentiva da anni, anzi, non la sentiva da tutta la vita.
“Grande… Grande…” le labbra sottili balbettarono per un istante, mentre gli occhi cercavano di abituarsi all’oscurità, intervallata ogni tanto da qualche lampo di una torcia fuori di qualche passante. Una luce arancione balenò nella tenda, illuminando per un istante uno degli scranni, su cui sedeva, a gambe incrociate, una figura avvolta in una cappa con cappuccio che le nascondeva quasi del tutto le fattezze, tranne…
“… Lenta, ma ancora decisamente gradevole alla vista.” scandirono due labbra carnose, scure, che spiccavano sul candore della pelle, l’unico segno che l’alta figura fosse, almeno in apparenza, umana.
Una mano dalle dita candide e lunghe cominciò a far ruotare con noncuranza il pugnale di ossidiana, ancora più nero tra quelle estremità così pallide.

“… Mi piace l’ossidiana. E’ così… Affascinante, nella sua oscura lucentezza…” la figura poggiò la lama sulle labbra, facendola scivolare lentamente avanti e indietro, giocherellando. Medb rimase a fissarla, incapace di decidere se inginocchiarsi, pregarla, salutarla, piangere, gioire. Era tutta la vita che aspettava quel momento, e non lo aspettava così. Perciò, nell’indecisione, emerse il suo lato autoritario e incosciente.
“… Credevo che fossi qui solo domani. E’ la tradizione… Non puoi fare così!” disse la Signora, mettendosi seduta. La figura emise un verso infastidito e lama scura saettò ad un millimetro dal viso di Medb, conficcandosi in uno dei pali della tenda. Gocce scure ne bagnavano la lama.
“La prossima volta non mancherò il bersaglio, donna.” disse la figura, facendo voltare la Signora nuovamente verso lo scranno. La cappa si alzò, imperiosa, mentre la mano candida passava il pollice sulle labbra per pulire un rivolo di sangue, forse, che scendeva lungo il mento. “… Io posso violare le vostre tradizioni, Medb. Io non sono vincolata al vostro senso del tempo, al vostro scandire ogni cosa. Sapessi le volte che sono stata tra voi, prima, e dopo… Dovresti saperlo meglio di chiunque altro in questo accampamento.” la figura si portò le mani sui fianchi, aprendo la nera cappa dall’apparenza serica, mostrando una nudità totale ed irreale, perfetta, così tanto che la Signora si sentì rimescolare il sangue nelle vene. “… Quella che non può violare le tradizioni sei tu. Quel coltello non dovrebbe esistere qui. Hai violato un patto, Signora. Sai la fiducia che le persone hanno per chi viola i patti?”
Medb non riusciva a distogliere lo sguardo dalla floridezza dei seni pallidi e sodi della figura. Cercò di riscuotersi, ma come ipnotizzata il suo sguardo proseguiva sul ventre piatto, sulle sottili linee di una muscolatura perfetta che portavano… La figura richiuse il mantello, riscuotendola.
“… Nessuna fiducia.” piagnucolò Medb, prendendo la lama nera dal legno, rigirandola tra le mani. Aveva distrutto, nella sua paranoia, la speranza di un popolo. Sapeva che la figura gliel’avrebbe fatta pagare, il giorno successivo. Le persone non danno fiducia a chi viola i patti. Lo sguardo della donna si illuminò, alzando la testa. “… Le persone. Le persone non hanno fiducia in chi viola i patti.”
Le labbra scure, su cui pareva non esserci alcun segno di taglio, sbuffarono infastidite. “Esatto. Quindi?”

Medb si alzò in piedi, ormai conscia di non avere nulla da perdere, avvicinandosi all’alta figura. Osò, teatralmente, additarla con la pietra colore della notte, sul viso. “… Ma tu… Non sei una persona.” sussurrò, preparandosi al peggio. La figura afferrò lentamente con i denti la lama, e la Signora la lasciò lì dov’era. Nella totale incoscienza che era subentrata nel suo animo, allungò la mano disarmata verso il volto della figura. La pelle era liscia, perfetta, ed ebbe un sussulto quando i polpastrelli della Signora vi si appoggiarono. Un rumore stridulo si produsse nell’aria, prima che il coltello finisse a terra.
“… Ben giocata, Medb. Ben giocata.” le labbra si incresparono in un sorriso. “… Ti darò fiducia. In fin dei conti tu sei venuta qui, ogni anno, sottilmente avendo fiducia in me.” La signora si sentì mancare.
“Allora… Allora mi hai vista…” disse, con voce rotta, mentre le si piegavano le ginocchia. La figura, fulminea, la sorresse stringendola a sé. Medb venne avvolta dalle braccia candide, sentendo non solo il sangue rimescolarsi nelle vene, ma anche in tutto il resto del corpo. Se non le fosse parso incredibile, avrebbe pensato di raggiungere il piacere.
“Ti ho vista, Medb. E domani ti vedrò ancora.” disse la figura, alzandole con una mano il viso. “… E quel che deciderò, dovrà andarti bene, com’&egrave sempre stato.” le labbra scure aderirono a quelle della Signora, dolcemente. Medb inspirò forte, sentendo le forze mancare, mentre le palpebre le si abbassavano sugli occhi, tremando. Strinse le dita nella stoffa nera, mentre un tremore crescente le percorreva il corpo, infiammandole l’inguine come non accadeva da anni, o meglio, non poteva mai essere accaduto.

“Madre! Madre!” la Signora si riscosse dal suo sonno agitato, richiamata dalle urla della figlia. “Cosa… Cosa c’&egrave?” disse, aprendo gli occhi nella luce del pomeriggio inoltrato. La chioma chiara della ragazza sussultò, mentre ella sorrideva.
“Temevamo fosse ammalata, mia Signora, l’abbiamo lasciata riposare tutto il giorno” disse uno dei suoi uomini, con un lieve inchino del capo. Medb non poteva certo spiegare loro cosa fosse accaduto quella notte, anche perché non ne era certa. Non c’erano segni della presenza di ‘lei’ nella tenda, e tra le coltri sentì la durezza della sua lama nera. Intimò a tutti di uscire, tranne che alla figlia.
“Non era mia intenzione saltare tutta la giornata…” disse, mentre la giovane le porgeva dell’acqua e qualche pezzo di cibo tiepido. le doleva la testa, doveva rimettersi in sesto prima del tramonto. La figlia le sorrise. “Non c’&egrave nulla di male. Meglio essere riposate e pronte… E poi il giovane guardiano non mi ha lasciata sola tutto il giorno.”
Medb alzò lo sguardo nelle iridi chiare della figlia. “… Cosa intendi dire??” sbottò, irata, facendo sussultare la ragazza.
“Niente madre, Voi avete ordinato di non perdermi d’occhio, ma non potevo certo rimanere chiusa in tenda… Mi ha accompagnata al mercato, per le bancarelle, nient’altro!” la sua voce era sincera e dolce, e la Signora si rilassò. Aveva già osato troppo e le era andata bene, non era il caso che anche la figlia stuzzicasse la pazienza di qualcuno. Si ricordò della lama, girandosi nel letto e rovistando tra le pelli trovò il coltello nero.
Trasalì, notando sulla lama evidenti e profondi solchi nella pietra, in un’inquietante arcata.

Oweynagat

Tutto era pronto. Le celebrazioni erano iniziate un paio di ore dopo il travagliato risveglio di Medb, incuranti del vento che gonfiava le tende e sbatacchiava le bandiere e i vessilli. Niente avrebbe fermato i popoli dal momento delle celebrazioni di Bealtaine, sarebbe stato peggio, e comunque, per loro tutto non poteva che essere un segno di quell’avvicinarsi, fino a toccarsi, dei due mondi.
La Signora indossò gli abiti della cerimonia, cominciando il lento corteo che avrebbe portato lei e gli altri saggi, i delegati di un mondo, ad accogliere eventuali segni dell’altro. Medb rimase solo un istante ad osservare la figlia con le mani tremanti eseguire ogni rituale riservato a lei, ed aggregarsi alle altre giovani. Sì, aveva imparato bene la figlia, brava come la madre ad assorbire e rispettare convenzioni e obblighi che il loro rango imponeva di seguire alla lettera, da sempre.
I sacerdoti e i saggi si avviarono in processione, cantando, seguendo un percorso di torce e vessilli, mentre il vento imperversava nella piana si inerpicarono lentamente verso il fulcro della celebrazione, Oweynagat. Bisognava essere presenti in un momento preciso, il tocco dei due mondi, solo in quell’istante, e per poco, si sarebbe potuto chiedere a chi stava al di là, di incontrarsi.
La processione si snodò senza intoppi, acuendo il senso di straniamento della giovane. Rimase concentrata sul suo ruolo, sulle convenzioni, su quel che la madre s’aspettava da lei, quello che chiunque lì si aspettava da lei e dalle altre giovani. Le mani le dolevano per il freddo e lo sforzo di portare una coppa ricca di idromele, il simbolo della madre, dinanzi a sé. Quante volte negli anni era caduta camminando così, era scivolata, aveva rovesciato il liquido, e la madre ancora, ed ancora, ed ancora, l’aveva fatta rialzare e camminare. Era per l’amore di sua madre che stava compiendo questo? O per quel che rappresentava? Se tutto avesse funzionato, se fosse stata scelta, cosa sarebbe accaduto? Non poteva saperlo, e ne aveva una discreta paura. La ragazza vide il giovane guerriero sorriderle, agli ultimi passi del percorso che egli, come gli altri, poteva compiere. Sorrise di rimando, sinceramente. I popoli rimasero indietro, poiché solo alcuni di loro potevano proseguire in quel cammino sacro, sulle pietre poste dai loro antenati, poiché un rituale, un incontro simile, non poteva avvenire dinanzi agli occhi di così molte genti. La ragazza cercò di non pensare ad altro se non alle istruzioni della madre, seguendo i passi codificati, il rituale, le aspettative della Signora, anche se il volto del giovane sembrava seguirla, nella sua mente. Non poteva sbagliare, e quando si fermò in piedi, posta a semicerchio come le altre giovani, tirò un sospiro di sollievo.

Solo il vento e i primi rombi del tuono cominciarono a scuoterla, mentre qualche torcia cedeva e sfrigolando si spegneva il rituale proseguì. Sarebbe proseguito anche al buio totale, ma per fortuna alcune lanterne tenevano duro, anche quando le prime gocce sibilarono nell’aria come frecce, schiantandosi a terra davanti all’ingresso di Oweynagat. Sormontato da alti alberi antichi come le rocce a cui si abbarbicavano, si apriva l’ingresso della grotta, che pareva restituire un eco del canto intonato dai saggi radunati attorno alle giovani.
Medb avanzò solennemente dinanzi alla grotta. Certo, se vi fosse stata la luce avrebbe avuto la certezza del momento, ma le generazioni dei popoli, le moltitudini delle genti, avevano scandito così bene i loro canti che, ne era sicura, alla fine delle invocazioni delle giovani e delle loro preghiere, il momento del suo ruolo sarebbe stato perfetto.
“Io non sono vincolata al vostro senso del tempo”, la frase risuonò nella testa della Signora. L’aveva davvero vista? Era stato reale? Aveva davvero avuto quel momento di sublime, tra le braccia di ‘lei’? Il rumore della pietra incisa le attraversò il cervello, facendole alzare lo sguardo. Dei corvi si appollaiarono sui rami, gracchiando. Un rumore molto simile, non doveva farsi distrarre.
Sentì la voce della figlia tra quelle delle altre giovani cessare il canto, tra i tuoni e il rumore della pioggia sempre crescente. Aveva freddo, ma tremava di più per l’emozione.

Medb, inspirando, sentì nel vento la propria voce disperdersi.

…M’istre’s an bh’is agus rebreith
Caomhn’ir na Caill’…

La sua preghiera non era mai stata così sentita, necessaria, disperata.

…Teacht agus feast ar ‘r dtairiscint’ i d’ainm…

Sperava nella fiducia, anelava al perdono, offriva quello che di più caro avesse.

…Iarraimid chugat Morrigan, Banr’on Breataine
Hail chuig an Morrigan!

Si rese conto continuando la sua preghiera, di quanto una parte di sé si sentisse poco pronta a quel momento. Ma la pioggia scrosciava come non mai, i tuoni facevano tremare i polsi delle giovani, e i due mondi si toccavano.
La ragazza reggeva la coppa, tremando. Non ne poteva più dal freddo, dal disagio, avrebbe voluto scappare di lì, ne era certa. Trattenne un singhiozzo, mentre gli abiti cominciavano a gravarle addosso pieni d’acqua e di freddo, solleticandole i giovani e teneri seni. Un fulmine estremamente vicino quasi le fece rovesciare la coppa, ma sicuramente squittire di paura. Medb si girò con uno sguardo furente quasi peggiore del temporale, ogni istante che passava senza nessun segno era un fallimento, ogni secondo era scetticismo nei presenti, disonore, spregio, e quella ragazzina non poteva certo peggiorare le cose. Un altro lampo illuminò i visi dei presenti, e la Signora lesse tutto il loro disappunto, che la alterò completamente. Incapace di reputarsi responsabile, si girò verso la figlia, con la ferma idea di punirla, alzando la mano tremante. Uno dei corvi atterrò pesantemente tra lei e la giovane, guardandola con penetranti occhi lucidi sotto il piumaggio bagnato.

“Toccala e sei morta.”
Così sibilò una voce roca sopra la spalla della Signora, mentre i presenti chinavano il capo quasi all’unisono, così come Medb, “In ginocchio, sguardo a terra. Come tutti gli altri.” impose la voce. La Signora, in un brivido forse di freddo, forse di piacere, si accasciò nell’erba gelida. “Sì, mia dea.” sussurrò. Avrebbe pianto, o forse sarebbe venuta. Le solleticava l’inguine, quella sensazione di sottomissione mai provata prima. I ruoli, i ruoli erano tutto, non le competeva il non assistere. “Non vedere sarà la tua punizione per ciò che sai” sussurrarono le labbra della figura alle sue spalle. “sono qui, ma si paga pegno con me, lo sai.”
“Sì, mia regina.” annuì Medb, sentendo una mano sul capo. Una sensazione di calore si diffuse nel suo corpo, sfiorandole i seni e il corpo una volta più tonico, ma ancora molto gradevole, fino a solleticarle l’inguine.
La figura soffocò una risata. “Sei divertente, Medb.” sussurrò piano vicino al capo della donna. “Lo sei stata anche ieri notte.” La Signora balbettò, mentre gocce di pioggia le scendevano sul viso, ma dentro di sé sentì una sensazione di pace. Non era impazzita, e lei era qui. Non poteva fare altro. La mano si scostò dal suo viso, mentre la figura si rialzava in piedi.

“Salute a voi, fanciulle.” la giovane alzò lo sguardo, come le altre, nel momento in cui solo loro potevano assistere. Aveva sempre pensato, tra sé e sé, che sarebbe stato difficile capire cosa di mistico vi fosse in quel rituale. Una vena di scetticismo l’accompagnava da sempre, forse per reazione alla madre. Come essere certe che tutto fosse oltremondano, non fosse qualcosa come una gigantesca recita? In fin dei conti, ne aveva udito le storie proprie del suo popolo, qualcuno che si spacciava per altro per puro potere personale c’era stato già, nei secoli. Persino alcuni eroi delle antiche storie si erano presentati come divinità, e i canti ne lodavano l’astuzia e la sagacia contro il nemico.
Ma quando vide la figura, si accorse che nulla nel suo mondo potesse realmente prenderne le fattezze.

Il vento scuoteva i rami degli antichi alberi, mentre la pioggia scrosciava quasi orizzontale. Il fumo delle lanterne si perdeva subito, mentre la luce tremolante rifrangeva nel raggio di pochi metri. Un circolo di luce calda, in un mondo freddo. Dalla figura si elevava un sottile filo di vapore, che scivolava fuori da due labbra nere come la notte in cui cadeva la brughiera, spiccate su una pelle bianca, su cui scivolavano gocce di pioggia. Lunghe ciocche di capelli neri come le sue labbra, come alghe, aderivano ad un corpo nudo e perfetto. Non vi era una cicatrice, non un’imperfezione nell’armonia di forme del suo corpo. Adulta nella forma, antica nella sostanza, ma come un fiore appena dischiuso, perfetto, non toccato da nulla. Ma ciò che calamitava lo sguardo della giovane erano due iridi rossastre, che fissavano le fanciulle con un misto di curiosità e maliziosità.
La figura cominciò a camminare avanti ed indietro, come davanti ad una scelta -e di fatto lo era- ogni tanto si fermava ad osservare da vicino una delle ragazze, sussurrando qualcosa che solo la destinataria poteva sentire e rispondere. La giovane osservò la mano candida scostare la cappa fradicia di una delle altre per guardare meglio in viso una ragazza un po’ tarchiata ma dai lineamenti deliziosi, per poi coprirla di nuovo.
“non ha senso bagnarti più di così.” sussurrò sorridente, conciliante, la donna nuda, incurante delle gocce che scivolavano addosso a sé.
Tremavano, di freddo e di timore, le giovani, sentendosi nude, spiate, esaminate, da qualcosa che non potevano del tutto comprendere. Medb giaceva con lo sguardo a terra, occasionalmente vedendo i nudi e perfetti piedi della donna calcare lentamente, elegantemente, il terreno fradicio e l’erba bagnata.
Sapeva cosa stavano provando le giovani, era accaduto anche a lei tanti, tanti anni prima. Lo sguardo, quello sguardo che ti entrava nella testa, che ti leggeva dentro come una pergamena, i sentimenti e le voglie che poteva suscitare… Si ricordava come fosse crollata a terra preda di un orgasmo possente ed inedito senza che ‘lei’ l’avesse minimamente toccata. Nel ricordarlo, notò che i piedi perfettamente puliti e candidi si erano fermati quasi di fronte a lei. La figlia di uno dei capi con cui aveva parlato la sera precedente, era lì. Aveva forse scelto lei? No, doveva scegliere sua figlia… Doveva…

La giovane figlia del capo sosteneva lo sguardo di quelle iridi impossibili. Doveva farlo, per quanto difficile fosse, e cominciasse a provare una strana sensazione di calore dietro l’orecchio.
“Cosa c’&egrave, ragazza?” sussurrarono le labbra nere, avvicinandosi alla bocca della giovane.
“Niente, mia signora…” mentì la fanciulla, facendo scoppiare a ridere la donna, che reclinò la testa d’improvviso, scossa da una risata assolutamente sadica.
“Ahahahahah!” la bocca scoprì dei perfetti denti bianchi, in un sorriso che avrebbe fatto gelare il sangue a chiunque. “… Niente? Davvero?” chiese maliziosamente ‘lei’. La giovane cominciò ad ansimare. Da quando faceva così caldo?
Come… Come poteva essere quella sensazione che le scendeva, calda come un tonico d’erbe, lungo la schiena?
Le mani le tremarono, lasciando cadere una elaborata ciotola con un coperchio di legno, prontamente raccolta al volo dalla donna, mentre la giovane si inginocchiava al suolo, portandosi le mani all’inguine, sospirando con prepotenza.
“Cosa… Oooh… Ohhh!!” uggiolò la ragazza. Era come, era come… Come quando si esplorava, nella sua calda tinozza, come i racconti delle giovani che badavano a lei, quando le narravano dei loro fugaci incontri con i propri amati.
La figura, con noncuranza, sotto la pioggia, estrasse una piccola focaccia dalla ciotola, cominciando a mangiarla, godendosi lo spettacolo.
“Non so cosa succede…” piagnucolò. Sapeva che il padre era lì, tra i capi, e avrebbe intuito cosa stesse succedendo.
La figura, sbocconcellando il pane, commentò:
*mch* “Non mentire a me, Cleena, figlia di Comgan, non lo fare…” *mch* “Sai benissimo cosa sta succedendo…”
Oh, come era vero, il calore dentro di sé, quel piacere, non era solo come i racconti delle serve, era come… Era come… Come quando in segreto dal padre, si era nascosta con un giovane della corte, come non poteva farlo, si amavano, si volevano, si volevano davvero tantissimo, ma le era vietato frequentare quel ragazzo, ma l’aveva fatto, ed era stato…

“bellissimo… Ohhh… Non smettere… Non smettere…” Cleena ansimava e rantolava, mentre le mani bagnate premevano la stoffa sul suo inguine, forse uno dei pochi posti che, prima, era ancora asciutto.
La donna con i capelli neri prese dalla ciotola un’altra focaccia, alzando le spalle.
“Non ti preoccupare…” *munch* “posso continuare fino a farti sanguinare, lo sai.”
Cleena avvertì un dolore poco piacevole, come qualcosa che le stringeva le viscere “no, non la prego non lo faccia…” il dolore si allentò, tornando ad essere solo immenso, irrinunciabile piacere. Tornò a piagnucolare, rantolare, fino ad emettere un rantolo di puro, estatico, godimento, che la lasciò quasi esanime a terra, ansante, incapace di curarsi della pioggia, del freddo, o di qualsiasi altra cosa, con un sorriso sciocco in volto.
“Comgan!” urlò la donna nuda. “…Tua figlia &egrave una donna, già da molto tempo ormai. Se non te ne ha fatto cenno, &egrave perché teme la tua reazione. Ora sai, e sai che io so. Non scherzare con me.”

Nella cerchia dei capi, un enorme uomo dai capelli paglierini sussultò, tremando. Non avrebbe osato. La donna posò a terra la ciotola accanto a Cleena, che piagnucolava. La figura, inginocchiata, la prese con due dita al mento e la costrinse ad inginocchiarsi. “… Credo che Duane sia un bravo ragazzo, Cleena. Ma non avresti dovuto giocare con me, non sono sciocca come tuo padre.” Le labbra nere aderirono a quelle tremanti, quasi pallide della giovane, svicolandola dal suo ruolo.
Medb sospirò. Sapeva com’era stato per Cleena, lo aveva vissuto sulla sua pelle. Ma in fondo gioiva, perché era una scelta in meno contro la figlia.

La pioggia non cessava di battere, così come i denti delle giovani. “Lei sa…” piagnucolò la figlia di Medb. La madre strinse i denti, maledicendola, mentre la figura della donna si voltava verso la ragazza.
“Io so?” chiese, curiosa. La giovane deglutì, tremando. “Lei… Grande Regina, lei sa chi vuole di noi. La smetta di torturarci così!” si trovò gli occhi sanguigni della dea ad un millimetro dal viso, che la fissavano.
“… Sei come tua madre, vero?” le labbra nere si incresparono in un sorriso sadico, mentre la giovane sussultava. “No, per niente!” rispose la giovane, con veemenza, facendo sussultare tutti i presenti.
Un lungo tuono rimbombò nell’aria, mentre le due si fissavano. La donna rimase in silenzio per un tempo che parve di millenni interi.
“Hai paura?”
“Sì.”
“Perché?”
“Mia Grande Regina, lo sa benissimo.”
Le labbra si incresparono nuovamente in un sorriso. Quella ragazza la divertiva. Appoggiò la fronte candida a quella della giovane, facendola tremare, per sussurrare qualcosa che non doveva udire chi era intorno.

“Lo ami?”
“…”
“Ti ho fatto una domanda, ragazzina.”
“… Sento di sì. Lui mi ama?” chiesero le labbra della ragazza.
“… Mi cogli di sorpresa. Ma sei sincera. Lo scoprirai. Non temere tua madre.”

La Regina donò un bacio intenso anche alla giovane, prima di voltarsi, e far alzare Medb.
“Tua figlia sarebbe la scelta migliore. Ma lei ha già scelto qualcuno, e qualcuno, ha già scelto lei.” disse, prima di voltarsi, ed incamminarsi verso l’apertura nella roccia.
Quell’anno non vi era stata scelta, e a memoria d’uomo, non era mai accaduto così. Ma i popoli festeggiarono forse ancora più di prima, perché nessuno aveva dovuto soffrire una scelta, e qualche convenzione e costrizione era saltata.
La Signora, Medb, beveva da un boccale osservando i festeggiamenti, i canti e le danze. Non sapeva dove fosse sua figlia, ma non le importava di saperlo. La M’rr’gan aveva deciso, a modo suo come sempre, e in fin dei conti ne era contenta. Non c’era da preoccuparsi per la ragazza, ora che qualcosa di più saggio di lei ne aveva apprezzato le qualità, la sentiva molto al sicuro.
Le aveva fatto dono, nella tenda, del suo pugnale nero, non perché lo usasse, ma solo perché lo tenesse lei, come presto le avrebbe passato molte altre cose della sua vita e del suo ruolo.

Un poco lontano, tra i dedali dell’accampamento, la ragazza ballava con la sua guardia preferita, fissandosi negli occhi e vedendo, forse, un’intera vita, ridendo e scherzando con gli altri giovani, figli dei capi, degli sciamani, di chiunque fosse lì.
“Ho pensato che non ti avrei più rivista!” confessò lui, con un sorriso in mezzo alla folla che danzava, prendendo innumerevoli gomitate, portandola un po’ fuori dalla ressa per prendere fiato.
“L’ho pensato anche io…” rispose di rimando. Inavvertitamente, lasciando per sbaglio, fuori da una tasca, cadere a terra la lama della Signora, con un sonoro tonfo.

Una ragazza nella folla si chinò a raccoglierla, porgendogliela con un inchino. “Fate attenzione, giovane Signora, o la perderete!”
“Oh, che sciocca! Grazie mille, ci tengo molto”
“E’ un oggetto pregevole” convenne la giovane guardia, prendendolo per porgerlo all’amata.
“Già… Mi piace l’ossidiana. E’ così… Affascinante” rispose la ragazza con un sorriso, voltandosi per tornare tra la folla, in un lampo di iridi rossastre. Asia si riscosse sul treno, svegliata dalla vibrazione del suo telefonino che aveva preventivamente impostato su una sveglia un quarto d’ora prima della presunta ora d’arrivo. Era stata sicuramente un’ottima idea, visto che per tutto il viaggio non aveva fatto altro che stare con la testa spalmata contro il finestrino. Una sensazione di umido eccessivo in bocca e di secchezza delle labbra la colse di sorpresa, mentre si guardava attorno. Nessuno dei suoi vicini di posto era ancora presente, ma evidentemente dovevano aver assistito ad una colossale dormita con tanto di filo di saliva a bocca aperta. Francamente imbarazzante.
La bionda spense la sveglia, rimettendo a posto le sue cose ed apprestandosi a scendere dal treno, anche se la sua città era il capolinea e poteva risparmiarsi di scaricare i bagagli in tutta fretta.

Il treno arrivò con un sorprendente ritardo inferiore ai dieci minuti, e fu quasi l’ultima a scendere, trascinandosi dietro la sua valigia in cui aveva cercato di comprimere di tutto, e il pesante zaino. Abbracciò il padre che era venuto a prenderla, mollandogli in mano la maniglia del valigione, e si diresse verso casa.
Casa! Asia era rimasta sedotta dalla Grande Città, anche sicuramente per le vicende che l’avevano coinvolta nell’anno universitario appena trascorso, ma era decisamente diverso quello che provava rimettendo piede in quella che era stata la sua culla.
La Città di Confine era una città che nonostante i famosi natali e le grandi vicende storiche che l’avevano coinvolta e vista spesso protagonista nei secoli, era rimasta comunque una città di medie dimensioni. Una spessa cinta muraria delimitava ancora il centro storico dall’esterno, che alla fine aveva visto una reale urbanizzazione solo negli ultimi decenni. Per cui “dentro le mura” per molti abitanti era ancora un modo di pensare alla vera città, e fuori, a quel che c’era di nuovo. La famiglia di Asia arrivava dritta da generazioni di locali, e vuoi una considerevole storia familiare, vuoi una fortuna (di quella popolarmente nota con la C maiuscola), possedevano ancora una casa dentro le mura. In realtà, quasi a ridosso di esse, e una volta subiti i festeggiamenti ricchi di bava quanto il suo sonno in treno del suo cane, e aver sudato un paio di camicette per issare la valigia fin sopra le scale, la biondina si godette la sensazione familiare e bellissima di aprire la finestra di camera sua, chiusa per troppo tempo, e guardare il panorama. Durò pochi secondi di nostalgia, che devise di approfittare per andare con il suo amato animale a fare un giro fuori. Cambiandosi le scarpe, saltellò fuori dalla camera illuminata.

Oltre la finestra solo un paio di tetti di edifici più bassi la separavano dalla spessa cinta muraria, ora in tempo di pace un adorabile viale usato quasi come percorso-fitness. Non potendo costruire un parco interno alle mura, la città si era adattata a costruirne uno sopra. Oltre i baluardi e le cortine tra di essi, e i grandi alberi che ormai vi si ergevano sostituendo le guardie di turno che una volta affastellavano i camminamenti, si stendeva la città fuori le mura, e là, un brillare lontano, il Mare.
Era questo il destino della Città di Confine, di trincerarsi dietro delle mura per proteggersi, ma di tendersi verso l’esterno e l’ignoto, conscia di poter correre indietro oltre i pesanti bastioni.
Asia sorrise con questi pensieri in testa, scendendo le scale. Era una descrizione che poteva quasi calzare a pennello anche per descrivere sé stessa.
“Ogni città riceve la sua forma dal deserto a cui si oppone.” le parole di un libro citato da Morgana le rimbalzarono nella testa come se fossero state pronunciate secoli prima, e uscendo in strada seguita da una palla di pelo entusiasta (come tutti i cani, di qualsiasi cosa), non poté trattenersi dallo scriverle un messaggio.

Per ottimizzare i tempi, inviò le sue parole in un gruppo di messaggi comuni che aveva con i suoi due coinquilini, scherzosamente nominato “E l’ultimo chiuda la porta”.
“Io sono a casa! Qui vi piacerebbe! :D”. In cuor suo sapeva che avrebbe visto, come tutti i messaggi negli ultimi mesi, solo risposte di Marco, ma l’irrefrenabile scondizolare del botolo la portò a più urgenti pensieri, tutti nell’ordine di mandarlo a impazzire dietro una palletta rossa, nel lungo viale alberato.
Un quarto d’ora dopo, lasciò con delusione l’avvincente ricerca della palla per controllare il telefonino, che vibrava insistentemente.

Un nuovo messaggio?
“Ciao Asia! Sono Alec! Ti ricordi?” la bionda arrossì violentemente, così tanto che il suo cane rimase un secondo indeciso se valesse la pena di considerarla una sostituta della sua palla.
“Eh… Certo che mi ricordo!” rise tra sé e sé, rispondendo. Come poteva aver dimenticato Alec? L’ultima volta che si erano visti o sentiti era mesi e mesi prima, ma… L’aveva sentito molto, molto bene… “Come va?”
Il modello rispose affabilmente che andava bene, si informò di come stesse lei, ma sostanzialmente la chiamava per un problema.
“Ho delle geografiche difficoltà a trovare i mezzi di trasporto dalla Città di Confine al porto.”
“In che senso?”
“Starei tentando di andare in vacanza, ma… Ce li avete gli autobus da quelle parti? Sto diventando matto.”

Asia non riuscì a trattenere una risata. Effettivamente la sua città aveva qualche incomprensibile difficoltà a sviluppare un sistema di trasporto pubblico ad una frequenza più elevata di un mezzo all’ora, per cui optò per la cosa più gentile da fare: offrirsi di accompagnare lei Alec al porto. Se era dalle sue parti non c’era di sicuro alcuna difficoltà nel prendere l’auto a sua madre e dargli uno strappo.
Dopo aver chiesto innumerevoli volte se fosse sicura e ventilato di poter prendere un taxi, Alec chiese: “Come posso ringraziarti?”
Una parte di Asia suggerì un modo molto piacevole di venire ripagata, ma venne subito ostracizzata dalla sua mente a favore di una cosa più normale. Morgana probabilmente avrebbe cordialmente preteso un pagamento in natura, ma lei non era il tipo.
Così propose banalmente di trovarsi in un locale in cui si sarebbe trovata con delle sue amiche del Liceo, e di pagare in alcool.
In tal modo Alec sarebbe stato non solo un’utile scappatoia dalla noia di dover sentire tutti i pettegolezzi dei loro ex compagni, ma anche una sottile rivincita. Si vedeva già a farsi ammirare con il suo amico modello della Grande Città, e questa cosa titillava non poco il suo ego, ancora fresco di fabbrica.
“Una volta non sarei stata così tanto maliziosa da volermi prendere queste rivincite… Sto peggiorando?” chiese accovacciata davanti al suo cane. Che ovviamente, nel suo sguardo pensava qualcosa tipicamente canino, alla “ti adorerei lo stesso anche se fossi una selvaggia che mangia cuori di neonati per colazione nel caffelatte!”.

“Santo cielo Asia! Cosa sei, una selvaggia?” sbottò la signora Magda, con il suo solito cipiglio delle madri nelle grandi occasioni in cui tornano i figli a casa. “Cofa??” sputacchiò le lasagne la bionda. Doveva uscire, e doveva ancora prepararsi, e voleva farlo nel migliore dei modi. Anche a scapito delle lasagne di mamma, ingollate a velocità assolutamente normale per una studentessa che viva da sola, inconcepibili per sua madre.
“… Passi che stasera sei già fuori, e io sono mesi che non ti vedo…” attaccò impettendosi la signora, con la dialettica che sapeva riservare solo alle camionate di rimproveri alla figlia “… Passi anche che non mi stai dicendo con chi devi uscire… Ma non intendo avere davanti uno spettacolo così desolante!”
Asia sospirò a bocca piena. Non poteva certo dire a sua madre che aveva intenzione di far morire di invidia le sue amiche presentandosi a braccetto con un tocco di modello. O anche nominando Alec, non poteva certo rispondere all’ovvia domanda su come si fossero conosciuti. Un modello che se l’era sbattuta in un’orgia. E in un bagno di un locale. E ripetutamente con Morgana. E ancora più ripetutamente da sola.
Fortunatamente in soccorso venne il padre: “Magda, ormai tua figlia &egrave adulta, non devi certo chiederle l’esame del sangue delle sue amiche del Liceo per approvare le sue uscite!”
Asia sorrise al padre, riconoscente, mentre la signora si alzava fintamente scandalizzata con l’ovvia cantilena di “ah, sarebbe MIA figlia??”

Così, un’ora e mezza dopo, con i sensi di colpa che le facevano arrovellare il pancino, Asia si diresse verso il locale dove si sarebbe trovata con le sue amiche. A confronto con i posti della Grande Città sfigurava sicuramente, non era che un locale con un po’ di musica dal vivo ogni tanto, e una discreta selezione di birre e vini. Ma non aveva scelto lei, e in fin dei conti non era dell’idea di gettarsi in qualche serata sfrenata.
“Asia!!” fu un unico cinguettio da parte delle sue amiche l’arrivo della ragazza. Di tutte loro, ne sopportava veramente una metà, ma nella piccola realtà cittadina i gruppi di amicizie rimangono uguali per anni, e toccava inevitabilmente avere a che fare con amiche-delle-amiche. Per fortuna sarebbe arrivato Alec…
La bionda venne interrogata a più riprese su mille argomenti diversi dalle amiche. Lei era quella che era uscita ed andata lontano a studiare, quindi chissà cosa non aveva visto (vero! Ma non lo voleva certo dire a loro!), chi aveva conosciuto, come andava l’Università… Asia si sarebbe sentita intimidita come sempre era stata dalle sue amiche così curiose, ed espansive, ma si accorgeva che l’idea di avere presto lì il ragazzo, una “prova tangibile” delle sue avventure, le dava una certa verve.
“Allora quando arriva il tuo tipo?” chiese Laura, una bionda tinta che al Liceo giocava sempre ad essere la bella bambolina con la puzza sotto il naso. “Non &egrave il mio tipo… Comunque, spero presto… Mi sta tornando fame, le fanno ancora quelle focacce qui?” Si premurò a rispondere Elisa, un metro e sessanta di rotondità assortite: “sì, che si fottano, sono sempre buonissime.”
Asia rise assieme alle altre, e si illuminò quando vide spuntare il ragazzo da dietro una colonna del portico, lievemente perplesso sulle indicazioni della bionda su come raggiungerla.. Lo salutò con la mano richiamando la sua attenzione.
Era, ovviamente, bellissimo, anche se aveva optato per una camicia e dei normalissimi jeans, spiccava parecchio tra gli altri ragazzi, e Asia gongolò immensamente nel sentire impennarsi gli ormoni di tutte le sue amiche. Forse non doveva dire che non era il suo tipo…

“Ciao a tutte!” disse con un sorriso verosimilmente sincero, prima di presentarsi a tutte le amiche. Laura, Elisa, Sara, Rebecca, un’altra Laura (“e già qui cominciamo a complicarmi la vita” commentò ironicamente Alec, anche se tutte e due le Laura avrebbero risposto a quel visino anche se le avesse chiamate fischiando e basta), Giulia… E ovviamente Asia, che lo abbracciò e baciò sulle guance, cercando di non pensare ai loro trascorsi, prima di arrossire in maniera non spiegabile. Così tutti insieme entrarono nel locale. Alec mise una mano attorno alle spalle di Asia, e se nel suo volto sorrideva stupidamente, nel suo intimo cominciava già a sentire un formicolio non proprio innocente…

A nessuno interesserebbe sapere davvero della serata del gruppo.
La presenza di Alec fortunatamente poneva dei limiti ai pettegolezzi, e spingeva la conversazione su qualche aneddoto liceale o su argomenti più seri, ma quel che Asia notava non era solo che Alec risultava simpatico a tutte, ma che se lo mangiavano letteralmente.
“Dimmi che &egrave single!” le scrisse sul telefonino Sara. “Non credo!” rispose mentendo Asia. In realtà non lo sapeva, ma il ragazzo continuava a parlare di “una con cui usciva”, una risposta di comodo per evitare di rivelare troppo. Asia invidiava questa tizia. Se non era scattato nulla tra lui e Morgana, chi mai doveva essere questa tizia? Ma chi se ne importava, come se lei potesse mai essere stata una scelta possibile per lui…
La bionda ridacchiava spesso sotto i baffi vedendo come l’alcol e la confidenza rendeva sempre più cretine le sue amiche, con Laura che chiedeva istupidita dove dovesse andare in vacanza il ragazzo per, tipo, la quarta volta.
Fu quando la finta bionda cominciò a mettergli un po’ troppo le mani addosso, che sentì crescere dentro di sé una certa… Gelosia? Insomma, come si permetteva?
E Alec non diceva niente, cordiale e affabile come prima. Ovvio che gli piacessero le bamboline, come poteva essere altrimenti?
La serata così sembrò una versione “universitaria” della serata con Morgana e le sue amiche, con Asia che si sentiva sempre più fuori posto.
Sempre di più. Fino a scivolare ovviamente nella sua timidezza caratteriale. Come poteva lei essere qualcuno di interessante, a confronto con le altre? Cosa le aveva fatto pensare che la presenza di Alec avrebbe cambiato l’opinione delle sue amiche maturata in anni di conoscenza?
Era sempre la solita Asia. Alec era fuori della sua portata, le sue amiche erano meglio, e lei, lei non era nessuno.

“Parliamo di uno che si &egrave concupito Morgana! Come puoi pensare che ti consideri oltre un taxi per le sue vacanze??” disse tra sé e sé, lavandosi le mani in bagno, dove era andata per smettere per un attimo di assistere a quello spettacolo, quando entrò Laura.
“Allora, piace Alec, eh?” chiese, acidissima, Asia. La bionda tinta ridacchiò ubriaca “Se continua a offrire da bere a tutte, finisce che me lo scopo! O ce lo scopiamo! E non mi sembra che quell’erezione che ha mi dica di no! Ihihih!”.
Asia uscì senza dire una parola. Chissà perché, si sentiva decisamente stanca.
Comunicò la sua spossatezza alla tavolata, con qualche laconico saluto e dicendo ad Alec che sarebbe passata sotto il suo albergo verso mezzogiorno, ma “…ci sentiamo domattina, adesso meglio che vada”. Salutò e pagò quel che non aveva offerto il ragazzo, sentendosi di nuovo la solita, normalissima Asia.
Quella che non riusciva non solo a spaccare la faccia alla sua ex compagna imbecille, ma neanche ad essere abbastanza interessante per uno con cui era già finita a letto, ma solo…
“… Una che riesce a portarsi dietro un figo spaziale al bar e a lasciarlo lì in pasto alle sue amiche!” pensò sotto il portico quasi piangendo. Anzi, piangendo.
Chi si sarebbe scopato, Laura? O Sara? O magari tutte e due, ma anche tutte e sei, tanto fino a cinque lo sapeva per esperienza, non aveva problemi!
“Cretina, cretina e cretina!” piagnucolò asciugandosi le lacrime nella penombra fuori dal locale, mentre qualche persona la guardava senza osare avvicinarsi.

“Serataccia, vero?” disse una voce appoggiata alla colonna.
La bionda tirò su con il naso, cercando un fazzoletto nella borsetta. “Un po’.”, disse.
“fatti una fetta di cazzi tuoi”, pensò.
Con la coda dell’occhio, nel tremolio delle lacrime, intravvide che, schiena al muro, poggiava una ragazza in jeans, con una felpa abbastanza larga e un largo cappuccio calato sul viso, con una birra in mano.
Tornò a cercare il fazzoletto, senza alcuna voglia di fare conversazione, concentrandosi sulla sua borsetta e dando le spalle alla tipa, prima che le chiedesse qualche spicciolo.
“Alec &egrave un coglione, ma non così… Tanto. Vedrai.”
La bionda si sentì raggelare il sangue nelle vene, sobbalzando e sgranando gli occhi, voltandosi di scatto con un urlo sorpreso a guardare la colonna. Nessuno.
“Ehi, tutto bene?” chiese Alec, arrivando trafelato dal locale, facendola riscuotere dal momento di panico.
“Non… Non… L’hai…” balbettò la bionda, osservando la bottiglia di birra vuota ruotare sul selciato. Poi guardò Alec, e sorrise.

“Le tue amiche sono simpatiche” disse il modello dopo un attimo di imbarazzo. La bionda cercava di dissimulare le lacrime con un sorriso. “Davvero? Bene! Sono…”
Alec le poggiò una mano sulla spalla, sorridendole di rimando: “Sono ubriache fradicie, e due sono andate a vomitare un secondo dopo che sei uscita. Per me &egrave serata chiusa con loro. Facciamo un giro prima che escano e ci trovino?”
“Oh cazzo, sì!!” esclamò Asia portandosi le mani al petto, prima di arrossire e correggersi. “Emh… Mi piacerebbe molto, sì.”
Passeggiarono sulle lunghe mura della città quasi in silenzio, mentre l’emozione della ragazza cominciava a trasformarsi in un formicolìo molto ben definito. Irrefrenabile. Irresistibile.
“Vieni qui, tu!” esclamò, appena furono dietro un algolo delle mura. Si inerpicò come uno scoiattolino aderendo al corpo del ragazzo e fiondandosi a baciarlo intensamente. Mesi che non sentiva la bocca di Alec e non ne aveva dimenticato neanche un millimetro, mesi a ricordare la serata assieme, mesi in cui voleva risentire quella spessa carne sotto i suoi pantaloni…

“Devo essere ubriaca parecchio anche io, Alec” sospirò la bionda. “… Ma voglio che tu mi prenda. Mi prenda qui.” il ragazzo sobbalzò. “Qui?” chiese con un tono dubbioso che riscosse un poco la mente di Asia.
“Hai ragione, non qui, conosco un posto!” lo prese per mano e cominciò a trascinarlo dietro di sé. Lo voleva, lo voleva alla follia, e si sentiva incredibilmente eccitante nell’essere lei a portarlo dietro, così, come a condurre il gioco.
Camminarono per qualche decina di metri prima di scendere in una stretta scala nello spessore delle mura, fino a girare dietro un altro angolo in cui una piccola alcova si affacciava sull’ex spianata di tiro. La bionda si sorprese nonostante il lieve ottundimento dei sensi causato dal bere di ricordare dove si trovasse, mentre si riappiccicava voluttuosamente ad Alec.
Oh, quel corpo era così eccitante… Quelle spalle, quelle braccia, le ricordava a memoria mentre la stringevano a sé, penetrandola… Lo voleva, lo voleva tutto. Assolutamente. Cominciò goffamente e affrettatamente a cercare di slacciare i pantaloni di Alec, mentre le mani del ragazzo le stringevano i piccoli glutei sodi.
“Questa…. Mmmh… Era una postazione di tiro… Ci vengono sempre le coppiette…” ansimò Asia, distratta dai baci sul collo. “… Qui stava l’artiglieria… E qui sta ancora!” esclamò, afferrando il pene del ragazzo sotto le mutande.
“Sei così… Fuori di testa, Asia…” sussurò lui. Lo stupiva sempre quella ragazza, era così timida e tremebonda, e poi lasciava andare un lato così selvaggio che lo eccitava da morire. La ragazza annuì vigorosamente, con entrambe le mani impegnate a tastare quell’asta pulsante.
“Dimmi che mi vuoi” sussurrarono le sue labbra. “Oh certo che ti voglio…” Asia sorrise. “Non sono una brava ragazza, vero?” Alec la baciò intensamente, una mano dietro la nuca. “Sei una bravissima ragazza…” le sussurrò a sua volta. Asia piagnucolò, senza che nemmeno lei ne capisse il motivo. “Non voglio essere una brava ragazza…”
Si guardarono negli occhi, nel buio quasi totale, per un istante, mentre lui le sorrideva.
“B&egrave Asia, lo sei… E sai cosa fanno le brave ragazze?”

Non c’era bisogno che proseguisse oltre, perch&egrave era quello che Asia voleva fare da ore. Si accovacciò scoprendo del tutto il sesso del ragazzo, e cominciò a degustarlo come se fosse la cosa più buona del mondo, e in quel momento, lo era. Sapeva di caldo, di eccitazione, di potenza, era qualcosa così vigoroso anche a tenerlo in mano che prometteva piacere e godimento, e lei voleva donarglielo tutto, tutto quello che poteva. Si sentì la cappella del ragazzo spingere verso la gola un paio di volte di troppo per i suoi gusti soliti, ma in quel momento Asia non era altro che una femmina desiderosa, che voleva compiacere il suo maschio, lui che l’aveva scelta.
“Sì, ha scelto me!” sorrise tormendandogli l’asta con le mani “Nessuna di quelle troie &egrave degna di questo cazzo!” sussurrò, baciandolo appassionatamente sulla punta, prima di alzarsi in piedi e poggiare una magra gamba ad un gradino dell’alcova, fissando il suo maschio ed invitandolo a farsi avanti. Si baciarono intensamente, mentre le mani di lui sollevavano un po’ la gonna e scoprivano un paio di mutandine estremamente umide.
Asia si staccò con un filo di saliva dalla bocca di lui, gli occhi socchiusi nel sospiro di un brivido che le mani calde, sull’inguine, le provocavano. “Prendimi qui…”
“Convincimi” sussurrò con un sorriso lui, prima di avere la bocca tappata da un altro bacio, mentre la bionda gli saltava in braccio, abbarbicandosi a lui, muovendo il bacino e le mutandine sul cazzo in erezione.
“Impalami, sventrami, Alec, lo voglio sentire fino in gola, sbattimi al muro” ansimò Asia senza alcun controllo. “Fammi camminare storta fino a casa!” piagnucolò, mentre goffamente lui riusciva a scostarle le mutandine e come se fosse stato un coltello nel burro, scivolarle dentro completamente.
Asia urlò di piacere e un pizzico di dolore mentre il suo sesso veniva così rudemente dilatato. Era una fanciulla minuta, molto più piccola di Alec, e del suo sesso così imponente. Ma il corpo della bionda non se ne ebbe a male, e mentre le mani di lui le tenevano fermo quel culetto così sodo, le mura le premevano sulla schiena, e il corposo attrezzo del modello la penetrava fino in fondo. Ad ogni fine corsa un rumore umido risuonava nella piccola alcova, mescolandosi ai sospiri e ai gemiti dei due, quei rumori che tante volte Asia aveva sentito qualche metro più in alto, ridacchiando poi con le amiche.
Una coppietta mano nella mano si avvicinò, sentendo i sospiri scrollò le teste, e tornò a cercare un altro posto in cui appartarsi.

“Voglio farti impazzire” disse la bocca di lui sull’orecchio di lei, titillandole il lobo, mentre piccoli orecchini a cerchio sbattevano vivacemente sul collo di lei a ritmo delle penetrazioni. Oh, ci stava riuscendo, Asia non aveva mai immaginato di poter provare quelle sensazioni, di provare piacere così…
“Mi fai impazzire, sempre…” Ansimò con una lacrima che le spuntava dall’occhio “Ooohhh così! Cosììì!! Sei un fottuto scopatore di teste!”
Alec scoppiò a ridere “Sono cosa??”
“Mi fai… Mi fai sentire…” non capiva come esprimere il concetto “Mi prendi qui dentro, mi… Oh cazzo! Sì! Continua così! Così!!” Asia non capì come mai, si stava forse stringendo attorno al suo sesso, ma sentiva dritto nel cervello il piacere che le dava il ragazzo. “Mi fai sentire… Mi fai… Sentire…”
Oh era sublime, era magnifico, e anche lui si sentì strano, eccitatissimo, voleva farla godere intensamente e non gli importava di farlo a sua volta, era ammaliato da quella ragazza con il viso d’angelo che impazziva così per qualcosa che tante donne con cui era stato apprezzavano, ma, come dire, volevano solo quello. Era divertente, era eccitante, ma erano spesso donne che potevano avere altri, e lui era solo un giocattolo più bello degli altri.
Come nel suo lavoro, era apprezzato e bello e considerato, ma se lui non poteva, si trovava qualcun altro. E invece Asia era così coinvolta nel volerlo, lo faceva sentire..
“… Mi fai sentire come se fossi speciale” disse lui, mentre lei finiva la medesima frase, e la loro reazione fu solo di baciarsi intensamente, mentre lui le si piantava dentro e raggiungeva il piacere, strizzato dall’orgasmo di lei.
Ansimarono uno sul collo dell’altra per minuti interi, mentre le campane suonavano un’ora troppo tarda per gli standard della signora Magda.

Asia si lasciò scivolare fuori, e giù dal ragazzo, ancora con il fiato corto, mentre le suonava il telefonino.
“E’ mia madre… Adesso non… Meglio non risponderle…” sorrise, appoggiata al muro, stordita. “… Dopo… Aaaahh!” la bionda tremò, lievemente inorridita dall’istintivo impulso delle sue parti basse di colare ‘qualcosa’ fuori da loro.
Alec rimase a guardarla, mentre lei prendeva i fazzolettini dalla borsa e gliene porgeva uno. “Prendi qualcosa?” la bionda sorrise “Sì, tranquillo, la pillola, ho un ciclo irregolare…”
“Tu sei tutta irregolare.”
Risero assieme, ripulendosi, e lasciando la piccola alcova. Asia gettò in un cestino i fazzolettini, cercando di assumere un’andatura normale, mentre Alec le sussurrava che l’avesse chiesto lei di tornare a casa camminando storta. Sotto casa di lei si scambiarono un piccolo bacio.
“Domani alle nove in albergo?” disse lei con un sorriso. “Non era a mezzogiorno?” chiese Alec, perplesso sull’essersi dimenticato l’ora convenuta, e facendo sorridere la bionda.
“Pensavo potessimo… Divertirci un po'” sussurrò lei, arrossendo, e scappando oltre il portone di casa. Qualche minuto dopo Alec confermava che alle 9 andava benissimo, e le augurava la buonanotte.
Dopo una veloce doccia, la ragazza si mise a letto puntando la sveglia, e scrivendo a Morgana. Ovunque fosse, se ci fosse, casomai fosse esistita… Sorrise inviando il messaggio, e crollò quasi istantaneamente nel dolce sonno che accompagna ogni congresso carnale intenso.

Dall’altra parte della Città di Confine, una vibrazione fece spaventare qualche corvo che dormiva sul tetto di un edificio, che alzò la testa da sotto l’ala con uno sguardo interrogativo e lievemente incazzato. Prima che il telefonino, rullando, scivolasse giù dai vecchi coppi di terracotta, una mano dalla carnagione pallida lo afferrò lestamente, e alla luce dello schermo una figura accovacciata sorrise sotto il cappuccio.
“E’ un coglione, ma non così… Tanto.” recitava il messaggio di Asia.
Due labbra scure sorrisero, e la figura pensò se fosse il caso di rispondere, prima di spegnere il dispositivo e, alzatasi, ricominciare a muoversi, seguita dai corvi, nella notte della Città di Confine. Se qualcuno, nella notte della Città di Confine, avesse provato ad affacciarsi alla finestra, a scrutare nelle ombre che da sempre avvolgevano gli alti tetti delle antiche case, lontano dai lampioni con la loro luce soffusa, forse avrebbe visto qualcosa di strano.
Qualcosa di strano come un’ombra più densa delle altre, scivolare da un tetto all’altro, da un comignolo all’altro, e forse avrebbe correlato la cosa al piccolo stormo di neri uccelli che volava, pigramente, in un percorso bizzarro, forse disturbati da chissà cosa, gracchianti quasi sottovoce.

“Non credo abbia intenzione di fermarsi” sembrò dire uno dei volatili, dal battito più calmo dei suoi più giovani compagni. “… Sembra turbata.” sentenziò un altro, planando mollemente vicino a lui.

“… E’ la situazione che la stressa. Sono cambiate molte cose in questi mesi, non sa come affrontarle, se non aspettando.” “Aspettando cosa?” chiese un giovane esemplare più inesperto e baldanzoso, che con altri si divertiva a salire un poco di quota, per poi lanciarsi in brevi e giocose picchiate e schivate.

“… Aspettare che le cose cambino, la situazione si chiarisca, o semplicemente, aspettando un momento per entrare in gioco.” sbuffò il becco, annusando l’aria della notte, mentre sotto di loro, all’ombra di un grosso camino, una figura si fermava sul bordo del tetto. “Guardate che vi sento, stronzetti!” sorrise la figura nell’ombra. Il piccolo stormo si posò gracchiando sull’alto comignolo, effettuando le sue rimostranze in materia.
“Siete peggio di Huginn e Muninn”. Il vecchio corvo gracchiò una protesta molto sentita. “Non diciamo sciocchezze, Grande Regina! Huginn e Muninn sono degli spifferoni per natura!”

“E poi sono utili davvero.” rimbeccò il giovane.
“In che senso?” chiese la figura, alzando il volto verso il comignolo.

“Loro sono a spasso tutto il giorno per raccogliere informazioni per il loro capo, che non sta in giro! Tu sei qui, noi siamo qui, che beneficio ne trai?” il tono insolente del giovane costò alla notte un po’ di baccano. Non si poteva permettere di parlare così! Ma la figura alzò una mano candida, facendo smettere immediatamente il chiasso. “Non hai tutti i torti. Potremmo anche separarci -ammesso che noi ci si possa separare.- se sei pronto, vai.” la mano indicò il cielo colmo di bagliori delle urbanizzazioni umane. Il giovane uccello tentennò sulle sue zampe.

“Io… No, non intendevo questo…” balbettò, mentre i suoi compagni gracchiavano divertiti. “… Chiedo scusa.” la figura sorrise, conciliante, voltandosi verso i tetti.

“Certo che ha un caratterino! Non sarà stata così irritabile neanche nei giorni di C’chulainn!” sbottò il giovane corvo.
A sentire quel nome lo stormo scoppiò in grida fragorose, mentre la figura si voltava di scatto con un ringhio rabbioso destinato al povero sventurato, che ebbe salva la vita per pura fortuna, anzi per pura tegola in cotto che, sotto il movimento della figura, decise di scivolare verso la strada che aveva sempre visto dall’alto, trascinando con sé scarpe, jeans, felpa e cappuccio, dritte sul selciato, diversi metri più in basso.

Non c’era gente, nelle piane, che non avesse sentito il nome di C’chulainn. Il valoroso, l’astuto, il sanguinario C’chulainn.
Il giovane che era riuscito a sconfiggere intere armate, ora nella brughiera, ansimava tenendo la spada tremante nelle mani. Se qualcuno avesse assistito agli scontri che aveva appena sopportato in quel giorno, avrebbe guadagnato altri dieci o venti soprannomi.
“Cos’altro hai in serbo, adesso??” gridò il giovane uomo. Non giunse risposta dalla figura a qualche metro di distanza, per cui lui ne approfittò per sputare un po’ di sangue nell’erba. Tra il verde delle foglie spiccavano ciuffi di pelo grigio, pestati da pesanti zoccoli.

La figura emise un verso rauco, attirando la sua attenzione. Se voleva colpire, doveva farlo ora. Ma poteva? L’eroe si domandò quanto grande fosse il suo onore nel poter infierire quell’ultimo, se poteva essere tale, colpo, e la sua indecisione gli fu fatale. La figura scattò, coprendo in un istante lo spazio che la separava da C’chulainn, e la pesante arma dell’uomo volò leggiadramente fino a cadere qualche metro più in là, mentre i due corpi rotolavano nell’erba.
“Ah! Puttana!” esclamò l’eroe, trovandosi schiena a terra, con le mani bloccate da una presa implacabile. Sul volto segnato dalla battaglia, quasi ancora imberbe, colarono nuove gocce scure, da una bocca semiaperta dalle labbra turgide e scure a loro volta.

“Sono battuta, C’ Chulainn. Basta duellare.” dissero, debolmente. L’uomo sgranò gli occhi, sorpreso, fissando il volto della donna. Non sembrava irata, non sembrava tutto quello che era stata in quelle ore, era solo sconfitta, battuta, dispiaciuta.
La figura respirava con fatica. Una prima volta l’eroe l’aveva abbattuta, sentiva ancora il rumore delle sue coste. Una seconda, le aveva portato via un occhio. Una terza, le ossa della gamba. Era stato un duello infinito e faticoso, e ora ancora ne portava i segni. Ma nel suo sguardo, non vi era che tristezza.

Nell’unica iride rossastra si poteva vedere questo sentimento puro e possente, primigenio, non mediato dalla limitatezza delle sensazioni umane. Le mani lasciarono la presa, mentre la figura si sedeva sul giovane, sospirando.
Il calore dei loro corpi cominciò a suscitare nel sangue di C’ strane sensazioni, che si sentì al confine da avere la più inappropriata delle erezioni.
La figura sorrise, mentre un rivolo di liquido scuro le usciva dal lato della bocca si chinò sul volto di lui. “Mi hai ferita. In tutti i sensi. Mi sento morire.” “Puoi… Morire?” la bocca di lui tremò, pronunciando queste parole.
“Baciami e te lo dirò.” la bocca scura di lei aderì a quella dell’uomo, in maniera così animalesca che niente nell’animo del guerriero potesse opporsi. Le lingue si incontrarono e si scontrarono in una battaglia accesa quasi quanto quella che avevano vissuto i loro corpi. “mmmh” mugolò lui, sentendo una sensazione di caldo piacere invadere la mente e le membra.

Le mani della donna scivolarono sul suo corpo, tastandolo, carezzandolo, là dove prima aveva cercato di ferirlo, colpirlo, con esiti poco felici.
“Cosa stai… Ho detto di no!” ringhiò l’uomo, staccandola da sé. “Lo so… Lo so…” ansimò la donna. “… Non voglio il tuo cuore, C’chulainn, ho capito che non posso averlo. Voglio il resto di te, solo questa volta.” la donna si portò le mani allo strano abito che indossava, lacero dalla battaglia, sotto cui epidermide candida e lividi intrecciavano un mosaico doloroso, strappandolo dalla scollatura. Piume nere che lo ornavano scivolarono via, danzando nel vento della brughiera.

C’chulainn ammirò per la prima volta quelle voluttuose forme che davano, nella sua lingua, il nome a tutte le colline.
“Le mammelle della Morrigan…” sussurrò, rapito.
La donna sorrise, sotto i capelli scuri bagnati dalla lotta e dalla rugiada dell’erba, chinandosi e porgendole all’eroe, incapace di resistere al richiamo della sensualità incarnato dinanzi a lui. La bocca riarsa dalla battaglia aderì al capezzolo non troppo più scuro della pelle, come se ne fosse assetato. Era turgido, caldo, era meravigliosamente perfetto a giudicare dalla delicata esplorazione della lingua di lui. Si chiese se anche l’altro fosse così, e chiarì immediatamente il dubbio spostandosi. Una mano forte prese possesso del seno appena lasciato, e abituata dalla giornata in cui aveva stretto spasmodicamente l’elsa dell’arma, strinse con veemenza.

La donna si morse il labbro sanguinante, uggiolando. “Non così forte, C’!” le faceva male, le faceva male un po’ dappertutto. L’uomo scoppiò a ridere, staccandosi con un filo di saliva dal capezzolo rilucente nella luce della piana. “Non &egrave quello che dicevi prima!” lei sorrise, ricordando le sue incitazioni a combatterla con tutte le sue forze. Si lasciò cadere di lato, trascinandolo su di sé.
Lui la guardò, splendida, distrutta nell’animo (se ne aveva uno) e nel fisico, mentre lo ammirava con un sorriso provocante, una palpebra chiusa.
“E non &egrave quello che ti dirò dopo.” Batté una mano a terra, nell’erba, e in un istante fu nuda, nuda come nessuno l’aveva generata ma immensamente desiderabile, perfetta, eccitante.

“Prendimi, guerriero…” sorrisero le labbra scure. “Sono ferita, il tuo ardore mi guarirà” sussurrò, lasciando scivolare una mano sul sesso dell’uomo. C’chulainn si alzò in piedi per disfarsi dei pesanti abiti, ringraziando -mai se lo sarebbe aspettato- di non indossare ancora pezzi d’armatura, che giacevano sparsi e ammaccati tutto attorno a loro due. Si denudò, scoprendo un sesso eretto e possente come il resto di lui.
La donna si passò la lingua sulle labbra, prima di gettarsi seduta con la bocca su di lui.
“Ma…!” esclamò, colto alla sprovvista dalla rapidità dei movimenti, mentre il calore intrappolava il suo membro, mentre una lingua bollente e agilissima saettava e scivolava attorno all’asta e al glande. La donna si staccò con uno schiocco. “Se solo mi fosse riuscito un affondo così, prima…” sembrò rimpiangere, facendo tremare l’animo di lui, facendogli pensare a dove si trovasse la sua spada.

La donna scoppiò a ridere di gusto, per poi fissarlo intensamente, un ciuffo dei lunghi capelli neri le copriva metà del volto, mentre con la mano candida carezzava l’asta pulsante, lentamente. “Sono molte cose, guerriero, ma non una bugiarda. Ho detto ‘basta duellare’, e così sarà.” si passò la cappella sulle labbra scure, mugolando di piacere, e tornando a inghiottire il membro fino alla base. Era una fellatio pura e intensa, non ne aveva mai sentita una di simile erotica portata, e non riusciva a sentirsi in colpa nel vedere qualche stilla di saliva uscire dalla bocca di lei, ove prima uscivano gocce scure, o a desiderare il suo sesso tra i floridi seni, ove prima avrebbe solo voluto conficcare la spada.
Il guerriero rantolò il suo piacere, chiedendosi quanto ancora avrebbe potuto, stanco per l’acceso duello, resistere ancora.
“Non ora!” intimò lei, sfilatasi dal sesso, con un lieve mostrare i denti. E non fu una richiesta, fu un ordine, e l’uomo si sentì invaso dalla certezza che non sarebbe giunto al piacere senza che lei glielo permettesse.
E fu così un lungo e intenso servizio di quelle labbra scure, di quel capo dai capelli corvini che ondeggiava e succhiava la virilità di lui, su cui osò poggiare una mano, con un tremito, accompagnando il movimento, facendo crescere il desiderio fino al suo culmine…

… No. Non lo era. L’uomo si sentì improvvisamente affamato di lei, nell’istante in cui di norma avrebbe gettato il suo piacere fuori dal corpo. Si sentì inorgoglito, possente come quando perdeva la testa in battaglia. Spinse via il viso della donna facendola ricadere a terra.
“Oh, &egrave forse la famosa rìastrad dell’eroico C’chulainn?” disse la donna con una risata. No, non era la rìastrad, l’atto di contorcersi, di distorcersi, che da sempre lo aveva reso celebre in battaglia, quel perdere la testa nel furore del sangue, era una voglia diversa di infiggere qualcosa, di affondare nel corpo altrui, nel sentire gemiti e calore e corpi appresso a sé Non era niente di guerriero, era solo un ardore sessuale infinito.

L’uomo si distese sul corpo della donna.

“Ti voglio, M’rr’gan.”
“Prendimi, C’chulainn.”

Le entrò dentro senza alcun riguardo, trovandola rorida come le donne che aveva posseduto e deliziato prima con abbondanti carezze. Avrebbe quasi voluto domandarsi la cosa, se non avesse provato una sensazione così intensa, nell’esserle dentro, che non aveva mai provato neanche sommando tutte le già citate donne con cui era stato. Era come penetrare tutte loro, perché lei ne era equivalente. La baciò con passione, arretrando il suo sesso solo per cominciare a colpire, e quando lo fece lei urlò al cielo nuvoloso il suo piacere, sulle labbra di lui, stringendolo a sé, sentendo la schiena muscolosa sotto i polpastrelli, abbandonandosi totalmente, ricambiando i baci con vigore e desiderio, si lasciò prendere, perché voleva essere sua, ma non poteva in altro modo se non così.

L’ardore della battaglia non era niente di paragonabile a quello del sesso di lui che affondava nelle carni bollenti, dilatandole, lasciandosi avvolgere, e uscendone con un rumore liquido e osceno che portava fuori piacere e stille luccicanti, per poi ripiombare dentro, riuscirne, ripiombare, senza pensare a nulla, a nessuno, se non a farla sua.
La luce diminuì, quando lei volle prendere il comando, e con un sorriso conciliante cominciò a danzare sull’asta dell’uomo, incapace di decidere se volesse stringerla sui fianchi, i seni, le cosce, o solo stare lì, a farsi possedere, ad ammirare il corpo di lei, ferito e affaticato, che però turbinava entusiasta su di lui. Scelse questa strada, ma lei si sfilò via, scivolandogli sul volto e si portò le dita al sesso dischiudendolo e mostrandogli cosa volesse che lui toccasse. O meglio, assaggiasse.

Non capiva. Lei sorrise. A volte scordava che non ovunque, quel che gli chiedeva di fare fosse abituale.
“Come i seni, guerriero”. “Come…?” domandò lui, prima che una mano gli sbattesse il viso tra le cosce. Era bollente, liquida, profumata di voglia e desiderio. “Assaggia…” sussurrò la voce di lei, più in alto. Lui assaggiò, e la trovò buona. Anzi, molto buona, deliziosa.
Era dolciastra, e cominciò a scorrere la lingua su quelle pieghe così lisce e morbide, fino al bottoncino che di solito toccava con le dita. Lei apprezzava, apprezzava infinitamente, ansimando su di lui. Il tramonto giunse, e lei alzando gli occhi al cielo decise di scivolare nuovamente sul suo sesso.
Si lasciò possedere da quel membro. Lui provò ad alzarla un poco per penetrarla più attivamente: non lo accettò. Mise una mano sul petto, imperiosa, perfetta, premendolo nel terreno.

“No.”
Disse solo, perentoria, fissandolo con quell’occhio dall’iride rossastra. Senza lasciare la presa che quasi opprimeva il petto del giovane, iniziò ad ondeggiare il bacino, avanti e indietro, avanti e indietro, a ruotarlo, a risucchiarlo in sé ogni volta che si alzava un poco e di nuovo lo prendeva nel suo corpo.

Era estatico. Perfetto. Magnifico. Si sentiva come sul filo di un orgasmo che non poteva giungere, il piacere era costante, con picchi e fluttuazioni, ma persistente, e lui rimase così, a vibrare all’infinito come una corda d’arpa per un tempo che non riusciva a calcolare. Mentre l’oscurità calava, i versi degli uccelli si spensero via via, lasciando solo il frinire dei grilli.
Si sorrisero, mentre lei cominciava a cavalcarlo con foga, sempre più veloce e intensa, e in lui cominciava a montare un solletichio ai lombi. La tregua era cessata, la danza della dea era forsennata e animalesca, sottili soffi e rantoli le uscivano dai denti candidi mentre si accovacciava su di lui come a poter saltellarvi sopra meglio.

Mentre la luce rendeva sempre più difficile distinguere le forme, nonostante la bianca carnagione di lei, C’chulainn la ammirò accovacciata, assorta, gli avambracci poggiati sulle cosce, mentre il bacino continuava la sua danza forsennata.
Si chiese per un istante quale perfetto equilibrio dovesse possedere per poter stare così, ma mentre razionalizzava che c’erano mille cose in lei che non potevano essere spiegate, una fitta di piacere gli trafisse il cervello. Stava arrivando al dunque, dopo un tempo infinito.
“Oh per tutti…” mugolò lui, istintivamente prendendola per i fianchi. “Sì…” inspirò lei, estatica.
“… Così, C’, così… Perdi il controllo, perditi in me…”
Con un rabbioso urlo lui la buttò a terra, continuando a possederla ferocemente. Desiderava ardentemente venire, colpirla, martoriarla, dilaniarla, non in senso prettamente fisico, voleva abbatterla sotto i colpi del suo sesso mentre le ansimava nel collo pallido e coperto dallo sporco della battaglia.

Lei cominciò ad uggiolare, mugolare, sempre che quelli potessero essere versi e rantoli definibili da termini umani, e piantò le unghie nella schiena di lui quando con un urlo rauco raggiunse un orgasmo.
“Oh… Oh… Ohhhhuuhhh!!!” urlò nella brughiera. “… Aaaaah!” rantolò, la bocca scura lucida dei loro baci nella luce della Luna che spuntava, prima che i denti bianchissimi come la superficie del satellite affondassero nell’incavo della spalla del suo amante, istintivamente, sanguinariamente.
Sentì la carne lacerarsi mentre affondavano, il calore del sangue invaderle la bocca, stringendolo con le unghie, i denti, i muscoli del sesso, mentre lui, incurante, le rimaneva piantato dentro, per sfilarsi d’improvviso.
Stordita, lasciò la presa del suo corpo, la bocca schioccò sulla spalla, liberandola. Lui si contrasse, cercando il definitivo affondo del piacere, una rincorsa istintiva e quasi ridicola, nel contemporaneo desiderio di eiacularle dentro e l’istinto di arretrare da chi l’aveva ferito. Le mani di lei poggiarono nell’erba dietro le spalle, spingendola giù, scivolandogli sotto, e con un sol movimento lo prese in bocca, nell’atto del suo affondare.

Le arrivò in gola, con un rantolo sorpreso, esplodendole dentro tutto il piacere accumulato in quel periodo di sesso, così come voleva lei, con tremori, ansimi, e una spossatezza infinita.
Si levò con un rumore risucchiato e quasi disgustoso, crollandole accanto, sfinito. Lei si mise seduta nella luce notturna, passandosi la lingua sulle labbra scure e guardandolo con un mezzo sorriso.
“Che tu sia benedetta…” mugolò lui, e in lei ferite e dolore lasciarono il passo ad una rinnovata perfezione. Si scostò i capelli scuri dal viso, sbattendo le palpebre velocemente come a voler rimettere a fuoco le immagini dei due splendidi occhi che ora brillavano alla luce della Luna.
“… Sei veloce come…”
“… Come un’anguilla? Dovresti saperlo.” sorrise lei, ricordandogli lo scontro della giornata. Lui rise, sfinito, e lei continuò a guardarlo mentre l’eroe chiudeva gli occhi.

M’rr’gan rimase seduta a guardarlo per qualche tempo, nuda e splendida. Aveva rischiato, in un istante, di non mantenere fede alla sua promessa di non fargli del male, ma era riuscita a rimediare all’ultimo momento. La sua natura la portava ad avere uno stretto legame con l’energia dei viventi. La carne, il sangue, la vita, in un flusso di energia eternamente rinnovato, in un sistema di cose in cui lei, e non solo lei, trovava posto, e a sua volta energia. E poche cose erano tale energia come quel che accadeva in certi momenti. La battaglia, il dolore, l’orgasmo. Non era sua facoltà scegliere, era solo il suo posto, ma quando poteva, quando voleva, preferiva il piacere.
Aveva rischiato in un istante di essere una bugiarda e nutrirsi -se nutrirsi si poteva definire- di altro, del povero guerriero spossato.

“… Avrei potuto ucciderti, eroe.” sussurrò sulla bocca dell’addormentato, prima di baciarlo dolcemente.
Si erse in piedi, e lentamente mosse qualche passo nell’erba, alla luce della Luna, nel suono del vento, scostandosi i lunghi capelli neri dal viso. “Liath Macha! Dub Sainglend!” chiamò. Mentre ancora il suono della sua voce si spandeva nella piana, giunsero al galoppo due cavalli dal pelo lucido, che si fermarono sbuffando a pochi centimetri da lei.
“Liath Macha, grigio di Macha…” disse la donna, raccogliendo da terra l’abito che si era strappata, e lo indossava sulla pelle nuda. Sorrise, notando che non le dispiaceva affatto una scollatura così esagerata. Con qualche ragionamento, ne avrebbe potuto tirare fuori qualcosa di meglio.
“Dub Sainglend, nero di Saingliu…” una mano accarezzò il muso dell’animale. “… Vi vorrei donare a quest’uomo. Vegliate sul suo sonno, e quando domattina si desterà, non siate clementi, mettetelo alla prova. Se riuscirà a domarvi, come ha domato me, sarà degno di voi. Siatene felici, poiché potrete rimanergli accanto come io non posso fare.”

M’rr’gan si allontanò dai due animali, che cominciarono a pascolare vicino all’eroe addormentato. Si girò, con uno sguardo triste nelle iridi rosso scuro. Sussurrò parole che si insinuarono, come in un sogno, nella mente dell’uomo.
“… Non sarai mai mio, C’chulainn, almeno non fin quando il sangue correrà nelle tue membra”. Sorrise, pensando a quali membra. “… Ma correrò da te quando ne avrai veramente bisogno, lo sai.” i cavalli alzarono la testa, di scatto, nella brughiera, ma della donna non v’era più traccia.

Nella Città di Confine, una figura cercò di rialzarsi, faticosamente. Il selciato fradicio del vicolo le fece perdere aderenza un paio di volte, prima che riuscisse a mettersi in piedi.
“Cazzo…” sibilò a sé stessa, portandosi una mano alla fronte, ritirandola sporca di gocce scure. “… Un fottutissimo bel volo.” ammise a sé stessa, dolorante. Non sapeva se era più la caduta o la causa della sua disattenzione a farla soffrire, era ferita nel corpo e nell’anima, alterata nello spirito, confusa da mesi. Una combinazione estremamente pericolosa. Lo sapevano bene gli animali che, dall’alto del tetto, non si azzardavano a scendere.
Un suono di risate fragorose irruppe nella situazione di stallo, attirando l’attenzione della giovane. C’era della musica, del vociare a pochi passi, risate, respiro, vita, energia, persone, tutto così vicino e così a portata di mano, e lei ne aveva decisamente necessità. Una disperata necessità, a giudicare dal rumore che produsse il suo collo quando provò a voltarsi per individuare meglio la provenienza del suono.
“Avrei preferito evitare…” sospirò la figura, scostandosi i capelli scuri dal volto.
“… Ci sarà qualcuno abbastanza ubriaco…” disse, avanzando nella strada, con un sorriso in volto.
L’Ar-Too era un locale abbastanza modaiolo della Città di Confine. Uno di quei posti con DJ set, cubiste, musica di grido, cocktail con nomignoli stravaganti che rielaboravano ricette arcinote, clientela di vari figliocci di papà che godevano nello spendere mazzette di soldi al Sabato sera per avere qualcosa che in altri locali sarebbe costato la metà, ma non avrebbe ostentato il loro benessere. Vestiti di marca e di firma nota coprivano allegrotti personaggi intenti a fumare fuori in strada, a tenere bei bicchieri brillanti con una mano mostrando l’ultimo ritrovato della tecnologia.
Da dietro l’angolo della strada, nella penombra del muro e di un cappuccio lercio di una pozzanghera, due pupille si contrassero lievemente osservando due giovanotti commentare lo spessore del nuovo telefono portatile.
“cazzo…” imprecarono due labbra carnose un po’ spellate, appurando con una mano che quel che scrocchiava nella tasca dei jeans era quel che rimaneva di un cellulare. Morgana osservò tristemente una forma contorta e screpolata nella sua mano, pensando che forse, a tenerlo assieme almeno si sarebbero potute recuperare le schede di memoria. Giusto per evitare di perdere i numerosi contatti che possedeva.
“… Marco saprà come fare…” pensò, sentendosi una potente fitta nel petto, non sapendo se definirlo un sentimento, o l’urto di essere caduta così malamente. Il dolore la riscosse brutalmente dal fissare il telefonino, riportandola alla cruda realtà: stava messa malissimo.
La situazione le stuzzicò un’urgenza nell’animo, un pizzicore, che non provava molto spesso. Paura? Disagio? Quale che fosse, la turbava, le ottundeva un normale sentire il flusso delle cose che le era proprio, era un’ennesima increspatura nel fermo lago che era il suo animo, turbato dagli ultimi mesi. Si lasciò cadere appoggiata al muro sentendo tutto il dolore del suo corpo fisico, chiudendo gli occhi.

Era come il suo cellulare nella tasca. Rotto, con un’anima forse recuperabile.
Forse.
Forse.
Forse.

La parola le scivolò nella mente fino a perdere di significato, mentre il dolore, conseguenza inevitabile dei danni di quel corpo, le ottundeva quel che di razionale mai poteva esserci in lei.
Quando aprì di nuovo gli occhi, era un puro fluire, un puro istinto primordiale. I corvi sui tetti volarono via, spinti da un’urgenza che solo loro, forse, potevano comprendere.

Morgana si pulì il viso con una mano, uscendo dal buio e dirigendosi verso il locale. Li sentiva, i battiti dei cuori, le energie di quelle persone, uguali eppure dissimili da migliaia e migliaia di altre. Ci passò in mezzo, ignorata, quasi sbeffeggiata dalla torma di fighetti. Addocchiò il grosso tizio all’ingresso che la guardò chiaramente come si guarda un gatto randagio per strada. Non l’avrebbe mai fatta entrare. Passò oltre, mentre il buttafuori, dentro di s&egrave sentiva un brivido, non capendone l’origine.

“Cazzo Sofi, sei fuori da un’ora!!!” urlò alla porta antincendio una ragazza, attirando l’attenzione di Meg. Una moretta sbuffò insolente alla porta che si chiudeva. Sofia.
Sofia era una bella ragazza, lo sapeva, ne era conscia. Una discreta fighetta inguainata in una tutina di latex nera che strizzava un fisico tra le piege crocchianti issate su un paio di tacchi, impegnata a fumare e discutere con qualcuno al cellulare.
“No senti, cio&egrave, devi capire che io non ci sto a farmi trattare così!” recriminava una bella bocca rossa acceso con una cadenza fastidiosissima, sbuffando fumo. “Tu non mi puoi dire… Mh. Mh. No, senti, fammi parlare, cio&egrave Roby! Roby!!”
Sofia mugugnò di ira mentre scostava il cellulare dall’orecchio. Quello stronzo le aveva riattaccato! Lo sguardo di Sofia dardeggiò verso la ragazza incappucciata, che con le mani nelle tasche dei pantaloni la fissava, evidentemente divertita.
“Eh? Allora, cazzo vuoi?” dissero in una smorfia le labbra carminio.
Meg sorrise sotto il tessuto della cappa. “Mi piaci. Fatti valere.”

Sofia avvertì un lieve disagio, subito stemperato da un tiro di sigaretta e dal tornare a guardare lo smartphone. Che voleva quella, soldi? Un tiro? Ma guardala com’era vestita… Alzò lo sguardo solo per trovarsi, ad un millimetro, il volto di Morgana.
La mora aderì le labbra scure e spellate a quelle rosse intenso di Sofia, con un ‘mmmh!’ sorpreso della cubista. Che cazz… Le tremarono i polsi, mentre le cadeva la sigaretta e le palpebre ondeggiavano, perse nel deliquio di una vampata di piacere estremo dritta nel cervello. Era come essere arrivate al culmine di una perfetta scopata, era come se qualcuno le stesse titillando l’anima, era splendido e improvviso. Non sapeva come, non voleva sapere come, ma la sua tenera amichetta sbrodolò nel perizoma.
Sofia quasi scivolò a terra, stordita, fissando la ragazza incappucciata.
“Credo che dovremmo entrare.” disse, piano. “Se fai la brava, ne avrai ancora…”
Sofia mugolò, gli occhi lucidi, dirigendosi verso la porta e aprendola come in un sogno. Le venne incontro un ragazzo perfettamente tirato con un cartellino ‘staff’, agitando una mano. Su per giù doveva avere meno di vent’anni e già si atteggiava a grande capo. “Ehi! Ehi! Qui &egrave l’entrata di servizio! Cosa fai!” urlò a Sofia e alla ragazza che l’accompagnava.

“No tranquillo, cio&egrave, io non sto bene… Ma lei &egrave una mia amica” rantolò Sofia. Una piccola scarica di piacere le attraversò il cervello. “… Può sostituirmi, tranquillo”. Il ragazzo guardò Sofia perplesso. Non stava evidentemente bene, lo sguardo sembrava un po’ perso, un po’ vagante chissà dove, e piccole stille di sudore le imperlavano la fronte. Non era decisamente in condizioni tali da poter saltare in pista a ballare nella sua funzione primaria di cubista e attira-pubblico, un vecchio classico. “Sai ballare?” chiese alla ragazza incappucciata. “Tutto quello che vuoi, capo.” rispose quella, calandosi il cappuccio e aprendo la zip della felpa, scoprendo una scollatura generosa e due seni perfetti. Era splendida. “Stessa taglia di Sofy.”
“Ok, ok, Sofia andate veloci a cambiarvi. Tu a casa, tu in pista tra cinque minuti, ti aspetto dietro la tenda 4. Cara, truccati un po’, hai le labbra spellate.” Morgana andò con la sua cara amica Sofy nel camerino, spogliandosi.
“Sei stata bravissima, Sofy…” sussurrò. “… Spogliami.” la ragazza uggiolò di piacere con la sua bocca rossa, spogliando velocemente la mora.
“Mi serve la tua bella tutina. E anche i tacchi.” disse una voce nella sua testa. Avrebbe fatto qualsiasi cosa per quella voce, lo sentiva. Si denudò velocemente a sua volta. Era sempre stata orgogliosissima del suo corpo, e si sentì accaldatissima mentre l’altra la osservava.
Meg allungò una mano carezzando il viso della moretta, scendendo lungo il collo e sfiorandole i seni. Ne soppesò uno, carezzandone il capezzolo con il pollice, facendola sussultare. Avrebbe potuto risolvere lì la cosa, ma il dolore di muovere il braccio le fece presente altre urgenze. Era qualcosa di proporzionale, quel che poteva dare e ottenere, e Sofia non poteva essere la scelta adeguata. Non ne avrebbe lasciato granché. Le diede un bacio intenso, trafiggendole di piacere l’intero corpo.
“Sei stata bravissima, Sofy…” disse con un sorriso, mentre quella annaspava con la bocca alla ricerca di aria, colta da un altro orgasmo. Crollò su una poltroncina, sfinita, quasi addormentandosi, mentre Morgana si guardava un attimo nello specchio. Non c’era razionalità nel suo sguardo, puro istinto e calcolo, puro egoismo. Adesso si sarebbe cambiata, sarebbe stata in mezzo a persone, e avrebbe cercato di risolvere la questione.
Mentre chiudeva la zip sulla schiena della tuta aderente si girò a guardare la ragazza. “Fatti valere con Roby, mi raccomando.” disse con un sorriso, uscendo dal camerino.

Persone. Persone nei corridoi dietro la sala del locale. Persone ovunque. Felici, tristi, impegnate, sudate, ne avvertiva odore, sudore, fatica, entusiasmo, la musica rimbombava nel piccolo e stretto corridoio, mentre il latex nero scrocchiava sopra la pelle, mentre avanzava sicura verso la sua destinazione, una lunga falcava alla volta, su tacchi imponenti, facendo voltare più di una persona. Era nuova, era estremamente sicura, era in caccia.
Non sapeva se una o più prede sarebbero cadute sotto i suoi colpi, di sicuro non ne avrebbero avuto a male.
“Oh finalmente sei arrivata!” sbottò il ragazzo che l’aveva vista entrare. Le diede una scaletta delle canzoni che sarebbero state proposte, una ben misera guida di aiuto per chi doveva poi saltare ad agitarsi in mezzo alla gente.
“Non ne conosco nemmeno una.” sibilò. Perché non si faceva da parte e basta, quel tipo? Lui esclamò la sua irritazione, mentre lei gli restituiva il foglio. “Dammi due minuti di tempo, guarda, se non vado bene tirami giù.” disse, passando dietro la tenda, lasciandolo con un palmo di naso.

Il fragore della musica investì Morgana, ma fu la folla accaldata e accalcata nella stanza che la disorientò di più per una frazione di secondo. Calore, energia, persone, sentiva tutto questo. Come all’Agarthi. Solo che il ‘suo’ locale poteva contenere questo diverse volte. Ma si doveva accontentare. Balzò sul piccolo spazio rialzato riservato alle esibizioni, chiudendo gli occhi, rintracciando lo schema in quella musica che non capiva e non voleva nemmeno conoscere. Fu difficile concentrarsi, lo era per le altre ragazze che ballavano di fronte a lei… Scattò a ballare, come se sempre avesse ballato quella canzone, come se l’avesse scritta, performata, imparata a memoria. Non c’era un passo, un movimento fuori posto. E nella sua tuta lucida attirò immediatamente l’attenzione di parecchia fetta di pubblico.
Dietro la tenda, non furono necessari due minuti al ragazzo per pensare fosse perfetta, così come non furono necessari al suo membro. Si portò istintivamente una mano nella tasca, cercando di sistemare l’erezione che lo stava cogliendo. Un ancheggiamento della tutina lucida lanciò un flash di luce dritto verso di lui. Che culo perfetto. Che seni. Che bocca. Cosa mai poteva fare quella bocca?

“Tutto quello che vuoi, capo.” si sentì ripetere in testa da quella bocca carnosa, come quando era entrata. Tutto. Oh, si sarebbe fatto fare di tutto da quelle labbra, così gonfie e appetitose, in quella smorfia supponente mentre si girava a guardarlo sotto le lunghe ciglia.
“Sei una stronzetta, vero?” pensò guardandola, toccandosi il sesso. Come l’avrebbe voluta trattare da cagnetta, la sua cagnetta. Erano mesi che avrebbe voluto sculacciare qualcuna, ma non capitava. Non si sentiva più in grado di farlo. Non dopo quel che era successo a Natale… Morgana continuava a danzare, occhieggiando, ancheggiando e sorridendo maliziosa alla folla dei presenti. Sentiva le loro voglie, voleva le loro voglie, ne aveva bisogno!
Atleticamente saltò sulla ringhiera che delimitava il suo spazio accavallando le lunghe gambe, sdraiandocisi sopra.
“Che cazzo fa!!” sentì urlare dei ragazzi sotto di s&egrave. Non era atletica, era un serpente. Si lasciò cadere a testa in giù aggrappandosi ad un palo della ringhiera. Avesse avuto una postazione da pole dance, l’avrebbero chiamato un ‘hook’, ma non c’era niente di simile ad un palo, se non la ringhiera atta ad evitare che cadesse. Il pubblico cominciò a urlarle qualcosa, mentre un paio di altre ballerine la guardavano con uno sguardo tra il disgustato e l’impressionato. Dove cazzo era Sofia? Non poteva essere lei quella, anche se i capelli e il trucco erano identici.
Morgana sorrise, guardando la sala alla rovescia. Sentiva tutta quella folla che la osservava, ammirata.
“Pensate a cosa posso fare se non avessi tutte le ossa rotte” si disse, mordendosi un labbro fissando una ragazza a poco da lei.
“Cazzo fai!” sentì urlare da dietro la tenda, nel fragore, voltandosi. Il ragazzo, di cui percepiva una risibile erezione, la additava facendole segno di risalire, alzando una mano in una ridicola minaccia di prenderla a sberle.
“Ti piacerebbe, coglione.” pensò, passandosi la lunga lingua sulle labbra rosso acceso. Sì, sentiva che gli sarebbe piaciuto, e proprio per questo non l’avrebbe mai avvicinato. Tornò con lo sguardo sul pubblico.
Era ora di continuare la caccia.

Distese le lunghe gambe in una verticale mentre qualche flash di cellulare scattava, e lentamente si diede ad un ‘air walk’, sempre che fosse possibile definire quel che stesse facendo. I tacchi lucidi si muovevano nell’aria, poggiando su una superficie invisibile, compiendo una passeggiata a semicerchio. Morgana sorrideva, sentendo in realtà un dolore assurdo nel corpo. Ragionando avrebbe smesso, ma non stava ragionando. Doveva attirare, sedurre, concupire, indirizzare l’attenzione su di sé.
Arrivò al massimo della passeggiata mostrando il suo culo perfetto mentre ‘spaccando’ in aria chiudeva le gambe e si lasciava cadere in mezzo alla gente, tra applausi e grida. Si girò e cominciò a danzare, sensualmente, con chi la circondava.
“Cazzo che figa che sei!” le urlò uno all’orecchio. Si voltò abbrancandolo con una mano e baciandolo intensamente, tra le urla dei presenti e dei suoi amici. Si sentì una mano sul culo e girandosi si trovò adesa ad un altro ragazzo, palestratissimo. Cominciò a fissarlo, strusciandosi addosso a muscoli fin troppo esagerati, sfiorando con il suo inguine il sesso immediatamente eretto del tipo.
“Oh, mi serviva proprio un ‘palo’ per continuare a ballare…” sussurrarono le labbra rosse sul viso del giovane. Lo sentì sussultare nei boxer. Non le interessava il suo fisico perfino sproporzionato, ma sicuramente era qualcuno con energia da vendere. Lo portò sulle sue labbra. “Sentiamo un po’ cosa hai da darmi…” sussurrò di nuovo, baciandolo. Le lingue si mescolarono, il calore dei corpi si contaminava a vicenda, mentre il ragazzo sentiva dentro di s&egrave un bacio come mai ne aveva ricevuti. Voleva lei, chiunque lei fosse, la voleva, la pretendeva, voleva affondarle dentro, venirle dentro, possederla, sfinirla, stringerla, la desiderava immediatamente.

“Troia!!” si sentì urlare Morgana, mentre una mano l’afferrava per la spalla e la staccava di forza dal tipo. Una fortissima sberla le arrivò in pieno viso, proprio dove già aveva sbattuto in strada.
La mora strinse i denti mentre una lacrima le spuntava dalle ciglia. “Cazzo!” imprecò, aprendo gli occhi. La mano le aveva colpito un orecchio, che ora fischiava. Una tipa con i capelli di un colore improbabile le stava urlando contro chissà cosa, dando spinte al tipo palestrato. Fidanzata gelosa, come aveva fatto a non capirlo mentre lo sfiorava, aveva il suo odore addosso…
“Ehi ehi ehi” cercò di rispondere alle urla Meg, prendendosi spinte sui seni. Le faceva male. “Mi fai male!” sibilò, cercando di ripararsi. “Ti faccio male? Ti spacco la faccia, puttana!” urlava la tipa, continuando a spintonarla.
Calma Morgana, calma Morgana, ha ragione lei, ha ragione lei… Le arrivò quasi un’altra sberla, che fermò con una mano.
“Cazzo! Non mi fare incazzare!” disse, con un tono che non era una minaccia ma un sincero consiglio. “Lui mi ha palpato il culo!” disse indicando il tipo. Mentre la ragazza dai capelli improbabili si girava con un’aria assassina, Meg scivolò dietro la tenda.

“Puttana…” imprecò, più a s&egrave stessa che alla comprensibilmente incazzata ragazza.
“Che fai!!” si sentì urlare da una voce conosciuta. No, pure lui no, non era possibile! Meg si girò verso il ‘grande capo’. “Vai fuori di qui, cambiati e vai fuori di qui! Che cazzo credi di essere??” le abbaiò contro. Meg sorrise. “Quella che ti fa venire il cazzo duro in cinque secondi”. Ora era davvero al limite.
Sembrò ottenere un istante di stupore del tipo. “Sono una stronzetta, vero?” sussurrò, voltandosi verso il camerino, e cominciando a dirigervisi. “Siete tutte stronzette!” la insultò lui. Morgana continuò a camminare, incurante.
Non doveva andare così, ma almeno era riuscita ad avere un po’ di quel che le serviva. Poteva riuscire a tirare il mattino.
“Sono almeno la peggiore?”
“No. Quella &egrave mia cugina Asia.” borbottò lui. Meg si fermò di botto, spalancando gli occhi.

Asia.

Asia non le aveva mai parlato di suo cugino se non in termini di scoramento per qualcuno che la derideva continuamente. Forse dopo Natale le aveva fatto cenno ad avergliene dette un paio, ma niente altro. Si ricordò improvvisamente di essere nella Città di Confine, con una sensazione dolorosa per il suo ego.
“Cosa ti fa tua cugina?” disse, in un sussurro. “Parla!” gli urlò, voltandosi e facendolo sussultare. Il ragazzo si trovò fissato intensamente, provando una sensazione orribile, come di qualcuno che ti guarda come si guarda un hamburgher. Le lunghe dita di Morgana lo afferrarono per la t-shirt con colletto, trascinandolo dentro il camerino. Sofia non c’era, ovviamente, se ci fosse stata si sarebbe trovata in un istante con la porta sbattuta e chiusa a chiave dietro la schiena.

“Parla.” dissero le labbra di Morgana nella semioscurità del camerino.
Solo una luce di servizio illuminava la stanzetta. “… Mi ha buttato tutte le foto del telefonino…” la mora sbuffò, infastidita. Tutto qui? Si aprì di un poco la zip della tuta, accaldata. Doveva trattenersi, doveva farlo, voleva prima sapere. “… Una stronzata simile?” “No… Io… Io le avevo fatto una foto…” Meg sentì chiaramente l’odore del sesso del ragazzetto. Si stava bagnando peggio di una ninfetta al solo ricordo. Sorrise divertita, mettendogli una mano sul pacco. “… Una foto…” ansimo “…Mentre si toccava…” Avesse osato, il ragazzo si sarebbe aperto i jeans e avrebbe cominciato una furiosa masturbazione. Ma era terrorizzato da quella donna. Terrorizzato ed eccitatissimo. Il viso della mora si avvicinò del tutto al suo. Poteva sentire un profumo inebriante, strano, particolare dalla sua pelle candida, e un odore indefinibile dalle sue labbra carnose.
“… Hai fatto una foto a tua cugina mentre si toccava. E?” “E… Volevo ricattarla per… Per gioco!!” esclamò lui, sentendo le dita stringersi lievemente sul suo cazzo. “Solo per gioco! Ma poi…” Morgana capì benissimo. L’aveva umiliato. Si era vendicata. Ne avrebbe chiesto i particolari se mai avesse rivisto Asia.
“Sei un piccolo bastardo.” disse in un soffio. “Un piccolo bastardo che vorrebbe sculacciarmi e umiliarmi, vero?” lui deglutì. Era così evidente?
“Ti tengo per le palle e ancora pensi di poter essere qualcuno in grado di sbattermi in ginocchio a succhiargli il cazzo…” L’idea delle labbra di lei sul suo membro lo fece uggiolare. “… Vuoi sborrarmi in faccia?” oh, come gli sarebbe piaciuto… “… Vuoi che ti seghi con le tette? Una bella spagnola?” incalzò Morgana, premendo le sue generosità contro il petto del ragazzo. “Vuoi il mio culo? Dillo che vorresti…”
“Oh, sì, vorrei, vorrei proprio…” gorgogliò il giovane, incapace di scrollarsi dalla mente l’immagine del suo culo sulla pedana che si muoveva sinuoso. “… Vorresti Asia?” sibilò Meg. Lui annuì. “Che piccolo sudicio bastardo.” sbottò lei. Un aspirante maschio dominante incapace di capire cosa davvero poteva piacere a qualche donna per essere sua. “Vorresti lei o me? Chi delle due?” Era troppo. Troppo, l’avrebbe voluta tutta. Le avrebbe volute tutte. Ma quella mora era incredibilmente più attrattiva di Asia, come un fiore pieno di nettare per un colibrì.
“Una cagnetta, vero? Ti piacerebbe fossi la tua cagnetta e facessi tutto quello che vuoi, vero?” sorrise malignamente lei. Lui annuì. “Tutto quello che vuoi, capo…” dissero le labbra ad un orecchio, sfiorandolo con una lingua caldissima.
Il ragazzo venne copiosamente nei pantaloni, mentre Morgana sentiva il calore improvviso e la sensazione di umido allargarsi sotto il suo palmo inspirò tra i denti, profondamente, intimamente, impadronendosi di qualcosa di indefinibile e potentissimo che le scendeva nel corpo e nell’animo pervadendola, permeandola, risuonandole dentro, potente, appagante, definitivo. Tutto quello che voleva, lui? No.
Tutto quello che voleva, lei. Stava prendendo tutto, davvero tutto, impossibilitata a frenarsi da una necessità atavica che da sempre era una delle sostanze del suo animo.

Il ragazzo si accasciò con un rantolo, tremando un orgasmo di potenza mai avuta, sulla stessa poltroncina di Sofia, mentre Morgana lo fissava da sotto le lunghe ciglia, con un sorrisetto soddisfatto, e una mano ancora ove aveva stretto il sesso di lui. “Inutile ragazzetto.” disse, correggendosi, sfilandosi gli stivali dagli altri tacchi.
“… In realtà, no. Mi sei stato utile, più di quanto tu creda.” Lui non capiva più niente.
Morgana si spogliò della tuta aderente con un rapido movimento, rimanendo nuda e splendida. Una rapida occhiata nello specchio le confermò l’utilità avuta da quel piccolo idiota.
“… Così, tua cugina ti ha umiliato…” cantilenò, guardando in un armadio qualche vestito che potesse andarle bene. Potendo evitare i suoi sudici ed ammaccati… Il ragazzo ancora ansimante provò una picola fitta di piacere, nell’osservarla indossare una camicetta scollata e optare per degli shorts. Morgana prese dai suoi abiti lerci quel che rimaneva dello smartphone e una manciata di banconote, che lasciò sul tavolo.
Era molte cose, ma non una ladra. Si girò verso il ragazzo, osservandone la macchia scura sui pantaloni.
“Fossi in te rinuncerei alla tua idea del Grande Bull Dominatore. Perché ti sei fatto mettere i piedi in testa da una persona che ha paura a bussare alla porta di camera altrui. Per quanto sia una persona più speciale di quanto non creda.”
Il ragazzo non capì, rapito dalla bellezza di lei e dal suo piacere che ancora ne ottundeva i sensi. Morgana uscì dal camerino sbattendo la porta, dal locale passando decisa davanti al buttafuori che si chiese quando mai fosse entrata, mentre con lunghe falcate attraversava la strada scostando i figli di papà ubriachi e dirigendosi verso i portici.
E così Asia aveva avuto un momento simile? Morgana sorrise. Avrebbe proprio voluto chiederle di raccontarglielo. Ma non era pronta, non ancora, a rientrare in gioco. C’erano troppe cose ancora da sistemare. Ma che la piccola tremebonda biondina riuscisse a fare una cosa simile…
Scivolò in un vicolo, sparendo nelle ombre della città. Asia aveva vinto una piccola battaglia. “C’&egrave da andarne orgogliose” si disse, con un sorriso. *Aaaaaah-ah!
Aaaaaah-ah!

We come from the land of the ice and snow,
From the midnight sun where the hot springs flow!*

Asia saltò su dal letto come una molla: doveva assolutamente lavarsi per bene. acconciarsi, e correre all’albergo di Alec.
“Lavarsi!” disse a sé stessa tenendo il conto con le piccole dita affusolate. Lanciò la piccola vestaglia tra le lenzuola disfatte e corse in bagno portandosi dietro il cellulare che continuava con la sua sveglia preferita.

*Hammer of the gods, will drive our ships to new land.
To fight the hordes, and sing and cry.
Valhalla I am coming.*

Sorrise pensando che il testo della canzone era a dir poco… Promettente. Indossò una canotta arancione e un paio di pantaloni corti color kaki, un accostamento terribile di cui non le importava niente perché non aveva intenzione di tenerli su molto. L’importante era, vista la calura della giornata (meteorologica e intima) di non sudare dieci litri di sali minerali nella prima mezzora.
“Che dici, vado bene?” chiese sorridendo al suo botolo, che la guardò disinteressato prima di tornare a masticare un giocattolino di corda.

Asia scese le scale saltellando al settimo cielo, scivolando alle spalle di sua madre che stava zuccherando del caff&egrave.
“Madre!” esclamò alla sua destra, facendola voltare, e scivolando alla sinistra si appropriò della sua tazza. La signora Magda non osò neanche tentare di lamentarsi, anche perché la figlia era già seduta al tavolo con un biscotto in mano nel tempo necessario ai suoi muscoli pettorali di gonfiarsi d’indignazione. Sospirò rassegnata e si diresse di nuovo alla macchina del caff&egrave per tentare un altro tentativo.
“Si può sapere chi devi accompagnare al porto?” chiese la donna senza aspettarsi una risposta, ma Asia era troppo felice per rovinarsi l’umore con una menzogna.
Per di più la radio cominciava a trasmettere una delle sue canzoni preferite, e suo padre stava entrando nella stanza indossando una maglietta imbarazzante che usava come pigiama estivo con grande disappunto della moglie, che non concepiva altro che camice da notte a canottiera con elaborati motivi decorativi.
“Vi ricordate la mia padrona di casa?” disse la bionda, inzuppando un biscotto nel caff&egrave. Il padre annuì mugugnando, resosi conto che avrebbe dovuto attendere il suo turno per potersi drogare di caffeina. “Sì, Morena, Morticia…”
“No, Morgana, papà” ridacchio Asia.
“… C’&egrave un suo amico con cui siamo usciti tutti assieme qualche volta che parte oggi ma ha qualche problema con i mezzi.” Magda bofonchiò qualcosa sulle amministrazioni locali, mentre Asia ingollava il resto della sua colazione.
“Così adesso lo recupero e lo porto con calma al porto”. Il padre di Asia ridacchiò “Lo porto al porto? Mi sembri distratta, di solito mi fai un culo grande come quello di tua madre se dico frasi del genere!”
“Un culo grande come cosa???” si inalberò la donna, rivolgendo tutta la sua rabbia verso Asia che prendeva le chiavi dell’auto da un gancio accanto alla porta, canticchiando in compagnia della radio.
“Stai prendendo la MIA auto?” Asia alzò le spalle “Lo sai che quella di papà non la so posteggiare.”
“Nemmeno la sua, se &egrave per questo…” commentò il padre cercando di appropriarsi della tazza della signora Magda, così da attirarsi lo scorno pure della figlia, che espresse il tutto in una linguaccia, prima di uscire dalla porta cantando.
“Ma devi proprio andare tu??” le urlò la madre, preoccupata delle sorti del suo mezzo.

Asia si riaffacciò stonando vistosamente accompagnata dalla canzone alla radio:
“Oh mama mia, mama mia, mama mia let me go
Beelzebub has a devil put aside for me- For me!”

E corse fuori ridendo.

“Secondo me non ci dice qualcosa” commentò la madre, incenerendo con i suoi occhi grigi il padre che si allungava nuovamente verso la sua tazza.
“Dici? Sta accompagnando un amico al porto, &egrave sempre stata una ragazza così timida, che male c’&egrave se si fa delle amicizie?” rispose il padre annuendo a ritmo della musica, prima che venisse maldestramente sfumata, e mentre accendeva il televisore per sentire le prime notizie del mattino smorzò lo stereo mentre si tornava in conduzione da studio.

“La signorina Alioti?” chiese la receptionist dell’albergo, facendo annuire Asia.
“Ah sì, ci aveva avvertito l’ospite… La stanza &egrave la 42, l’ascensore &egrave dritto di lì”
“Grazie mille!” disse Asia sorridendo. Salì in ascensore tamburellando con la mano sulla coscia. Il cellulare cominciò a vibrarle, attirando la sua attenzione. Lo estrasse dagli shorts, notando una decina di messaggi di suo cugino.
Sinceramente, non aveva tempo o voglia di dedicare anche la minima attenzione a quel coglione. Cancellò i messaggi senza leggerli e con decisione bloccò il numero. Aveva dei grossi impegni, ora. Molto grossi, pensò mordendosi un labbro, e ridendo tra sé e sé.
L’ascensore parve metterci un secolo a raggiungere il piano, e la biondina sculettò felicemente nel corridoio cercando la camera giusta e avvertendo un pizzicore lungo la schiena. Si sentiva così… Diversa, nell’agire con una tale decisione, stava realmente andando da sola in camera di Alec con l’intento di finirci a letto, qualcosa di inusitato per lei.

*toc toc!*
bussò alla porta.
“Sì?” chiese il ragazzo
“Servizietti in camera!” ridacchiò Asia, per poi scoppiare a farlo fragorosamente quando il viso stranito di Alec le si parò davanti, in jeans e senza maglietta.
“Sei ubriaca??” chiese, mentre la bionda entrava in una spaziosa camera dall’arredamento moderno e abbastanza sobrio. Un bel letto matrimoniale, un’ampia vetrata, un mobile con il televisore… Lasciò cadere la borsetta sulla poltrona, e quel gesto, chissà perché, la fece pensare a quello che stava facendo. Finita l’allegria.
Asia si sentì avvampare mentre la mano di Alec le toccava la spalla, facendola voltare. Era vero allora, era davvero andata da lui promettendogli chissà che mattinata e ora, ora era lì e ovviamente lui non si poteva essere dimenticato della cosa.
Si lasciò baciare con un piccolo sobbalzo. “Che c’&egrave?” chiese lui, guardandola. Era davvero un bellissimo ragazzo, forse troppo bello per lei, anche solo per poter essere sua… Lui era per donne come Morgana, donne capaci di sé, convinte, attraenti…
Asia si girò guardando fuori dalla finestra. “Io… Io non so che cosa fare…” disse sussurrando. “… Non mi sono mai sentita così capace di… Di poter fare qualcosa del genere. E’ la prima volta.” sentì il corpo di Alec che l’abbracciava da dietro.

“Non devi fare niente” sussurrò lui. “Vuoi scendere a fare colazione? Poi possiamo andare a fare un giro in città.”
Sì, pensò Asia, forse poteva essere un’idea, una soluzione a… No, non lo era, il solo contatto con il membro di lui nel solco del sederino sodo le provocava un appetito ben diverso da quello per una colazione, ma non aveva bevuto, non c’era Meg, non era come le altre volte in cui poteva lasciarsi andare, in momenti isolati dalla sua vita, come delle piccole e dimenticabili follie, era quella la sua vita, era lei, e non sapeva cosa fare.
“No, voglio te. Ma non so cosa fare…” piagnucolò, guardando fuori dalla finestra il panorama della sua città tra le mura. Si sentì una mano scostare la spallina della canotta, e due labbra che la baciavano. “…Faccio io, allora.” sussurrò Alec, facendola sospirare.
Asia chiuse gli occhi, sospendendosi in un attimo di carezze del ragazzo, godendo del tocco delle sue dita, delle sue labbra sulla spalla, sull’incavo del collo, dei polpastrelli lungo la schiena, delle mani di lui che le scivolavano lungo i fianchi, per stringerla dolcemente sul bacino, facendola sorridere.
Alec le sfilò lentamente la canottiera, lasciandola ricadere sulla poltrona, per carezzarle le braccia, facendola rabbrividire di piacere. “shorts color kaki da safari?” sorrise lui, scivolando con i palmi sul pancino tremante e cominciando a giocare con il bottone della cinta. “Caccia grossa…” ansimò lei, muovendo il sedere sul sesso del ragazzo, che le pareva sempre più convinto di quella mattinata assieme in albergo.
Sorrisero tutti e due, mentre i piccoli pantaloni venivano calati e la biondina scalciava via le scarpe quasi con rabbia, per girarsi ansiosa di baciarlo, giocando con la sua lingua calda e passando una mano sul petto nudo.

“Sei bellissimo” sussurrò lei, sorridendo ad occhi chiusi, mentre lui finiva di sussurrare a sua volta qualcosa
“…ssima…”
Asia aprì gli occhi azzurri. “Come?” chiese con un sorriso stupido “non volevo interromperti, scusami…” carezzò una guancia del giovane.
“Ho detto che sei bellissima.”

La bionda avvampò decisamente. Lo sguardo di lui era così serio, e sincero, e profondo… Aveva davvero detto una cosa simile? A lei? Bellissima? La frase la colpì come una freccia al cuore, rimase a balbettare per un istante senza sapere cosa dire o cosa fare, mentre il cervello le grippava. Si lasciò cadere nell’ampio letto trascinandosi dietro Alec, baciandolo, stringendolo con le braccia e le gambe, sentendo il suo peso sull’inguine e il desiderio crescente in lei. Sorrise, radiosa, mentre Alec le liberava i piccoli seni da un reggipetto minuscolo, e cominciava lentamente (troppo lentamente!) a scendere con piccoli baci sul collo, all’incavo della spalla, sulle accennate collinette, sfiorandone i capezzoli con la bocca e le dita, senza alcuna fretta. Piccoli baci, minuscoli attriti della lingua sulle areole più scure, fino a finire dolcemente a stringere i capezzoli sporgenti e sensibilissimi.
“mmmh…” Asia miagolò, entusiasta, mentre decisamente le mutandine le davano troppo fastidio, ma la mano di Alec lentamente le scivolò sul pancino e piano, pianissimo, cominciò a giocare con l’elastico, a scorrere sopra il monte di Venere senza togliere quell’indumento ormai insopportabile, e passare con le dita nell’incavo delle piccole cosce della bionda, che si sentiva infiammatissima.
“Ti spiace se vado a farmi un giro là sotto?” sussurrò Alec.
“Prima baciami.”

Si scambiarono un altro saluto dolce e poi lui, la sua bocca, i suoi baci, proseguirono verso Sud, continuando a solleticare i seni, il liscio pancino, l’ombelico, fino ad arrivare sopra l’elastico e limitandosi a chiudere un poco la stoffa sulle morbide grandi labbra, roride. Alec tirò leggermente la stoffa, facendole sporgere, con un sussulto della ragazza mentre dolcemente, lentamente, riempiva di baci quei due umidi lembi di pelle rosa acceso che chiedevano solo questo, di essere stretti, coccolati, amati.
Mentre la deliziava, Alec pensò che la biondina aveva la capacità di bagnarsi tantissimo. Era lusinghiera nel suo eccitarsi così tanto per ogni carezza.
Era stato con moltissime donne, da quando aveva scoperto il sesso. La sua bellezza, la sua dotazione, erano sicuramente state un biglietto da visita per numerose di loro, alcune delle quali l’avevano frequentato anche per pura convenienza. Aveva sempre cercato di illudere il meno possibile quelle aspiranti ragazze immagine che aprivano le cosce per rimediare un lavoro o dei contatti, ma era capitato di approfittarsi non troppo poeticamente di loro. Aveva anche conosciuto donne mature, il sogno di molti ragazzi in giovane età, che con un modello atletico volevano trovare l’ebbrezza di tempi andati, o semplicemente trasgredire.
Era un uomo, era bello, era dotato, come poteva non trarre giovamento da queste condizioni per appagare il suo ego e i suoi sensi? Aveva la possibilità di avere in ginocchio bellissime ragazze o maialissime donne fatte e finite come voleva, perché sprecarla? Alcune si tiravano indietro, alcune si facevano desiderare, ma la scelta era ampia e lui non se ne dava pena.
Poi una sera, in un evento negli Stati Uniti, in mezzo a ricchi signori, vecchi magnati, giovani speranzose acchiappasoldi, modelle, hostess, cameriere da passerella e amenità varie, aveva incocciato i suoi occhi.
Era lì perché aveva lavorato per una grande marca il cui intero CdA stava rovesciando gli occhi nelle scollature di giovani procaci modelle sorridenti, quella sera, si annoiava discretamente e pensava giusto se gli fosse capitata una scopata veloce prima dell’aereo al mattino con una bionda molto bella e molto oca che era una new entry nella squadra di un’agenzia di fotomodelle, quando…

“Oh mi fai impazzire!!” uggiolò Asia, riportandolo totalmente alla situazione contestuale. Alec si sentì un filo in colpa nell’essersi estraniato con la mente, ma non aveva certo smesso di solleticare quei lembi di pelle così amorevolmente entusiasti. Decise che era ora di privare la biondina delle mutande, e con dolcezza le sfilò, lasciandole cadere a terra, sorridendo.
La ragazza si era evidentemente voluta preparare all’incontro con una certa fretta ed entusiasmo, si leggeva nell’approssimazione con cui aveva sistemato il proprio minuscolo ciuffetto biondiccio, ma questo fece ancora più colpo su Alec.
Sorrise. “che c’&egrave? Cosa c’&egrave??” chiese subito la ragazza, terrorizzata.
“Niente”.
“Dimmi!!” implorò la bionda.
“Sai… Le tipe che conosco di solito sono capaci di andare da un estetista costosissimo per sistemare al millimetro ogni singolo follicolo del proprio pube” spiegò pacatamente Alec, scorrendo le dita sul bordo del sesso di Asia, tremante. “… Così attente a come appaiono e così convinte di essere dee che alla fine risultano delle bambole da photoset. Perfette ma prive di sostanza.”
Il ragazzo dischiuse un poco il sesso, scappucciando la clitoride rilucente di umori.
“Tu… Tu sei impacciata, approssimativa, entusiasta di scoprire cose nuove, anche se ti mettono a disagio…”
“E… E… Quindi?”
Alec sorrise, precipitandosi a baciare la clitoride di Asia, facendola sussultare e mandandola in Paradiso. La lingua di Alec, esisteva solo quello da come l’aveva appoggiata al suo sesso. Da come la tormentava, la coccolava, carezzava, abbandonava la clitoride solo per deliziare il resto del suo sesso. Poi arrivarono una, due dita, a carezzarla dentro, nella sua piccola callosità turgida di voglia, facendola sospirare, ansimare, stringere le lenzuola tra le dita, spasmodicamente cercare di fare qualcosa, di sentirsi meno passiva, non se lo meritava.
“Vieni… Vieni qui…” piagnucolò. Voleva fare qualcosa, voleva…
“Perché?” chiese lui, staccando la bocca e carezzandola con il pollice “… Ti meriti tutto questo, sei al centro della mia attenzione.” quasi la fece piangere, e tornò a occuparsi del suo sesso.
Sì, Asia era decisamente un’insicura a livello tale che persino essere al centro della sua attenzione la metteva a disagio. Provava un sentimento misto di tenerezza, divertimento ed interesse, ma sapeva anche che a trascinarla sull’onda del piacere poteva essere molto sorprendente, ricordava la serata avuta solo con lei, mesi prima, o la notte precedente.
Il corpo di Asia voleva solo venire, sentire, godere. Strinse il viso di Alec tra le cosce, in una richiesta di portarla ancora più in là, ancora più in alto. Lui non si fece attendere, aumentando il ritmo delle carezze, l’intensità, giocando con le dita, finché non fece scivolare il dito medio sulla stretta rosellina, solleticandola.
La lingua si occupava della sua felice clitoride, l’indice la carezzava dentro, e il medio le tentava la rosellina.
“Ho sempre detto che avevi delle mani da pianista” rantolò lei sorridendo. Un “mmh?” interrogativo giunse dal suo inguine.
“Lunghe e affusolate… OH!!” il medio di Alec le violò la stretta rosellina senza alcun dispiacere, solo assommandosi al resto, quasi come nella notte con Meg lei la deliziava con la sua lingua e Alec la possedeva, si gustava la sensazione di essere presa in più punti di sé, voleva essere presa, voleva tutto, lo voleva, voleva impazzire.
E stringendo le lenzuola con le ditina sottili, raspando in gola un verso di gioia, raggiunse un orgasmo soddisfacente, pieno, che le fece arricciare le dita dei piedi e contrarre muscoli che mai si ricordava di avere. Ed esplodendo copiosamente nella bocca di lui, che gradì immensamente.
Divenne tutto nero, inconoscibile, ovattato, estraneo, per un momento, prima che il suo corpo galleggiante nell’ottundimento dei sensi si rilassasse e liberasse il viso di Alec da una presa letale. Si trovò a baciarlo intensamente, sdraiato accanto a lei, sentendo il proprio dolciastro sapore, lei che quasi rifuggeva dell’assaggiare con il cucchiaino il gelato altrui (dove nemmeno era stato toccato) ora esplorava con la lingua la bocca dell’amante, con le dita il suo viso, cercando di sentirsi, di trovarsi, quasi di scusarsi per la potenza del suo piacere.
“Adesso tocca a te…” sussurrò, desiderando veramente occuparsi e sdebitarsi di quel piacere “… Devo andare un attimo in bagno però” sorrise con una piccola vampata sulle gote, scivolando giù dal letto.

Non si degnò di chiudere la porta del bagno, una privacy inutile per chi le aveva appena leccato il sesso, ma dopo aver espletato le sue funzioni decise di lavare un poco le sue intimità.
“Se quando torno avrai ancora i vestiti addosso mi arrabbierò molto” disse a voce alta, sedendosi con un brivido sul bidet.
“Mi piacerebbe vederti arrabbiata!” rispose ridendo Alec, tuttavia privandosi degli abiti, a scanso di risvegliare istinti violenti sopiti da troppo (e quindi molto più pericolosi) nella ragazza che rideva in bagno.
Si sistemò, si asciugò, e mettendo nel cestone della biancheria sporca il piccolo asciugamano vide nello specchio il letto, con il suo partner che attendeva il suo ritorno, con una svettante erezione. Si girò andando alla porta, appoggiandosi allo stipite.
Lo trovava bellissimo, eccitante, entusiasmante, e quel cazzo, quel grosso, pulsante, caldissimo palo così esplicito nella sua funzione di donatore di piacere… Sì, doveva averlo, adorarlo, possederlo, esserne posseduta, voleva stringerlo dentro di sé.
Saltellò di corsa i pochi metri prima del letto, salendoci sopra con un’agilità inusuale in lei, accovacciandosi sul petto del ragazzo per baciarlo intensamente, i capelli che le ricadevano sul viso continuamente. Lo baciò sotto una cascata bionda, promettendogli tutta sé stessa.
Si girò, mostrando il suo culetto, e dandosi ad un’appassionata fellatio. Pensò alla sera prima, pensò alla notte assieme, pensò ai piccoli suggerimenti che le dava Morgana la prima notte che, con le sue amiche modelle, aveva assaggiato quell’enorme membro.

“Pensi troppo.” disse tra sé e sé. Non doveva farlo. Poteva non farlo? Poteva concentrarsi solo sui sospiri di Alec, da almeno cinque minuti sotto la pressione della sua piccola bocca? Poteva pensare solo a divertirsi? Sì, doveva, doveva assolutamente.
Staccò le labbra dal membro, girandosi con il viso verso di lui. “Prendimi!” sussurrò con una risatina, scivolando dal letto e saltellando via. Alec rimase perplesso dalla cosa, ma quando la vide buttarsi su una delle poltrone, le gambe su un bracciolo e la schiena sull’altro, si diede all’inseguimento. Asia reclinò il capo, aprendo la bocca in un invito esplicito, mentre il ragazzo si avvicinava e le porgeva il suo sesso. Come un pesce all’amo aderì le piccole labbra alla cappella, succhiando e muovendo il collo.
Non era così atletica, era… Come sempre, approssimativa ed entusiasta, e Alec pensò che era il più delizioso ed improvvisato tentativo di acrobazia a letto che aveva mai avuto.
“Prendimi!” le rise in faccia lui dopo qualche minuto (con sollievo del collo di lei), raggiungendo la scrivania della stanza e appoggiandosi al piano. La bionda lo guardò passandosi la lingua sulle labbra e praticamente a quattro zampe, come un animaletto in fregola, lo raggiunse, inginocchiandosi davanti a lui e tornando a tormentarlo con la bocca.
Era deliziosa, nel suo visetto magro dalle linee morbide, nelle onde dei suoi capelli biondi, nell’azzurro dei suoi occhi che lo guardavano con un fondo di timore, quasi di sentimento di richiesta di approvazione. Le sfilò il membro di bocca, ma la manina di lei lo afferrò con decisione.
“E’ mio!” sorrise, facendolo scivolare sulle labbra, ed ergendosi un poco lo fece scivolare sul collo, sul décolleté, tra i seni. Avesse potuto, l’avrebbe deliziato con delle carezze tra loro due, ma non aveva la necessaria mole. Egualmente la eccitava il calore di quel sesso sui capezzoli, la eccitava da morire, come le diceva il suo sesso. Si alzò in piedi, tirando la sedia della scrivania indietro.
“Seduto!” disse sorridendo, e Alec non fece obiezioni. Scavalcò la sedia impacciatamente, poggiando la cappella sulle sue grandi labbra assolutamente pulsanti e vogliose. Lui mise una mano sul suo sesso, scostandolo.

“Ti voglio da impazzire…” implorò lei sulle sue labbra.
“Pregami un po’ di più.” le disse sorridendo.
“Se non me lo dai me ne vado da qui”. disse tra i capelli biondi le le ricadevano sul viso.
“Che razza di preghiera sarebbe?”
“Se me ne vado ti aspetta una sega da solo nella doccia prima che ti esplodano le palle. E sarà una sega triste perché avresti potuto fare una bella scopata.”
“Posso chiamare una cameriera.”
“Te la danno così facilmente?” chiese preoccupata lei.
“Non te lo dico. Pregami.”
“Buona sega.” Asia si alzò, sorridente, allontanandosi da lui. Alec si alzò di scatto, prendendola per i fianchi e buttandola nel letto. Le fu sopra, impegnato a baciarla appassionatamente. Per un istante aveva davvero temuto che lei rompesse il gioco e se ne andasse, e chissà perché la cosa l’aveva terrorizzato.
“Sei l’unica capace di chiedermi il cazzo ma rifiutarsi di implorarmi, di arrossire se le dico ‘cazzo’ ma di avere la fichetta in fiamme nel mio letto” le sussurrò all’orecchio, mentre la sua cappella solcava le bagnatissime grandi labbra di lei.
“Sono confusa…” Asia piagnucolò che lo voleva ma non voleva che pensasse fosse una troietta, ma voleva essere la sua troietta, e allora non lo avrebbe voluto se lui l’avesse considerata la sua troietta e basta.
Fu un ragionamento confuso, sicuramente, come aveva annunciato lei.

Alec sorrise. “Non ho mai, mai, pensato neanche per un istante da quando ti conosco che tu fossi solo una troietta.” lo disse seriamente, carezzandole una guancia.
Asia scoppiò a piangere, stringendolo. “Fammi tua!!” singhiozzò “Fammi tua adesso! Adesso!!” lo cercò con il piccolo bacino, spostandolo, cercando di indirizzare la punta del sesso di lui verso il suo sesso dilatato e piagnucolante come il suo viso. Ne trovò i rilievi della corona, la punta del glande, e si lasciò invadere, aprire, riempire, da quel sesso, urlando il suo piacere nel collo di lui.

Fu un amplesso appassionato, lungo, appagante, che la vide posseduta, la vide rotolare su di lui e prenderselo, degustarlo quando ansimò il suo piacere, e con la bocca sporca di seme gocciolante proporgli una doccia, perché la giornata cominciava ad essere calda (o era la loro giornata ad esserlo?). Fu ovviamente una doccia lunghissima, con altri momenti di piacere, e Asia si trovò a sputare acqua bollente sotto la pioggia di una doccia mentre con il culetto in aria, perpendicolare a lui, si lasciava sbattere senza eccessive dolcezze, ma molta passione, dal modello.
“Mi fa impazzire questo neo sui lombi” sussurrò lui, pompandole dentro.
Asia ansimò “Perché lo noti adesso??” come poteva in quel momento concentrarsi solo su quel piccolo neo che mai sapeva se definire sul sedere o sulla schiena, così a mezza via che qualche mutandina lo copriva, qualcuna no.
“Devo concentrarmi su qualcosa che non sia il tuo culetto.” sorrise lui.
“Perché?”
“Perché altrimenti me lo prendo…”
Asia sorrise. “Intendevo… Mmmh… Perché non concentrarti sul mio culetto… Perché… Non prenderlo…” si girò a guardarlo mordendosi un labbro.
“Hai qualche ora prima dell’imbarco, e c’&egrave dell’olio di mandorle. Lavoraci su, ragazzo.”

La receptionist dell’albergo non commentò l’uscita dall’ascensore dei due ragazzi, anche se provava una sottile invidia nei confronti della biondina, che non aveva sicuramente trascorso le ultime ore a parlare di statistica con quel bel ragazzone. Asia accompagnò al porto Alec come promesso, debitamente ripagata del passaggio.
“Quando torni?” sorrise, arrossendo sotto i capelli biondi scomposti dal vento.
“Non tanto presto, temo… Ho anche un lavoro per cui dovrebbero chiamarmi in questi giorni, probabilmente passerò dalle vacanze al volo per lavoro senza passare dal ‘via’…”
“… B&egrave io sono qui o nella Grande Città, lo sai. Hai il mio numero…” Asia lo lasciò imbarcarsi con un bacino casto sulla bocca. Aveva voglia di rivederlo, ma anche di vederlo andare in vacanza. Anche perché in quel momento era così… Appagata, che riusciva ad accettare passivamente praticamente tutto. Aspettò che il giovane sparisse alla vista, prima di incamminarsi verso l’auto. Si sedette nell’abitacolo, lasciando scendere i cristalli elettrici e aspettando che la temperatura del volante calasse un poco prima di rimettersi alla guida, guardando il telefonino decise di fare un paio di fotografie alla nave e postarle su un social.

Qualche ora dopo, tornata a casa, finto con sua madre di aver fatto un paio di commissioni con un’amica, si sdraiò nel letto.
“Posti una foto seria e non ti fila nessuno, una merda sfocata e tutti a mettere ‘likes’…” sbuffò la bionda guardando le notifiche. Il social la informò di post commentati dai suoi amici. Pareva andare alla grande un video girato nella Città di Confine: “cubista presa a cinquine in un locale”. Asia sorrise, aspettando il precaricamento. Ma che stronzate condivideva Sara? Le iridi di Asia, nel loro piccolo cielo grigio azzurro, si contrassero lievemente nel provare una strana familiarità per la cubista che si scioglieva sulla ringhiera della sua postazione, per poi limonare un tipo e finire presa a spintoni e sberle da una ragazzetta infuriata
“Cazzo! Non mi fare incazzare!” gracchiò la voce dal piccolo altoparlante, prima che la ragazza additasse un tipo palestrato e scivolasse dietro le quinte. Ma quello non era l’ Ar-Too, il locale dove lavorava suo cugino?
“Bionda, &egrave ora di cena!” disse il padre di Asia, affacciandosi alla porta e riscuotendola dai suoi pensieri.
Forse il cugino la chiamava per quello? Ma che… Ma…
“Ma chi se ne importa” pensò, mettendosi a tavola, occhieggiando delle alici marinate con un affamato sorriso. C’ Chulainn si trovava in una posizione decisamente scomoda, a quel banchetto.
Non era il sottile sorriso che la Signora gli rivolgeva continuamente a turbarlo, non era certo la sedia su cui si trovava, era l’offerta che gli veniva proposta.
“Non oserà rifiutare questa offerta!” disse con un conciliante sorriso l’uomo che si trovava di fronte a lui. C’ Chulainn fece segno di no con la mano. Era in trappola, ma tanto valeva non dare l’illusione di non averlo capito. Il guerriero accettò il piatto con un sorriso, poggiandolo sulla ricca tavola imbandita e levandosi in piedi per brindare. La grande tavolata si zittì per rispetto del valore dell’uomo che aveva dinanzi.

“Per prima cosa invito i miei uomini a non fare altro che godere di questo banchetto, fino alla sua fine. Non alzate le vostre possenti terga qualunque sia l’argomento che affronteremo di qui a breve.” le labbra dell’uomo si incresparono in un sorriso, mentre i guerrieri che lo accompagnavano si dimostrarono ben più che felici di obbedire a quell’ordine.
“Ho accettato questo incontro come tutti voi, qui, per rispetto delle antiche tradizioni e degli dei. La Signora ci ha accolto come ospiti rispettabili, chissà come mai” risate “… E quindi &egrave nostro dovere essere tali.” La tavolata si complimentò con la Signora, che sorrise cordialmente, chiedendosi in realtà se davvero l’eroe avesse preferito sprecare così le sue ultime parole.
Attorno alla tavolata chiassosa venivano portati continuamente altro cibo e bevande, l’atmosfera era calda e gioviale, almeno così in apparenza. Una giovane, dal volto simile a quello della Signora, sedeva in un angolo più appartato con un fagottino in braccio. Avrebbe voluto unirsi alla tavolata, ma attendeva che gli occhietti azzurri che la guardavano con un misto di adorazione e incomprensione si chiudessero, ma quella piccola peste non prendeva mai sonno facilmente neanche dopo un’abbondante poppata. La giovane guardò fuori da uno spiraglio delle pesanti stoffe che componevano la tenda, pensando di udire la voce di suo marito. L’uomo entrò con deferenza, e si sedette accanto a lei prima di baciarla. Ad accompagnarlo un paio di guerrieri e un’errante una di quelle persone curiose che vagavano sempre al fianco delle corti o di villaggio in villaggio, chiedendo ospitalità in cambio di qualche lavoro, canzoni, o favori di varia natura.

“… Mia Signora Medb…” C’ Chulainn alzò la coppa di legno intagliato “… Lugaid, Erc…” l’eroe fece segno a due uomini seduti dinanzi a lui con una certa ironia
“… Ammetto di avere, come tutti, le mie colpe, e a quanto pare sono pienamente caduto nel vostro tranello. Ben ordito, e scommetto pura opera della Signora, poiché non credo possibile sia frutto delle vostre menti.”. risate da parte degli uomini dell’eroe. La giovane, nel suo angolo, sorrise, anche se con un lieve senso di inquietudine.
“Chi &egrave la tua amica?” sussurrò la giovane, sorridendo al marito, accennando alla figura dietro i suoi guerrieri.
Il guerriero sorrise.”L’abbiamo incrociata a qualche miglio da qui che osservava la vallata. Conosce tua madre, abbiamo appurato, e voleva porgerle i suoi omaggi. Non essere gelosa, amore mio.”

L’eroico guerriero continuava, intanto, il suo discorso.
“… Avete spinto la mia gente ad accettare un incontro di pace, e lo onorate obbligandomi ad infrangere i miei geasa, i voti sacri di ogni guerriero.” riprese C’ “… Non posso rifiutare cibo da una donna, non posso mangiare carne di cane. E farlo, non serve lo spieghi, non mi gioverà. Mi sarei aspettato meno viltà da parte di una simile persona piena d’onore, così come mi sarei aspettato da questi due uomini vili un po’ di onore.”
C’ Chulainn afferrò un pezzo di carne dalla scodella, lanciandoselo in bocca.
“Alla salute, mia Signora Medb!” alzò la coppa, trangugiando una grande sorsata di idromele ingollando il boccone.
Fu tutto molto rapido. Gli uomini di C’ Chulainn non disobbedirono all’ordine di un così grande capo che li fulminava con il suo sguardo intimandogli di rimanere seduti, mentre Lugaid ed Erc si alzavano di scatto entusiasti di poter avere le loro occasioni.

Erano stati privati da C’ di qualcuno di molto prezioso, ed intendevano vendicarsi, non importava anche ricorrere a mezzi simili.
E l’idea di Medbs aveva avuto piena realizzazione, l’eroe non era più protetto dal benvolere del fato poiché aveva infranto i geasa, ma questo non impediva lui di essere sempre il valoroso C’ Chulainn. Il suo scranno volò dritto in faccia ad Erc, mentre l’errante si faceva avanti con un grido straziante. L’eroe la guardò per un istante, prima di correre verso di lei, scansarla, e cercare di spostare lo scontro fuori dalla tenda. Non voleva certo che qualcuno dei suoi uomini facesse una brutta fine, o nel caso venisse in qualche modo ferita la dolce e gentile figlia di Medb, alla quale rivolse un frettoloso saluto con un cenno del capo.

“Quel figlio di puttana!” urlarono quasi all’unisono Erc e Lugaid, inseguendolo, mentre la Signora chiudeva gli occhi.
Si era vendicata di un affronto che riteneva imperdonabile, e ne era soddisfatta. Si riscosse sentendo l’urlo della figlia e una voce che dal fondo della tenda la chiamava, con una voce arrocata dall’ira.
“Medb. Viscida serpe dall’animo marcio!” l’errante stava in piedi con i pugni stretti. “… Hai convinto un eroe a morire con l’inganno, questo &egrave indegno anche della peggiore parte di te!” una mano pallida la indicò, ma la Signora rispose con veemenza.
“C’ Chulainn ha avuto quello che meritava!” disse l’austera regina, battendo un pugno sul bracciolo del suo scranno d’onore.
La figura rise in maniera terrificante mentre gli uomini della Signora le puntavano le lance contro.
Medb si alzò furente “… Proprio tu, tu che lo hai distratto durante una guerra con il mio popolo, mi parli così degli inganni? Tu, anguilla mostruosa, accusi me di essere viscida?”

La giovane cominciò a cullare la creatura, che udendo le grida si era messa a frignare, mentre il marito estraeva la spada e si poneva di fronte a lei, nell’animo indeciso su chi avrebbe dovuto infilzare in caso di scontro.
Il suo dovere era di proteggere la signora Medb, ma dentro di sé percepiva che anche l’errante, su cui ora nutriva qualche perplessità, avesse le sue ragioni ad essere inviperita.
La figura ridacchiò ancora sommessamente. “Medb, sei sempre un bel vedere anche da arrabbiata. La differenza &egrave che io, posso. Io posso ingannare il povero C’ Chulainn che urla qui fuori, ma lo farò sempre in maniera leale. Quale che sia il mio inganno, quale che sia il mio compito, di questo stai sicura, &egrave a suo modo onesto. Lo sai meglio di chiunque altro quanto io sia capace di rispettare i patti.” La Signora sentì un tremore nelle gambe.
“E quindi, ora che ti garantisco che C’ Chulainn non sarà l’unico a non vedere l’alba del prossimo giorno, sarà meglio che tu goda il realizzarsi del tuo piano.”

“Uomini di C’!” la figura urlò, riscuotendoli. “… Poggiate i piatti e date a questi doppiogiochisti quel che si meritano!”
Un uomo di C’ Chulainn le rivolse una domanda arrogante. “Noi rispondiamo agli ordini del nostro re, chi sei tu per farci disertare dal suo volere?”
La figura lasciò cadere sulle spalle il tessuto della cappa liso dal tempo e scrollò una lunga chioma nera come la notte, prima di guardarlo negli occhi.
“Uomo dell’Ulster, chiedi pure ai tuoi progenitori, chiedi pure ai Tuatha Dé Danann chi sia an M’rr’gan. Se ti dico di combattere, tu combatti. Se ti dico di non ucciderli…” la figura indicò Medb, la figlia della Signora e la sua piccola famiglia “… Tu non li uccidi.”
La Morr’gan corse fuori nel vento della brughiera mentre gli uomini di Chulainn rovesciavano i tavoli e le sedie iniziando uno scontro del quale sentiva già l’odore del sangue, ma si fermò dopo qualche decina di metri.
Sospirò, rendendosi conto della sua estrema inutilità, sul clivio ricoperto d’erba e di tracce dell’accampamento di Medb.

Poteva lei forse salvare colui che amava, non ricambiata? Sicuramente. Ma non l’avrebbe fatto. Non poteva andare così, perché innumerevoli leggi gravavano anche su di lei, non ultima quella che gli uomini decidessero in gran parte del proprio destino. Le era spesso chiesto un aiuto, un’intercessione, ma in realtà… Non spettava a lei.
Aveva visto interi eserciti sfilarle davanti seguendo un’idea, un pensiero, una follia, e tutto quello che poteva fare era aiutarli un poco se l’avevano pregata, o lavarne le vesti in un fiume, segnalando loro che di lì a poco non sarebbero più stati.
Per questo i canti raccontavano che lo sguardo della Morr’gan, quando non era bella e terribile, quando non era sensuale e forza generatrice, era profondo di una tristezza infinita. Poiché sapeva come si potevano -e non sempre per fortuna le cose andavano così- svolgere degli eventi dolorosi, e non poteva sempre impedirlo. Era qualcosa al di là della sua portata, come salvare l’amico di Chulainn, il suo cavallo, o lo stesso C’.
Tre lance avrebbe scagliato Lugaid, tre re sarebbero morti.
Il re degli aurighi, il re dei cavalli, il re dei guerrieri. Le iridi rossastre si contrassero lievemente quando il possente cavallo nero crollò sotto l’impeto dell’arma, cadendo a terra in una nube di terra e fango. “Dub Sainglend…” sospirò, sottovoce.

La figlia della Signora, stringendo il suo fagotto, uscì dalla tenda dopo diversi minuti. Dentro sua madre rimaneva seduta sul suo scranno sorvegliata dagli uomini dell’Ulster che non stavano rendendo inermi, o esanimi, i suoi guerrieri. La raggiunse velocemente suo marito che stringeva ancora un’arma che non aveva usato, ma non intendeva certo lasciare.
“Cosa sta facendo?” chiese il guerriero, osservando la pallida figura scrutare più lontano, nella brughiera, il duello di Chulainn e Lugaid.
“Aspetta.” sussurrò la giovane. “Non può fare niente.”

Nella piana, l’eroe sputò un po’ di sangue nell’erba.
Una strana sensazione di già vissuto lo colse, il che era in qualche modo rassicurante. Sapeva che il suo destino era segnato ma egualmente vi si opponeva.
“E’ così divertente vedere la paura che hai di me, Lugaid!” urlò con un sorriso dalle labbra spaccate. “Non solo hai un’arma per tenermi distante, ma nemmeno osi liberartene per affrontarmi!”
Stava mentendo, ma era troppo divertente davvero. Lo trovava ridicolo, il guerriero dinanzi a lui, con la paura negli occhi e la voglia di osare, ma in un istante, quello che decide le sorti di molti momenti, la voglia di osare vinse sulla paura, il guerriero scagliò la terza lancia, e l’eroe non pot&egrave opporsi ancora una volta alla velocità dell’arma sibilante.

Cadde, con un grido insopprimibile, ma ancora prima che l’eco finisse di risuonare tra l’erba già si rialzava, sbilanciato dal pesante legno che lo attraversava.
“Non &egrave possibile!!” urlò Lugaid, quasi alle lacrime, cominciando a tremare nel vedere il guerriero dinanzi a lui muovere anche qualche passo, nonostante la sua lancia conficcata nel corpo.
Da vile qual’era, girò le spalle e corse via, verso il suo carro, verso la salvezza.
“Che bel leprotto…” sussurrò C’ Chulainn “… Avessi un arco, sarebbe finito.” il sibilo nelle orecchie svanì, e cominciò a sentire il vociare dell’intero accampamento.

Gli uomini della Signora, altri guerrieri, e persone aggregatesi alla corte nella speranza di ricavare qualcosa da mangiare nei giorni di sosta della Signora lo osservavano, senza osare avvicinarsi, come ad una bestia ferita, ancora più pericolosa proprio prima della fine.
“Posso avere un arco?” sospirò, guardando verso una figura isolata dalle altre, non troppo distante dalla figlia della Signora e dal marito.
La donna con i capelli neri ondeggianti al vento scosse lievemente la testa in segno di diniego, affranta.
C’ Chulainn sorrise, arrancando verso una megalite nella piana, per appoggiarsi con la schiena. Respirava a fatica, ma poteva rimanere in piedi, così. Alzò un pugno verso gli uomini che lo circondavano dalla distanza, con un urlo roco, facendoli arretrare ancora di più, e scoppiò a ridere in un accesso di tosse e sangue.
Vili. Non si sarebbero avvicinati mai. Mai finché lo avrebbero creduto vivo, e finché l’avessero fatto non avrebbero osato attaccare in massa i suoi uomini.
“Andate via…” sussurrò, muovendo un poco la spada nell’aria.

“Dobbiamo andare via di qui” sussurrò la giovane al marito.
“Non credo sia meglio rimanere, sono d’accordo.” le rispose l’uomo. “Cosa pensi di fare??” urlò, facendo sobbalzare la sua sposa, alla figura candida pochi metri avanti a loro.
Le labbra scure sorrisero divertite.
“Quanto sei cretino…” sussurrò, voltandosi. “Ma qui, sei quello che almeno fa le domande giuste. Penso di aspettare C’ Chulainn. E penso che vi convenga andare via, soprattutto prima che gli uomini di Medb decidano che siate colpevoli di avermi portata qui.”
“Colpevoli di cosa?” urlò la giovane.
“Lui. Lui &egrave colpevole di avermi portata qui.” la figura indicò il guerriero. “Tu sei colpevole per quel che accadrà a tua madre. La piccola… La piccola non ha colpe, ma gli uomini trovano molte scuse anche per dei fagottini simili. Ma comunque ti basti sapere che sono io a dirtelo, quindi… E’ meglio che vai, Halva.”

Il guerriero, pur da cretino, capì. Non era difficile.
Medb e i suoi alleati avevano tramato per liberarsi del più grande guerriero che calcasse la terra della loro isola, un uomo che nessuno era in grado di abbattere con la forza, ma forse con l’inganno.
C’ Chulainn, ottemperando ai suoi geasa, si era reso colpevole e doveva morire.
Non che volesse farlo, e così continuava a terrorizzare gli uomini di Medb, nella piana, con ogni energia che ancora aveva in corpo, poggiato ad un’enorme roccia che sporgeva dall’erba.
I suoi uomini, attendevano il suo ritorno, o la sua dipartita.
Halva entrava nella tenda, dopo aver lasciato la piccola al marito accanto a tre cavalli, perché doveva sapere.
La Morr’gan restava silenziosa, in piedi, addolorata, sul pendio.

“Perché, madre?” chiese, piano, la giovane, accanto alla madre che altera sedeva sul suo scranno. “Hai ingannato un tuo nemico in maniera così vile, indegno di te e del nostro nome. Me ne vergogno. Me ne andrò, sappilo.”
“Ho le mie ragioni.” rispose solo, in un sibilo, Medb. “Tua madre ha sempre le sue ragioni.”
Halva sospirò. “Lo so. Ma queste possono essere… Imperdonabili.”
Ci fu un bagliore nero tra le vesti della giovane, prima che Medb sussultasse, accasciandosi sulla sua spalla.
“Le leggi che mi hai insegnato non perdonano atti simili, madre. Io rispetto queste leggi, a differenza tua.” sibilò Halva, nell’orecchio di Medb.
La chioma bionda, ormai ingrigita, ricadde dinanzi al viso della Signora. A suo modo, era orgogliosa della figlia.

Le labbra tremanti di Medb sussurrarono, a pochi millimetri dal candido orecchio della giovane.
“… Io… Io dovevo essere sua, Halva. E dovevi esserlo anche tu. Non ci ha voluto, ma voleva lui. E lui, lui che poteva essere suo, non l’ha voluta. Non ho mai potuto accettarlo.”
La giovane madre tremò, preda dell’adrenalina. “Così, la Signora Medb ha ucciso un eroe per gelosia. Salverò quel che rimane del tuo onore tenendo questo segreto dentro di me.” Halva strinse i denti, trattenendo le lacrime. Era ancora più stupido e sbagliato.
Medb sorrise. “Lei lo sa, lo ha capito. L’ho ferita come lei ha ferito me. Non mi ha voluta, e non avrà chi voleva. Vai, Halva, dimentica tutto questo e non insegnarlo a tua figlia.” Medb spinse via la giovane, ricadendo pesantemente sullo scranno, e dalla ferita aperta dal lungo pugnale di ossidiana si spandeva una macchia sulle elaborate vesti della Signora.

Il suono dei cavalli di Halva e del marito era già scomparso da un pezzo assieme a quello dei suoi guerrieri dell’Ulster, mentre quelli di Medb scoprivano con orrore la fine della loro Signora, ma non sapevano, privi di un capo, se inseguire gli uomini dell’Ulster, la figlia della loro regina, o assalire assieme C’ Chulainn, che ancora rimaneva nella piana, poggiato minacciosamente alla roccia.
Una situazione di stallo utile a salvare quante più vite possibili, ma non trascinabile ancora a lungo.
L’eroe cominciava davvero a non reggersi più in piedi, neanche appoggiato com’era alla roccia.
Ad un certo punto un corvo, nero e lucido nel suo piumaggio, gli si posò su una spalla con un verso rauco ma dolce.

“Speravo arrivassi nuda.” sussurrò lui, sorridendo allo stremo delle forze.
Il corvo lo guardò con gli occhi brillanti. “… Piume a parte, tecnicamente lo sono.”
“Sei sempre la solita.” sbuffò l’eroe.
“E’ per questo che ti piaccio.” risposero commossi gli sguardi del corvo.
“Può darsi…”sorrise ancora il guerriero, muovendo un ultimo fendente che fece rabbrividire gli uomini di Medb.

“Pronto ad andare?” gracchiò la Morr’gan, inclinando il capino piumato.
“Qui sta diventando noioso. Non vedo perché no.”
Prima di chinare il capo esanime, mentre il corvo volava via, C’ Chulainn sorrise.

“Che… Sogno… Assurdo.” pensò Asia, svegliandosi sudata nel letto.
“Devo mangiare meno alici marinate a cena, cazzo.” si rimproverò, mettendosi a sedere sul letto. La biondina si alzò per andare in bagno, scossa dal calore della nottata e dal suo viaggio onirico.
“Dovrei anche evitare di leggere certe cose prima di dormire” pensò, evitando con i piedi di calpestare uno dei libri di Meg che aveva portato in valigia. Uno sbuffo la spaventò un poco, ma si rilassò guardando il suo botolo ancora addormentato sul pavimento, intento a sognare, e sorrise, camminando velocemente con le gambe strette prima che la situazione diventasse pericolosa. Si diceva che la Grande Città non dormisse mai.
Ma questo lo si diceva di innumerevoli metropoli, e in realtà il grande agglomerato urbano le sue ore di sonno se le concedeva. C’erano dei momenti in cui la calma prendeva il sopravvento sulla frenesia e l’attività, in cui tutti gli edifici sembravano vivere un momento di profondo respiro, di rilassatezza, per poi ricominciare a buttarsi nel caos che da sempre la distingueva da altri luoghi.
Di sicuro, quella notte, qualcuno che non dormiva c’era, all’ultimo piano di un grande palazzo, mollemente abbandonato su una sedia a sdraio, sospirava Marco.
C’era troppo caldo, o forse troppo nervoso, o forse ambedue le cose, ma il suo letto ampio sembrava un forno, nonostante porta e finestra spalancate. Aveva pensato di sfruttare la migliore corrente della camera di Asia, ma non riusciva a pensare alla fatica di dover cambiare le lenzuola della ragazza con le sue, o di usare quelle della bionda.

Un inferno color rosapesca.
“Chissà che colore &egrave il rosapesca” aveva sbuffato uscendo dalla camera. A lui pareva arancione. Si era diretto nella camera in fondo al corridoio, con titubanza aveva aperto la maniglia scricchiolante ed era rimasto a osservare l’ampio letto rosso scuro di Morgana.
Forse la grande finestra di lato al letto avrebbe assicurato un notevole ricambio di aria, ma Marco non riuscì a non pensare alla sua coinquilina sdraiata in quelle lenzuola. L’aveva vista lì per la prima volta dopo tempo in cui vivevano assieme, la mattina stessa dopo che avevano fatto l’amore. Quando vedi certe cose, non puoi scordarle. Non poteva scordare il suo sorriso, il suo sguardo carico di promesse e di piaceri per lui inediti fino a quel momento.
Non poteva dormire nel suo letto, senza di lei. L’avrebbe fatto la prima notte che fosse tornata, se lei glielo avesse concesso.

Così, si era sdraiato in terrazzo, cercando di liberarsi dal pensiero di lei, senza alcun risultato se non aggiungere un altro motivo di insofferenza per impedirsi il sonno. Afferrò il telefono portatile che si era trascinato dietro nel suo istinto di tecnomane. Nessun messaggio. Non c’era mai neanche un messaggio, non parliamo di chiamate.
Improvvisamente digitò qualcosa ad Estia, imbarazzato all’idea di farsi vivo dopo mesi di silenzio.
“Ciao, come va? Notizie di Meg?” chiese, senza aspettarsi risposta si rimise a fissare i palazzi della Grande Città. Sobbalzò, quando sentì la vibrazione sullo stomaco di una risposta.
“Ciao! Tutto bene! No, non ho notizie… Sei preoccupato?”
“… Sì.” rispose, pensando che fosse inutile nascondere qualcosa alla sorella di Morgana.
“Sono ancora all’Agarthi, vuoi fare un salto?” scrisse Estia, e Marco si colse nel rispondere che ok, andava bene, e ad uscire nella notte saltando sulla sua scassatissima moto, diretto verso il locale.

Con un brontolìo sommesso il motore si spense, e Marco si levò il casco osservando l’architettura dell’Agarthi. Si vedeva che l’impianto originale dell’edificio era molto vecchio, ma con il tempo aveva inglobato altri edifici, o si era espanso, rendendo di fatto l’Agarthi un complesso di edifici, una piccola città nascosta, qualcosa di molto consono al nome che portava.
Marco sapeva che oltre che un locale l’attività gestiva anche eventi, appuntamenti, insomma era la crasi di un mondo modaiolo, festaiolo ed entusiasta che lui avvertiva sempre come estraneo da sé.
Morgana se ne pasceva, quando ci aveva a che fare, ma era Estia, sua sorella, la vera appassionata. Era elettrica, esagitata, quasi irritante nel suo costante interesse per ogni cosa, con un’energia ben diversa da quella di Meg.
Estia dava sempre l’idea di divertirsi, e di essere allergica a quei momenti di estraniamento dal mondo che erano propri della sorella.
Marco scrisse alla ragazza che era arrivato, e dopo qualche istante una pesante porta si aprì sul lato dell’edificio.

“Ciao” disse, mentre Estia lo baciava sulle guance.
“Cosa ci fai ancora sveglio?” sorrise la moretta, avanzando in una sala del locale. Marco sospirò “Pensieri.”
“Meg?”
“Già. Non capisco.” disse, facendo ridere la giovane. “Non si può ‘capire’ Meg, Marco. Io stessa non l’ho mai capita, e ti assicuro che la conosco da parecchio tempo!”.
L’informatico sorrise. “Già. Ma &egrave estremamente fastidioso.”
“Un Alexander potrebbe aiutare?”
“Emh, Estia, a me piacciono le donne…” balbettò il ragazzo, facendo scoppiare a ridere di nuovo Estia. “E’ un cocktail, genio!” sorrise, portandosi dietro ad un bancone.

Marco la osservò miscelare chissà che sostanze. Estia somigliava a Morgana, e non le somigliava. Come spesso succede tra parenti, ognuno avrebbe riconosciuto un particolare di somiglianza o differenza diverso.
Se la carnagione era piuttosto pallida in ambedue le Danu, e i capelli neri lisci differivano solo per il taglio -quelli di Estia erano molto più lunghi- il viso di Estia aveva dei lineamenti più sottili, una bocca dalle labbra indubbiamente più strette, e forse più larga.
O tale pareva a Marco, visto il gran sorridere costante della mora, mostrante una dentatura bianchissima.
Morgana soleva avere un mezzo sorrisetto in viso, qualcosa di intrigante, inquietante e seducente, come se fosse sempre sul punto di tirare qualche frecciatina (cosa che avveniva regolarmente, per altro).
Estia invece sorrideva mostrando una felicità quasi bambinesca, uno schiudersi di bianchi denti alla minima occasione.
L’altra grande differenza tra le due era il fisico. Estia era armoniosa, dolce, con delle curve attraenti ma molto meno prorompente di Morgana. Come ad Asia, pareva anche al giovane una “Morgana senza curve”.

“Ecco a te, così ti concentri su questo e la smetti di fissarmi” sorrise -ovviamente-Estia, porgendogli un bicchiere a ‘doppia coppetta’ con un denso cocktail. Marco sorrise di rimando, sedendosi ad uno sgabello, e assaggiandolo. Faceva una certa impressione il silenzio che regnava in una sala che di norma ospitava musica e persone vocianti, pensò. La mora dovette cogliere questa medesima sensazione, perché si affrettò a dire:
“Oggi questa sala era chiusa. Abbiamo qualche problema con l’impianto elettrico.”
“In che senso?” disse Marco “…Ah, comunque, buono questo” precisò annuendo al bicchiere.
Un altro sorriso enorme. “Bene! Per l’impianto… Guarda, ci sono quelle due file di spot nuovi che non hanno intenzione di muoversi coordinati, e quando lo fanno non rispondono minimamente alla musica” Estia indicò in alto dei riflettori “… Ieri sera ce ne siamo fregati altamente, ma senza quelle due file va a puttane la metà della coreografia che ci chiede praticamente chiunque. Abbiamo una reputazione da difendere!”
Marco ridacchiò “Sì, com’&egrave che dice sempre Meg… Ah, sì! ‘Se volete fare le feste del Liceo, le fate a casa vostra, con il bicchiere di plastica con scritto il nome sopra e le luci che saltano ogni volta che qualcuno accende il microonde per i popcorn del discount!’…” disse il ragazzo, imitando malissimo il tono serioso che la sua padrona di casa assumeva sempre quando tirava le orecchie nel suo locale.

Estia rise, guardandolo fissare un punto nel vuoto e bere ancora un po’.
“Ti manca, vero?”
Marco sobbalzò. “Terribilmente.” gesticolò un po’ nell’aria cercando le parole giuste da poter dire alla sorella di Meg. Estia sorrise, sembrava sapesse fare solo quello. “Lei non c’&egrave, e non può sentirti. Allora?”
Marco sospirò.
“E’… E’… Una gran troia! Passo settimane intere con un’isterica che mi manda a fare in culo se solo le chiedo dove sta il sale grosso in dispensa, e poi viene fuori che anche lei prova qualcosa…” un altro sorso intenso di drink. “… Passo un mese con lei che mi bacia ogni dieci secondi e tutto il resto, ma continua a dire che non può, prende e se ne va!”
Estia sospirò. “Ti ha spiegato perché non può…”
“Sì, lo ha fatto. Ma… Lo sai che non capisco queste cose. Io sono per… Per… Non so, aggiustarti i faretti!”
Estia scoppiò a ridere, le venne un’idea per rilassarlo. “Ti faccio un altro di questi e ti faccio vedere dove non funziona? Metti le mani nel pc dell’Agarthi, dovresti distrarti un po’!”

Dieci minuti dopo, Marco stava ad una tastiera in un locale di regia, per così dire, cercando di capire cosa non andasse tra i software del locale, quelli dei faretti nuovi e via dicendo. Dietro di lui, poggiata allo schienale della sedia, Estia osservava lo schermo.
“Qui non avete un computer, avete un server, anzi, avete un’intera factory…” bofonchiò il ragazzo, caricato ad alcool. “Attento a non mettere le mani dove non devi…” sussurrò al suo orecchio la voce di Estia.
Marco non ci fece caso, concentrato sul trovare le rispondenze tra il programma e i fari della sala. Ogni tanto gli sfuggiva un “ops” a denti stretti, quando qualche motore di luci si avviava, saettando nella sala buia come non si aspettava.
Estia lo continuò a fissare, con un sorriso curioso in volto. E così, quello era il ragazzo che piaceva così tanto a Morgana? Di solito aveva altre preferenze, era… Divertente, che proprio lui l’avesse fatta capitolare così. E lui, era totalmente preso da lei, nonostante mille motivi. Era così carino, e così dispiaciuto… Avesse potuto fare qualcosa… Ma cosa stava pensando? Lei poteva fare qualcosa.
Come le passò questo pensiero in testa, le labbra le si allargarono di nuovo in uno sfavillante sorriso, forse sottilmente più malizioso del solito.

Portò il suo viso accanto a quello di Marco, con noncuranza, tanto che l’informatico non se ne accorse nemmeno. Era abituato all’estrema familiarità che le sorelle Danu sembravano rivolgere a chicchessia, per cui non si stupì molto che le mani sottili di Estia si poggiassero sulle sue spalle.
“Per me che non ci capisco niente, &egrave affascinante vederti sondare così programmi e comandi…” sussurrarono le labbra sottili all’orecchio di Marco.
“E’ solo questione di abitudine.” rispose lui, concentrato su uno degli schemi che sembrava non tornargli.
Estia lasciò scivolare le mani giù sul petto del ragazzo, molto lentamente. Ne saggiò il fisico niente affatto allenato, non grasso o flaccido, ma di solito, le puntute dita della fanciulla indagavano muscoli scolpiti che mai avrebbe potuto avere quel giovane.
Marco si accorse che qualcosa non andava, ma come cercò di dire qualcosa, la mano di Estia gli si poggiò sul sesso, e un sospiro lo tradì.

“Sssssth…” sussurrò Estia sul suo orecchio “… So che lo vuoi… Posso farti felice… Posso liberarti dai tuoi pensieri…” la lingua calda di Estia scivolò fuori dalla bocca, lambendo lentamente il padiglione del ragazzo. “… Non fermarmi” aggiunse, prima di portarsi davanti a lui e baciarlo intensamente.
Marco non capì più niente, scivolando nella sensazione caldissima della larga bocca di Estia, nella sua lingua danzante con la sua, nel suo muovere la sedia per girarla e cominciare con sottili dita velocissime a sbottonare i jeans.
Il sesso di Marco uscì un po’ dall’elastico degli slip, ed Estia tirando e muovendo con una relativa collaborazione di lui, riuscì a liberarlo del tutto.

“Stai scoppiando” sorrise a trentadue denti Estia, senza staccare il viso da quello di Marco, prendendo in mano il cazzo e cominciando a carezzarlo. Marco sospirò istintivamente. Dentro di sé combatteva tra i sentimenti e l’istinto.
“Mi fa impazzire quando avete le palle così gonfie da esplodere!” scoppiò a ridere Estia, stringendo i testicoli e rimanendo così, ferma. Marco riusciva solo a concepire, vagamente in maniera razionale, gli occhi di Estia e la sua larga bocca che sorrideva, era davvero… Disagevole.
“Dimmi cosa vuoi…” sussurrò poggiando la fronte la giovane a quella del ragazzo. “… Io ti prosciugo le palle se non dici niente”. Marco strinse i denti, mentre le dita della mora stringevano i testicoli duri e gonfi. Istintivamente prese i lunghi capelli di Estia in una grossa ciocca, e li tirò verso il basso, costringendola ad accosciarsi a terra. La giovane non la prese per nulla a male, anzi scoppiò a ridere, mentre Marco le porgeva con una mano il suo pene pulsante.
“Svuotami il cazzo e la testa! Fallo! Adesso! Fallo! Ti prego, sto impazzendo!!” urlò Marco, premendole il viso sulla cappella e lasciando che ella lo ingurgitasse.

Estia si lasciò ad andare a grossi e poderosi risucchi rumorosi che echeggiarono non solo nel piccolo locale di regia ma anche in tutta la sala vuota, sentendosi accaldatissima a sua volta. Voleva far esplodere quel cazzo nella sua gola, ma lo voleva anche, voleva tutto da Marco, soprattutto perché voleva capire, capire perché Morgana avesse avuto quell’infatuazione per lui.
Estia si alzò di scatto, sfilandosi come un serpente dalla presa di Marco.
“Nudo! Ti voglio Nudo!!” urlò, spogliandosi a sua volta, e gridando nel vederlo ancora lì, seduto e stupito “Che cazzo non hai capito? Voglio che ti spogli!!” Marco scattò in piedi obbedendo, e come si fu tolto scarpe e jeans Estia si ributtò ai suoi piedi in una fellatio irruenta e vorace. La luce danzava sulla lunga chioma corvina della giovane, mentre solo schiocchi e risucchi indicavano quando lasciava la presa.
Fu davvero difficile per Marco spogliarsi della t-shirt, soprattutto perché aveva l’irresistibile impulso di venire.
Doveva venire, doveva assolutamente eiaculare in gola di Estia, dentro di sé sentiva colpevolmente il desiderio di sfogare con lei tutte le sue frustrazioni.

“… Così non… Duro… Molto…” ansimò, nell’ultimo residuo di timida gentilezza. Estia si staccò improvvisamente ridendo sguaiatamente, alzando il viso verso quello di Marco. La grande bocca dalle labbra sottili e lucide, i denti bianchissimi rilucenti e quella risata gelarono il sangue nelle vene del ragazzo.
“Tenero che sei…” sibilò Estia, abbassando il viso e guardandolo con un sorriso letale. “… Ho detto che ti prosgiugavo le palle e tu hai detto di farlo, non di farlo lentamente. Fammi bere, ragazzetto.” e così detto ingurgitò di nuovo il sesso di Marco, pompando velocemente, spietatamente, voracemente, in una sinfonia di umidi versi e mugolii.
Marco, povero Marco, era nel totale deliquio, ansimava e tremava, e correndo verso il piacere la sua mente gli ripropose l’immagine di Meg impegnata a fare la stessa cosa. Non era la prima volta che subiva una fellatio di tale irruenta energia. Lo ricordava… Si ricordava di lei. In ogni dettaglio. Come scordarsene? Mora, atletica, sconvolgentemente figa, e l’aveva umiliato, non gli piaceva venire umiliato, anche se lo eccitava. Era confuso, confuso e quindi come un animale, adirato.
Il cugino di Asia camminava a grandi passi per una stradina della Città di Confine, di prima mattina.
Dormiva male e dormiva poco. Colpa della stronza.
Voleva trovarla quella stronza, voleva umiliarla, voleva… Lui voleva essere un dominatore, non un dominato, voleva comandare ed essere obbedito. Per quello aveva trovato così piacevole il lavoro all’ Ar-Too, perché con le responsabilità aveva anche un sacco di potere. Potere di trattare male le cameriere, l’elettricista, qualche tizio a part time… E le tipe che se lo lisciavano per avere un ingresso? Anche se non gliela davano, lo eccitava e divertiva il potere che aveva su di loro, di farle almeno un po’ spasimare per avere un biglietto, un drink…

Quando a Natale era finito a spiare Asia, gli era sembrata l’occasione perfetta. Asia, la sua cugina più timida, introversa, paurosa, un giocattolino semplice da far funzionare, e invece… E invece era cambiata, come gli aveva detto ficcandogli la faccia nel sesso. Era cambiata…

Il ragazzo sedette su una panchina, guardando passare i culi delle ragazze e delle mamme sportive che correvano per tenersi in forma.
Era cambiata… Da quando era nella Grande Città. Doveva essere successo lì. Chi conosceva nella Grande Città che l’aveva resa così audace? Chi lo aveva privato del suo ideale giocattolino, la cuginetta timida?
Sì, la risposta era sicuramente in quella direzione, lo sentiva.
Afferrò lo smartphone dalla tasca dei pantaloni e navigò qualche istante sui social network. Asia non lo aveva bloccato su nessuno di questi, ma non sembrava avesse caricato molte foto, molte notizie private…
“Troia due volte!” imprecò con sé stesso, scorrendo indietro negli aggiornamenti.
Qualche foto di Asia in Università, post di gattini, notizie…
Il cugino continuò a girovagare nella pagina social di Asia più per automatismo che per altro.

E quello che cos’era?
Asia era stata “taggata” in una fotografia, mesi e mesi prima, quasi un anno, in quello che sembrava un piccolo bar, da una certa Lila Qualcosa. Non vedeva il post originale, dove magari nomi e dettagli erano presenti, dannato telefonino di merda, considerando che era un nuovo modello… Spulciò negli album di foto. Era pur sempre un indizio.
Foto di aperitivi… Stuzzichini… Un tizio che faceva una faccia da idiota… Una mezza chioma bionda spuntò in una foto, facendolo sobbalzare, avvicinare allo schermo con il viso come un cane che abbia trovato la traccia della preda. Il dito scorse velocemente una foto dopo…
Bicchiere con filtro seppia… No.
Lila Qualcosa in un selfie… No.
L’idiota di prima con la stessa faccia da idiota… No!
No!
No!
N… COSA?

Il cuore del ragazzo ebbe un’impennata dei battiti, mentre le pupille si contraevano per l’emozione. Lì, su schermo, c’era Lei.
Un tavolo con dei bicchieri, vassoi di pizzette e stuzzichini vari, una ciotola di popcorn, l’idiota, Lila Qualcosa, altra gente, Asia in uno sforzatissimo sorriso e di fianco a lei, mentre le poggiava una mano sulla spalla, abbassando un poco gli occhiali da sole, guardava la fotocamera, Lei. Anche se non era inguainata in una tutina di latex, anche se non era nelle penombre dei camerini dell’ Ar-Too, sentiva ancora la sua voce sensuale e profonda mentre la fissava.
Lei conosceva Asia, per quello era rimasta stupita del suo nominarla.
Lei era nella Grande Città con Asia. Lei era amica di Asia. La biondina non avrebbe mai lasciato nessuno poggiarle una mano sulla spalla così, una volta.
Ma era cambiata. Nella Grande Città. Dove c’era Lei.

Lei l’aveva cambiata. Lei gliel’aveva rubata. Ora Lei era quello che voleva.
Tra il desiderio di lui e Lei c’era solo un filo di capelli biondi.
Si salvò la pagina nei preferiti, e corse a casa ad una velocità ammiratissima dalle sportive mamme sul lungo viale. Estia ebbe un brivido, sdraiata sul largo divano di un privé dell’Agarthi. Si mise a sedere, fissando la stanza vuota.
“Tutto ok?” rantolò Marco, con la faccia affondata in un cuscino. Avrebbe voluto alzarsi, ma non aveva nessuna energia. Estia era stata… Animalesca, dalla fellatio in poi, l’aveva preso e artigliato e morso come un animale in calore che voglia, e contemporaneamente non intenda proprio, copulare.
“Sì, sì, tutto… Ok.” sorrise ovviamente Estia, passando una mano nei capelli arruffati del ragazzo. Aveva quasi sperato di capire cosa ci fosse in lui da intrigare Morgana, ma non l’aveva afferrato, durante tutta la notte. Era… Carino, normale di fisico. Sicuramente attento e gentile, ma quante persone potevano corrispondere a queste caratteristiche?
Eppure, Morgana era caduta così per lui. E sebbene Estia fosse in grado di capire e percepire molte cose, non poteva con sua ‘sorella’, era fuori dalla sua portata.

Quel che percepiva era però una sensazione di inquietudine. Qualcosa non tornava, come una sorta di nota stonata in tutta la sinfonia.
“Non sembra tutto ok” bofonchiò la voce di Marco. “No, &egrave solo… Una sensazione. Un’impressione, forse mi sbaglio. E’ tutto un po’ diverso da quando Morgana &egrave andata via. Non la sento più, non ne sono abituata.”
Marco si inerpicò faticosamente fino a mettersi seduto, fissando il profilo di Estia. le labbra sottili venivano lievemente ripiegate sotto i denti candidi, lo sguardo fissava il vuoto o chissà cosa.

“Dimmi la verità, Estia.” incalzò Marco. “… Io non pretendo di capire te, Dawn, o Morgana, o almeno un terzo di quel che mi dite, a volte. Ma sei una persona preoccupata, voglio sapere cosa c’&egrave, anche se non lo capirò.”
La mora sospirò, riavviandosi gli scuri capelli lunghi dietro un orecchio, prima di allungare la mano candida nell’aria, indicando la stanza.

“Diciamo che questa stanza &egrave la realtà. Tu vedi i mobili, le superfici, le pareti. Ma ovviamente ci sono anche gli oggetti dentro quello scomparto a parete, qualcosa magari sotto il divano, i tubi e i fili nel muro, le fondamenta, tutto quello che c’&egrave intorno. Tu vedi questa stanza così com’&egrave, io la vedo sapendo cosa contengono i mobili, dove sono gli oggetti che non sono visibili, e quindi ho una conoscenza diversa della stanza. Chi ha costruito questo palazzo forse saprebbe anche dove sono i fili e i tubi, e quindi la sua stanza sarebbe ancora diversa. Ci siamo?”

Marco annuì, mentre Estia, nuda e splendida, si alzava andando ad una parete scura, scostandone una pesante tenda.
“… Il fatto che esista questa stanza, al di là di come la percepisci, non impedisce ad altre stanze di esistere” le dita affusolate premettero e spinsero di lato un pannello. Al di là, vi era un’altro locale, come di servizio.
“E a chi le occupa di passare di qui, e viceversa. Chiaro?”
“Limpido, Estia.” risposte prontamente Marco.

“In questo via-vai possibile di persone tra le stanze, c’&egrave chi lo fa in una maniera, chi in un’altra. C’&egrave chi &egrave in una stanza tutta la vita e poi va in un’altra, c’&egrave chi può passare in tutte le stanze a suo piacimento. Chi può fare questo &egrave, ovviamente, imprevedibile, o incomprensibile a chi sta nelle diverse stanze. Ovviamente, chi passa di qui e di lì ha una maggiore comprensione di certe cose. E di solito &egrave così. Invece, non sto capendo, in questo momento. E’ come se le stanze, chi c’&egrave e chi ci passa, fossero finite quasi al buio.”
Estia si voltò, sentendo una risatina, fissando Marco e digrignando un po’ i denti perfetti e bianchissimi.
“Cazzo ridi? Vuoi un morso?”
Marco scoppiò a ridere ancora di più. “Ahahaha! No, ti prego, quello lo hai fatto già stanotte… Rido perché non capisci… Ora…” il ragazzo si asciugò una lacrima dagli occhi “… Ora sai cosa si prova.”
“… Non &egrave bello.”
“No, non sempre. A volte lo &egrave, come quando ti innamori. Non capisci, ma &egrave bello lo stesso.”
Estia sorrise ironica. Era un romantico. Forse era quella la risposta?
“Quindi, cosa si fa quando non si capisce?”
“Si chiama l’elettricista per riavere la luce nelle stanze, si chiama chi capisce, no? Io voglio capire.”
“Vuoi capire?”
“Tutto, possibilmente…”
Estia sorrise, in maniera non molto confortante.

Così, rimessosi i vestiti addosso, mentre Estia recuperava da chissà dove un pareo bordeau o qualcosa di simile, Marco si avventurò nei meandri del locale accompagnato dalla fanciulla. La sensazione che l’Agarthi fosse un dedalo di corridoi e stanze fu più acuita che mai, ma si rendeva conto che stavano scendendo, nei piani più bassi dell’edificio.
“Ok, Marco” disse Estia, fermandosi davanti ad una porta scura. “… Ti prego di tenere il tuo lato da informatico dentro di te, ancora più di quanto lo hai messo dentro di me.”
“Perché tu e Meg dovete sempre fare queste battutine…” mugugnò Marco, mentre la ragazza varcava l’uscio. La seguì, trovandosi in quella che sembrava un’ampia cantina dalle volte a vela sorrette da larghi pilastri. A pensarla illuminata, la si sarebbe potuta figurare come una cantina di qualche azienda vinicola, ma al buio, in quel contesto, faceva solo rabbrividire.

“Lui cosa ci fa qui?” sibilò quasi alterata una voce nell’ombra.
“E’ a posto, Dawn.” rispose con altrettanta verve la sorella di Meg, dirigendosi verso il centro della stanza. Da un punto non specificato fece la sua comparsa la proprietaria dell’Agharti, forse. La chioma riccioluta era legata sulla nuca, ma per il resto la donna, come Estia, era totalmente nuda, ed indossava solo una sorta di pareo rosso scuro. Il ragazzo distolse lo sguardo dalla nudità quasi urtante della donna, guardandosi attorno. Mentre gli occhi si abituavano via via all’oscurità, tagliata solo da un paio di lame di luce che arrivavano da chissà dove, si accorse che il locale era pieno di oggetti più svariati.
“Questa &egrave una collezione che farebbe ingolosire anche il più ricco dei musei.” sentenziò Dawn, incrociando le braccia sul petto, mentre Marco scrutava le forme di oggetti a lui misconosciuti ed Estia che spostava un paio di quelli che parevano bauli, senza apparente difficoltà.

“… Immagino che ognuna di queste cose abbia una storia.” sussurrò Marco. “Tutti gli oggetti ne hanno una, come le persone. Ma non &egrave detto che siano per forza interessanti per chiunque…” arguì con un sorriso la donna, sfiorando con la mano un largo bastone.
“Ecco! Trovato!!” urlò Estia, con felicità, riapparendo da dietro una catasta di oggetti con quelle che parevano delle lunghe aste e un sacco di pelle. Istintivamente Marco rabbrividì, sentendo una sensazione odiosa e dolorosa che non sapeva spiegarsi. Indietreggiò, ma ogni cosa in quella stanza pareva emanare la stessa aria inquietante.
“Oh. Oh. Il ragazzetto comincia ad avere paura…” sorrisero quasi ingolosite le labbra di Dawn. “… Non averne, Marco.” disse a sua volta Estia, guardandolo, ma il suo sorriso non sortì assolutamente l’effetto voluto, anzi scatenò il panico nel ragazzo, che con uno scatto si diresse verso la porta.
Un secondo dopo si trovò pancia a terra, con il lieve peso di Dawn sulla schiena.
“Cazzo! Lasciami!!” urlò lui, cercando di levarsela di dosso senza alcun risultato, salvo fermarsi quando Estia gli si inginocchiò davanti.

“Non fare così, Marco…” disse la bocca sorridente di Estia.
“… E’ divertente…” sentì dietro l’orecchio le parole di Dawn. Il ragazzo provava un panico, un’ansia, una sensazione di malessere, impotenza, debolezza assoluta, mentre il cuore gli rimbombava nelle orecchie e istintivamente voltava più che poteva la testa per potersi difendere da quelle due. Bellissime, terribili, inquietanti, sorridenti, paurose…
“Chi cazzo siete??” urlò, scalciando sul pavimento.
“… Ti prometto che non ti accadrà nulla. Lascialo alzare, Dawn.” sentì la voce di Estia.
La donna obbedì, con uno sbuffo tra l’annoiato e l’infastidito. Ad ogni buon conto, Marco si levò in piedi stringendo i pugni, anche se la sua presa era più molle di un formaggino da minestre per bambini.

“Che cazzo succede??” urlò, terrorizzato alle due donne che lo fissavano, l’una conciliante, l’altra quasi divertita dal suo panico. Estia si scostò sorridendo i capelli lunghi dal volto, incamminandosi di nuovo verso il centro della sala.
“Vi prego, così impazzisco. Datemi dei fatti, e basta. Chi siete. Dov’&egrave Morgana.” Dawn sorrise, per la prima volta forse in maniera non maliziosa e sadica.
“Credo che tu sia davvero dando di matto…”

Estia sospirò. D’accordo. Spieghiamo.
“… B&egrave, diciamo che io e Morgana non siamo sorelle. E’ una recita che conviene perché a voi sembriamo simili e vicine di età, e forse perché &egrave la definizione che più si avvicina alla realtà.”
Marco si sedette, sconsolato, su una cassa, facendo ridere Estia.

“Va bene, Marco.” sorrise a poca distanza da lui, riavviandosi i lunghi capelli neri in una coda, fermandola con la mano.
“Ricordi il discorso sulle stanze? Consideraci abitanti di una stanza vicina. Diversa dalla vostra, interagente dalla vostra. E creata, a volte, dalla vostra. Siamo spiriti, entità, siamo qualcosa che esiste in diverse forme, e a cui avete dato molti volti e nomi. Siamo la forma che segue l’idea, la statua che esiste dopo che l’artista l’ha immaginata… Quel che io, e Dawn, siamo, &egrave questo.” e con assoluta noncuranza, si tirò in alto la scurissima chioma, a cui seguì il resto del volto, e della testa. Marco non svenne, probabilmente solo perché lo spavento era tale da irrigidirne tutti i muscoli.

“Siamo quelle che nella tradizione celtica si chiamano ‘Dullahan’. Figure che annunciano la morte e la devastazione, folkloristicamente note per l’inquietante sorriso, e per l’avere poco la testa sulle spalle.” ridacchiarono le labbra sottili di Estia.
Il viso di Dawn, penzolante come una borsa dalla bianca mano della donna, a fil di pavimento, assunse un’espressione raccapricciata dall’umorismo della mora.

“E dunque, come tali, intrinsecamente collegate a Lei, Morrigan.” appuntò il viso sorridente di Estia, una cordialità sincera, se non fosse venuta da qualcuno che si teneva in grembo la propria testa.
“… Devo vomitare?” balbettò Marco.
“Se vuoi…” commentò Dawn sistemandosi il bel viso al suo posto.

Estia si incamminò verso il centro della sala.
“Facciamola breve e comprensibile! Morrigan, dea della morte e della vita, del sesso e dell’amore, ovvero la tua coinquilina, Morgana. Io e Dawn non siamo che sue emissarie, sostitute, aiutanti, così come altri. All’inizio non c’eravamo. Ma con il passare del tempo, dopo che qualcuno ci immagina, ci sogna, ci identifica, esistiamo. Lei ci ha accolte, nel primo momento, lo ha fatto con molti e molte altre. Ci ha aiutate, ci ha sostenute, ci ha amate, a suo modo, affascinata da molte delle creazioni della vostra mente.”
Dawn annuì con convinzione tale che il capo le si sarebbe staccato di nuovo come niente.
“… Morgana &egrave una dea?” sussurrò Marco, quasi a sé stesso, ma le due udirono benissimo le sue parole.
“… E’ un’entità capace e diversa da voi, come lo siamo noi. Questo fa di lei una dea, o uno spirito, o qualsiasi cosa e termine tu voglia usare per indicarla. Sicuro, &egrave stata adorata, venerata, e temuta.”

“E ora fa la PR per un locale??” sbottò a urlare Marco, alzandosi in piedi.
“Ma quante puttanate state dicendo??”

“… Ci si annoia, sai?” sussurrò Estia, passandosi una mano sul collo finalmente completo di capo.
“Con il tempo, avete dato altri nomi, altre spiegazioni, avete immaginato e creato altro, e vi siete anche dimenticati di noi.” Le parole di Estia furono calme e pacate, ma dense di tristezza e profondità. “… Così, siamo continuate ad esistere perché esistono ancora i sentimenti e le passioni che ci hanno formato, ma non siamo più vincolate ad esse.”

“… Mettiamola così.” disse Marco sedendosi sulla cassa. “… Voi e Morgana siete delle ‘qualcosa’ che &egrave incarnazione, per così dire, di pulsioni, emozioni, sentimenti. E ora siete disoccupate.”
Estia rise di gusto. “Esatto. Siamo disoccupate. Ricordo i tempi in cui le persone sussurravano solo se costrette il nome ‘dullahan’, ricordo il terrore negli occhi di chi mi incontrava al buio di una strada… E tutto quello che potevo fare era assolvere alla mia funzione. Prenderne la vita, perché così ero definita da voi, e così dovevo fare.”

“Ma una volta che la gente si &egrave scordata di cosa siamo” intervenne Dawn “non eravamo vincolate solo a quello che eravamo. Io potevo essere altro, perché tanto, comunque, l’inevitabile accadeva lo stesso. Io ho fatto la telefonista negli anni ’20 in USA. Mi sembra che Estia in quegli anni lavorasse in un bar.”
La mora rise di gusto “Oh sì! Era divertente violare il proibizionismo!”

“Mi fa male la testa…” piagnucolò Marco.
“E’ lo stress… Vuoi che ti aiuti?” sorrise Dawn, passandosi la lingua sulle labbra. Sentiva l’odore di Estia addosso a quel giovane, e si chiedeva perché non potesse averne un po’ anche lei.
“Dawn… Ti pare il caso?” sbottò Estia.
“A me sì, ha il cazzo in tiro!” rise la riccia.
“… Ancora? Dopo una scopata assieme e pure un grandioso pompino?” urlò sorpresa la sorella (?) di Meg.
“Sai come si dice in inglese?” disse sorridendo a Marco la donna, chinandosi in avanti, i ricci penzolanti.
“Il pompino?” piagnucolò lui, alzando lo sguardo.
“Esatto. Si dice ‘Givin head’. Che ne dici?” la chioma riccioluta capitombolò dritta in grembo al ragazzo.
“Vuoi provare qualcosa di davvero strano?” sorrise il capo di Dawn, mordendosi le labbra, ondeggiando un poco tra le gambe dell’informatico. “Mmh… Alec…” una voce femminile miagolava entusiasticamente all’interno della cabina 324 del terzo ponte della grande nave da crociera. Era un viaggio dalla rotta abbasanza classica, un paio di scali in posti molto turistici sulla costa e poi un giretto verso il vasto oceano. Era una vacanza che il bel modello si era deciso a fare per staccare, volente o nolente, da impegni e i ritmi sincopati del suo lavoro. Qualche settimana in quello che era di fatto un piccolo paesello galleggiante, in cui il tempo era scandito da tutto meno che il lavoro, dove potevi chiuderti in camera per una mezza giornata intera e nessuno ti telefonava trenta volte.
Era salito a bordo salutando Asia sentendosi confuso e disorientato come poche volte prima d’ora, ancora più desideroso di rilassarsi e staccare la mente dai mille pensieri che la affollavano, ma nel giro di una mezza giornata di navigazione aveva già attirato l’attenzione su di sé.
Così come Alec, molte persone che stavano concedendosi quella crociera non volevano fare altro che staccare dalla propria vita, riposarsi, e togliersi degli sfizi. Dalla neodivorziata con qualche arretrato di letto alle amichette figlie di papà che l’avrebbero data cominciando dalla prima cabina fino all’ultima, a signore di mezz’età più o meno abbienti che volevano sentirsi giovani… E anche un po’ di maschietti.
Alec non aveva alcun problema con le avances maschili, lavorando nell’ambiente non erano una novità, ma non era decisamente interessato all’argomento.

Ma dopo la prima sera e qualche avances di una trentenne ingolosita dal suo fisico, e una signora che si credeva ancora piacente, il ragazzo aveva cominciato a realizzare che alla fine, tra chi sbarcava e chi saliva, quella vacanza poteva anche godersela sotto altri aspetti.
Aveva passato una buona mezzora, la mattina di quel giorno, a chiaccherare con una ragazzetta appena maggiorenne che faceva bella mostra dei suoi seni rotondi in un bikini striminzito, al bar della piscina della nave.
Daphne, così si chiamava la ragazzetta, secondo lui si era già fatta regalare dal papino con i soldi un bel lavoretto ai seni, troppo rotondi per essere davvero reali, ma ad ogni buon conto, sembrava decisamente interessata al ragazzo. Non si erano scambiati i numeri perché non aveva certo voglia di stare al cellulare anche in vacanza, ma tanto lei -aveva precisato con un occhiolino- stava in piscina tutte le mattine, sempre che non trovasse altro per divertirsi…

E qui aveva cominciato ad avvertire una specie di fastidio alla bocca dello stomaco, che non riusciva a definire. Aveva pensato ad altro, anche al mal di mare, e ci stava ancora un po’ pensando la sera, sul terrazzino di uno dei locali della grande nave. Mirava la costa illuminata, lontano, pensando a come doveva essere strano per gli abitanti del mare veder passare quelle grandi strutture rumorose di motori, persone e musica in mezzo al silenzio della notte.

“Abbiamo qualche pensiero per la testa, carino?” lo apostrofò una donna, appoggiandosi anche lei alla balconata. Alec si girò osservando quella che poteva essere una quarantacinquenne con un lungo abito, dalla pelle abbronzata, occhi e capelli scuri. Lo guardava con un sorrisetto divertito, e Alec era abbastanza scafato da intuire che la conversazione non volesse arrivare a grandi temi filosofici.
“No, guardavo le luci della costa aspettando qualcuno che mi chiedesse cosa facevo.” rispose girandosi e appoggiandosi con la schiena alla balconata.
“Ah, era una trappola?” ridacchiò lei, portandosi una mano dalle unghie curate davanti alla bocca.
Parlarono di totali idiozie per qualche minuto, dopo essersi presentati, prima che la signora Chloe arrivasse alla domanda fatidica: “sei in crociera da solo?”
“Solo. Solo io, nella mia piccola, solitaria cabina…” rispose lui con aria fintamente contrita. Il suo amico nei pantaloni stava già suggerendo le idee per la serata, e Alec era d’accordo. Tanto valeva levarsi qualche sfizio.
“E lei…?”
“Dammi del tu. E io sono la moglie di rappresentanza di un grande possidente d’azienda che &egrave troppo occupato a farsi riunioni, viaggi di lavoro e segretarie per curarsi che io sia su questa nave da tre settimane. Sbarco dopodomani, e faccio le prossime sulla rotta inversa.”
“… Bella vita.” asserì Alec alzando il cocktail.
“Succede, quando hai il conto del proprietario della….” gli sussurrò all’orecchio, non senza sospirare un po’ troppo con le labbra sul suo padiglione.
“Porcaputt… Quella che fa dai medicinali ai frigoriferi?”
“Mh mh, passando dai succhi di frutta alle pappe dei bambini.”
Alec fischiò in segno di ammirazione. “Spero che le linee di produzione non si mescolino.”
“Bibite al medicinale?” rise lei.
“Frigoriferi di frutta.” rispose lui pensieroso.

La signora si portò con studiatissima calma il suo calice alla bocca, continuando a fissare il ragazzo. Bello era bello, atletico era atletico, e se l’esperienza non la ingannava, aveva anche un bel giocattolino tra le gambe…
“Conosco persone che sarebbero felici di un frigorifero di banane.”
“Molte persone sono interessate alle banane, non &egrave vero Chloe?” sussurrò Alec all’orecchio di lei. Non era solo la moglie del grande dirigente ad aver capito bene come volesse andare la serata.
Chloe sorrise, rispondendo piano “stai flirtando con una donna sposata, più grande di te…” e stringendosi un poco a lui. Il ragazzo le prese la mano portandosela sul pacco.
“… La frutta fa bene, non te l’hanno detto?” la donna sentì quello che doveva essere un sesso di ragguardevoli dimensioni, così, premuta la sua mano senza troppi complimenti.
“Vai subito al sodo, Alec?”
“Io sì, lui non &egrave ancora del tutto ‘sodo’, Chloe”. per un attimo lei pensò che fosse la solita battuta di molti uomini, ma lo sguardo che portava in viso il giovane era assolutamente sincero. E lei si sentì più affamata che mai.

Finirono nella cabina di lui nel giro di pochi istanti, trattenendosi dal baciarsi nei corridoi affollati della nave, ma appena chiusa la porta lei sguinzagliò la sua lingua nella su abocca con una voracità assoluta.
Lui venne privato della polo molto in fretta, l’abito di lei cadde a terra in un istante.
“Niente reggiseno? Sei una porca, Chloe” disse prima di baciare un seno ancora sodo e pieno. “Oh sì Alec sono una porca… Dammi della porca…” rantolò lei.
Quante volte si era trovato in quella situazione? Quante signore affamate aveva infilzato con il suo cazzo, quante ragazze, era sempre un brivido che titillava il suo ego e lo eccitava, il potere che il suo aspetto, più che la sua mente, gli dava su quelle persone per delle occasioni fugaci. La mano ingioiellata di Chloe ne stringeva i pettorali e gli addominali con veemenza, strusciava sul suo sesso sempre più duro sotto i pantaloni.
“Liberami il cazzo, Chloe.” disse lui dopo un bacio fugace, e la signora si buttò in ginocchio ad altezza del suo pube, liberandolo presto della cintura e calando i pantaloni. Sotto la stoffa dell’intimo stava ciò che desiderava, e quando calò l’elastico le si parò davanti un sesso dritto, spesso, turgido, perfetto. Ed enorme.
“Uao!!” esclamò lei, quasi intimorita nel toccarlo con la mano. “E’ gigantesco…” sussurrò. Alec lo sapeva, non c’era bisogno che glielo dicesse. Era fortunato per natura ad averlo, e poteva prendersi complimenti simili senza tema che fosse una menzogna per rassicurarlo.
“Meglio stare attenta, no?” ghignò lui. “Oh, devo stare attenta?” rispose Chloe “A cosa?”
“…. A non strozzarti, perché ora me lo succhierai per bene fino alle palle.”

La signora Chloe non doveva essere nuova alla cosa, e anche decisamente interessata a farla per bene, perché senza dire nulla si incollò al cazzo di Alec per una decina di minuti alternando decise succhiate, dolci leccate e un paio di momenti di pura masturbazione.
“Fammi venire.” disse secco il ragazzo. “… Non ci penso neanche…” sorrise lei, prima di passare la punta della lingua ballerina sul frenulo.
“Ho detto di farmi venire! Tranquilla che avrai il tuo cazzo duro ficcato in quella fica colante finché non mi dirai basta.” le impose Alec, portandole una mano sulla nuca e spingendola sul suo sesso.
Chloe si staccò con un rantolo “Secondo te ti dirò basta? Mmmh… Alec…” miagolò, colpita dalla cappella di lui sulla bocca, prima di gettarcisi sopra nuovamente.

Fu animale, passionale e vogliosa, Alec sentì dopo altri minuti che non sapeva quantificare il brivido dell’orgasmo incipiente, e i testicoli contrarsi verso l’alto, eiettando il suo piacere dritto nella gola di Chloe, che ristette ferma cercando di ingoiare, per non tossire tutta quella sostanza bollente.
Alec si lasciò ripulire con dovizia, e poi si levò scarpe e pantaloni, mentre Chloe si puliva la bocca. Il suo sesso si rilassò, perdendo consistenza ma rimanendo egualmente enorme.

“Sono bollente…” piagnucolò Chloe sedendosi sul letto.
“Brucerai, entro domattina, te lo garantisco.” rispose acido Alec, interrompendosi per una suoneria di telefonino. Non era il suo.
“Ops!” sorrise la donna, guardando nella borsa abbandonata a terra chi la chiamasse, prima di rispondere.

“Pronto? Ciao amore…” cinguettò, risiedendosi sul letto. Era il marito, che cornificante o meno, la chiamava per parlarle. Due cornuti, o forse solo uno. Alec pensò che non era certo affare suo, meglio forse un matrimonio dichiaratamente di convenienza tra due adulti consenzienti, che quelle coppie che si tenevano incollate senza sopportarsi rovinando la loro esistenza e quella altrui.
“Oh si, qui &egrave bello ma un po’ noioso, le solite cose…” cantilenò lei, guardandosi nello specchio la bocca lucida del cazzo di Alec, che dietro di lei ondeggiava il suo sesso provocandola.
Lei nello specchio a parete fece cenno di smetterla, e lui le rispose con un medio alzato.
“Vieni dal tuo cazzone…” scandì lentamente a bassissima voce lui, lei capì e sempre fissandolo riflessa aprì le gambe scostandosi le mutandine. Aveva un sesso interamente depilato, tranne una sottilissima strisciolina di pelo scuro. Il sesso di Alec si riconvinse della bontà della serata e tornò erto e pulsante in un secondo.
Il giovane fece il giro del letto, mentre il marito le raccontava della giornata in ufficio, e le diceva che a casa era tutto a posto. Il modello sussurrò “Digli che ti manca.”
Chloe avvampò un poco. “… Meno male… Così quando torno non devo stare dietro alla cameriera… Mi manchi…”
Il sesso di Alec le si fece più vicino alla bocca, indicando di dargli un bacio. Le labbra di Chloe impattarono rapidamente sulla cappella, prima di parlare al marito di qualcosa nel giardino di casa, che non interessava a nesusno dei due, e men che meno ad Alec, che la spinse semplicemente supina sul letto, abbassandosi quel che serviva per poggiarle il sesso bollente sulla vulva.
Chloe sussultò, facendo cenno di no. “Oh, scusami, stavi dicendo caro? Non prende benissimo qui, sai…” si sforzò di essere cordiale scrollando il viso con veemenza. La risposta fu sempre un medio alzato, prima che il corposissimo sesso di lui la infiocinasse, fracidia come era, in un solo doloroso colpo.
“OOOHHHAAAAA!!!” urlò lei, contraendo i muscoli della schiena, nel microfono del telefonino.
Il marito rispose allarmato. “OH CAZZO!!” rantolò ancora lei “… Ho… Aaaannh….” Alec le indicò il mobile accanto al letto, su cui aveva già impattato più volte l’ultimo dito del suo piede. “… SBATTUTO il piede contro uno di quei comodini del letto… Sono messi proprio DENTRO il passaggio per andare in bagno!!” piangnucolò lei a denti stretti. Alec cominciò a muoversi dentro di lei, lentamente, godendosi l’espressione stravolta sul viso della bella signora e i suoi tentativi di conversare con il marito.
“Adesso sto uscendo…” uggiolò lei “Lascio il telefono in cabina, ci sentiamo domattina?” Alec le si fiondò dentro con un colpo deciso “Nnnnnh…. Ssssì, verso, verso le undici…” la mano di Chloe strinse il lenzuolo, spasimando.
“… Sì, sì… Anche io ti amo… Sì…” la chiamata terminò repentinamente prima che il telefono fosse lanciato quasi per terra e Chloe inveisse contro Alec
“Che cazzo fai??” imprecò lei “era mio marito!” lui le si sfilò da dentro, inerpicandosi sul letto. “Baciamelo!” disse fermo “Bacia il cazzo con quella bocca che dice ‘ti amo’ a tuo marito!!”
Chloe aveva un’espressione feroce in viso, ma baciò e spompinò ancora per un minuto quell’uccello formidabile.
“Sei bellissimo…” sussurrò poi, reclinando il viso e attendendo solo che lui la penetrasse di nuovo.

Solo, che Alec identificò pienamente qual’era quella sensazione fastidiosa allo stomaco. “Sei bellissimo” risuonò nella sua testa, scandito però dalle tremebonde labbra di Asia. Lei, la timida, preoccupata biondina, era così differente da Chloe, era… Qualcuno bussò alla porta, facendo sobbalzare tutti e due, riscuotendo il giovane dai suoi pensieri.
Alec andò alla porta aprendola con la catenella tirata.
“Oh… Cia… Ciao Daphne!” balbettò lui, nascondendo la sua nudità dietro la porta.
“Fammi entrare.” disse la ragazzetta con il viso rosso, forse di vergogna.
“Ehi, cio&egrave, dai…” sorrise lui “… Stavo dormendo…”
“Non dire stronzate!!!” urlò lei. No, non era vergogna, e quello dietro le sue spalle non era un urletto gioioso da parte di Chloe.
“Senti Daphne sono in compagnia…” Alec assunse un cipiglio severo. Era più grande di lei ed era la sua cabina, che cazzo voleva.
“So che dentro c’&egrave quella troia di mia madre! Mi metto a urlare in corridoio!!” disse lei con gli occhi lucidi, e sentendosi fermare il cuore, il ragazzo aprì il chiavistello facendola precipitare dentro.

“Sei una grandissima troia!!” urlò la ragazzina alla madre che tentava di ricomporsi seduta sul letto. Ma gli abiti di lui per terra, la sua erezione potente, non potevano certo essere ignorati.
“… Io… Daphne…” balbettò lei
“… Sono venuta a cercarti al bar e mi hanno detto che eri andata via, ho incrociato una delle animatrici che mi ha detto che eri con lui nel corridoio di questo ponte, ho girato per vedere dove eri e ho sentito la tua suoneria!”
Alec lentamente cercava di riappropriarsi almeno delle sue mutande, sperando che nessuno lo interpellasse.
“E tu, stronzo!” lo apostrofò lei, mandando in fumo i suoi desideri.
“Ti scopi mia madre!!”
Alec gesticolò “Ma che cazzo ne sapevo che era tua madre! E neanche che fosse madre! E anche a saperlo? Tipe con figli che divorziano o sono single, ce ne sono!!”
“Ma sapevi che era sposata!!” urlò Daphne paonazza in viso.
“No!! Io…” urlò la madre, zittita immediatamente dalla ragazzetta, i cui seni rotondi sobbalzavano ansiosamente. “Tu stai zitta! Quando conosci qualcuno prima gli dici che sei la moglie di papà, poi ti presenti! Scommetto che ci hai messo dieci secondi a dirgli che sei sposata!!”

Punto a favore della ragazzetta, innegabile, pensò il ragazzo. Il silenzio cadde nella stanza, se di silenzio si può parlare con una nave che romba tutta attorno a te.
“… Avrei dovuto dire di no.” disse piano Alec, fissando il pavimento. “… Ma sono un coglione che sta dietro al suo cazzo più che ad altro.”
Daphne sembrò calmarsi. “… Sì. Sei un vero stronzo, e lei &egrave una vera troia.”
Chloe rimaneva ammutolita seduta sul letto, mentre la figlia si voltava verso di lei.
“Almeno scopa bene, mi pare di aver capito.”
“Eh?”
“Urlavi come una cagna. Beata te.” commentò piano la figlia, guardando il cazzo di Alec sotto la stoffa delle mutande, e poi muovendo un paio di passi, prima di toccarlo.
“Me lo fai vedere per bene?” disse, piano.
Alec avampò. “Cosa?”
“Me lo fai vedere bene?” ripet&egrave lei.
“Senti non mi sembra il cas…” si interruppe a metà frase. Era ridicolo dire a Daphne che non gli sembrava il momento di nascondere la sua nudità dopo che si era scopato sua madre. Le mutande scivolarono lentamente ad altezza ginocchio, mentre Chloe si avvicinava.

“E’ favoloso…” disse piano Daphne, quasi ipnotizzata.
“… Daphne…” uggiolò Chloe.
“Succhialo, stronza.” ribatté la figlia.
“Cosa??”
“Mettiti in ginocchio e succhialo! Adesso voglio vederti all’opera, se devi fare la troia con papà almeno falla per bene!”
Alec non sapeva cosa dire, ma il suo cazzo sussultò decisamente.
“Daphne, ma io…”
La ragazza diede una sberla fortissima alla madre. “Che cazzo vuoi? Metti le corna a papà e ti scopi anche il tipo che mi piaceva, e adesso fai la santa? Non sei capace??”
Si buttò a terra con il viso paonazzo e abbrancò il cazzo in tiro di Alec. Un secondo dopo, cominciava sconclusionatamente un pompino.
Con occhi sbarrati, Alec mirò la madre accosciarsi al fianco della figlia, e sussurrarle “no, più piano Daphne…” prima di passare lei all’azione.

Alec chiuse gli occhi, sentendo la fastidiosa sensazione alla bocca dello stomaco farsi potente, pressante, angosciosa, sempre più man mano che le due si passavano il suo uccello in bocca, si spogliavano, e si concedevano a lui. Si addormentò in mezzo alla madre e alla figlia sentendosi lurido, sporco, inetto e orribile.

Asia si svegliò nel suo letto illuminato dalla luce di un’altra mattina a casa, stiracchiandosi. Decisa a non scendere a fare colazione finché i suoi genitori non fossero usciti per andare a lavoro, preferendo evitare i loro battibecchi mattutini, si mise a leggiucchiare un libro di quelli portati dalla Grande Città, e dopo pochi minuti dopo il telefonino le trillò.
“Pronto? Ciao Alec!!” disse sorridendo raggiante, e arrossendo da sola seduta nel letto.
“… Ciao Asia…” disse la voce di lui, malmostosa. “… Posso parlarti?”
Un quarto d’ora dopo Asia finiva di sentire il resoconto della serata di Alec, che si rendeva conto che dire queste cose a lei era un’ammissione di qualcosa, qualcosa che non riusciva a capire nemmeno lui.
Concluse la storiella, preparandosi ad una raffica di insulti, e sobbalzò anche di più quando dal cellulare arrivò il chiaro suono di risate.

Asia, seduta nel suo letto, aveva le lacrime agli occhi. “Oddio, ma tu ogni due per tre devi finire in una nottata di sesso di gruppo??” rise ancora.
“…”
“… Cosa… Cosa vuoi che ti dica, Alec? Sono due discrete zoccole tutte e due visto il retroscena familiare, ma…” abbassò il tono di voce “… Sono più che sicura che non saranno uscite dalla tua cabina insoddisfatte…”
Alec sorrise.
“Non te la sei presa?”
“Presa per cosa? Non sei mica il mio fidanzato”
“… Io… Niente.” sussurrò lui.
Asia sorrise a sua volta, arrossendo lievemente. UN MATTINO

Il padrone dell’ Ar-Too poggiò il ricevitore del telefono con un sospiro di rassegnazione. Erano diversi giorni, quasi due settimane, che quel ragazzo così promettente non si faceva vedere a lavoro. Aveva giustificato la sua assenza con tanto di certificato medico, aveva rimediato alla sua posizione temporaneamente distribuendo gli incarichi agli altri ragazzi, ma comunque quella situazione non era così agevole.
Aveva provato a telefonargli e davvero la voce del giovane sembrava impastata, come qualcuno che non dorma da giorni. Poverino.
“Speriamo passi presto, che qui &egrave un casino” aveva pensato l’uomo, grattandosi l’abbondante pancia, fissando la sua scrivania.

Il cugino di Asia, nel frattempo, sbuffava sbocconcellando un mezzo panino fatto con quel che gli rimaneva in casa. Non stava proprio seguendo una grandissima dieta, ultimamente, ma non gli importava.
Era una persona a suo modo disperata, che cercava di arrivare a capo di qualcosa che lo ossessionava, privandolo di sonno e riposo.
Aveva sondato più che poteva i social di Asia: aveva trovato il nome che gli interessava, Morgana Danu, ma non poteva vederne il profilo, tenuto privato, e le notizie che aveva dalle persone a cui aveva scritto (altri PR di locali della Grande Città) lo rimandavano sempre al personale che lavorava all’Agarthi, un locale che già conosceva come fama. Per cui, pista ferma.
Aveva banalmente cercato sui motori di ricerca, ma quel che veniva fuori erano siti e libri di leggende folkloristiche del nord europa, irlandesi e inglesi. Era plausibile a quel punto che la Morgana che cercava fosse uno pseudonimo che utilizzava lavorativamente, il che non aiutava di certo.
Abbastanza demoralizzato, aveva cominciato a spulciare per pura curiosità quelle leggende, ma senza troppe risposte.

Poco sonno, il desiderio di qualcosa che inquadrava come risolutivo per la sua crisi, viveva le giornate con un’aria trasognata e un sonno che ormai lo visitava a sprazzi. Nella stanchezza, nella lucida follia della sua ossessione, cominciò a delinearsi un’idea ben precisa, per la quale aveva bisogno di aiuto, ma quello non era un problema, bastava avere il comune denominatore di molti interessi, il denaro.
Aveva un’idea, aveva i mezzi per realizzarla, e così la sensazione di ossessione lo liberò, così, improvvisamente. Si riscosse, si fece una doccia, mangiò decentemente una pastasciutta, e si infilò a letto.

UN POMERIGGIO

Era un altro letto, quello di Asia, che la signora Magda cercava di raggiungere per poggiarvi degli abiti stirati.

La camera di Asia era un discreto regno del disordine, e la signora, nella sua precisione ad ogni dettaglio, si dovette mettere d’impegno non solo per non inciampare in scarpe e vestiti sul pavimento, ma anche per non telefonare alla figlia per una tirata d’orecchie. Così, costretta a guardare in basso, di fianco al letto trovò una piccola pila di due o tre libri, da evitare con attenzione. Quello in cima, che sembrava decisamente vecchio, aveva una copertina blu acceso con la riproduzione di un dipinto medievale, ma fianco giaceva, aperto, un volumetto di più recente stampa “Feast of the Morrighan: A grimoire for the Dark Lady of the Emerald Isle”, accanto ad altri volumi.
Magda soppesò per un istante l’ipotesi che forse la figlia stesse studiando chissà per quale esame universitario, e questo dubbio la fece desistere dal chiamare Asia. Avrebbe sollevato le sue obiezioni con più cautela durante la cena, esami o non esami, quella stanza era un caos unico.

Portandosi dietro tutta la sua puntigliosità, la madre di Asia non avrebbe mai pensato che la presenza di quei libri vicino al letto era correlata alla presenza di altri in uno scatolone nella camera di Asia, dentro nel suo ampio armadio.
Era grossomodo partito tutto da quella telefonata con Alec.
Certo Asia aveva sorriso, arrossendo, perché il ragazzo le provocava un tremore di polsi ben diverso da quello che le suscitava inizialmente per il suo regalissimo uccello, ma anche per altro.

UNA SERA

“Ahahaha! Secondo me sei cotta!” aveva riso al bar Elisa, la sua amica, durante un aperitivo prima di cena. Asia era avvampata, negando decisamente, mentre Elisa si faceva più seria.
“Posso darti un consiglio?” Asia annuì, portandosi il bicchiere alla bocca. La sua amica, pur nelle sue rotondità assortite, nel suo non essere una stanga, aveva una verve decisa e cordiale che le portava parecchio divertimento nella sua vita sentimentale e sessuale. Per quello la biondina aveva confidato a lei che quel bel modello la faceva sentire un po’ strana, a pensarci, ben al di là del sesso.
Elisa si era fatta seria non solo nei modi, ma anche nella voce.
“… Lascia perdere. So che &egrave brutto da dire, ma guardiamo i fatti. Alec &egrave un modello che frequenta delle ficone da paura tipo, sette giorni su sette. Quando &egrave venuto al bar con noi, non lo nascondo, ce lo saremmo mangiate vive, hai visto Sara o Laura…”
“Quale Laura?”
“Tutte e due. Sara e Laure. Spolpato vivo fino all’osso. E anche io e tu faremmo lo stesso, lo sai benissimo. Ora mi dici che in vacanza si &egrave appena fatto il salto della triglia, ‘prima la madre, e poi la figlia’! Ti conosco da un po’ di anni, Asia…”
Elisa bevve a sua volta, prima di continuare.
“… Io capisco che ti piaccia, ma ricordo anche quante menate ti facevi prima di parlare al tuo ex al Liceo, e come già eri ossessionata dal fatto che piacesse ad altre. Hai presente TU con Alec? Uno che sta circondato di fighe paurose che se lo sbatterebbro senza problemi, e che non &egrave che sappia controllare del tutto l’uccello? Secondo me impazziresti.”

Asia reputava molto sensate queste parole, ma non pot&egrave che viverle come un macigno che le arrivava dritto in testa. Elisa, nella sua schiettezza, le aveva sbattuto in faccia il succo dei suoi timori: lei non era abbastanza.
“Ma ad Alec non sembro dispiacere tanto anche se sono l’opposto delle stanghe con cui esce di solito…” piagnucolò Asia, memore della giornata in albergo con lui.
Elisa sbuffò nel bicchiere “Sì, però poi dopo uno o due giri di orologio ficcava il cazzo in una mammina in calore e nella sua figlia. Stanghe o meno, non ha molti freni.”
“… Mi sa che hai ragione…”
“Fa schifo da dire, ma sì. Non te lo dico perché te lo voglio rubare e me lo voglio scopare io, te lo dico perché mi pare che potrei scoparmelo anche se ce l’avessi tu.
“Lo faresti??” sobbalzò Asia.
“No, non sono così troia, ma era un modo di dire.” rise Elisa. “Sei mia amica, Asia, non &egrave che mi diverta a deludere le tue aspettative… E’ solo che lui &egrave un tipo di persona, e tu sei in una certa maniera… Non puoi essere niente di diverso da quello che sei.”

E così Asia era tornata a casa, aveva cenato di malumore, ed era andata a dormire presto. Si era spogliata davanti allo specchio come un anno prima, rimirando la sua snella figura.
Se mesi e mesi prima aveva pensato a come fosse diversa da Morgana, appena conosciuta, ora focalizzava la cosa con una certa rassegnazione. Aveva visto cosa era Morgana, e cosa potevano essere altre donne. Era davvero un altro mondo, e anche se lei l’aveva sfiorato, toccato (nel vero senso della parola), non vi apparteneva.
Gli occhi azzurri chiaro si bagnarono di lacrime, mentre la sua insicurezza vinceva a mani basse contro il suo piccolo ego.
Non avrebbe mai saputo rivaleggiare con quel mondo.
Morgana era fuori tiro completamente, ma era quasi un’alleata, ma tutte le altre?
Come poteva lei non far preferire una Stella, una Zoe, o persino una Elisa?
Non poteva, per come era lei.
Pianse per un po’, silenziosamente, rotolandosi nelle lenzuola e afferrando uno dei libri di Meg, per distrarsi e perdersi tra leggende senza senso. E con gli occhi velati dal pianto, scorrendo le parole di antiche storie, venne anche a lei un’idea…

Si potrebbe dire che fu un’estate favolosa ed entusiasmante per Asia, ricca di avventure e novità, ma in realtà sarebbe una menzogna.
La biondina si rilassava giusto per un mesetto e mezzo, poiché tra la fine delle lezioni universitarie e l’inizio di alcuni appelli non trascorreva tutto il tempo che avrebbe voluto. Si era concessa una settimana di mare a casa di una delle sue amiche, in cui si era lievemente abbronzata, ma per il resto le sue vacanze erano composte di dormire, letture degli strani libri di Morgana, uscire qualche sera con le sue amiche, e nuovamente leggere quei libri, in un misto di aspettativa, timore, ansia, voglia di scoperta…
Era questo turbinare di sentimenti, di pensieri ed elucubrazioni, che rimaneva la suprema imprevedibilità delle persone, era quello che Estia non poteva capire, alla pari delle intenzioni di Morgana.

E fu così l’ora del rientro a casa, nella Grande Città, evento che Asia attendeva con un misto di attesa e timore. Sicuramente non vedeva l’ora di tornare ad avere un’indipendenza che non aveva e poteva avere in casa con i suoi genitori, anche se erano fuori tutto il giorno per lavoro. Contemporaneamente visti gli eventi dell’anno accademico precedente, si aspettava un po’ di tutto.
E ancora, quel che stava leggendo e studiando la riempiva di una sorta di ulteriore aspettativa. A questo si aggiungevano le pressanti proposte di Lila e di alcuni suoi compagni di Università di dove trascorrere il ponte di Ognissanti.
L’Agarthi, un ingresso in quel locale così famoso, era sempre un’ipotesi, ma Asia temeva, quasi, di rimetterci piede. C’era qualche proposta interessante nel piccolo gruppo di amici, ma…

“Senti Lila, per me va bene in base al budget che volete. Un locale, un viaggetto, non riesco a starci dietro… Voglio evitare di spendere cifre assurde!” scrisse velocemente mentre era in auto con i suoi, dopo un finesettimana in cui salutò genitori e nonni, diretta con la sua immensa valigia sul treno che l’avrebbe portata nella Grande Città.
“Va bene, ma penso che l’idea proposta da Georgia sia la migliore”.
Georgia era una delle cameriere dell’Agarthi, con cui alla fine il suo compagno di Università Andrea era riuscito a uscire una volta sì e no, e che ovviamente lui cercava di invitare a pi&egrave sospinto ad ogni uscita con i suoi compagni.
“Se non costa troppo, per me va bene.” digitò veloce la bionda, mentre l’auto si fermava davanti la stazione della Città di Confine.

“Vedi di non fare sciocchezze!” l’apostrofò la madre, come sempre impettita e fiera.
“Come? Se non le fa adesso quando le fa? Vedi solo di non farne TROPPE!” le urlò il padre, solo per il piacere di contraddire la moglie e far ridere la figlia, che con un sorriso in volto si sedette al suo posto sperando che la valigia non cadesse spappolando qualcuno seduto sotto visto il peso, e cominciò a osservare la città farsi periferia, la periferia campagna, e costeggiare per un po’ il mare luccicante che vedeva di solito da camera sua. Nascite

Il mare.
Era stato il mare, freddo, impetuoso, che per primo l’aveva vista così come ora la conoscevano tutti.
Era un mare in tempesta, rosso di sangue in cui si agitavano pezzi di legno, cuoio, e carne.
Era una notte terribile, era la notte che aveva visto un popolo fuggire dinanzi a qualcosa di troppo potente e forte per loro, era stata la fine dei Figli di Nemed.
Essi vivevano sulle verdi terre d’Irlanda da innumerevole tempo, quasi dimentichi dei pericoli che potevano portare il mare e il vento, e un giorno quel pericolo era arrivato, sulle navi fomoriane, così tante e così ricolme di guerrieri che nessuna conoscenza dei figli di Nemed era riuscita a fermarli, né la diplomazia né il clamore delle armi. Erano stati letteralmente cacciati, spazzati via, dalla marea di genti che come formiche correva per tutta l’isola, fino a riparare sulla costa, cercando di fuggire, di scampare al loro destino. Ma questo voleva anche dire non avere via di fuga facile e veloce, e fu così che sulle coste della contea di Mayo si svolse la seconda battaglia di Maige Tuired.
Mentre uomini su uomini perdevano la vita, il popolo dei figli di Nemed cominciò a pregare incessantemente un aiuto, di qualsiasi natura, chiedendo consiglio e speranza.

Ma ogni preghiera necessita di un destinatario, e il popolo di Nemed cominciò a pregare quella che era sempre stata per loro la responsabile di ogni versamento di sangue, di ogni battaglia.
Ma mai, mai, l’avevano fatto con una tale intensità.
La chiedevano, la pretendevano, la necessitavano lì, con una veemenza tale che quel che prima non era che un’idea, un sentire, cominciò a divenire fisico, tangibile, fatto della carne dei morti che rotolavano sulla risacca, del sangue che avevano versato, delle passioni che li tormentavano, terribile come la disperazione, bellissima come la vita a cui si aggrappavano in quel momento, potente come necessitavano.
Pregavano le donne fuggendo e combattendo, invocavano i guerrieri cercando di riparare il popolo sulle grosse navi, imploravano i bambini, con una forza ancora maggiore perché loro, sì, ci credevano veramente a quelle leggende e ai miti che gli adulti raccontavano loro.

Fu appunto una bambina, rannicchiata con altri coetanei dentro un buco di una roccia sulla costa, con i piedi zuppi dell’acqua di mare in tempesta, il volto solcato dalle lacrime, che tirando su con il naso smise di pregare per la salvezza, osservando la risacca rossa piena di carne e detriti, vide qualcosa che non sembrava galleggiare disordinatamente, ma muoversi con una direzione precisa.
Spalancò gli occhietti temendo un nuovo pericolo, e quasi urlò quando, accompagnata da un’ultima onda violenta sulla spiaggia, cadde in avanti una figura umana, afferrando con le lunghe dita i sassolini, cercando una presa, trascinandosi fuori pesantemente, battuta dalle onde e dal vento.
Compì pochi metri arrancando con movimenti trascinati, disordinati, come se non fosse usa ed abituata a potersi muovere, ma ad ogni spostamento diventava più sicura, fino a che, con un respiro pesante, si tirò in piedi barcollando.
Era una donna, totalmente nuda, mortalmente pallida, e la bambina pensò fosse una dei sopravvissuti ad un naufragio, anche se sembrava non recare alcun segno di traumi o ferite.
La schiena nuda si raddrizzò, mentre la donna estendeva come se fosse la prima volta le braccia nell’aria.
Un conato la portò immediatamente a ripiegarsi, sputando acqua rossastra dalla bocca carnosa, facendola ansimare con dei rantoli, ma subito si rialzò, guardandosi attorno.
Era decisamente una donna, dai capelli neri e lo sguardo lucido, era di una bellezza quasi fastidiosa nel suo insieme, e la bambina rabbrividì istintivamente, capendo perfettamente che quel che lei e tutto il suo popolo avevano pregato, era giunto, nella sua forma più pura.
La figura, sentendo l’odore del fumo e del sangue, capì immediatamente cosa dovesse fare.

“Danu!” le urlò la piccola, inciampando nei sassi mentre correva fuori dal suo rifugio. La donna la guardò con uno sguardo misto tra curiosità, sorpresa e ira, prima di chinarsi verso di lei, squadrandola in maniera terrificante.
La piccola rimase ferma immobile come quando, le avevano insegnato, si ha a che fare con un cinghiale e i suoi piccoli, o un toro, o qualsiasi animale potenzialmente pericoloso, mentre la donna la fissava come per mandarla a memoria, e allungando lentamente una mano, ne sfiorava la pelle, il profilo, i capelli biondicci.
Le labbra della donna si accostarono a quelle della bambina, e piano, con una voce mai usata, le sussurrarono poche parole, prima che la figura si alzasse, e con un movimento rapido scattasse dove il rumore della battaglia si faceva più intenso.

A poco o nulla poteva a quel punto servire il suo intervento.
Non era dotata di così grande capacità, lo capì immediatamente dalla sommità di una piccola collina. Poté solo chiamare a sé tutte le forze che aveva in quel momento, allertando i capi banda di riparare verso le navi, di soccorrere i bambini su quella spiaggia, evitando lo scontro, evitando il contatto.
Era tutto nuovo e confuso, sentiva l’urgenza di proteggere quelle persone che, chissà come, sapeva distinguere dai loro nemici. E la cosa le riuscì, scivolando nel fango, riparando dietro un carro rovesciato, urlando per nome (come poteva saperli?) a qualche guerriero cosa fare.
Riuscì ad afferrare le redini di una ritirata disordinata, senza trovarsi nel mezzo del pericolo per diverso tempo, prima di veder cadere dinanzi a sé un grosso guerriero, e di fissare lo sguardo in un uomo coperto di sangue che urlava.
Per un secondo, la mente del guerriero trovò molto strano che una donna, nuda e bellissima, girasse per un campo di battaglia, ma il secondo successivo il pensiero fu che non poteva fare parte dei suoi, e quindi poteva ucciderla. O violentarla. Al terzo secondo le due opzioni divennero, in ordine inverso, due sequenzialità, e si gettò contro la giovane.

Danu (questo pareva essere il suo nome…) non ebbe alcun problema ad evitare l’uomo e le sue mani per due, tre, quattro volte. Era rapida, era scattante, era fresca e riposata, ed era terribilmente fastidiosa per l’uomo, che scartò l’ipotesi di soddisfare la sua sete di sesso e seguire quella di sangue.
Fu con rapidità che la spada menò un fendente con un rumore sibilante. E fu con la stessa rapidità che cadde a terra assieme all’uomo, esanime.
La donna, nuda, rossa di sangue, rimase interdetta per un secondo, fissando quello che le pareva si chiamasse “braccio” tinto di rosso scuro. Il primo pensiero, fu la sensazione di aver corrisposto al ruolo che la vedeva esistere. Il secondo, fu che il colore le piaceva moltissimo. Il terzo, fu di sentirne il sapore. E non fu solo il colore a piacerle. Con un sorriso, scattò via di nuovo per salvare coloro che l’avevano creata, pensata ed evocata fino a renderla viva, e nel frattempo, continuando a danzare nel caos, sempre più rossa di sangue.

La storia, se così si può definire, racconta con precisione gli accadimenti successivi. Di come i figli di Nemed ripararono sulle navi fuggendo dalla loro terra invasa dai Fomori, di come, grati alla dea Danu, decisero di assumersene il nome, Tuatha Dé Danann, “I popoli della dea Danu”.
In esilio, essi divennero esperti nelle arti magiche, non si sa quanto, e se, aiutati dalla loro dea. E la storia racconta anche di come dopo tempo e generazioni da esiliati, fossero tornati a reclamare la loro terra dai Fomori. Con i quali strinsero anche alcuni legami di sangue, e con i quali divennero un solo popolo, fino all’arrivo dei Gaeli, i quali, ancora più combattivi, presero possesso dell’Irlanda aggirando le difese magiche del popolo di Danu.
E così, i Tuatha Dé Danann riconobbero la superiorità dei Gaeli, lasciarono l’isola recandosi nel sottosuolo, o in qualche luogo magico, divenendo a loro volta soprannaturali, e magici, e pregati da chi li aveva sconfitti.
Così come Danu, che si trovò ad essere chiamata anche M’rr’gan.

“… E devo ricordare tutto questo a memoria, mamma?” chiese, seduta nella sua piccola alcova, una bambina bionda.
“Sì, Halva, dovrai ricordare tutto questo, perché un giorno potrebbe venirti chiesto.” rispose, altera come sempre, la regina Medb, ravvivando il braciere della stanza.
“… E quel giorno sarà meglio che tu non abbia a che discutere con Lei!” aggiunse con tono severo, ma un sorriso sulle labbra.

Convergenze

Marco non avrebbe pensato, mai, di essere quella persona che intravvedeva nel grosso specchio a parete. Non avrebbe pensato mai di essere a letto a fare sesso, mai con due donne, mai con quelle donne.
La castana chioma riccioluta di Dawn ondeggiava ritmicamente sul suo inguine, accompagnata da dei rumori liquidi e veementi, e il calore della sua bocca lo pervadeva a ondate, lo faceva rabbrividire quando sentiva i movimenti della sua lingua.
“Dillo che sei un uomo fortunato” sussurrò Estia al suo orecchio, appena uscita dal bagno, adagiandosi lentamente sul letto accando a lui.
Marco non rispose, sospirando, ma allungò una mano per portarsela al volto e baciarla. Estia acconsentì con un certo distacco, prima di scivolare agilmente su di lui e ridacchiare con Dawn a proposito dei suoi diritti di partecipare alla fellatio.
Marco si trovò così, non per la prima volta, il sedere e la vulva di Estia quasi dritti in faccia, e come sovrappensiero si mise a sfiorarli con un dito. La fanciulla gradì immediatamente, inclinando il bacino per agevolare l’operazione, con un sospiro e un sorriso in volto, mentre Dawn le porgeva il sesso turgido dell’uomo. Immediatamente il calore, l’umidità percepita dal suo membro cambiarono, per poi tornare quelli di prima, per poi mescolarsi.
Marco fissava la vulva eccitata di Estia, godendo della sua bocca e di quella di Dawn, si perdeva nelle linee d’ombra e di luce di un sesso definito e carnoso, percorrendolo con le dita, prima che la mora scivolasse via.
Estia si mise a cavalcioni del suo membro e innalzando il busto e la schiena si mise a danzare, persa nella sua ricerca di piacere.

“Ehi! E io adesso cosa faccio??” scoppiò in una divertita protesta la proprietaria (?) dell’Agarthi, mettendosi in ginocchio davanti alla ragazza e punzecchiandola con un dito. La risposta di Estia fu fulminea, la abbrancò per la nuca e le diede un lungo, interminabile bacio. Marco non pot&egrave che apprezzare la cosa, che sommandosi al lungo pompino precedente, e a tutto il tempo a letto con quelle due, venne con un rantolo.
“Oh dai cazzo, Marco, così non mi diverto!!” sibilò la sorella di Meg girandosi in una spazzata di lunghi capelli neri.
“Ma stai zitta…” piagnucolò lui, sballato dal piacere “… Dawn, dice che non si sta divertendo!”
La riccia rise di gusto: dopo tutto quello che avevano fatto? Dopo tutto il suo impegno? Menzogne!
Estia si alzò sulle ginocchia, rilasciando il pene ancora turgido dell’informatico, e un’abbondante quantità di umori assortiti, con un rumore liquido quasi rivoltante, sedendosi a gambe incrociate sulle lenzuola stropicciate e sporche di numerosi orgasmi. Come sovrappensiero, si carezzò un po’ il sesso, mentre Dawn solleticava con due passate di lingua il sesso di Marco, sperando di portarlo di nuovo a un’erezione, ma vista l’incapacità fisica del ragazzo, scivolò sul sesso di Estia, molto più ben disposto a divertirsi nuovamente.

Il ragazzo si alzò con fatica, percorrendo un poco il tragitto verso il bagno, guardando le due partner aggrovigliarsi in un sessantanove appassionato, ognuna diretta al piacere dell’altra. Senza pensarci, afferrò il telefonino su un mobiletto e andò a orinare.
Fu un gesto istintivo, digitare quelle parole sapendo, come da mesi ormai, che non sarebbero arrivate a chi di dovere. “Mi manchi…” scrisse, seduto sul water, alla sua padrona di casa e confuso e tormentato amore.

Se il telefono cellulare di Morgana fosse mai stato ancora intero abbastanza da usufruire di qualche servizio per cui era stato progettato, avrebbe tremato, o suonato, segnalando alla proprietaria il malessere del suo coinquilino. Ma quello che era stato un dispositivo di indubbio ingegno tecnologico era una crocchiante, quasi artistica, massa lucida in un piccolo sacchetto di stoffa, in una borsa di cuoio a tracolla, che penzolava al fianco di un sedere sodo e intrigante, in mezzo alla folla, sotto antichi edifici.
I movimenti affaticati, pesanti, di ingranaggi creati secoli prima, fecero scoccare un’ora tarda, facendo tremare la grossa torre nel risuonare i rintocchi in un’aria fredda, umida, che giocava con i vapori delle cucine di qualche ristorante o banchetto, i fiati delle persone che affollavano le strade contorte, tra turisti, locali, risate e chiasso generico tipico di ogni città molto frequentata.
Lei rra lontana dalla Grande Città, era lontana dalla Città di Confine, ma conosceva molto bene quelle strade, in cui si aggirava ignorando sguardi interessati e provocazioni.
Si lasciò scappare un sorrisetto, fermandosi contro un muro a guardare la piazza affollata.
Non era certo dotata di capacità tali per cui sapesse con certezza cosa sarebbe accaduto, solo aveva una certa prontezza di pensiero, e un’innegabile esperienza. Qualcosa le diceva che quel posto era quello giusto, così come il momento. Doveva solo aspettare che un paio di cose continuassero a muoversi in una precisa direzione (con i suoi pro e i suoi contro) che dopo mesi finalmente le sembrava chiara.

Tutto convergeva lì, in quel luogo, a suo modo aveva senso, e lì avrebbe atteso, perché non poteva fare altrimenti. Incrociando gli sguardi di un gruppo di ragazzi abbastanza carburati ad alcool soppesò l’idea, tanto che le toccava attendere qualche tempo, di divertirsi un po’. Era una nottata dall’aria pungente, nell’Ottobre della Città Magica, quella in cui i rintocchi dell’antico orologio andavano scemando. Puntò lo sguardo verso il più atletico di loro, inarcando impercettibilmente le sopracciglia, piegando le labbra polpose in un sorrisetto ammiccante.

La cosa migliore di Asia era che, in certi momenti di tensione, sapeva mascherare molto bene il suo disagio. Il ragazzo accanto a lei sudava copiosamente, un paio di posti più dietro una biondiccia tinta quasi singhiozzava. E invece Asia, fissando il foglio delle domande del suo esame, era una sintesi di posa composta, sguardo di ghiaccio, mano ferma.
La cosa peggiore di Asia in questi momenti, &egrave che tutto quel che le si agitava dentro non poteva sfogare nemmeno un po’, come una pentola a pressione con qualche problema.

Se dovessimo figurarci quel che passava in testa alla signorina Asia Altea, potremmo immaginarlo letteralmente con degli altri personaggi di questa storia già abbastanza complessa.

“Basta, queste domande non sono affrontabili!” disse RinunciatAsia, la vocina interiore della bionda poco propensa all’osare il nuovo.
“No! Mai! Abbiamo studiato per questo test di inizio corso, quindi le cose le sappiamo!” rispose la voce risoluta di AlteRa, un’altra vocina dal carattere opposto.
La biondina sbuffò, lasciando andare un po’ di tensione. Non le piacevano i test di inizio corso, anche se erano solo una prova statistica dei docenti per capire il livello degli alunni, erano comunque stressanti, anche perché non essendo anonimi, ogni sciocchezza scritta lì dentro avrebbe marcato l’autore per tutto il corso.
“Scrivi quel che ti viene in mente, non prenderai il massimo dei punti ma racimoli qualcosa, andiamo a bere con Lila un aperitivo e vaffanculo a tutto!!” esclamò EdonAsia.

“Basta!” pensò Asia, tutta sé stessa. Compilò le domande restanti con quello che le veniva in mente, una la lasciò vuota, e l’altra rispose con quel che le sembrava giusto. Consegnò, appagando tutte e tre le sue anime, e uscì trovando Lila fuori dall’edificio che fumava una sigaretta.
“Aperitivo da sole?” sorrise la bionda dopo averla abbracciata.
“A quanto pare… Se non hai nella borsa il tuo coinquilino informatico che mi pianta in asso o quella sventola della tua padrona di casa…”

“No, la mia padrona di casa &egrave via da mesi, e Marco credo sia ancora in ferie.”
“Che culo.”
“Puoi dirlo forte.”

Le due ragazze uscirono dal campus, dirette verso un bar che non faceva storie se qualcuno rimaneva al tavolo senza ordinare per un po’ di tempo. Asia venne urtata da un tizio che entrava dopo di loro nel locale, che poi si sedette qualche tavolo distante a loro ordinando una birra alla spina.
“Se hai tanta fretta bastava chiedere, cazzo!!” lo apostrofò Asia, arrossendo per l’espressione shockata di Lila. “Non ti avevo mai vista incazzarti così per niente!”
“Scusami… E’ un periodo un po’ così. Parlami dei tuoi astrusi piani per il ponte e Halloween…”
Lila, cominciando a sciorinare idee e piani, ordinò un cocktail leggero ad un cameriere che non capì molto, mentre Asia si lasciava trasportare via dalle sue preoccupazioni dalla fitta parlantina…

Qualche ora dopo, Marco rientrava a casa con un mazzo di bollette e lettere, sbuffando all’indirizzo della postina che sembrava essere capace solo maltrattare le missive. Pure un piccolo pacco, un tubo di cartone per Asia, tenuto dalla portinaia, sembrava aver avuto la sua razione di disavventure.
Posando bollette sul bancone della cucina, e il pacco di Asia sul mobiletto all’ingresso, una missiva destinata a lui colse la sua attenzione, era una busta con diversi timbri, e conteneva un foglietto ripiegato e diversi altri fogli
“Per Marco” recitava, vergato in una calligrafia antiquata e precisa, un solitario messaggio a lettere rosso scuro.
Accompagnati dal biglietto, si trovava un biglietto aereo e una prenotazione per diverse notti in un albergo.
L’informatico rimase a fissare per un po’, inebetito, quel mazzo di cose. Si vergognò di sé stesso nel sentire il desiderio di poter toccare la mano che aveva tracciato quelle lettere, e anche di ricordarla nella loro ultima notte assieme, impegnata a solleticare le sue parti intime con movimenti esperti e lenti, ma il rossore svanì presto, soverchiato dalla voglia di darsi piacere. Corse in bagno, si sedette sul water, e lasciò che la sua fantasia corresse come la sua mano su un membro ancora memore della nottata con la sorella di Morgana, ma non di certo meno propenso a divertirsi.

… Cosa sapeva fare quella mano… E quella bocca… Il primo pensiero che ricordava di aver avuto vedendo Morgana era stato quello di baciare quelle labbra. Istintivamente, era una cosa da fare. Ma era ovvio, la sua padrona di casa era uno schianto, come non notarlo?
E quando finalmente l’aveva baciata, non era niente di paragonabile alle sue fantasie… Quella lingua in bocca, era così calda, e… Santo cielo, la ricordava perfettamente ancora turbinargli sul sesso, passarla lentamente come su un gustoso dessert…
Gli mancava, gli mancava perché a ingoiare il suo pene era Lei, lo aveva capito ancora di più con Estia e Dawn, erano magnifiche e sfrenate, ma Lei era qualcosa di totalmente inarrivabile…
Sorrise pensando che l’avrebbe rivista presto, ma una stilla di lacrima luccicò sul suo occhio.
“Cazzo se mi manchi…” mugolò ad un volume udibilissimo, prima di sentire un cigolio della porta.

“OH CAZZO!!” esclamò la voce di Asia, facendolo scattare in piedi per lo spavento.
“Asia!!!” urlò Marco, paonazzo, cercando di mettere il pene in tiro nei boxer. La bionda con una mano davanti al viso stava praticamente prendendo fuoco, mugolando “scusa scusa scusa scusa…”, la borsa, caduta a terra, da cui rotolava via il piccolo tubo di cartone appena preso all’ingresso.
Il ragazzo ristette vedendo l’occhio azzurro chiaro di lei spiare tra le dita. “Io… Non c’era la porta chiusa e ho visto la luce, pensavo l’avessi dimenticata accesa io, non sapevo fossi tornato…”
Il sesso di lui non se ne vedeva a male, anzi pulsava ancora di più. Era la stanchezza, forse lo sballo mentale di quel che stava facendo, ma Asia gli sembrò davvero carina con quella sfumatura di abbronzatura sulla pelle,
“… E’… E’ normale, insomma il tuo ‘momento’… Adesso scusa, raccolgo la borsa e quel coso e…” pigolò Asia, chinandosi a raccogliere un astuccio scivolato fuori e la borsa, e sbilanciandosi avanti per prendere il tubo di cartone senza guardare nella direzione di Marco, scivolare maldestramente a terra.
Il coinquilino fece istintivamente per afferrarla, e così finì a portarle il sesso turgido a una spanna dal viso rosso di vergogna, un po’ del freddo fuori, e di un aperitivo carico.

“… Ti manca?” sussurrò Asia, fissando il membro davanti a lei. Marco non rispose, ma la ragazza capì benissimo.
Fu con una naturalezza che mai si sarebbe aspettata di avere, che chinò avanti il viso, e cominciò lentamente a dare dei baci a quell’organo in erezione. La piccola lingua agile della bionda saettò un paio di volte sul frenulo, facendo prima rabbrividire, e poi sussultare Marco, che lasciò le sue spalle quasi istantaneamente per ritrarsi, inseguito da Asia.
“Posso… Posso farti stare meglio?” disse lei, con un sorriso quasi innocente, non fosse che era portato da delle labbra appena poggiate su un pene.
“Ti prego, Asia, non… Non &egrave il caso.” sospirò lui, facendo per rivestirsi. Asia non la prese bene, per niente. Si arrossò ancora di più in viso, afferrando il piccolo tubo di cartone che ancora giaceva per terra.

“Non &egrave il caso?? Ah, certo! Se Morgana o Lila ti succhiano il cazzo va alla grande, se lo faccio io ‘non &egrave il caso’!!!” urlò, alzandosi in piedi. “Che problemi avete tutti? Vi scopate anche la prima troia alle ultime botte ormonali che incrociate, e poi non &egrave il caso??”
“… La prima che con le ultime cosa??” domandò incredulo il ragazzo.
“La prima troia a caso! Ma io no, io non sono mai degna neanche di fare un pompino per pietà!”
Marco si inalberò “Pietà?? Senti un po’, guarda che io la pietà da te non la voglio mica!”
La bionda sbuffò alzando le spalle. “Allora una crema per avere le mani morbide?”
“Guarda che questo cazzo non se la gode per ‘pietà’! Se lo succhiavano in due pure Estia e Dawn!”

Asia aprì la bocca un paio di volte senza emettere suono, stupita dalle parole del coinquilino.
“Io… Io… Allora vedi che vi scopate chiunque tranne me???” scoppiò a urlare, per correre in camera. Marco non lo sapeva, ma aveva solo dato un altro colpo di martello al fragilissimo ego di Asia, che cercava solo di costruire un’idea accettabile di sé.
La biondina passò la mezzora seguente a piangere chiusa a chiave in camera. Alec scopava anche le mammine troie con pure le figlie, Marco scopava Estia e Dawn, Lila apriva le cosce a un vicino di casa (aveva “confidato”, non potendo trattenersi dal dirglielo, all’aperitivo)… Pure il suo cane a casa probabilmente aveva più successo e considerazione tra gli altri, di quanta ne avesse lei…

Quasi ad un ora da dopocena, Asia uscì dalla sua camera per imbattersi in Marco sul divano.
“Mi dispiace…” singhiozzò lei. “… E’ che tutti sembrate avere una vita favolosa, e invece io…”
“… Eri molto tenera. Estia e Dawn sono due assatanate.”
“… Eh?”
“Non voglio che tu faccia certe cose perché sono tuo amico, e non mi sembra il caso. Ma sei una ragazza carina e tenera. Questo va bene, Asia. Io ti apprezzo, Morgana ti apprezza, e sicuramente molte altre persone. Finiamola qui. Come va a lezione?”
Asia sorrise.

Quante combinazioni di eventi esistono, partendo da un singolo evento? Sono infinite, o sono di grandezza di numeri che forse non hanno neanche un nome, o ne hanno di estremamente buffi.
Un mare, infinito, di casualità, decisioni, influenze reciproche.

Estia pensava a questi grandi temi, fissando il tombino in cui erano appena cadute le sue chiavi di casa. Avrebbe dovuto farne una copia. Il suo ferramenta forse avrebbe finito gli anellini di metallo, avrebbe dovuto ordinarne di nuovi, il giovane magazziniere della ditta, nell’elaborare l’ordine, avrebbe messo male un piede sulla scaletta, finendo a fare un mese di malattia con la gamba ingessata, ma avrebbe incontrato una bella fisioterapista con cui passare tutta la vita assieme.
L’effetto farfalla, o l’evento cazzata, poteva avere conseguenze e influenze imprevedibili. Si poteva riuscire ad orientarsi in questo oceano di eventi con qualche capacità particolare, o una lunga esperienza.
Ad Estia non mancavano ambedue le cose, ma non aveva saputo strillare di sorpresa, e quindi far cadere le chiavi nel tombino, quando aveva aperto appena uscita dal palazzo l’invito di Morgana ad andare nella Città Magica a fine Ottobre.
Il primo e unico segnale da mesi di totale assenza di Lei, eccitò Estia in maniera inusitata, tanto che pure il rimorso di aver perso un simpatico portachiavi la abbandonò in fretta. La Città Magica, a fine Ottobre…

“Fatemi capire”, sbottò Asia. “Ne abbiamo parlato ieri io e Lila, ma alla fine le due alternative per Halloween che abbiamo, praticamente a metà mese, sono quelle di andare all’Agarthi sperando di avere ingressi gratuiti come l’anno scorso (Georgia, a fianco a lei, rise di naso all’ipotesi di riuscirci senza l’opera di qualcuno della proprietà del locale) , oppure un weekend in centro alla Città Magica?”
Lila fece sì con la testa. “Esatto. Nessuno riesce a organizzare niente, e tutto quello che abbiamo trovato &egrave questo.”
Asia sbuffò. Sbuffò non perché non le andasse di andare in quel luogo, ma perché quello che stava pensando di fare ad Halloween pensava di farlo a casa, e questo spostamento poneva qualche problema.
“Dai biondina, sarà divertente, quel posto &egrave tutto pieno di quella roba magica che tiravano in mezzo all’Agarthi l’altra volta, ti piacerà di sicuro! Magari trovi anche la tua amichetta di casa…”
Asia fece una linguaccia ad Andrea, il suo compagno di corso che si vantava di aver pensato a quel weekend, ma in realtà era imbeccato da Georgia, una delle cameriere dell’Agarthi…

“Morgana? Ah! Ti piacerebbe, pervertito!” il ragazzo non negò l’ipotesi, mentre Asia rifletteva velocemente.
Era un cambio di programma, ma pur vero che alla fine forse la cosa sarebbe tornata ancora più a suo vantaggio per quel che le frullava in mente! E va bene. Che non si dicesse che la biondina non sapeva adattarsi ai cambiamenti!

Asia alzò le mani in segno di resa. “D’accordo, andiamo lì, però ragazzi, non stiamo a fare il gregge per cui si deve uscire tutti assieme negli stessi posti e alla stessa ora, se andiamo in gruppo non siamo una gita di famiglia.”
“Perché, vuoi dormire fino alle dieci e andare a letto alle ventuno in punto come una bambina?”
“Fottiti, Andre… Sto solo dicendo che tu in tre giorni lì non entrerai mai in un museo, e io invece sì. Succede alle persone che non tengono gli elastici nella scatola cranica, di fare cose simili!”
Lila rise di gusto. “E va bene, allora io parto con le prenotazioni di tutto appena torno a casa, quindi ora batto cassa. Fuori i soldi, che devo usare la carta di mamma e se non ho il rotolo di ‘dinero’ in mano mentre lo faccio mi farà una testa così!” raccolse i soldi e se ne andò con l’aria di una che abbia comprato un grattacielo in contanti, quasi inciampando in un tizio seduto al bancone accanto a loro, tanto era distratta.

Marco, Estia, Dawn.
Asia, e i suoi compagni di corso, a quanto pareva.
Qualcun altro? Sì, anche, ne era certa.

Morgana sorrise a sé stessa, portandosi lentamente una stecca di radice di liquirizia alla bocca. Fissava il soffitto di una camera spaziosa e molto spoglia, su cui poteva quasi vedere aleggiare odori e calori di quel che c’era più in basso. Stretta tra denti candidi, la radice cominciò a venire succhiata con noncuranza, rilasciando il suo sapore così particolare.
“Sempre qualcosa in bocca, tieni” ironizzò una voce proveniente dal bagno, facendo saettare le pupille di Meg verso la porta illuminata. Il bel ragazzotto che aveva concupito si grattava poco sensualmente l’inguine guardandola sorridente. Quella ragazza era una furia a letto, e pure fuori. Chi l’avrebbe mai detto di beccare una così in un viaggetto con gli amici?

“Miss Meg, mi sta schiacciando il braccio…” mugolò una voce femminile, facendo muovere la mora. Una ragazzetta castana mossa, con il naso un po’ aquilino si spostò un poco, a sua volta dando fastidio a un altro occupante del letto, che però si limitò a mugugnare e continuare a dormire.
Il ragazzotto nudo si sedette sulla poltrona della camera di albergo a buon prezzo che aveva preso con gli amici di sempre, guardando quasi incredulo il groviglio di carne che pesava sull’ampio giaciglio. In mezzo ad alcuni ragazzi e un paio di ragazze addormentati, sfiniti, o meglio dire adagiata sopra come in una poltrona a sacco, Morgana mordicchiava molto concentrata la sua liquirizia.

“Dici che i tuoi amici si fanno un altro giro, o rimaniamo soli io e te?” ghignò la mora, estraendo il legno e un po’ di lingua dalle labbra carnose e turgide che tanto avevano baciato, succhiato e titillato tutto il gruppo.
“… Per quanto sia seccante ammetterlo, sono sfinito”. sospirò il giovane. “… Ma se mi riposo un attimo, forse…” Nemmeno finì la frase, che crollò addormentato, vittima del sonno e privo dell’unico impulso, quello di orinare, che l’aveva tenuto con i sensi all’erta dopo la fine dell’orgia avvenuta nell’ambiente.
Calò così un silenzio di corpi che dormivano, e Morgana si godette la sensazione di pace e tranquillità per una decina di minuti, prima di scivolare giù dal letto e rivestirsi in assoluto silenzio. Chiuse la porta della camera dietro di s&egrave e scese nella hall.
“I miei amici stanno ancora dormendo, ma ieri si sono dimenticati di chiamarli con la sveglia per le dieci, camera 48” disse con un sorriso così ammaliante al receptionist che quello nemmeno si premurò di domandarsi chi quella tipa fosse, anche perché due seni dalla pelle candida e lucida facevano capolino da una camicetta rosso scuro, sotto un cappotto nero, così entusiasticamente che ogni altro pensiero era impossibile.
“Sarà mia premura!!” scattò subito a programmare la chiamata al computer, mentre la mora lo ringraziava e portando fuori un culo da orgasmo visivo immediato, gli sorrideva. Narrare di tutte le storie che circolavano sulla Città Magica sarebbe impossibile. Molte sono andate perdute nel tempo, e molte sono diventate quasi materia storica e scientifica.
Ma quel che rimane, impregnando muri spessi, dalle pietre scure, &egrave sicuramente un’atmosfera irreale. Una strana energia vibra in molti posti della Città Magica, ed &egrave per questo che nel tempo fu sempre abitata, ed espansa, da chi questa energia inseguiva o ambiva, per curiosità o segreto desiderio, attirato dalle leggende e dai costumi della popolazione locale.
La Città Magica era stata edificata quasi compiutamente secondo queste storie, e alla fine, nel cercare di adeguarsi a queste, ne era diventata il motore, il fulcro.

Il fiume che la attraversava scorreva placidamente solcato da innumerevoli ponti ricchi di statue, che confluivano in un centro città di strade strette e arzigogolate, che Marco guardava dal piccolo oblò del suo aereo, benedicendo la possibilità di trovare informazioni e strade sul proprio telefono cellulare. Certo, voleva girare un po’ a vuoto scoprendo angoli nascosti, ma non era qualcuno a cui piacesse lasciarsi trasportare troppo dalle strade.
La ragazza seduta accanto a lui sorrise tra sé e sé, pensando che l’agitazione evidente del giovane fosse dovuta all’aereo, ma non era solo questo, era il desiderio di capire perché fosse stato invitato (convocato) lì, da Lei, che cosa volesse, se l’avrebbe rivista… Tutto lo preoccupava e lo eccitava assieme.
Il velivolo atterrò senza problemi nonostante una lieve turbolenza, e Marco passò il controllo documenti, saltò in tempo sulla navetta per il centro città come aveva visto sulla rete che si potesse fare, ed eccolo con una borsa sportiva in spalla, in mezzo alle strade lastricate dalle pietre squadrate e scure. Vagò in mezzo ai turisti per un po’, passò in una libreria, tentò di fare qualche foto.

“Cazzo, se la gente non ti spintonasse mentre cerchi di scattare…” pensò, guardando nel dislpay della macchina fotografica l’ultimo scatto. Sembrava essere venuta bene, anche se alla fine sul cornicione del vecchio edificio erano venuti mossi un paio di piccioni di fianco a un corvo con le piume arruffate.
Marco si incamminò verso l’albergo indicato sulla prenotazione, cercando la strada sul suo telefono, e dopo qualche svolta imprevista e sbagliata (che diamine di lingua parlavano in quella città? C’erano intere parole senza vocali!) ed essersi perso ad ammirare una vetrina di un negozio di cianfrusaglie semi esoteriche, era arrivato alla hall.

Per fortuna il personale parlava una lingua intelleggibile a Marco, che dopo aver lasciato fotocopiare il suo documento si trovò accompagnato da un ragazzo più giovane di lui all’ultimo piano dell’edificio.
Il ragazzo sembrava parlargli con una ironica gentilezza, come se fosse strano che un soggetto simile -non vestito male, ma non certo il tipico che soggiornava in quel genere di alloggi- avesse quella camera.
“Se serve qualcosa, ovviamente siamo a Sua disposizione!” disse gentilmente il ragazzo lasciando appena dopo l’uscio della camera il borsone. Marco trafficò qualche istante con il portafoglio cercando di capire quanto il ragazzo, piantato lì, si aspettasse di mancia.
Sulla sua guida si parlava di qualche moneta da… No, banconota… Quanto stava lasciando? Alla fine appioppiò in mano “qualcosa” al giovane, che cominciò a ringraziare a profusione mentre lo lasciava da solo.
Chiudendo la porta, pensò “Devo avergli mollato uno stipendio”, cercando di capire che stanza fosse.
A quanto pareva la piccola stanza era una specie di minuto disimpegno, un quadrato con appendiabiti e un armadio a parete. Alla vera stanza si accedeva con una porta a scorrere, e le luci si accesero da sole quando Marco ci mise piede.

“Porca puttana…” mormorò, trovandosi in una suite d’albergo, ultimo piano, con vista sulla Città Magica e terrazzo. Quella stanza, quelle stanze, erano grandi non sapeva quante volte rispetto a tutte le camere d’albergo in cui era stato. Questo posto costava una follia, come minimo… Adesso si spiegava tutte le recensioni positive su internet, la compostezza del personale, e anche la lieve diffidenza nel trovarsi uno in jeans nella hall.
Il Sole tramontava dietro qualche nuvola che avvampava di arancione, dietro i maestosi edifici del centro città, mentre il vento spazzava l’aria di un pungente freddo, ma Marco rimase ad ammirare il panorama fino a che non cominciarono a brillare le prime stelle.
Dopodiché, con una fame fottuta, scese al ristorante dell’albergo. D’altronde la prenotazione era a pensione completa, per cui tanto valeva approfittarne… Si trattenne dall’ordinare di tutto, e fu con la pancia piena che tornò in camera, passò dal bagno, e stiracchiandosi sull’uscio del locale piastrellato, guardò fuori dalla finestra.

E per poco non svenne.

“Che cazzo??” esclamò a sé stesso. C’era una figura, appoggiata comodamente sul parapetto del terrazzo. Era indubitabilmente qualcuno che lo guardava, una sagoma scura che ottenebrava le fitte luci della città sullo sfondo, stagliandosi perfettamente nera sul panorama, e sul pezzo di parapetto contro cui sedeva. Con una mano, la figura accennò a un saluto.
Marco si avvicinò, pensando di accendere la prima luce della stanza che gli capitava a tiro ma rinunciò, mentre apriva la finestra.
“…” la bocca del ragazzo si aprì senza proferire suono, mezzo spaventato da prima e mezzo sollevato dal riconoscere la figura che gli si parava dinanzi.

“… Ciao?” sorrise quasi timidamente Morgana.
I capelli neri le danzavano al vento leggero, con qualche ciocca che le copriva per qualche secondo il viso candido, con gli occhi luccicanti che lasciavano trasparire un’emozione genuina dalle iridi di un colore impossibile. Stava così, poggiata con il sederino al parapetto del più alto terrazzo, in un lungo trench quasi nero di stoffa pesante, molto stretto sul vitino sottile quasi a lasciare indovinare le generose forme sottostanti, con un collo spesso di quelle che parevano piume lucide e nere a proteggerle la gola e il coppino dal vento freddo, le mani in tasca.
Marco sorrise. “… Come stai?”
“Io, bene. Tu, sembri sull’orlo di un colpo.”
“No… Normalmente la gente non compare sul balcone di una camera per fare un saluto.”
Le labbra di Meg si incresparono in un sorriso. La divertiva quando Marco cercava di far collimare la ‘normalità’ con cose che non potevano esserlo.
“… Ci rivediamo dopo tutto questo tempo e già discutiamo su cosa sia ‘normale’? Mi lasci entrare…”
“Da quando chiedi il permesso, Meg?” sorrise Marco, alzando le spalle sulla soglia. Erano destinati a punzecchiarsi, non c’era scampo.
Non se lo aspettava, ma si trovò in un istante sbattuto con la schiena al muro dell’edificio, con la bocca di Morgana a un millimetro dal suo viso.
“Offf…” sbuffò, sotto la pressione della mano della ragazza che lo teneva adeso alla parete. Morgana avvicinò con calma il viso all’orecchio di Marco.
“Non ho chiesto ‘mi lasci entrare?’… Ho detto ‘mi lasci entrare’…” i denti candidi fecero capolino in un ghigno raggelante, a pochi millimetri dall’incavo tra il viso e il collo del ragazzo, aspirando il suo odore, prima di sbuffare con il naso, selvaticamente.
“Vedo che Estia e Dawn non hanno perso tempo.” commentò in un soffio, divertita.
“Co… Come fai a…” balbettò il ragazzo. “Se quello non &egrave un succhiotto dove ama farli lei, &egrave una strana coincidenza” sorrise Morgana.
La mano dalle lunghe dita carezzò il viso ispido del ragazzo per qualche istante ancora.
“Perché sono qui?” chiese lui, tentando di abbracciarla.
“… Volevo averti…” sospirò lei, prima di baciarlo.

Le bocche si unirono con foga e dolcezza, le lingue duellarono per un tempo infinito, le loro voglie erano di amarsi, scontrarsi, scoparsi, amarsi, lasciarsi, unirsi, l’abbraccio divenne una stretta compulsiva, scivolando poi nelle carezze, nei palpeggiamenti, e di nuovo in uno spasmo di muscoli, ansimi, umidi baci, sospiri, dita premute nei vestiti.
“… Andiamo dentro…” sospirò lui, che cominciava ad avere le chiappe gelate dal muro
“Ti voglio dentro…” rispose lei, trascinandolo di peso nella stanza.

Meg danzò qualche passo nell’ampio locale, con un sorrisetto malizioso. “Carina, vero?”
“E’ bellissima.”
“Oh, davvero?” scoppiò a ridere lei, fermando i suoi movimenti, guardando fisso il suo ex ragazzo. Con un unico movimento della mano aprì totalmente il cappotto, lasciandolo cadere a terra. Una camicetta stretta inguainava le forme del suo seno, stringeva il pancino magro, fino a una gonna corta. I seni di Morgana ondeggiavano sotto il suo ridacchiare per lo sguardo del suo partner.
“… Allora io come sono?”
“Splendida…” balbettò lui, praticamente correndole addosso e buttandola nell’enorme letto, dove si mise voracemente a baciarla, leccarle la bocca, sfiorarle il collo, palparle i seni. Morgana scoppiò a ridere, ad ansimare, ma al primo bottone slacciato dalle mani tremanti e affamate di lui, lo fermò.

“… Sei sicuro?”
“Come??” si sorprese lui. “… Sono seria. Volevo vederti, volevo stare con te, ma non voglio che tu soffra.”
“E’ difficile non volerti, Meg.” sorrise lui, sul suo viso. “… Ma non voglio che tu scappi.” Lei ristette, spostandolo poi di lato. Magia finita.
Si alzò in piedi, andando alla finestra, le mani sui fianchi, guardando la Città Magica pensierosamente. Poi sospirò.

“… Penso che nei prossimi giorni succederanno un paio di cose. Non sono sicura di cosa.”
“Devo preoccuparmi?” chiese Marco mettendosi seduto, facendola ridere. “No, no, tranquillo. Forse mi occorrerà un piccolo aiuto…”
“E’ per questo che mi hai fatto venire qui? Un aiuto??” imprecò lui, alzandosi in piedi. Non gli piaceva quel modo di definire la sua presenza lì.
Morgana sussultò lievemente sentendolo alzare la voce, abbassando la chioma nera contro la vetrata.
“No… Volevo vederti, volevo… Volevo stare con te, se tu mi vuoi…” sussurrò pianissimo con le labbra corrucciate in un broncio.

L’ira di Marco svanì quasi immediatamente. Il tono di voce di Morgana era troppo (ineditamente) contrito per non crederle. Quella splendida fanciulla voleva stare con lui. Faticava ancora a crederci, aveva paura di stare ancora male, ma non avrebbe potuto non aiutarla. Si fece contro di lei, poggiandole le mani sulle spalle. E anche un’erezione sulle chiappe.
“Sono con te, M’rr’gan.”
Le labbra di lei si strinsero in un sospiro, mentre una lacrima scura le scendeva dalle lunghe ciglia, prontamente portata via dalle dita delicate, anche se tremanti, di lui.
“Era così tanto che nessuno mi chiamava più così…” piagnucolò lei, mentre si adagiava contro il vetro, lentamente spinta da dietro. Presto qualche altra lacrima le corse lungo il viso, mentre le mani del ragazzo sbottonavano un po’ il tessuto, si intrufolavano, stringevano, slacciavano la gonna facendola cadere a terra con le sottilissime mutandine.
Meg allungò dietro di s&egrave una mano riuscendo con un’abilità consumata a liberare Marco dei pantaloni, finendo in un attimo a coccolare quel membro turgido, innalzando il bacino come a chiedere di venire posseduta, immediatamente.

“… Ti voglio, così, ora.” tremarono le labbra di lei quasi contro il vetro, appannandolo.
“Non sei romantica…” ghignò lui. Il suo desiderio era enorme, ma anche quello di prolungare l’attesa e le coccole. Meg soffiò tra i denti, irata.
Desiderami!!” imprecò, quasi, e Marco la sbatt&egrave violentemente contro la finestra, prendendole una natica solo per la necessità di indirizzarle meglio dentro il suo membro fino allo scroto. Era ustionante, liquida, pulsante, era perfetta nel suo desiderio, e lui la voleva e basta, assolutamente…

La penetrò animalescamente con un ritmo deciso, una mano su una chiappa, un’altra sulla nuca come a tenere un animale selvaggio, mentre lei, il volto solcato di lacrime, ansimava quanto lui.
“Non… Ti voglio… Così!!” rantolò lui piantandosi dentro. No, non la voleva così, perché stava facendo questo… Una vampata di desiderio lo travolse, portandolo di nuovo a scoparla con foga ancora maggiore. La mano di Meg aderì al vetro, quasi a volerci piantare le unghie.
Spaccami!” implorò lei, sotto i colpi del bacino.
“No, non… Non… Non voglio così!!!” urlò lui spingendosi via, sfilandosi di colpo con un movimento doloroso per entrambi. Gli sembrava di avere la testa fuori fase, di essere ubriaco, si portò le mani al volto con disperazione. Morgana urlò, mentre le unghie solcavano il vetro spesso, prima di girarsi con rabbia.

Era assolutamente terribile e maestosa.
“Tu non puoi non volermi!!” urlò, agitando le braccia. “Parola, a costo di romperti tutte le ossa mi farò scopare da te come la migliore troia della tua esistenza!!” con un balzo lo buttò letteralmente a terra, spingendo le sue braccia contro il pavimento, nel tentativo animalesco di penetrarsi con il sesso di lui.
“Smettila!!” urlò lui, nel tentativo di divincolarsi, senza riuscirci sentì il suo sesso affondare, stretto, nelle carnosità della donna, lasciandosi andare a un sospiro doloroso. “Io… Ti amo…” piagnucolò, mentre lei lo cominciava a cavalcare brutalmente. Morgana urlò di nuovo, piantando un pugno nel pavimento moquettato della camera a un millimetro dall’orecchio di lui, soffiandogli in faccia. Rimase ferma, così, a vederlo terrorizzato e sofferente, con il suo sesso nel suo corpo, e si sentì estremamente vuota dentro.
Si fissarono per qualche istante, nel silenzio, il viso di lei a cui tremavano le labbra, con ancora qualche stilla che le solcava le guance.

“… Mi dispiace…” mormorò.
“… Sembra che io non possa capire proprio certe persone, e riesca solo a far loro del male…”
Le dita dalle unghie ben curate scivolarono dal pavimento alla guancia di lui, mentre il viso si avvicinava, e il bacino di lei cominciava ad ondeggiare lievemente, delicatamente. Lei non staccò lo sguardo da lui nemmeno per un istante, ergendosi perpendicolare a lui, scivolando con la mano sul suo petto, solleticandone l’inguine, impalandosi lentamente, portò la stessa mano sul proprio monte di Venere, il pancino, un seno, ad occhi chiusi si carezzò l’incavo del collo, per poi riprecipitare quasi lasciandosi cadere su di lui, con un sorriso.
“… Così va bene?” sussurrò dolcemente, e Marco annuì.
“Non c’&egrave bisogno di violentarmi il cervello perché io ti voglia, Morgana Danu, mia coinquilina, padrona di casa…” si baciarono “… Fidanzata, amore, dea…” si baciarono di nuovo “… Voglio essere al tuo fianco, voglio aiutarti…” continuarono a sospirarsi parole sulla bocca, mentre il corpo perfetto di lei proseguiva nel dare e darsi piacere.
Marco si irrigidì, premendo le mani nei fianci candidi di lei, fermandosi in un affondo deciso, una contrazione orgasmica che fece eruttare il suo sesso dentro quello della ragazza, che alla prima vampata di calore rispose con un’esplosione del suo piacere.
Si mugugnarono il proprio orgasmo a vicenda nelle orecchie, colti da spasmi muscolari involontari, prima di baciarsi, sospirando.

“… Come ti sembra il bagno della suite?” sussurrò lei con un sorriso, qualche minuto dopo, mentre lentamente lasciava libero il membro di Marco.
“… Doccia spaziosa…” rispose lui, abbrancandole il sedere. “… Io parlavo di pulizia, ma capisco…” ridacchiò lei, con il suo bellissimo sorriso. Morgana aprì gli occhi, nel buio della suite.
Era accoccolata totalmente nuda sotto le coperte, con il corpo di Marco che dormiva più che profondamente un po’ adeso, un po’ buttato sopra di lei. La ragazza scivolò fuori dalle coperte senza alcuna difficoltà, specialmente visto che il giovane era capace di dormire anche durante un concerto heavy metal a due metri dal suo orecchio.
I piedini di lei solcarono l’ampia superficie della camera, portandola fuori, sulla balconata sferzata dal vento. A differenza della Grande Città, la Città Magica si concedeva delle ore di riposo, e ora giaceva quasi silenziosamente sulle rive dell’antico fiume. Le mani si appoggiarono sul parapetto, seguendo un istinto quasi famelico di saltare via, correre, esplorare, sondare, scoprire, toccare, scopare, assaggiare, mangiare, dilaniare, spompinare, godere…

Morgana sospirò.
“Fa freddino, eh?” giunse la voce di Marco alle sue spalle. “Un po’.” sorrise lei con uno sforzo, girandosi.
Si poteva dire di tutto di Marco, ma non che fosse stupido. La sua difficoltà nel capire alcuni aspetti di Morgana era semplicemente dovuta ad una mente totalmente opposta alla sua.
“… Vuoi fare un giro, vero?” sorrise lui, facendola avvampare per un istante. Era così evidente? “Per me va bene.” la rassicurò.
“… Non io. Noi. Facciamo un giro.” disse istintivamente lei. “Copriti bene. Molto bene.” sussurrò, passandogli davanti per rientrare nella suite con un sorrisetto complice sul viso.

Dieci minuti dopo Marco si apprestava a uscire dalla sua suite.
“Ehi quella &egrave la finestra…” disse a Meg, che stava uscendo da lì.
“Lo so Marco, ma io non sono registrata, secondo te tu sali da solo in camera e scendi con qualcuno senza che quelle dieci o dodici persone tra reception e personale se ne accorgano?”

Marco dovette convenire che non era proprio una buona idea. Scese in ascensore, salutò alla reception chiedendo se dovesse riconsegnare la chiave (no. Si vede che si fidavano di chi prendeva la suite…) ed arrivò in strada.

Faceva seriamente freddo, e Morgana non c’era. Il ragazzo fece il giro dell’edificio portandosi dove affacciava la sua camera, e guardando che attorno non ci fosse nessuno, alzò lo sguardo verso l’alto. In cima poteva distinguere una forma seduta sul parapetto, che con noncuranza si spinse in avanti come per buttarsi dal bordo di una piscina. Solo che si buttò svariati metri più in avanti, per arrivare su un cornicione, si lasciò cadere dopo un secondo di schiena, si appigliò a un balcone, e un istante dopo saltava di nuovo sulla facciata dell’albergo.

A Marco ricordò un giochetto che aveva da piccolo, uno di quei “libretti magici” di legno, ma anche un’atleta, un po’ un animale, un po’ una danzatrice. Era flessuosa, agile, i suoi movimenti erano evidentemente istintivi e platealmente precisi, e tutto sommato, trovava estremamente erotico quel suo mix di cose. Pensò che quasi quasi era meglio risalire in camera con lei…

Morgana gli sorrise a qualche metro di altezza, per poi assumere un’espressione allarmata. Marco sentì un vociare in arrivo, e si mise senza pensarci a guardare il telefonino, come se si fosse appena fermato per leggere qualcosa.
Nel frattempo la ragazza si schiacciò totalmente in un’ombra della facciata, osservando il gruppetto di turisti ubriachi fare chiasso passando, e una ragazza provocare Marco, un po’ toccandosi le tette, un po’ deridendolo.

Marco rispose a mezza voce anche perché non riusciva a capire bene cosa la tipa gli dicesse, mentre Morgana, non vista, si lasciava sfuggire un soffio dai denti. “…Vai a casa, troia…” pensò, infastidita ben oltre il consueto da un atto così normale.

La tipa però non demordeva, continuava a ridere e a lei si unì anche l’amica, tra le risate del resto del gruppo. Marco fece cenno di lasciar perdere, incamminandosi verso la strada principale, ma l’idea parve molto infastidire le due ragazze che si misero a urlargli addosso offesissime di non suscitare interesse nel giovane, tra le urla del resto del gruppo ubriaco.
E uno di loro un po’ troppo bevuto, lanciò con noncuranza una lattina di birra semivuota verso l’informatico, accompagnato da un insulto alla genitrice di Marco. La lattina impattò più sul fondoschiena che su altro del ragazzo, tra le risate generali, prima che un “oh” di sorpresa delineasse l’improvviso spegnersi di tutti i lampioni della strada.

Se qualcuno ci avesse visto definitamente in quell’istante, avrebbe notato sicuramente che ora a livello suolo vi era qualcuno, qualcuno di tremendamente incazzato, e quel qualcuno ormai si trovava di fronte al lanciatore improvvisato.
Una voce roca, glaciale, sottile come un refolo di aria gelida che passa sotto la soglia di una porta, disse qualcosa in madrelingua al giovane, che cominciò a sudare freddo, sentendo qualcosa attanagliarsi alle viscere, e singhiozzò istintivamente.

La luce fredda di un flash di telefonino balenò illuminando la strada. “Andiamo via.” disse Marco, senza neanche guardare cosa succedesse nel gruppetto, e incamminandosi verso la strada più larga e illuminata ricca di persone.
Dopo cinque o sei metri, si trovò al suo fianco Morgana, che camminava silenziosa, e proseguirono senza parlarsi per diverse decine di metri.

Alla fine Marco scoppiò a ridere, dando una spallata alla ragazza. “Non ho neanche voluto vedere che combinavi, ma non sei così arrabbiata neanche quando finisco l’ultima fetta di torta a casa!”
“… Fanculo…” rispose Meg, sorridendo a sua volta.

La Città Magica viveva ancora dei fasti del suo passato che non tutti ricordavano, ma che volevano visitare, incuriositi dalle sue bizzarrie, dai suoi misteri, e anche da una vivace vita notturna. Locali di ogni genere erano incastonati in palazzi antichi, negozi vendevano idiozie da turisti o cose più serie, ma in alcuni scorci, ignorati a quell’ora dalla maggior parte dei festaioli, si sentiva ancora un’aria diversa, suggestiva.

Marco ristette in un piccolo vicolo dal pavimento di selciato scuro, osservando le case antiche dalla struttura in legno, notando il gioco di luci ed ombre, quell’atmosfera senza tempo a pochi passi da una via più viva e affollata.
Passeggiarono assieme, scambiandosi poche frasi, indicandosi qualcosa di interessante, ma quello che c’era tra loro non necessitava in quel momento di parole. Marco pensò in diversi momenti di fermarsi e baciarla, ma era la prima volta che realmente facevano qualcosa di così normale e quotidiano ed intimo come un giro assieme, e si sorprese quasi a provare un piacere incredibile nell’essere lì, così, normalmente.
Lei lo capiva, e per questo si tratteneva nel suo essere, non poteva sempre buttare il povero ragazzo in situazioni surreali, far saltare lampioni e minacciare ubriachi come “serata di coppia”. Ma sapeva altrettanto bene che non poteva costringersi ad essere qualcosa che non le apparteneva, per quanto le venisse facile simulare apparenze, del resto lo faceva spesso da una vita, non voleva farlo con lui.

Finirono così sulla riva del fiume che costeggiava il centro della Città Magica, fissando le acque nere scorrere sotto di loro, le luci dei lunghi ponti in pietra con le statue sui parapetti, l’altura su cui sorgevano i più importanti luoghi illuminata, il rumore quasi monotono del traffico e del vociare. Non si poteva arrivare in quel luogo se non aggirando una siepe, un angolo panoramico minuscolo e quasi sconosciuto a chiunque. Era solo un pezzo di argine come molti altri, ma bastava quella minuscola distanza dalla modernità, a preservarlo come sempre era stato. Sembrava che bastasse girare un angolo per cambiare epoca, disse a mezza voce a Morgana, ferma accanto a lui.
In quell’angolo, l’acqua poteva scorrere come secoli prima, le pietre dell’argine farsi carezzare come sempre, la luce arancione della strada non era poi del tutto diversa da quella di lanterne e torce.

Lei lo guardò di sbieco da sopra il colletto alto e piumato del suo cappotto con uno sguardo luminoso, ben diverso dal suo solito, e lui se ne accorse, fissandola a sua volta. Era davvero bellissima, ma non solo perché lo era per tutti, lo era per lui, in una maniera diversa da chiunque potesse posare lo sguardo su quel viso perfetto, sul suo mezzo sorriso dalle labbra turgide, su quei fianchi che ruotavano in un movimento armonioso nel portarsi addosso a lui, a un millimetro dal suo viso.
Avvampò, mentre le labbra gli tremavano in quella distanza minuscola e gigantesca tra le loro bocche. Lei non gli facilitò le cose, carezzandogli una guancia, anche se inevitabilmente lo spinse più verso di sé, e finalmente loro, come il resto dei loro corpi, impattarono.
Non si avvertì più il rumore della Città Magica, non i clacson, non il vociare, Marco sentiva solo il calore della bocca di lei, il suo odore, il suo corpo mentre la stringeva, ad occhi chiusi.
Non era la prima volta che si baciavano, ma non era mai stato così.

Quando si distaccarono, lui, nella sua necessità di mettere le cose a posto, di precisare, tentò di aprire la bocca, ma un dito di lei gli si posò sulle labbra, prima di scorrere in basso, dove con l’altra mano già armeggiava con i suoi pantaloni. Il sesso di lui, pronto a dimostrare il suo affetto in una sola maniera, accolse la mano di Morgana che lo estraeva e lo coccolava con lenti movimenti, silenziosa, sospirante a un millimetro dalla bocca di lui, che tentò di intrufolarsi sotto lo stretto trench per carezzarla, palparla, ma senza risultati, finché lei non aderì del tutto a lui, alzando una lunga e tonica gamba, ad abbarbicarsi al suo corpo.
Era come la prima volta che era stata sua, e lui era stato suo. Ma immensamente diverso.
Aprendo un poco il cappotto, lei riuscì a sollevare la gonna corta, portandosi il sesso di lui contro il suo.
“… Niente mutandine?” balbettò lui, facendola sorridere. No, era per lasciarle in camera che si era attardata un secondo, in albergo. Lo baciò di nuovo, facendolo scivolare dentro di sé.

“… Ne avuti innumerevoli, di amanti, focosi, passionali, freddi, egocentrici, piacevoli, spiacevoli…” sussurrò, muovendo piano il bacino con dentro il sesso di lui “… Ho scopato per piacere, mi sono fatta possedere per provare, ho donato il mio corpo per puro calcolo e interesse o mero desiderio…” perché confidarsi in un momento come questo? Cosa stava facendo?
“… O anche per dei sentimenti, qualcosa che non volevo avere ma non sempre ho potuto combattere.”

Morgana carezzò il viso di lui, dolcemente, a occhi chiusi, poggiando il viso sulla sua spalla. “… Ho scopato dei e uomini, guerrieri onorevoli e sudicie merde, ho affondato le mani nelle lenzuola più preziose del Mondo e nella carne più vile…” ansimò aumentando un poco il ritmo della sua scopata. “… Sai cosa sono, e posso solo farti soffrire, eppure eccoti qui, con il cuore a mille e la paura di baciarmi…” piagnucolò, aumentando ancora la penetrazione, danzando sul sesso di lui in una posizione che solo qualcuno di assurdamente atletico poteva portare così a lungo.

Morgana alzò lo sguardo, fissandolo.
“… Perché, Marco, perché??” disse a denti stretti, affannata “… Perché non puoi essere come tutti gli altri?” Morgana premette le sue unghie in mezzo al petto del ragazzo “Perché devi essere così, perché mi devi far sentire così…” il ragazzo sentì una sensazione difficile da descrivere, come del freddo che gli prendeva le viscere, mentre il cuore cominciava a battere un po’ troppo forte anche per uno che stesse copulando, mentre le dita di Morgana premevano sempre più sui suoi abiti, quasi per affondare nel suo corpo come lui affondava nel suo. Il sesso di lei si muoveva con un ondeggiare frenetico, anche se quasi regolare, una lenta crescita di velocità e compressione dei muscoli interni, lo stava possedendo con una passione intensa e bruciante, ne teneva il corpo in tutti i sensi, fisici e misteriosamente descrivibili.
“Meg… I… io…” ansimò lui, con le mani tremanti e il corpo teso in uno sforzo muscolare, si sentì mancare, mentre un colpo di calore improvviso gli esplodeva nel petto, mentre Morgana lanciava un affondo definitivo con il suo corpo, sussultando per un orgasmo improvviso e totale con un urletto e uno spasmo della sua vulva che fece eruttare il sesso di lui, si sentì come esplodere in mille direzioni, perdendo totalmente ogni cognizione di dove, o cosa fosse.

Marco aprì gli occhi in quello che sembrava un istante eterno, era come un’ubriacatura pesante, o una sostanza che ne alterava le percezioni. Gli era già capitato con Meg di provare una sensazione simile, quando lei aveva cercato di disvelarsi nella sua essenza, ma mai con una tale intensità. Tra le palpebre fissò Morgana, vedendola o percependola -non avrebbe saputo dire- in maniera totale e definitiva. Era qualcosa di indescrivibile, totalizzante. Capì meglio di ogni altra volta l’immensa potenzialità di colei che lo stava facendo suo, ma non si sentì piccolo o inutile, anzi si percepì come un grande tra i grandi, poiché lui la amava, e lei, anche se dilaniata dal fatto, ricambiava il sentimento. Nello sguardo di lei avvertì pienamente il motivo per il quale si diceva che la M’rr’gan avesse sempre un fondo di tristezza nel suo guardare le cose del mondo, era come l’argine del fiume (dovunque il fiume fosse in quel momento) che vedeva storie e barche e persone scorrere sotto di sé, fino a non poterli più contare, forse a voler saltare a bordo con loro, non poterlo fare… Era un unico, mutevole, contrasto degli opposti.

Ma fu solo per un istante, prima di crollare di nuovo nella sua realtà.
In un movimento improvviso lei ne liberò il sesso, accompagnandone il corpo dalle gambe molli nella sua discesa verso il suolo. Marco si trovò seduto per terra, ad inspirare aria con la bocca come se avesse appena corso una maratona infinita. La Città Magica tornò attorno a lui, il rumore, i clacson, il vociare, una musica di un locale, lo scorrere del fiume sotto di loro. Il pulsare del suo sesso, le stille di piacere scivolare sulla sua pelle.

Rimise a fuoco anche Morgana, che ne carezzava il volto sorridendo, con uno sguardo dolce.
“… Mi ero ripromessa, poco fa, di trattenermi. Volevo essere una tua serata normale, come ogni ragazza…” sussurrò con delicatezza. “… Mi dispiace, tu mi rendi difficile mantenere un equilibrio.”

“… Mi sono sentito annichilire, cazzo…” balbettò lui, fissandola “… Eri… Eri sempre tu, prima?”. Morgana si morse il labbro, saettando imbarazzata lo sguardo di lato, con una piccola alzata di spalle quasi sorridendo.
Marco tossì, cercando di sedersi e rimettersi il sesso flaccido nei pantaloni.
“… Non me lo dire… Anzi, no, dimmelo.”

Morgana sospirò, abbassando la testa. “Era il T’r na n’g, qualcosa di ben oltre quel che ti circonda. Ho desiderato davvero di farti sparire, mentre volevo tenerti con me. Ti ho voluto mio nello scacciarti, e credo… B&egrave, congratulazioni Marco, hai sbirciato ben oltre quello che normalmente conoscono gli uomini.”
Il giovane si alzò con difficoltà, stordito, mentre anche Morgana si sistemava gli abiti.

“Penso di dovermi sedere e bere qualcosa” biascicò lui, lei annuì volentieri, prima di cominciare a ridacchiare sommessamente fissandolo.
Le chiese cosa trovasse di così divertente in quel momento. “Non avrei mai pensato di mostrare certe cose ad un informatico… Guerrieri, eroi, dei, semidei, ma ad uno che prenota schede grafiche prima della loro uscita…”

“… Tu scherzi, ma se facessi per un mese il mio lavoro con i clienti che ho, non dubiteresti di quanto io sia un eroe.” cercò di ironizzare lui stropicciandosi la faccia.
Se la trovò addosso, con gli occhi luccicanti, la bocca intenta a baciarlo velocemente con foga e passione.
“Sei già il mio eroe” sussurrò, con un sorriso.

Si incamminarono, e lentamente, lo sguardo sullo scuro selciato, Morgana recitò, sommessamente.

“Les enfants qui s’aiment s’embrassent debout
Contre les portes de la nuit
Et les passants qui passent les désignent du doigt
Mais les enfants qui s’aiment
Ne sont là pour personne
Et c’est seulement leur ombre
Qui tremble dans la nuit
Excitant la rage des passants
Leur rage leur mépris leurs rires et leur envie
Les enfants qui s’aiment ne sont là pour personne
Ils sont ailleurs bien plus loin que la nuit
Bien plus haut que le jour
Dans l’éblouissante clarté de leur premier amour”

Tacque, guardando Marco che non riusciva a chiudere la bocca, e si sorrisero ancora, prima di scivolare in un locale.

(Jacques Prévert.
I ragazzi che si amano si baciano in piedi
Contro le porte della notte
E i passanti che passano li segnano a dito
Ma i ragazzi che si amano
Non ci sono per nessuno
Ed &egrave la loro ombra soltanto
Che trema nella notte
Stimolando la rabbia dei passanti
La loro rabbia il loro disprezzo le risa la loro invidia
I ragazzi che si amano non ci sono per nessuno
Essi sono altrove molto più lontano della notte
Molto più in alto del giorno
Nell’abbagliante splendore del loro primo amore)
“C’&egrave nessuno che parli inglese?” piagnucolò Asia, girando un po’ su sé stessa appena fuori dall’aeroporto della Città Magica.
“In realtà credo che l’ultimo tipo parlasse Inglese…” bofonchiò Lila “… Cio&egrave, tutto l’inglese tutto assieme.”
Le due amiche e i loro compagni di corso non avevano avuto molte difficoltà ad arrivare in aeroporto, ovviamente, ma una volta arrivati non &egrave che fosse semplice orientarsi. La cartellonistica era multilingue, ma una volta usciti, era la giungla. E quella lingua non aveva alcuna attinenza o somiglianza con quelle conosciute dai ragazzi, quindi anche andando a istinto…

“Lì c’&egrave una cosa che secondo me &egrave la metropolitana!” esultò Andrea, e stranamente nella sua idiozia ci aveva preso. Georgia, la cameriera dell’Agarthi che era con loro, si complimentò sinceramente.
“Ma tu non avevi proposto di venire qui perché ti era piaciuta?” disse inquisitoriamente Lila, troppo contenta di essere sul mezzo giusto per essere davvero sospettosa. La riccia avvampò per un istante.
“Sì, ma io ero arrivata in treno…” spiegò. La cosa parve essere plausibile a Lila, che si rimise a cercare di capire i nomi delle fermate. Finalmente arrivarono in centro, e… Che centro.

La Città Magica era un intrico di vie un po’ progettate apposta, un po’ sorte spontaneamente, e l’altura su cui si costruiva quell’abitato non aiutava di certo nella pianificazione di strade comode e dritte.
“… Ok, l’albergo, ostello, o come si chiama in questa lingua, &egrave in quella via. Possiamo fare un giro tra le due passeggiate del centro perché abbiamo il check in nel pomeriggio, che ne dite?” propose Asia litigando un po’ con il suo telefono per zoomare sulle vie che nominava. Non fosse mai che avesse il coraggio di mettere in tasca quell’attrezzo e perdersi un po’.
L’idea piacque a tutti, soprattutto perché essere in giro all’ora di pranzo permetteva di fare una delle migliori cose quando si &egrave in viaggio: mangiare porcherie.
Nel vero senso della parola, dato che la piramide alimentare vigente nella cucina locale sembrava essere composta di: maiale, parti di maiale, insaccati di maiale, piatti a base di maiale e altra carne, insaccati di maiale e altri animali. Una piramide alimentare nel mezzo di immense e schiumose dune di birra, per voler essere figurativi.
Il tutto splendidamente cucinato e servito anche su banchetti sparsi qui e lì per le strade più ricche di turisti.
“Bisogna stare attenti, qui se stai seduta più di cinque minuti arriva qualcuno e comincia a metterti sulla grigilia!” commentò Georgia, addentando una sorta di panino con salsiccia grondante di unto, alla faccia dell’invidia di tutte le ragazze lì con lei che avrebbero preso un Kg solo a guardare una foto di quello spuntino.
Lila sussurrò all’orecchio di Asia “Siamo sicure che Georgia sia una donna?”
“La salsiccia le piace…” sussurrò Asia, che forse già risentiva dell’alcool della sua birra, facendo quasi strangolare l’amica dalle risate.

Sembrava che Halloween, mescolato ai miti e alle innumerevoli leggende locali, fosse alla fin fine una comodissima scusa per l’apparato turistico della Città Magica di allungare la stagione di visita. Come dare torto, alla fine, a chi cercava semplicemente di aumentare il proprio giro di affari? Infatti, in capo a qualche metro dal banchetto che cucinava carne (la cui composizione esatta nessuno voleva sapere) il gruppetto venne accostato da una volantinatrice di un locale che offriva una festa di Halloween in centro, pochi metri dopo da una specie di amorfo costume di gommapiuma che fece lo stesso, e per ultimo da una strega moretta scosciata in minigonna e autoreggenti, che offriva una serata di Halloween decisamente di un tenore più adulto del “trick or treat”.
“Cazzo, una vestita così da me la arrestano” disse piano Asia agli amici. “Ehi! Ti ricordo che l’anno scorso IO ero vestita così!” rise la cameriera dell’Agarthi “… Ma insomma… B&egrave, qui il rapporto con la sessualità &egrave molto diverso che da noi” rispose Georgia “… E poi, attira turisti anche questa fama, no?”
Gli altri dovettero convenire che se la Città Magica veniva nominata colloquialmente, di solito era per le grandi quantità di alcool a buon prezzo, e una certa notorietà per i suoi locali notturni, più o meno casti.
E così, perdendosi in un paio di negozi, finirono in albergo, si divisero nelle camere dandosi appuntamento di lì a qualche ora.

“oooh cazzo, FINALMENTE!!” rantolò Lila buttandosi sul letto. “Se stavo ancora a sopportare Andre che ci prova con Georgia, lo buttavo su una griglia degli ambulanti!” disse con un sorriso. Asia ispezionò il letto che toccava a lei e il bagno, sorridendo. “Tra l’altro, ma alla fine cosa fanno quei due assieme? Scopano o lei gliela fa solo annusare?”
“Annusare, chiaramente.” bofonchiò Lila. “… Scusami, ma ti pare che una figa così che fa la cameriera in un locale come quello poi stia a dare retta a uno come Andrea?”
“… E’ quel che penso anche io” disse la biondina sedendosi sul letto “Ma allora perché venire con noi? Figurati se per Halloween non aveva niente da fare.”

Alla fine del corridoio, nella (da lei pretesa) camera singola, al buio, Georgia stava telefonando accanto alla finestra.
“… Sì, siamo qui, tutto a posto.”
“Bene. Asia come sta?”
“… Mi sembra ok, anche se rischia di tornare a casa rotolando se mangia tutti i giorni quei dolci alle bancarelle”
Il rumore di una risata smorzata si propagò dall’apparecchio.
“D’accordo, Tlachtga, devi resistere fino a dopodomani sera.” disse la voce, di nuovo seria.
La riccia annuì “Sì…”
“Dopodiché saprò come ricompensarti.”
Georgia uggiolò come un cagnolino felice di un boccone inaspettato.

Il resto della gita nella Città Magica trascorse molto tranquillamente, il gruppetto di ragazzi si diresse in alcuni posti tutto assieme, in altri separandosi, tenendo ben d’occhio le ore che passavano e che li separavano dalla sera di Halloween. Tra telefonini e messaggi e punti di ritrovo continuarono a discutere di dove andare la sera, in che locali, cosa fare, le varie opzioni. La Città Magica, un po’ per convenienza, un po’ per affinità spirituale, proponeva una serata di intrattenimento quasi in ogni locale, in ogni bar, in ogni albergo che ospitava.
Alla fine, dopo un’accesa discussione, si finì a optare per un lungo giro in centro città fino al ‘Hromnice’, un locale che pareva essere l’unica opzione per un gruppo così numeroso. Ovviamente l’idea escludeva travestimenti e trastulli particolari, che del resto nessuno si era portato dietro, per questo Lila chiese ad Asia come mai ci stesse mettendo tanto a prepararsi.
“… Guarda che ci lasciano qui!!” urlò da dietro la porta del bagno della camera. “… Un attimo e scendo!!” le rispose la bionda, continuando ad armeggiare nella borsa. C’era tutto, sempre che servisse, era nervosa, tesa, sperava che qualcosa accadesse ma, come sempre, ne aveva un certo timore. Alla fine, con un sospiro profondo, uscì dal bagno cercando di ricordarsi che era pronta in ogni evenienza, e quindi per questo non doveva perdersi la serata! Per quello sorrideva sinceramente, assieme a Lila.

Già, la serata di Halloween…
Che lo si chiamasse così o in altre maniere, quella notte era sempre stata considerata diversa e speciale da innumerevoli culture, e la Città Magica, ottemperando al suo nome, aveva deciso fin dal pomeriggio di cominciare ad ammantarsi di una foschia irreale, che distorceva le sagome dei passanti, giocava con le luci, titillava le ombre… Salendo dal fiume, nuvolette umide cominciarono a rampicare sugli argini, nelle viuzze, sempre più in alto sulla collina su cui sorgeva la città e il suo punto più alto, il Castello, con la chiesa e gli altri edifici più noti. Il tramonto illuminò di arancione quella che poteva essere quasi un’isola sul mare, prima di salutare e lasciare che il buio prendesse il suo posto nella notte più irreale dell’anno, assieme a una punta di frescura pungente.
Con la nebbia e il buio si accesero le luci nelle strade, le insegne dei locali, e mentrw l’antica torre dell’orologio scoccava colpi profondi e calmi, Marco bussava alla porta del bagno.
“Meg, ora capisco che tu voglia uscire stasera -nonostante la nebbia e un freddo fottuto- ma io devo pisciare!”
“… Non mettermi fretta!” bofonchiò la voce della ragazza, prima che dopo un minuto la chiave girasse nella toppa e lei comparisse più che vestita
“Scusa, ma hai messo su il trench??” domandò Marco, svicolando nel bagno con un sospiro di sollievo.
Tirò fuori l’arnese, prima di ricordarsi di alzare la tavoletta con un cenno di approvazione di Morgana, di fianco al lavabo.

La ragazza indossava il trench chiuso fino al collo, e portava un leggero trucco agli occhi di un colore un po’ scuro che faceva sembrare ancora più lunghe le sue ciglia, e faceva il paio con le labbra scure di un colore indefinito, quanto le unghie che indicavano genericamente la sua persona. “Sì, sono pronta per la serata.”
“Immagino che il cappotto voglia dire che dobbiamo uscire subito.”
“Mi piace quando sei intelligente ed educato…” sorrise lei mandandogli un bacio “… E’ una serata speciale, lo sai.”
Marco finì con un sorrisetto il suo arduo compito di essere vicino a Morgana e non avere un’erezione per poter svuotare la vescica, e annuì tirando lo sciacquone.
“Sì, lo so, io starei a letto ma insomma…”
“Ancora? Voglio dire, sono due giorni che scopiamo!” rise Morgana prima di portarsi una mano alla bocca scura “… Intendo dire, non che la cosa mi dispiaccia, anzi, ma vorrei anche che tu vedessi un po’ questo posto, non solo la mia vagina.”
Lavatosi le mani, Marco sembrò un po’ convinto. La suite era favolosa, il servizio in camera eccezionale e ovviamente Meg era… Meg. A letto. A fare sesso.
Ma effettivamente un giretto non gli dispiaceva. Spense la luce uscendo dal bagno.
“… Marco?”
“Sì?”
“Sai cos’altro non mi dispiace? Non rompermi il bacino cadendo nel cesso perché tu non hai abbassato la tavoletta.”
“Ops…”

Per le vie della Città Magica si aggiravano a vario titolo di feste organizzate o imbecillità, personaggi diversi. Mostri di film e telefilm con quelli più letterari, costumi di carnevale riciclati e bambini schiamazzanti.
Marco evitò un paio di robot di cartone aspettando che Morgana arrivasse, a suo solito schizzare da un’ombra all’altra a fianco dell’albergo, a piano della strada, prima di incamminarsi.
Una bambina vestita da streghetta scivolò sulle pietre scure del marciapiede, ridendo dietro a degli amichetti proprio di fronte a loro, e una mano candida la aiutò a rialzarsi.
“Fatta male?” chiese Morgana gentilmente.
“No!” rispose stoicamente la bimba massaggiandosi il sedere paffuto “… Hai dei dolcetti??” chiese prontamente, facendo ridere sia Marco che la mora, che, incredibilmente, cavò fuori dalla tasca del trench una manciata di incarti, richiamando ovviamente anche tutti gli amici della bambina.
“Scusami, tu tieni sempre delle caramelle nel cappotto?” domandò Marco mentre Meg salutava i bimbi che correvano via più appesantiti di prima. “Ti sembrerà strano, ma sì, spesso. Specialmente se so che girano dei bambini chiedendomele a Samhain… Halloween.” sorrise la mora voltandosi verso la strada, ricominciando a camminare a braccetto con il ragazzo.

“Immagino che tutto questo per te sia… Irrispettoso?” chiese Marco, mentre passavano in un gruppo di tizi già un po’ alticci.
“Perché dovrebbe?”
“B&egrave, quella che per te era una festa sacra, con certi riti, e… Seriosità, adesso &egrave una cosa commerciale, da bambini, gente che si traveste da strega porno per acchiappare cazzi di tizi ubriachi…” Morgana rise di cuore.
“Ha parlato quello che l’anno scorso stava per scoparsi la strega del Mago di Oz!” passò una mano sulla guancia ispida dell’informatico. “No, per me non &egrave offensivo. Un tempo certo era diverso, era un momento in cui avvertivate le energie che si toccavano e incrociavano, e di sicuro, più che tra tizi vestiti da personaggi dei film, io mi aggiravo tra persone che mi chiamavano ‘Regina’ offrendo doni e chiedendo favori…”
“La Morrigan faceva favori?” apostrofò ironicamente Marco, prendendo dalle mani di lei delle caramelle e dandole a un bambino che cominciava a tallonarlo. La mora, pensierosamente, sospirò.
“A volte. Se poteva, se voleva. La Morrigan era sempre ambigua, prendeva e lasciava, era la sua natura, il suo ruolo. Era amata, venerata, temuta e odiata.”
“Odiata?”
La mora si girò di scatto a fissare qualcosa lontano.
“Sì, odiata. Come potevate non odiare chi non vi ricambiava? La Morrigan era sempre quella responsabile di qualche sventura, la si elogiava quando prendeva giovani e li riportava sulla terra come grandi guerrieri, ma inveivate contro quando ne portava via qualcuno. Celebrata se veniva vinta una battaglia, maledetta se veniva persa. Era ambigua, e voi odiate le ambiguità. La Morrigan vi feriva e la maledivate… Certo, nessuno ha mai pensato se la Morrigan venisse ferita qualche volta.”
Marco si trovò nella spiacevole situazione di dover convenire dentro di sé. Amava Morgana, ma la sua costante altalenanza di sentimenti, passioni, comportamenti, quasi schizofrenici, lo disturbava spesso. Non sapeva mai quanto lasciarsi affidare a lei, quanto fidarsi.

“… Ferita?” chiese il ragazzo alle spalle della ragazza, che sussultarono al tocco della sua mano.
“Sì, ferita.” rispose sottovoce. “… Nessuno si &egrave mai chiesto perché la Morrigan prendesse con sé certe persone, e perché le lasciasse tornare da dove erano venute… Nessuno ha mai pensato che fosse semplicemente la fine di qualcosa tra loro.”
“… La fata Morgana porta Artù ad Avalon…” sussurrò Marco, abbracciandola da dietro.
“Esatto. Rielaborazione di miti precedenti, o realtà accadute.” sussurrarono le labbra scure di lei, lo sguardo nascosto dalla cascata di capelli corvini, rimanendo in silenzio per qualche istante. “Mi ha sempre fatto sorridere l’epiteto di ‘fata’…” sussurrarono le labbra polpose di lei con un sorriso lieve.
“Mi vengono così tante domande da farti…”
“Posso non darti neanche una risposta?” sorrise del tutto. “… Non stasera, Marco. Ci sono tante cose da fare stasera, e voglio che tu ti diverta.”
“C’&egrave un vicolo.”
“Cazzo, sei un maniaco. Una cosa veloce, ti devo portare in un posto.” sbuffò poco seriosamente lei, prima di trascinarlo nel buio.
Ci mise pochissimo ad afferrarlo per il sesso estratto dai pantaloni, e a buttarsi in ginocchio, si fiondò con la sua bocca scura vorace e bollente a degustarlo, quasi violentemente si portò una mano di lui alla nuca, lasciando che le dettasse il ritmo… E che ritmo!
Marco osservò la pelle candida di Morgana così stridente con il lieve trucco, i capelli neri, le labbra quasi nere che scivolavano leste sulla sua pelle rosata dell’asta, e perse la testa improvisamente, afferrando quella di Morgana e cominciando a pompare nella sua bocca come se non ci fosse un domani, con una violenza tale per cui anche l’usatissima abilità di lei ebbe qualche iniziale difficoltà.
Si scostò tossendo piano un paio di volte, lasciandolo però tornare ai suoi comodi, era bello che si lasciasse andare, che non avesse rimpianti, perché lei sentiva che quella sera non tutto poteva andare per il verso giusto, e almeno avrebbe avuto la coscienza a posto.
Non distante dal vicolo,si fermarono un paio di figure snelle che attesero tranquillamente che la coppia finisse il suo momento di intimità, sentendo i bassi rumori della gola di Meg.
“Dobbiamo aspettare qui?” sussurrò una voce dietro ad un’altra sciarpa scura. “… Penso che non ci sia il tempo per una cosetta a quattro in un vicolo buio…” rispose l’altra figura, mentre con le lunghe dita giocava con una treccia di capelli scuri.

“Se continui così… ghhlkk… Non durerai molto!” suggerì nel vicolo la mora, nella brevissima pausa di un paio di pompate, ma lui non se ne ebbe a preoccupare, continuò così lasciando che lei continuasse con la sua bocca a ingurgitarlo a ritmo sostenuto, imponendole un ritmo con una mano. Voleva… Crudamente, svuotarsi lo scroto nella sua gola. Si sentì eccitato ma anche entusiasmato da quel picco di egocentrismo, lui scopava in bocca Morgana -Morgana!- e lei in ginocchio nel buio acconsentiva fingendo una riottosità nei pochi momenti in cui non lo lasciava affondare del tutto, per deglutire saliva e liquidi.
Lei stillò una lacrima pensando che forse stava riuscendo ad essere sempre meno qualcuno, e più qualcosa, per lui. Questo lo desiderava ma le dispiaceva; come spesso accadeva, Morgana sapeva che era una delle strade migliori.

Strada migliore che evidentemente non era quella scelta da Asia e dai suoi amici, visto che praticamente a mezzanotte, mentre Marco rantolava un’eiaculazione nell’esofago di Meg, erano ancora in giro senza trovare alcun locale.
Finirono sul ponte più grande della Città Magica, sospesi nella foschia, tra le alte statue e le volute di goccioline che giocavano con le ombre, mentre sotto di loro il fiume scorreva placidamente.
“Andiamo a caso da qualche parte!!” urlò esasperata Lila, mentre Andrea cercava ancora di fare il brillante con Georgia e di trovare il posto che cercavano.
“No, dev’essere nella via qui a fianco alla fine del ponte…” sospirò anche Asia, che odiava perdersi, non riuscire a trovare un luogo, e si sentiva molto a disagio.
Lila si voltò indietro, notando qualcuno a distanza, e in inglese stentato domandò “Scusi, sa dove si trova il Hromnice?”
La figura sobbalzò, balbettò qualcosa, incapace di rispondere o correre via, mentre il gruppo arrivava vicino a lui.
“No, scusate, io…” Asia trasalì, riconoscendo la voce di suo cugino.

“Che cazzo ci fai qui???” urlò, puntandogli addosso la luce del cellulare. Il ragazzo strizzò gli occhi, mentre tutti gli altri corrugavano la fronte domandandosi quale cordialità mai potesse avere la biondina nell’assalire così un suo parente.
“… Io… Io… E va bene!” sbottò lui, alzando la mano e facendo un gesto. Dalla foschia, dalle ombre delle statue, spuntarono altre sagome.

“Cazzo, sei davvero pessimo a pedinare!” disse con un rutto un grosso uomo con una birra in mano.
“… Finché ti pago dammi del lei” lo apostrofò il cugino di Asia.
“… Cazzo, Lei &egrave davvero pessimo a pedinare, Sua Altezza.” rise sguaiatamente dopo un secondo di silenzio. Il gruppetto di ragazzi si trovava adesso in una situazione orrorifica, che nonostante la serata perfettamente a tema, non era una cosa piacevole. “Oh puttana…” piagnucolò Andrea stringendosi a Georgia, che sospirò molto colpita dal coraggio e dalla temerarietà del ragazzo. Lila, di solito molto sfrontata, aveva un labbro che tremava all’osservare tutti i tizi ben piazzati che sembravano essere spuntati dal nulla, almeno una decina.
“… Cosa..??” tremò Asia, guardando il cugino. “… Sei fuori di testa??”
Lui alzò le spalle. “Sì, probabilmente.” scrutò il gruppetto, con un sospiro. “… Dov’&egrave Morgana Danu?” buttò lì, in un sibilo che fece quasi svenire Asia.
“… A saperlo…” disse lei, senza dimostrare abbastanza convinzione evidentemente, tanto che il cugino le assestò una sberla. “… Cazzo!! Sei fuori!!” imprecò lei con le lacrime agli occhi.

“Sei ripetitiva, Asia. Dov’&egrave Morgana??”
Lila sbuffò una risata, presa dal terrore stava entrando in una modalità isterica “… Dice che sei ripetitiva, poi, lui…”
Il cugino la squadrò per un istante. Bel visetto, occhi vispi, doveva essere una bella tipetta quell’amica di Asia. Decise di parlarle, dato che la cugina sembrava solo in grado di ansimare rapidamente come un cane in agitazione.
“Lascia che ti spieghi… La tua amichetta, qui, &egrave sempre stata una biondina con il coraggio di un coniglio braccato in una gabbia. Saltella di qui e di lì fino alla fine. Molto divertente da vedersi. Ma da quando &egrave venuta all’Università, qualcosa &egrave cambiato, e non credo che siate stati né tu, né Capitan Coraggio lì che si piscia addosso, ad aver pompato il suo ego. E’ diventata una piccola stronzetta che si diverte a umiliarmi.”

Andrea non colse la battuta, teso più che altro a fissare le tasche piene del grosso tizio di fianco a lui chiedendosi se le cose potessero andare peggio.
Il cugino di Asia, quasi in un monologo da psicopatico di film, fece un paio di passi nelle volute di foschia. “… Il fatto, &egrave che non riesco proprio a passarci sopra. Umiliato da Asia, la novella coraggiosa!… Penso che la responsabile di questo sia una certa Morgana, che si dà il caso abbia un conto in sospeso anche con me. Mi sono… Speso, letteralmente, nel cercare di trovarla.”
“E hai mandato tutto a puttane.” disse con un rutto il primo tizio che era intervenuto.
Georgia prese la parola. “… Aspetta, tu stai dicendo che hai trovato che Me… Questa ‘Morgana Danu’ era amica di Asia, e ritenendola responsabile di non aver lasciato tua cugina con un carattere da pisciasotto, la stai…?”
“La sto cercando, stronza!” urlò il cugino. “La sto cercando perché anche lei si &egrave divertita a umiliarmi, e io la voglio avere tra le mani, la voglio in ginocchio a leccarmi gli scarponi, quella troia!! Perché mi ha rubato la mia cuginetta cacasotto, perché mi ha trattato come una merda, e io non posso tollerarlo! Quando prenderò a calci quel viso da troia, mi sentirò abbastanza soddisfatto, quando mi implorerà magari sarò a posto con me stesso! Ho cacato fuori tutti i soldi che avevo da parte per avere qualcuno che tenesse d’occhio questa stronzetta e trovasse quella puttana, fino a qui!” finì di sbraitare paonazzo in viso il ragazzo.
Uno degli uomini scoppiò a ridere. “… Mandando tutto in merda, visto che ti sei fatto beccare.”

Asia scoppiò a piangere.
Si sentiva del tutto responsabile di tutta questa situazione, e devastata dal fatto che i suoi unici momenti di egocentrismo fossero sempre abbattuti da situazioni e parole di chicchessia. Una volta che aveva avuto il coraggio di reagire al cugino, ed ecco come finiva. Una volta che aveva osato pensare che uno come Alec la accettasse, e quello scopava mamma e figlia in vacanza, e anche la sua amica le diceva che era naturale… Non c’era un momento di rivalsa per lei?
“… io… Io volevo solo essere come Meg…” piagnucolò con le gambe molli, finendo strattonata dal cugino. “… Lei &egrave così…”
“Sì! Sì, esatto, l’hai vista?” si morse le labbra lui, folle di entusiasmo.
“… Sì… Lei &egrave oltre… E io volevo solo assomigliarle, e invece… ” non finì la frase, scoppiando a piangere a dirotto.
“Ma lei, lei non c’&egrave, quindi perché non ci lasciate stare?” gridò Georgia, di fianco a un Andrea di color uguale a quello della foschia.

“B&egrave, questo signorina, temo sia un po’ più complicato…” intervenne il capo della compagnia, tirando un sorso alla bottiglia. “… L’idea, se il Signor Soldini non si fosse fatto beccare, era quella di trovare questa ‘Danu’. Semplice. Senza gente di mezzo. Siamo finiti qui perché non trovandola, abbiamo cominciato a pedinarvi fin dall’Università.”
“… Tra l’altro, il bar dove andate costa un casino, ragazzina” sbottò uno degli uomini accostandosi a Lila, che si ricordò del tizio che aveva spintonato Asia al locale vicino alla facoltà, tempo prima.
“Per cui, temo che qui finisca la giurisdizione di Mister PagoiodammidelLei: la mora non si &egrave trovata e qui andiamo di mezzo tutti in qualche casino…”
Il gruppetto ebbe un brivido, mentre Asia stringeva ancora di più la borsa, quasi in ginocchio, piangendo e biascicando parole tra sé e sé.

Un uomo tirò per un braccio Georgia. “Sapete, c’&egrave nebbia, un gruppo di universitari ubriachi su un ponte, il fiume &egrave freddo e la corrente &egrave forte…”
Il suo capo, osservando l’ampio dondolìo dei seni della riccia, alzò la bottiglia vuota per fermarlo. “Ehi… Non vedo però perché non divertirsi un attimo, ragazzi. Vi ho portato qui dietro a un ragazzino del cazzo, mi dispiace. Ma potremmo anche concederci un po’ di festa anche noi.”
I ceffi sembrarono decisamente favorevoli alla generosità del loro capo. La riccia era una gran sventola, ma anche le altre due non erano male. La piccoletta aveva uno sguardo di fuoco terrorizzato, e la bionda se smetteva di piangere aveva anche un bel visino di cui approfittare…
Una grossa mano tirò violentemente il cappottino di Georgia, strappandone un paio di bottoni e mettendo in rilievo l’abito sottostante e le generose forme più che intuibili.
La metà del gruppo di uomini vide già mentalmente il proprio sesso scomparire ritmicamente tra quelle due mammelle gonfie.
“Però meglio avere dell’intimità, sarà meglio andare almeno giù per l’argine, ragazzi!” disse il capo con una risata, avviandosi verso l’altro lato del ponte dove una scalinata li avrebbe condotti all’argine, lanciando lontano sul ponte la bottiglia vuota, che sparì nella foschia così densa che nemmeno si avvertì il rumore del vetro che si infrangeva.
Asia venne presa di peso da due degli omoni, squittendo nel riprendersi dal suo piangere, e cercando una ben poco efficace resistenza, abbarbicata alla sua borsa. I rintocchi lontani segnalarono l’arrivo della mezzanotte.
“… E io? Non abbiamo trovato la Danu!!” urlò il cugino di Asia, mentre il gruppo gli passava davanti, ma si fermava dopo un paio di passi, allertato.

Nella foschia del ponte si intuivano quattro figure in cammino verso di loro, abbastanza vicine da aver sentito tutto o almeno le ultime frasi. Una di quelle centrali faceva ondeggiare con noncuranza la bottiglia di vetro vuota, evidentemente acchiappata al volo.
“… Se non mi trovi, basta chiamare, stronzetto… Non sono una che ‘non venga’.” sorrisero due labbra carnose, sbuffando nella foschia, con una voce bassa, calda e assieme raggelante.

“Sei pessima.” scrollò la testa una delle figure, che ora si delineava come un ragazzo dai capelli di media lunghezza e la barba un po’ casuale.
Alla sua sinistra, una ragazza dai capelli ricci piuttosto lunghi si sistemava una sciarpa spessa che le copriva il volto quasi fino al naso, bofonchiando un “Non &egrave mai stata una fine umorista.”
Dall’altro capo della fila, un’altra ragazza, con i capelli neri e lunghi in una treccia portata sulla spalla, sorrise a trentadue denti al gruppo eterogeneo, che non sapeva spiccare parola. Persino i tizi assunti dal cugino di Asia, le cui turpi avventure ed intenzioni erano tutto meno che quotidiane, rimasero impietriti. Non solo erano stati beccati, ma pure da un gruppetto di soggetti così assurdi che le loro menti non sapevano come reagire allo spettacolo. Specialmente, visto che il quarto componente del gruppetto era chiaramente la tanto ricercata Morgana Danu, che come se fosse appena arrivata ad una riunione di amici, fermò la sua sculettante andatura a qualche metro dai grossi tizi, per poi andare ad un cestino del parapetto del ponte e gettare la bottiglia nello scomparto del vetro, nel silenzio più totale.

Lo sguardo scuro di Meg saettò velocemente su tutti i componenti del teatrino, dalle lacrime di Asia che reagiva alla sua comparsa ricominciando a piangere, ai terrorizzati compagni di classe, al cugino che barcollava in avanti come se avesse avuto una rivelazione.
“Buonasera, signori.” disse con un sorriso.
“Adosso! Andatele addosso cazzo!!” urlò il capo della banda, lanciandosi con altri due nel tentativo di acchiappare quella tizia, che con un balzo indietro, senza neanche tirare furoi le mani dalle tasche, lasciò miseramente crollare sul selciato uno di loro. Sembrava inafferrabile come la foschia sul ponte, lasciava che le dita le arrivassero a un millimetro dall’afferrarla e si spostava con un balzo, una movenza flessuosa, come un’anguilla. Nel giro di un paio di minuti di assurdo teatrino in cui ogni pugno o slancio erano andati a vuoto, la situazione era chiaramente a uno stallo.
Uff, ragazzi, così mi fate accaldare!” sbuffò Meg, quasi in mezzo alla carreggiata del ponte, sventolandosi il visino niente affatto stanco con una mano, prima di slacciarsi il trench e lasciarlo cadere a terra, con un trasalire di Marco. “Cazzo!!” esclamarono l’informatico, un paio di tizi, e pure Lila, nell’ammirare la generosissima scollatura dell’abito di Morgana.

Era una strana mise, simile a quella che portava un anno prima sul palco dell’Agarthi. Solo, che questa sembrava una versione più dettagliata, o meglio, pareva proprio che fosse l’originale di cui, un anno prima, erano state tratte delle versioni “da palcoscenico”. Quelli erano costumi, questo era un abito, per quanto bizzarro.
Era come se qualcuno avesse preso una sorta di felpa rossastra con cappuccio, un poco più abbondanti della taglia di Meg, l’avesse privata della manica destra e di una generosa fetta di stoffa sul davanti.
Sovrastati da una strana collana, i grossi seni di Morgana facevano mostra di sé, avvolti in una striscia di stoffa molto semplice che li copriva solo in parte, lasciandoli assolutamente intuibili nelle forme dei capezzoli turgidi, lasciando libera anche la pelle del sottoseno, che declinava in un pancino piatto e in una gonna dalle innumerevoli frange, che copriva quelli che parevano pantaloni e alti stivali di pelle con un certo tacco.
Estia scoppiò a ridere di gusto. “Da quale marcio e schifoso baule hai tirato fuori quella roba?”
Morgana rispose con una punta di asprezza nella voce. “Zitta, dullahan, questo abito ha ancora sopra le tue lacrime della prima volta che ti ho incontrata.” Estia abbassò immediatamente lo sguardo. E la testa, che venne prontamente presa in braccio facendo urlare praticamente tutti i presenti di terrore.

Marco si lasciò andare a uno sbuffo divertito, dando una manata sulla nuca di Dawn, che si trovò ad appigliarsi ai suoi ricci per non far sbattere il suo viso sul selciato, in un altro grido collettivo. Marco stava apprezzando la follia di quella situazione, e l’abitino assurdo di Morgana solleticava non poco il suo amico nei pantaloni, nonostante il precedente pompino quasi violento.
Sempre meno violento della reazione del gruppo di grossi tizi, che senza troppi complimenti decisero che la serata stava prendendo una piega troppo pericolosa per non tirare fuori qualche ‘ferro’ di vario genere.
“Seguire dei cazzo di ragazzini, era il lavoro!!” imprecò uno di loro tirando Lila a sé con una rivoltella un po’ d’antiquariato ma sempre efficace, mentre Morgana, senza staccare gli occhi dal gruppo, si chinava a prendere il trench e lo lanciava a Marco in un rumore di oggettini sul lastricato.
“Sono caramelle, quelle?” chiese con una faccia allibita Lila, la cui mente cercava di sfuggire al panico concentrandosi su dettagli inutili, prima di urlare trovandosi d’improvviso il viso di Morgana ad un millimetro dal suo, le unghie scure che reggevano un involucro rossastro di caramella tonda.
“Ne vuoi? E’ cioccolato.” scandirono i denti candidi di lei, prima che la mano lasciasse cadere il cioccolatino e scattasse verso l’arma.
La ragazza chiuse gli occhi istintivamente sentendo un rumore forte e secco; mentre il pensiero di rimanerci le si faceva largo nel cuore, percepì un urlo seguito da molti altri. Aprendo gli occhi e scoprendosi buttata a terra, osservò con terrore l’uomo reggersi il braccio con un’angolatura del tutto innaturale, mentre la padrona di casa di Asia faceva roteare l’arma tra le dita.

“Questa roba mi ricorda negli anni venti una situazione nel pub di Estia…” ridacchiò Dawn, leccandosi le labbra, osservando lo spettacolino, come fosse eccitata sessualmente.
E non era, assurdamente, l’unica a sembrarlo. Marco aveva un’erezione dolorosa nei pantaloni, ma d’altronde Meg gli causava questo effetto quasi solo stando vicino a lui. E i grossi tizi, prima per la prospettiva di sfogarsi sulle universitarie, e per la botta di adrenalina poi, sembravano tutti sul punto di lasciar cadere a terra ferri e coltelli, e tirarsi fuori l’uccello.
Per non parlare del cugino di Asia, i cui occhi stavano dimenticando di chiudersi di fronte a quella bellezza impossibile, che con un nonnulla dominava incontrastata quelli che reputava degli esperti del settore.
Girata di schiena rispetto al terzetto di coinquilino, ‘sorella’ e amica, Morgana alzò il braccio armato verso il cielo, incurante di quello che la circondava.
“Lasciate i ragazzini a me e prendete gli altri, Dullahan.” sorrise malignamente, prima di liberare un colpo in aria e che ogni luce sul ponte svanisse istantaneamente. Lo sparo portò i presenti a chiudere gli occhi e ripararsi nelle spalle, l’istintiva risposta a una minaccia incomprensibile.
Asia, abbandonata per terra, sentì di colpo un gelo innaturale spazzare il ponte, le sembrò quasi di vorticare nell’aria, e quando calò la calma, nel tremolio delle sue lacrime, mise a fuoco il capino curioso di un corvo, arrivato lì non si sa come assieme a molti altri, che cazzeggiavano tranquillamente sul selciato cercando di aprire gli involucri delle caramelle, posati sull parapetto, e su qualche lampione che tra le statue brillava ora di una luce un po’ insicura.
Insicuro quanto il cugino di Asia, che qualche metro più in là stava in ginocchio nella foschia davanti a Morgana, che mai come allora era splendida, irraggiungibile, bellissima e terribile, con le mani sui fianchi e lo sguardo sul ragazzo, come a guardare dall’alto un cucciolo di cane che abbia sporcato in casa e stia vivendo il terrore della punizione.
“Tiralo fuori.” sibilò la donna.
Il ragazzo non reagì, e il volto dalle labbra tremanti venne alzato dalla punta di uno stivale, con calma e sicurezza.
“Tiralo fuori.” ripet&egrave Morgana, sorridendo lievemente ai gesti insicuri delle mani di lui, che così inginocchiato liberò un sesso parzialmente turgido.
Asia, pur senza smettere di tremare, osservò Marco che aiutava Lila ad alzarsi, mentre Georgia sorrideva ad Andrea che aveva vomitato da qualche parte, e tornò con lo sguardo sulla sua padrona di casa e sul cugino, che miseramente cercava di procurarsi un’erezione completa.
Morgana si chinò ad altezza del viso del ragazzo, con uno sguardo quasi comprensivo. Mai avrebbe del tutto capito le sostanze che si miscelavano nell’animo umano, ancora meno quelle di qualcuno in grado di perseguitare la cugina per arrivare a lei.
Il ragazzo sembrava impedito nel non portare avanti una masturbazione compulsiva, come se qualcuno lo costringesse a farlo, o semplicemente, impedisse di non farlo.
“Sei così… bella…” piagnucolò lui, perso nelle iridi di lei, che sorrise lievemente con le labbra turgide e scure.
“Grazie. Non &egrave merito mio.” una mano dalle unghie scure abbrancò il viso del giovane.
“Dimmi cosa vorresti.” disse con sicurezza.
“… Vederti… In ginocchio…” piagnucolò lui.
“In ginocchio? La tua schiavetta?”
“Sì…” sussurrò lui, aumentando la masturbazione. Meg sbuffò dal nasino dritto.
“Chiudi gli occhi…” sussurrò, piano.

Il cugino di Asia le obbedì, non poteva che farlo. Si percepì, o si vide come in sogno, quasi a ruoli rovesciati rispetto a prima. Lui era un perfetto, fulgido, esemplare di spicco, era un Dominante, e lì di fronte a lui, gattonando come un animaletto agile, vi era Morgana. Era nuda e bellissima, ed era sua. Non osava parlare, lei, la schiava, ottenebrata dalla potenza del Suo Dominatore. Lei era sua, non poteva che essere così, perché bella e irrefrenabile poteva solo soggiacere a chi le era Superiore, e Lui, solo Lui, era tale.
Aveva sottomesso la perfezione.

Sul selciato umido di notte, il ragazzo continuava a masturbarsi ferocemente, e anche se il gruppo dei ragazzi non vedeva ciò che succedeva (n&egrave, certo, voleva avvicinarsi alla coppia, terrorizzati da Meg), era palese che Morgana stesse in qualche maniera soggiogando quel ragazzetto dal bell’aspetto e la psiche deviata.
Asia era l’unica, ancora distante dagli altri, a vedere e sentire tutto, nel suo frugare dentro la borsa.
“Perché tutto questo?” chiese, a voce bassa, Morgana sul ponte.

“Perché avevo bisogno del mio posto nel mondo.” disse, sicuro di s&egrave, il Dominatore nella sua testa alla Meg che strisciava ai Suoi piedi. “E tu hai ribaltato tutto.”
Morgana-schiava leccò timidamente lo stivale di lui. “Forse non era il Suo posto, Padrone. Non si può entrare nella prima casa della via e decidere che &egrave la propria.”
Il Dominatore sembrò pensieroso. Non l’aveva proprio, mai, pensata così, e parlò dopo quella che pareva un’eternità.
“Forse hai ragione, ma non &egrave troppo tardi?”
“Non credo, Padrone. Glielo posso assicurare, quasi tutti sbagliano la porta di casa prima di trovare quella giusta.” scandirono le labbra di Morgana, baciandogli i piedi.

Il cugino di Asia, sul ponte, rantolò il suo orgasmo liquido, colandosi sulla mano con lo sguardo rigato dalle lacrime. Aprì gli occhi, vedendo Morgana che sorrideva, rendendosi conto dell’illusorietà della sua visione.
“Mi dispiace. Non mi dà piacere la sofferenza altrui, ho pensato che vedere questo ti avrebbe fatto stare meglio.” disse la ragazza.
Lui si stupì che sì, effettivamente si sentiva più leggero. Aveva trasformato in ossessione una sua passione, ne era rimasto invischiato come quel ponte nella foschia. Era un dominatore, dominato. Un ossimoro, che difatti non poteva funzionare, e lo dilaniava dentro. Aveva puntato il dito della sua ossessione verso Morgana, l’aveva resa colpevole di aver trasformato Asia e di avergliela portata via. Aveva continuato a bussare alla casa sbagliata.
Ma non era così, era Asia che grazie a Morgana aveva capito una parte di sé, la sua sicurezza latente, e si era rivelata a lui.
Aveva assistito al primo lampo di un carattere più libero, e anziché gioirne, se ne era offeso.
Così come lui aveva capito la sua insicurezza, rivestita dal ruolo di Master nella sua testa. Asia non era l’insicura che pensava, lui non era il sicuro che credeva. Scoppiò a piangere, abbracciato da Morgana.
Asia non riusciva a credere ai suoi occhi! Quella merda di suo cugino si era messa a tallonarli per trovare Morgana -chissà che cazzo era successo tra quei due- e ora quella lo abbracciava?

Lacrime di rabbia stillarono dagli occhi chiari della bionda, mentre le labbra tremolavano e inveivano contro di lei.
“Tu! Troia!!” urlò così forte da rasparsi la gola.
Barcollò cercando di alzarsi in piedi, le gambe gelate dal freddo, terrorizzando i suoi amici. “Ma non hai alcun rispetto per nessuno??” urlò di nuovo, reggendo la borsa con una mano, muovendo un passo insicuro verso Morgana che continuava a darle la schiena, pallida e seminuda, nel suo strano abbigliamento.
“Questo stronzo a momenti ci fa ammazzare tutti e tu lo abbracci?? La stessa sera che tu… Guardami, puttana!!” inveì Asia, calciando caramelle verso di lei, senza risultato “… Che tu ricompari come un cazzo di bubbone dopo mesi che ti chiamo e ti cerco, appena questa merda salta fuori??”
Gli astanti non avrebbero saputo dire se era più inquietante la scena delle amiche di Morgana (dovunque fossero finite) che si staccavano la testa, il braccio del tizio girato come un fuscello, una mora seminuda che si fa eiaculare ai piedi, o il corpicino magro di Asia che tremando insultava Morgana con tutto il suo ardore, frugando nella borsa.

“Asia &egrave fuori…” sussurrò il cugino, all’orecchio di Morgana, che sorrise. “Ma certo. La naturale e logica prosecuzione delle cose.”
“Mi aspettavo che tornassi, Meg, mi aspettavo che spuntassi fuori stasera!” ruggì ancora la biondina “… Perché a te piace dare spettacolo, vero? Piace stuprare la mente delle persone, sei così perfetta e mitica che non ti importa di ferirle, vero??”
Asia strattonò la borsa, continuando a cercare qualcosa. “Io ti chiedo aiuto, e tu riesci solo a sparire! Dov’eri quando avevo bisogno di te, Meg?”

“La..?” chiese il ragazzo.
“Logica prosecuzione delle cose.” sussurrò la donna, dalle labbra turgide, con un lieve sorriso, che si deformò in uno spasmo di dolore nemmeno troppo esasperato e un soffio dai denti candidi, quando le mani di Asia spinsero nella carne pallida la durezza della pietra, mentre Marco, l’unico a capire da distante, scattò di corsa in un nugolo di corvi in volo.
Asia si accasciò sulla schiena di Morgana, in lacrime, tracciando con le dita tremanti dei segni. Resistette alle mani che la abbrancavano, mugugnando qualcosa, prima di venire spinta via dall’informatico che quasi diede un calcio pure al cugino.
Le mani di Marco si tinsero di un liquido scuro, mentre cercava di capire cosa fosse successo. Sulla pelle candida segni scuri, che sembravano quasi la spina di un pesce, rilucevano lievemente illuminati dai lampioni. Quello che pareva un sottile pugnale di materiale nero sporgeva dalle scapole di Morgana, che allungò una mano verso l’amato.

“Ssssh…” sussurrò lei. “E’ solo la logica conclusione delle cose.”
“Cosa??” sbottò lui, cercando nel panico di capire cosa fare.
“Asia…” disse la donna, abbastanza forte che la biondina accanto a lei la sentisse “… Non mi sono mai fidata di tuo cugino, da quando ho capito che non sopportava che ti fossi ribellata a lui, e con i miei mezzi l’ho sempre tenuto d’occhio. Ma non ho potere di impedire alle persone di agire.”
Meg girò il suo viso candido verso quello della bionda. “Ho sempre e solo potuto assecondare od ostacolare in una certa misura le vostre azioni. Ostacolare le sue, sperando che rinsavisse. Non farmi trovare, sviarlo. Assecondare le tue.”

“Assecondare le sue??” inveì Marco, cercando inutilmente con un fazzoletto di intervenire attorno all’oggetto nero e luccicante. Morgana ridacchiò.
“Ma certo… A te piacciono le cose meccaniche, logiche, no? Allora, senti questa! Da principio, Asia rifugge dalle sue insicurezze, e trova in me un’alleata. Che le propone di aiutarla a vincere i suoi timori. E così, conosce Alec.”
Asia sobbalzò a sentire quel nome, fissata dalla mora.
“Alec, un mio ex partner ai suoi occhi così speciale per lei, che Asia finisce a convincersi che lei non sarà mai abbastanza. Perché se Alec usciva con una come me o le mie amiche, allora vuol dire…”
“… Che non potrà mai volere qualcuno di meno speciale.” balbettò Asia, finendo la frase con la voce rotta.

Morgana scoppiò a ridere di gusto.
“Esatto! Questo, finisce a pensare la piccola biondina… E così, Asia arriva alla sola e logica conclusione delle cose. Che deve essere qualcosa di diverso da quello che &egrave. Corretto?” gesticolò con la mano in direzione di Asia, che tremando annuì.
“Ma l’emulazione non funziona. Asia ricade nelle sue paure, timori, insicurezze, e quindi per essere qualcosa di ‘diverso da quello che &egrave’, Asia pensa che si possa passare da chi &egrave diverso da lei. Se non si può ‘assomigliare’ a qualcuno, magari funzionerà ‘diventare’ qualcuno.”
Marco, raggiunto dal gruppetto allo stremo della sopportazione, continuava a non capire, con il fiato corto, mentre Meg lo guardava.
“Sto parlando di cose per te illogiche. Sto parlando di ‘diventare me’. Asia poteva solo seguire la sua insicurezza fino a questo punto. Nella piccola follia della sua mente insicura, poteva solo voler emulare chi era -chi reputava!- più speciale di lei. E, ahim&egrave, non potevo che essere io.”

“Cazzo, sei praticamente una divinità!!” le urlò Asia. “Era ovvio che pensassi a te… A diventare… Te…”
Meg sembrava non poter smettere di sorridere. “Quindi, Asia poteva solo ricercare in tutti i miei libri ogni indizio, ogni razionale elemento che la portasse a poter essere la sicura, mitica, quasi perfetta -lasciatemelo dire, sono un’egocentrica- Morgana.”
Asia si sentì abbattuta e folle quanto il cugino, doveva esserci qualcosa di anormale nella loro famiglia.
“Ho pensato che se davo retta a quelle cose che dicevi, forse avrei trovato un modo di essere come te… Letteralmente…” piagnucolò, sul selciato. “… E così, Alec mi avrebbe voluta, per forza di cose… Come avrebbe potuto rifiutarmi? Come potevo essere continuamente additata come ‘meno’ di qualcun altro?”
“B&egrave…” tossì Morgana, con un rivolo di sostanza scura fuori dalle belle labbra. “… Io credo proprio che ad Alec tu piaccia perché non sei come me.” guardando il visino della bionda rigato di lacrime, la mora sorrise sinceramente con affetto, e una punta di divertimento.

“D’accordo, nella famiglia di Asia ci dev’essere qualcuno che si &egrave scopato tra consanguinei e sono usciti tutti mezzi pazzi ma… MEG! Dobbiamo portarti in un ospedale! Da dei medici!!” urlò Marco, mentre la mora gli toccava una guancia.
“… Credo che l’unica esperta in materia qui sia Tlachtga. Che prima di sculettare a portare drink, era la nota figlia di un druido… Più o meno la stessa cosa, no?” La cameriera dell’Agarthi si fece avanti, nel silenzio dei presenti, tormentandosi uno dei bei ricci, con il viso corrucciato. Si accosciò osservando la schiena pallida di Morgana, i segni tracciati dal suo sangue, se sangue era, dalle dita di Asia.
“… Qualcuno ha studiato bene… Più che bene.” bofonchiò la cameriera (?). Morgana sorrise, guardando la bionda che riusciva solo a tremare. “Sentito? Dovresti vantartene.”
Marco fece per aprire bocca, ma Georgia lo anticipò.

“La tua amichetta ha letto parecchi libri a quanto pare, deducendo quali elementi servissero per un rituale per incanalare alcune forze. La notte di Samhain, quando i mondi si toccano. I pugnali di ossidiana. L’alfabeto ogamico -questi segni qui, che ha tracciato sulla schiena- una città in cui ogni pietra e angolo &egrave fulcro di energie mistiche. Era da un pezzo che organizzava tutto, scommetto che se non veniva in vacanza qui avrebbe cercato un luogo in cui chiamare Morgana.”
Asia, fissata da tutti i presenti, annuì nel panico. “… Pensavo l’Agarthi…” sussurrò.
Georgia sorrise. “Hai solo dimenticato un dettaglio. Ma ottimo lavoro.”

“Dove hai trovato un pezzo di ossidiana da cui cavare un pugnale?” sbottò Marco.
“Aste online…” Morgana ridacchiò. “Certo che si trova proprio di tutto su internet…”
Asia la interruppe, balbettando. “… Ho pensato di potercela fare… Che se facevo quei sogni, c’era un messaggio, forse da Meg…”
Morgana scoppiò a ridere, cercando di alzarsi, pulendosi la bella bocca con il dorso della mano.
“Ahahah! No, nessun messaggio… Non sono nemmeno io ad averti ispirato quei sogni, hai semplicemente ricordato qualche fatto. Succede, che voi sogniate qualcosa che in realtà &egrave accadimento del passato.”
Meg si alzò in piedi, incurante del suo stato, quasi che non avesse che un piccolo mal di schiena. Senza dire nulla, baciò Marco intensamente, per lunghissimo tempo, quasi riuscì a fargli dimenticare tutto quello che li circondava, e sussurrandogli piano:
“… Prova a soffrire per questo, e giuro che te ne pentirai amaramente.” sorrise.
“Asia Altea Alioti. Vieni con me.” la mora si diresse con sicurezza, senza perdere minimamente il suo andamento sinuoso e sensuale, verso il parapetto del ponte in pietra ornato dalle statue.

Si appoggiò, respirando l’aria gelida, mentre Asia, più barcollando che altro, la raggiungeva. Ristettero, in silenzio.
“… Io…” ansimò la bionda, subito interrotta da Morgana. “Ti prego, no! Non chiedere scusa. Sono colpita dalla tua audacia. Se pensi ancora di non riuscire a fare qualcosa, pensa a cosa hai combinato in questi mesi.” gli occhi scuri di Meg sorrisero, guardando la coinquilina. “… Notevole. C’&egrave da essere fieri di te.”
Asia non riuscì a impedirsi di sorridere. Forse, anzi molto probabilmente, era pazza. Ma sorrideva mentre Morgana l’abbracciava.
“Chi era Halva?” balbettò la biondina, sussultando quando la mano di Morgana, senza mezzi termini, le si insinuò nelle mutandine. Cosa stava combinando? Era… Oh, il tocco di Meg…
Asia sospirò subito, profondamente, sentendo le lunghe dita calde sfiorarle il sesso.
“Halva…Era la figlia di Medb. Una regina che amava un eroe, non ricambiata. E che non sopportava che invece tra noi ci fosse qualcosa.” sussurrò la mora, massaggiando dolcemente il corto pelo biondiccio del pube di Asia con il palmo della mano, mentre le dita carezzavano il piccolo bottoncino, che si ergeva sempre di più.
“… Non capiva che nemmeno io potevo averlo, lui amava un’altra. E così, decise di eliminarlo. Se non poteva averlo lei, non l’avrei avuto nemmeno io.”
“Cù…” sospirò la biondina, facendo tremare un istante la mano di Morgana. “Esatto. Halva, sua figlia, sai bene cosa ha fatto.”

Asia sospirò nuovamente quando il polpastrello di Morgana le sfiorò del tutto la clitoride scappucciata.
“Ho… Pensato fosse una mia antenata, quei sogni…”
“Non saprei, Asia. Non penso siate collegate, il che dà ancora più valore a quello che hai fatto. Hai imparato a fidarti delle tue irrazionalità. Sono sorelle delle tue paure.” Morgana affondò un lungo, caldo dito, nel sesso di Asia, che si trattenne dall’urlare solo perché il viso le era affondato nei seni morbidi della mora.
“C’&egrave un collegamento però. Halva &egrave il nome di un dolce che si fa con il succo delle radici di una pianta.”
“Davverooh??” Asia rantolò un orgasmo potentissimo, improvviso, inaspettato, si sentì annichilita e ricomposta, si ritrovò quasi accasciata addosso a Morgana, tremante, mentre le dita della donna la abbandonavano.
“Già…” sorrise Morgana, prima suggendosi le dita assaporando gli umori della biondina, e poi baciando lentamente Asia.

“Una pianta che si chiama Altea.”
La biondina, riabbracciata, pianse un poco ancora, sorridendo. “Non lo sapevo, dell’Halva.”
“Sai cosa vuol dire Altea?”
“Quello sì…”
“Allora, vai.” Sorrise divertita, quasi ai limiti del riso, Morgana, guardando la biondina. Anche Asia, guardandola, quasi scoppiò a ridere.
“Ma sono matte?” quasi urlò Lila, di fianco a Georgia.
“No, solo non si stannno preoccupando, non c’&egrave niente di grave.” sorrise anche Georgia. “Fidati, Marco.” soggiunse, tenendo il braccio dell’informatico che voleva solo correre da Morgana e trascinarla ad un pronto soccorso.

Asia afferrò la lama nella schiena di Morgana, fissandola ricambiata dallo sguardo rossastro e sostenuto della mora, nonostante uno spasmo di dolore. Si sorrisero, sinceramente.
Morgana era davvero orgogliosa che la piccola Asia avesse abbattuto così le sue insicurezze, aveva trattenuto così a lungo ogni sua pulsione che non poteva che esplodere in maniera violenta.
Asia, capiva qualcosa che la liberava dai sensi di colpa, si sentiva davvero, completamente, sollevata.
Anche il gruppetto, sebbene tenuto a distanza dal piccolo stormo di corvi che arruffavano le piume segnalando di lasciare le due per conto loro, si avvicinò un poco. Sussultarono quando, dalla foschia, fecero comparsa Estia e Dawn.
“E i tizi?” balbettò il cugino di Asia.
Estia sorrise nella sua solita maniera inquietante. “Hanno avuto il loro brutto quarto d’ora, e credo stiano ancora sul cesso di una caserma a farsela ancora addosso. Niente vittime inutili… Ma hanno una fedina sporca come la casacca di Meg.” Dawn le fece eco. “O come i suoi stivali.”
La mora sorrise “Siete due stronze.”
“Impariamo dalla Regina.” dissero in coro, facendo un ampio inchino.

Asia tirò su con il nasino perfetto, mentre Meg le sussurrava un altro “Vai, biondina.”
Gonfiò lo scarno petto prima di preferire, a voce alta.
“M’irr’oghan, Grande Regina. Chiedo ammenda per i miei atti.”
“Ammenda concessa.” disse, seria, altera, impossibile, Morgana.
“Io, Asia Altea Alioti, nella notte di Samhain” proferì, adesa al petto della padrona di casa, ponendole una mano sul petto generoso.

“Altea, ‘Altheia’… Vuol dire…” sussurrò Estia, rapita come sempre dall’onomastica.
Colei che cura” continuò Asia “… Ti ringrazio, e disfo quel che fu fatto, cancello quel che &egrave stato scritto, guarisco quel che &egrave stato ferito…”

“Hail chuig an Morrigan!” urlò la bionda, estraendo il pugnale, e arretrando, mentre Morgana si lasciava andare a un urlo.
Un urlo che sembrava, assurdamente, come puramente orgasmico, così come il suo ansimare, il suo sguardo liquido, il mezzo sorrisetto di una donna barcollante dalle gambe molli.
Non disse niente, Morgana, ondeggiando un poco, prima di accasciarsi addosso al parapetto e finire giù, nelle acque gelide del fiume che circondava la Città Magica.
Nello stesso istante, lo stormo nero si levò in volo, mentre Marco urlava assieme agli altri, e Georgia, Estia e Dawn spegnevano tutte le luci sul ponte.

Non fu propriamente semplice impedire a Marco, una volta che si trovò nella suite assieme agli altri, di spaccare la faccia sia ad Asia che a suo cugino. O ad Estia, o a Dawn. Ci volle uno sforzo intenso da parte di tutti, e anche un paio di ceffoni della mora per lasciare almeno il tempo di respirare al ragazzo.
Estia cercò di spiegare, anche se ogni spiegazione era sempre su base poco razionale, ogni accadimento.
“Fatevene una ragione, credetemi, so come funzionano queste cose.” disse Estia, inclinando un po’ troppo il capino per una persona normale. “Credo che Morgana avesse capito benissimo come sarebbero andate le cose. Per questo ci ha chiamate, per questo seguiva lo stronzetto e i suoi tizi, per questo era venuta a salutarti, Marco.”
“Io la amavo…” balbettò lui.
“Sì, e penso anche lei. Morgana ama la vita, &egrave per il desiderio di vivere che, se così si può dire di noi, &egrave nata.” asserì Dawn. “Ma siete straordinari nel farlo anche voi. Magari con del tempo.”
Non fu del tutto una serata triste, la logica delle cose alla fine portò persino Marco, nel giorno successivo, a sorridere un poco al pensiero che Morgana gli aveva suggerito… Intimato, di non provare ad essere triste.
Ovviamente, non c’era una grande voglia di condividere ancora l’appartamento nella Grande Città, Marco fece molto in fretta le sue valigie, e salutò Asia in maniera gentile, con un lieve sforzo.

“Due anni di convivenza e sei passata da una timidina del cazzo a una stronza. Aveva ragione lei, a suo modo c’&egrave da essre fieri di te.” le disse con un abbraccio più diplomatico che sentito.
Asia piagnucolò, come sempre avrebbe fatto, mentre lui usciva di casa con l’ultima valigia. Il piccolo furgone dei traslochi era già carico, e non voleva far aspettare il conducente.
“Mi serve un attimo a trovare una sistemazione” disse la bionda ad Estia e Dawn, dalla cucina dove faceva dei caff&egrave, dopo lunghi momenti di silenzio. La mora, nella sala, ridacchiò. “Non credo.”
Asia la guardò interrogativamente. “Se questo appartamento ti piace, se non ti crea problemi, trovami dei coinquilini per l’affitto, ma per me puoi restare.”
“L’appartamento &egrave splendido, ma… Come posso restare? Estia, io ho… Ho…”
“Ucciso Morgana?” la interruppe la mora, facendola annuire vivacemente in un ondeggiare di capelli biondi. Estia rise, sadicamente, intensamente, così come Dawn.
“Che avete da ridere?” sbottò Asia, tentata di prendere il mestolo e colpirle tutte e due lanciando fuori dalla finestra quelle teste.

“Scusa! Scusa… Ricordi cosa ha detto Georgia sul tuo lavoro?” disse Estia ricomponendosi dalla risata.
“Che avevo dimenticato un particolare.” balbettò Asia.
“Esatto. Non di poco conto…”

Marco si accomodò sul sedile rovinato del furgone, sbattendo la portiera scricchiolante.
“Mi scusi, non riuscivo a chiudere il portellone dopo aver messo la valigia…” disse in uno sbuffo, imbarazzato di aver fatto attendere il conducente, che stava già mettendo in moto.
“… Nessun problema. Non sono una che se ne va… ” commentò uno sguardo rossastro, mordendosi un labbro, sorridendo.

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