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Racconti di DominazioneRacconti Erotici Etero

redemption – my own mind pt.1

By 15 Giugno 2014Dicembre 16th, 2019No Comments

Bando ai fronzoli, dunque.

Scoprì l’attrazione per il gentil sesso piuttosto precocemente; a undici anni, infatti, rimasi ammaliato dalle forme esageratamente provocanti della mia professoressa d’italiano.

Cristina, questo era il suo nome, era una donna straordinariamente affascinante di trentaquattro anni: capelli color nocciola che le ricadevano delicati sulle spalle per poi scender fino alle scapole, pelle ambrata e liscia come una divinità marmorea di ellenica fattura ed uno sguardo verde menta a dir poco fatale per il mio giovane cuore di immaturo ragazzetto.

Le sue forme sinuose erano accentuate da abiti sempre molto semplici, eppur perfetti in ogni occasione. Penso vi fosse una certa malizia nel suo modo di vestire, ora che ci penso. Ricordo ancora oggi, a distanza di anni, la sua lenta passeggiata tra i banchi scolastici e l’assoluta magnificenza di quel paio di pantaloni bianchi di tela grezza, che mettevano in mostra un tanga di pizzo scuro e curve mozzafiato.

Oh, l’ingenuità della mia infanzia… spari in un lampo!

Non avendo dalla mia alcuna possibilità – si trattava pur sempre di un universo lontano anni luce da quello abitato dal sottoscritto – dovetti forzatamente porre un freno alle mie prime curiosità da monello, riponendo ahimè ogni sogno ad anni più maturi.


Le scuole medie furono un periodo piuttosto bislacco per me. Il sesso iniziava a farsi largo nella mia mente come un tarlo, nonostante l’esperienza in materia fosse stata fin lì puramente teorica.

Mi innamorai perdutamente di tante, troppe ragazzine, che ovviamente vedevano in me poca roba: grassoccio, biondiccio e con il pregio di saper ascoltare le paturnie altrui meglio di chiunque altro. Non potevo certo pretendere una fidanzatina, nel mio piccolo. Mi mancava quel “certo non so che” che fa vibrare il cuore e le mutandine di ogni ragazza o donna che sia; fu per questo motivo quindi che divenni il confidente di molte di loro.

Sarò sincero: dei pomeriggi passati all’ascolto di questa o quella, non ricordo granché. Ma non me ne abbiano le mie principesse, per cortesia. Nessun uomo, seppur costretto, potrebbe mai ascoltare frivolezze e lamenti femminili per più di cinque minuti.


Come già accennato, ero un ragazzo grassoccio. E di conseguenza, visto nel modo errato dalle mie damigelle. Sul finire dell’ultimo anno di scuole medie poi, avvenne un fatto del tutto sgradevole, che mi segnò profondamente in tutte le relazioni interpersonali future, gettando le basi per quello che divenne poi il mio personalissimo culto dell’umiliazione sessuale.

All’epoca giocavo nella squadra di calcio del mio paesino. Ero un discreto terzino, mancino puro, con una forte propensione per il controllo di palla e la visione di gioco.

Il fisico però, mi costringeva spesso ad arrancare; per questo motivo la maggior parte delle volte venivano chiamato in causa a partita già iniziata. Ero, in sostanza, un panchinaro…

Il fatto sgradevole avvenne verso la fine della primavera.

Le docce dello spogliatoio erano disposte in due blocchi da quattro soffioni ciascuna, due soffioni per ogni lato, per un totale di otto docce. Da qualche mese, a dir la verità, mi ero accorto di cambiamenti notevoli nei miei compagni di squadra, e non solo per quanto concernesse la voce.

Io mi limitavo ad osservare, si intende, con la coda dell’occhio, domandandomi per quale ragione non fossi “esploso” a mia volta. Adesso che l’età puberale è trascorsa, posso solamente dire che una vera e propria esplosione non c’è mai stata.

Tornando a noi, ebbi un trauma nel constatare che non ero l’unico a guardarsi attorno.

I miei compagni trovarono subito mille aggettivi e altrettanti nomignoli, additandomi come se fossi un reietto immondo. Il fatto, in sé, non distrusse completamente la mia autostima.

Per quella ci pensarono le mie allora compagne di classe, prontamente avvisate del mio modesto organo riproduttivo. L’umiliazione andò avanti alcuni mesi, anche durante le vacanze estive, e nel mio subconscio di perversione e astiosità verso il mondo esterno si insinuò il germe dell’eccitazione.

Realizzai infine che più le ragazze mi deridevano, più io desideravo essere umiliato da loro, in un vortice di totale degrado che coinvolgeva il mio amor proprio. Godevo, oh sì, godevo nell’esser schernito da loro, ed amavo sempre più insistentemente quella stramba sensazione di distruzione del mio stesso IO, porgendo loro il fianco con frecciatine allusive, per poi essere nuovamente umiliato.

A posteriori, quel trauma delle docce si è rivelato un vero e proprio muro psicologico. Una volta sgretolato quel muro, infatti, la mia perversione fu libera di scorrazzare a piacimento…

Le scuole medie finirono, ma non la mia continua ricerca dell’umiliazione sessuale e, soprattutto, della mia dominatrice.



Se la professoressa Cristina fu la mia prima “regina”, splendida ed eccitante ninfa proibita, indubbiamente Monica fu colei che ne ereditò lo scettro, trascendendo la mera carne per divenire divinità celestiale.



Eh… Monica.

La disillusione nel suo sguardo di ghiaccio è ancora un vivido schiaffo alla mia virilità!

Notai Monica fin dal primo giorno di scuola superiore.

Scelsi una scuola tecnico-professionale molto conosciuta nella mia città, spinto dalle rassicurazioni di amici e conoscenti che già frequentavano l’istituto. Quella scuola, in sostanza, era piena di ragazze!

A quel tempo, con gli ormoni impazziti ed una totale mancanza di prospettive future, la vista di un bel fondo schiena mi avrebbe spinto ovunque.

Odiavo le materie e detestavo quel luogo, tanto da farmi venire l’orticaria al sol pensiero di metter piede giù dal letto. L’unica mia spinta mattutina, per i primi cinque anni, fu Monica…

Lei era la ragazza dei miei sogni più reconditi, perfetta incarnazione di ogni mia fantasia estetica e sessuale.

Capelli rossi, occhi chiarissimi, labbra color pesca. Con questi requisiti, ancor oggi, potrei promette il mio cuore a qualunque donzella del pianeta!

Il mio debole per i capelli rossi affiorò proprio in quel periodo dell’adolescenza, e sospetto in verità che sia stata proprio Monica a farmene innamorare. D’altra parte, cosa mai vi potrebbe essere di meglio del colore delle fiamme per accendere la passione?

Monica, tuttavia, non era passione.

Come detto, la notai subito. Il suo sguardo, di un azzurro assolutamente glaciale, aveva la violenza di un pugno allo stomaco. Mi tramortì al primo colpo, lasciandomi con un vuoto incolmabile nell’animo.

Caddi inesorabilmente ai suoi piedi, dandole in consegna non solo il mio fragile cuore di fresco innamorato, ma anche e soprattutto la mia dignità di essere umano.

Lei fu terribile, a ben vedere; per cinque anni, mi trattò alla stregua di un lebbroso, arrivando persino alle minacce fisiche e verbali.

Per lei non ero nulla.

Anzi, ero qualcosa: un piccolo e insignificante animaletto da compagnia, un misero ed inutile oggetto fatto di carne e sentimenti deviati.


Sapete, credo che vi sia in ognuno di noi un qualche cosa di selvaggio, proprio di certe specie animali; come una reminiscenza di ciò che fummo un tempo, millenni e millenni addietro, prima che sapone e rasoio ci trasformassero in quel che siamo oggigiorno.


Nel mio caso, ebbi immediatamente la sensazione che Monica fosse sulla stessa lunghezza d’onda del sottoscritto. Fra di noi vi era innegabilmente qualcosa, un legame psichico ed allo stesso tempo tribale, un eccezionale ponte tra il mio desiderio di sottomissione ed il suo smisurato potere di dominatrice.

Lei vedeva, nel mio sguardo da triglia, quell’ombra di accondiscendenza universale che le avrebbe permesso di fare di me ciò che di più perverso le fosse passato per la mente.

Badate bene, non la sto giudicando negativamente, né tanto meno ho il desiderio di dipingere la sua figura come maligna o spregevole. Monica era la mia unica Dea, una sorta di Venere dallo sguardo penetrante.

E proprio come se fosse una vera divinità, io la veneravo, sin nel profondo della mia essenza.

Il chiacchiericcio si sparse in poco tempo all’interno della classe.

Durante i primi tre anni di scuola superiore, tutti sapevano dell’irresistibile ascendente che Monica aveva su di me, anche se non mi confessai a lei direttamente, conscio dell’ovvia risposta che mi avrebbe riservato. Inoltre, nei primi mesi di ambientamento e conoscenza reciproca, mi raccontò più volte del rapporto con il suo allora ragazzo. Un tipo decisamente trascurabile, oserei, tanto da essermene dimenticato ogni singolo riferimento.

Col passare del tempo, tuttavia, la nostra relazione assunse toni ben più palesi ad entrambi: io sarei stato il suo schiavo al sol schioccare delle sue dita. Ne eravamo ambedue consapevoli, in un balletto tragicomico fatto di occhiatine e sorrisetti maliziosi.

Nel suo modo di relazionarsi con me non vi era stato stato ancora nulla di scandaloso, per così dire, nonostante la fortissima carica erotica del suo viso inespressivo, ogni qual volta le capitasse di guardarmi negli occhi.

Un giorno perciò, decisi che quel piccolo balzo verso la totale perdizione l’avrei fatto da me.

Ho già accennato alla mia scarsa virilità, cosa nota alla maggior parte delle donne che conosco per altro…

Il momento della mia prima, vera umiliazione fu al termine di una lezione di ginnastica. Per una mera stramberia architettonica, la palestra della scuola aveva due ingressi, separati tra loro dallo spazio adibito a ripostiglio.

Per accedere alla palestra vera e propria, dunque, era obbligatorio passare per questi due corridoi; ragazzi e ragazze vi passavano di continuo senza distinzione, specialmente quando il tendone che suddivideva lo spiazzo a metà era calato. Quella era una sorta di isolamento forzato nel momento in cui più classi occupavano la palestra.

Il corridoio che portava alla “nostra” metà passava dinnanzi allo spogliatoio maschile, ed ero certo che quel fatidico giorno Monica sarebbe passata davanti alla porta, solitamente spalancata. Certo del mio ingegno machiavellico, indossai anche uno strettissimo paio di slip che comprimeva all’inverosimile le mie già patetiche grazie.

Al termine della lezione, mi assicurai che Monica ed un’altra nostra compagnia di nome Elisa, della quale parlerò a breve, si attardassero in palestra, dicendo loro di recuperare il registro. Mi lanciai quindi nello spogliatoio e mi cambiai velocemente, lasciando la porta aperta ed i jeans calati alle ginocchia.

Monica ed Elisa passarono dinnanzi a me, fissandomi per qualche istante prima di scomparire lungo il corridoio.

Elisa era una ragazzina piuttosto brutta, e nella mia Dea trovò una sorta di guida spirituale. Tentava di emulare ogni suo gesto, ogni suo modo di fare, ma con pessimi risultati. Nessuno, su nessun pianeta conosciuto o sconosciuto all’uomo, avrebbe mai potuto anche solo avvicinarsi alla perfezione di Monica.

Ciononostante, mi resi subito conto delle potenzialità di Elisa: era stupida!

Sì, avete capito bene, era una ragazza ingenua, impreparata ad affrontare anche solo una blanda conversazione sul prezzo delle melanzane al mercato cittadino. Un pezzo di fragile creta che avrei potuto plasmare con la mia mente depravata, insinuando nel suo misero cervelletto da ochetta di provincia la morbosa capacità di sparlare!

In breve tempo, essendo compagni di banco, la convinsi dell’enorme dote che la natura mi aveva generosamente concesso. Le parlai della mia virilità come di un albero maestro, fino a toccare le vette dell’autocelebrazione, solamente perché in cuor mio ero certo che prima o poi, in un modo o nell’altro, quella sciocca ragazzina ne avrebbe parlato a Monica, in un connubio di fantasie ed ingenuità pregressa.

Raggiunsi l’apoteosi all’uscita dallo spogliatoio, nel pur breve tragitto che mi avrebbe riportato in classe.

Monica ed Elisa sbucarono alle mie spalle.

La mia Dea mi squadrò da testa a piedi, ridendo di gran gusto alle mie domande querule.

Elisa le corse appresso, alzando il mignolo della mano. << Le ho raccontato una storiella... >> rise, indicando Monica con un cenno del capo. << Cosa dicevi dell'albero maestro? >>

La mia splendida divinità scoppiò in una fragorosa risata, con punte di diabolica soddisfazione che rendevano la sua voce imperiosa e schiacciante. << Non ho mai visto una coso così piccolo! >> strillò, indicando la zip dei miei pantaloni, << Nemmeno i neonati ce l'hanno così minuscolo! >>

Fu la mia deflagrazione tantrica; Monica, la meravigliosa principessa delle amazzoni, sapeva.

Sapeva quanto fossi patetico e microscopico sotto la cintura, e nella luce diabolica dei suoi occhi vidi il desiderio di assecondare quella che era la mia stramba fantasia.


Quello fu l’inizio della caduta: Monica divenne perfida, altezzosa e violenta, esattamente come avevo progettato inizialmente. Supportata da Elisa prima e da Veronica poi, assunse un ruolo di primo piano nella mia vita, assecondata in ogni suo capriccio dallo schiavetto che aveva di fronte.

Lei ordinava, io eseguivo.

Un giorno, durante la ricreazione, ci ritrovammo in gruppo nello spazio esterno del bar della scuola. Monica era affamata e dopo aver schioccato le dita, mi voltai di scatto verso di lei, senza una reale motivazione.

Lei si accese una sigaretta, soffiandomi il fumo in faccia. << Ho fame... >> disse.

Io mi frugai le tasche, ma ero senza un soldo. << Ehm... non ho moneta. >>

Monica si passò la lingua sul labbro, << Non è un problema mio. Ti pare? >>

<< S...sì. Hai ragione. >> risposi, abbassando il capo. Lei allungò un piede verso di me, seduto ad un metro circa di distanza. << Se mi prendi da mangiare, ti lascio baciare le mie scarpe. >>

Veronica ed Elisa non trattennero una risata, aggiungendo ulteriore umiliazione. Divenni cianotico, colto totalmente alla sprovvista; non era la situazione in sé a gettarmi nell’imbarazzo, ma la prospettiva di poter baciare i deliziosi piedini della mia Dea. Lei dondolò la scarpa di fronte alla mia bocca dischiusa, lasciandomi in completa ipnosi.

Non ricordo chi tra Veronica ed Elisa aprì bocca, distogliendo il mio sguardo, ma ricordo perfettamente l’evidente erezione nei miei pantaloni. Monica la notò immediatamente, poggiandovi la punta del piede.

<< Cosa fai? >> mi chiese, << Non mi sembra di averti dato il permesso di avere il cazzetto duro. >>

Poi, come nulla fosse, iniziò a premere con ferocia il tallone sui miei genitali, costringendomi ad afferrarle il piede, in preda al dolore.

Lei non gradì, e in tutta risposta mi diede un calcio nello stomaco, togliendomi il respiro.

<< Non ti azzardare a toccarmi, schifoso! >> sputò irritata, << E ora vai a comprarmi qualcosa. >>


Questo era il genere di trattamento alla quale ero sottoposto quasi giornalmente. Lo so, una persona “normale”, o con un minimo d’amor proprio non si sarebbe mai ridotta in quello stato patetico; ma in un certo senso, più venivo mortificato dalla mia carnefice e più ero desideroso di esserne schiavo.

Il mio cervello non riusciva a dissociare la mera fantasia sessuale dalla spiacevole interpretazione masochista, ed in un certo qual modo vi dirò che tentava ogni stratagemma, pur di condurre la più semplice delle discussioni verso la sessualità, e di conseguenza, all’umiliazione sessuale.


Andando avanti con gli anni, affinai quella che definisco tutt’ora la mia “strategia relazionale”: tutte le ragazze, o le donne, con la quale ho avuto modo di provare piacere – fosse anche solamente per una chiacchierata amichevole – sapevano, e conoscono, le mie particolari inclinazioni autolesioniste.

Ne è buon esempio la mia profonda amicizia con Cristina.

Cristina ed io ci conoscemmo quasi per caso, durante la quarta superiore. Lei era di un anno più piccola, sebbene fosse notevolmente più alta del sottoscritto; per qualche strana ragione, le piacevo, e dopo un primo periodo di adattamento tra di noi nacque qualcosa di profondo ed ancor oggi palpabile.

“Cri” fu la prima ragazza alla quale confessai spudoratamente la mia oscena passione per il sesso deviato. Conosceva ogni mio minimo segreto, e più di una volta venne in mio soccorso, quando si trattò di sfogare la mia insana depravazione. Passavamo lunghi sabati pomeriggi assieme, nella biblioteca comunale del suo paesino, a chiacchierare e raccontarci storie ed esperienze personali. A quel tempo suonavamo nella stessa band, assieme ad Anna, sua migliore amica, lesbica e di madrelingua americana. Una ragazza che adoro; così anni ’90!

Cristina aveva le chiavi della biblioteca, chiusa nei week end, e ci trovavamo a provare in una stanzetta secondaria provvista di imballaggi di uova alle pareti, in completa solitudine.

Come già accennato, provava una forte attrazione per il sottoscritto, nonostante il mio cuore fosse promesso a Monica, della quale Cristina sapeva praticamente tutto. Le confessai il mio forte desiderio di umiliazione, e l’incontenibile brivido di assoluta goduria che ne traevo.

Dopo un pomeriggio passato sulle scale della biblioteca, lei iniziò a stuzzicarmi.

<< Oggi ti ho guardato il pacco tutto il tempo. >> disse ridendo.

Io la guardai di sottecchi, << Ti è piaciuto? >>

<< Beh, insomma. Non si vede granché da qui... >> esclamò, protendendosi con lo sguardo verso la mia zona

pubica. << Però mi sa che ha ragione la tua Monica: sembra piuttosto piccolo. >>

Un brivido mi corse lungo la schiena, capendo dove volesse andare a parare. << E tu che ne sai di com'è fatto? >>

Cristina scosse la testa, maliziosa. << Lo immagino. >>

Fu allora che presi l’iniziativa, consapevole che la cosa sarebbe andata avanti fino in fondo. La presi per mano e salimmo le scale, fino a raggiungere il primo piano dove Anna – impegnata in una vivace discussione telefonica – non ci avrebbe cercato.

<< E adesso? >> chiese lei.

Ho già accennato al fatto che fosse più alta di me, ma in quel momento la sua figura assunse dimensioni spropositate, forse a causa della mia mente vaneggiante, già prostra ai suoi piedi. Si era fermata sull’ultimo gradino, guardandomi dall’alto in basso, e dentro di me sentivo un’incredibile sensazione di impotenza, come se avesse potuto spappolarmi con la sola punta delle scarpe.

<< Tiralo fuori... >> disse, sedendosi con le braccia incrociate.

Io mi bloccai, seppur inconsciamente volessi ad ogni costo essere umiliato. Qualcosa però mi impediva di continuare, come se un ultimo refolo di ego fin lì mai manifestatosi fosse improvvisamente venuto alla luce.

Cristina mi fissò con impazienza, << Ti vergogni di me? >>

La reticenza a calarmi i pantaloni cozzava con la mia libido, ormai pronta ad esplodere.

Lei capì la mia difficoltà e dopo avermi fatto cenno col capo allungò le mani verso di me. Una mano scivolò sotto i testicoli, afferrandoli delicatamente, mentre con le dita dell’altra si divertiva a tamburellare sulla zip di pantaloni.

<< Proprio come pensavo. >> sussurrò, mordendosi il labbro.

Io divenni rosso come un pomodoro, << C...cioè?! >> gracchiai.

<< È proprio piccolino... >> rise, per poi sbottonare i pantaloni e calare la zip.

Un minimo accenno di erezione si insinuò sotto la stretta dei boxer, aumentando tuttavia la mia goffaggine.

<< Vediamo cosa c'è qui sotto. >>

Cristina mi tolse anche quell’ultimo velo di pudicizia, rimanendo stupefatta. Si tappò la bocca con una mano, ridendo di gran gusto alla vista delle mie miserie.

<< O mio Dio! >> starnazzò, << Hai il pisello di un bambino! Ah ah, non ci credo! >>

Io divenni cianotico, coprendo le mie vergogne con una mano. << Ti prego non urlare! Se ci sente Anna che facciamo? >>

<< No no. È assurdo... togli la mano, fammelo vedere meglio. >> esclamò divertita, obbligandomi a mettere le mani dietro la schiena, sull’orlo del precipizio emotivo.

Cristina lo afferrò con due dita, e per la prima volta provai l’ebbrezza di un tocco femminile fino a quel momento del tutto estraneo. Quell’istante sancì definitivamente la mia ascesa verso la perversione, amplificando a dismisura ogni suo movimento.

Spinse il pollice e l’indice verso il pube, scoprendo il glande, piccolo e rosato come una ciliegia. A quel punto non riuscì più a trattenersi, ridendo a crepapelle di fronte alla mia espressione da cucciolo indifeso.

<< Oh, non fare così... >> disse con finta compassione, aumentando il movimento delle dita. << Il tuo pisellino è così “ino-ino” che fa tenerezza. Dico davvero. >>

Una minima reazione vi fu, a quel punto. Colto nell’orgoglio, il mio pene si indurì, uscendo definitivamente allo scoperto. Cristina lo afferrò tra il pollice, l’indice e il medio, schiacciando il glande con forza. Piccole gocce biancastre uscirono, bagnandole la punta delle dita.

<< Guarda, si è offeso perché l'ho chiamato pisellino! Ah ah, è così tenero! >>

Mi fece sedere al suo posto, con i pantaloni calati ed i boxer alle ginocchia. Lei si sedette un gradino più in basso, con la schiena contro il corrimano, l’uno di fronte all’altra.

Riacquistai parte dell’intelletto a contatto con le mattonelle ghiacciate, fissando estasiato il sorriso provocante sulle sue labbra.

<< Stavo pensando che non è tanto il mio cazzo ad essere piccolo. Sono le tue mani ad essere grandi. >> dissi, dandole un altro appiglio.

<< Beh, rispetto alle tue sì. >> rispose, afferrandomi il polso. Poggiò il palmo contro il mio, dimostrando come le sue mani avessero dita molto più lunghe ed affusolate. << Sei un nano, insomma. >> mi schernì.

Cristina in effetti superava il metro e ottanta, mentre io a malapena raggiungevo il metro e settantacinque. Per questo motivo mi prendeva sempre in giro, anche se non con cattiveria; in quel momento, però, entrambe avremmo voluto esplorare la nostra parte più trasgressiva, e quello era senza dubbio un punto a suo favore.

D’improvviso, afferrò saldamente il mio pene, stritolandolo. Io gemetti dal dolore, ma fui zittito malamente con uno schiaffo, << Non fare rumore! >>

Sotto di noi, sentimmo la porta aprirsi. Era Anna, che ciondolando alzò gli occhi verso la rampa di scale, intravedendo Cristina girata di spalle.

<< Cri scusami, devo andare a casa... mia mamma mi ha fatto una sfuriata al telefono. >>

Lei si girò di scatto, osservandola dalle sbarre del corrimano. << Va bene, ci vediamo questa sera? >> disse noncurante, stringendo ancora il mio povero pene sofferente.

<< Yep! >> rispose Anna, << Franci è lì con te? >>

Mi spinsi oltre Cristina con un invidiabile colpo di reni, sporgendo solamente con il busto. << Ciao Anna, forse ci sono anche io questa sera. >>

La nostra comune amica si congedò, lasciandoci soli nel silenzio della biblioteca, tutta per noi.

<< Dov'eravamo rimasti? >> chiese Cristina, osservando il mio pene divenuto flaccido. << Oh, giusto. >>

Si accucciò a pochi centimetri dal mio pube, << Ehi, piccolino... ci sei? >> sussurrò.

Contrassi i muscoli, facendolo dondolare leggermente. Lei scoppio a ridere, stringendolo tra le dita.

<< Com'è che lo chiamavi? >>

<< Elwood. >> risposi con un sorriso.

<< Ehi Elwood, ci sei? >> domandò pizzicandolo. La pelle si ritrasse, ed i corpi cavernosi si riempirono. L’erezione, questa volta, fu quasi maestosa.

Cristina alzò un sopracciglio, << Guarda, è diventato tutto duro! Ah ah, come un pisellino vero! >>

Lo afferrò con una mano, misurandolo con l’indice dell’altra. << Ce l'hai lungo come il mio dito. >> rise.

Io ero al settimo cielo; la mia libido aveva valicato qualunque frontiera finora immaginata e stava scivolando alla velocità del suono verso una nuova, reale, conseguenza.

Lei continuò a denigrarmi, << Riesci a venire? >> chiese corrucciata.

<< Con delle palline così striminzite, secondo me non ci riesci. >>

Aumentò drasticamente il ritmo, passando dalle due dita alla mano piena. Il glande spuntava appena dalla morsa e l’effetto afrodisiaco di un tocco a me nuovo mi fece venire dopo pochi istanti. Eiaculai copiosamente, con mia e soprattutto sua grande meraviglia, sporcandomi la maglietta e inzuppandole le dita.

<< Però! Complimenti. Non pensavo che quelle noccioline potessero contenere tanta sborra. >> sogghignò.

Lei si guardò la mano appiccicaticcia, per poi posare il suo sguardo amorevole ed al contempo autoritario su di me.

<< Sai cosa potremmo fare la prossima volta? >> mi chiese rizzando l’indice grondante. Scossi la testa, completamente perso.

Lei aprì la bocca e vi infilò il dito, leccando ogni goccia del mio sperma. << La prossima volta potrei provare a leccare il tuo piccolo dito... >> disse, ingoiando. E lo fece; ma di questo parlerò in seguito.


Tornando alla mia Dea, ricordo un pomeriggio di scuola particolarmente caldo.

Con l’arrivo della primavera e di giornate inevitabilmente più consone alla vita umana, il mio istituto organizzava pomeriggi dedicati al nostro principale indirizzo: pubblicità. Queste lezioni extra scolastiche erano un ottimo modo per protrarre i miei intenti masochisti, non fosse altro per il legame molto stretto che si era creato tra me e Veronica negli ultimi due anni, ed inevitabilmente anche con Monica.

Veronica, a differenza della banale Elisa, era una bellissima ragazza: lunghi capelli neri leggermente mossi, labbra tumide che ricordavano un frutto proibito ed un corpo splendido, con seno prosperoso e un fondo schiena tondo e sodo.

Diventammo buoni amici e vivendo in paesi confinanti sovente ci davamo appuntamento per una qualche uscita in totale amicizia.

La misi quasi subito a conoscenza della mia infatuazione cronica e più di una volta lei tentò di consigliarmi sull’atteggiamento da seguire per pormi in qualche modo alla pari con Monica. Nulla da fare, la mia Dea era fin troppo avvezza al comando, e rendeva impossibile elaborare una relazione basata sul dialogo; era sempre la stessa storia, insomma. Lei schioccava le dita, io accorrevo abbaiando.

Veronica vedeva questa mia difficoltà, e ne conosceva fin troppo bene la fragile fonte. Sotto sotto sembrò goderne a sua volta per diverso tempo: giocando con la sua procacità infatti mi poneva spesso in imbarazzanti circostanze al cospetto di Monica, ma non capì mai effettivamente se l’intento fosse di far emergere un filo di mascolinità dai miei modi servili o più semplicemente umiliarmi.


Quel pomeriggio, dunque, mi ritrovai a vagare per la scuola deserta.

Le classi che avrebbero frequentato “terza area” – così era stato ribattezzato l’orario extra scolastico – avevano giorni diversificati: questo permetteva di utilizzare i vari laboratori (grafici, fotografici e artistici) in assoluta libertà, senza incappare nell’annoso problema di non poter reperire i materiali.

Ciondolavo lungo il largo corridoio del primo piano, ad ogni modo, diretto alla scaletta antincendio sulla quale ci si assiepava durante l’intervallo. Accesi una sigaretta, scendendo gli scalini per portarmi al di sotto dello spiazzo, non visto da chiunque fosse uscito per fumare al piano di sopra.

Monica e Veronica uscirono a loro volta, chiacchierando amabilmente. Sentì il rumore degli accendini, e il soffio di sigaretta perdersi nel vento. Veronica si sporse dal corrimano in ferro battuto, incontrando il mio sguardo. Alzai la mano per salutarla, aspirando il tabacco, ma lei non ricambiò, girandosi immediatamente dall’altra parte.

<< Cosa pensi di Franci? >> chiese Veronica a Monica.

La mia Dea sogghignò, soffiando il fumo come nulla fosse. Non poteva sapere che io fossi lì, a meno ché Veronica non l’avesse avvertita.

Mi appiattì quindi contro il pilastro della scaletta a chiocciola, tendendo l’orecchio.

<< Cosa devo dire? >> ribatté Monica.

<< Non credi di essere un po' cattiva nei suoi confronti? Mi sembra piuttosto preso... >> disse Veronica.

<< Nessuno gliel'ha chiesto. >> tagliò corto la mia Dea, << Io non sto più con Roberto da un po', ma non voglio aver niente a che fare con quello sfigato... >>

Veronica sembrò volgere dalla mia parte, << Secondo me è molto dolce, invece. Cioè, ti adora e farebbe di tutto per mettersi con te. >>

Monica rise, << Sì, questo lo so... ma l'adorazione non basta. Se gli cresce quel mignolo che ha in mezzo alle gambe ci potrei anche ripensare. >>

Risero entrambe, sguaiatamente, mentre il mio animo si sgretolava ancora una volta tra eccitazione e profonda delusione. Sfortunatamente, non avrei mai potuto assecondare quella sua richiesta, nemmeno pregando. Ma la lunatica vocetta interiore che gracchiava nella mia testa non fece altro che spegnere i miei sciocchi sentimenti adolescenziali, per rigettarsi con tutte le sue forze su qualcosa di più gretto e materialista.

<< L'hai mai visto in mutande? >> sghignazzava Monica, << Cavolo, è imbarazzante! Non riuscirei a sentire nulla con un brufolo così piccolo! >>

Veronica tese l’occhio, vedendomi paonazzo e trafelato. Il sorrisetto sulle sue labbra non aveva nulla di benevolo nei miei confronti.

<< Sai che la settimana scorsa mi ha confessato di volerti leccare i piedi? >> disse voltandosi verso Monica.

Io mi rimisi a sedere, soffrendo terribilmente quell’uscita. Stava parlando di una confessione molto intima e personale, una cosa della quale mi vergognavo profondamente e che avevo raccontato a lei in via del tutto eccezionale e con la massima pudicizia.

<< Cosa vuol fare? >> domandò esterrefatta Monica.

<< Sì, giuro. Stavamo parlando un po' delle cose che piacciono ai ragazzi e alle ragazze, ecc, ecc... e mi ha detto che adora i piedi delle ragazze e che vorrebbe leccare i tuoi! >> strillò Veronica divertita.

La mia Dea era piegata dalle risate, senza neppure sospettare che, a pochi metri da lei, vi fossi io.

Un’erezione prepotente si insinuò nei miei jeans, premendo contro i bottoni. Quella situazione, per quanto strampalata ed emotivamente schiacciante, mi eccitava… mi eccitava!

<< Non ci credo. Di giuro?! >> chiese Monica.

Veronica annuì, << Giuro! Perché non gli chiedi di leccarteli davanti a tutti? Vorrei vedere la sua faccia, secondo me diventa blu! >>

La campanella suonò in quel momento, ponendo fine a quel momento idilliaco. Le ragazze rientrarono, senza che nessuna delle due facesse caso al sottoscritto.

Sudavo freddo e mi tremavano le spalle, ma non so esattamente per quale motivo: mi sentivo bene, dopotutto, nonostante la più totale umiliazione da parte di una persona che credevo amica.

Mi tastai la piccola protuberanza sul davanti, scoprendo di aver eiaculato senza toccarmi…



La perenne ricerca che avevo intrapreso alle scuole medie continuava spedita, seguendo un tortuoso sentiero fatto di amicizie femminili e pochi effettivi successi amorosi.

Il fisico andava via via dimagrendo, ma ero oltremodo impreparato ad affrontare un vero e proprio rapporto sentimentale, non fosse altro per il tarlo che mi scavava la mente. Rincontrai diverse ragazze comunque, durante gli anni delle superiori.

Sabrina, per esempio, una vecchia cotta delle elementari mai del tutto sopita.

Adriana, bellissima ragazza – al pari di una modella d’intimo – con la quale ero in amicizia sin dai miei primi anni di vita, prima ancora della scuola materna.

Marcella, ragazza molto carina che frequentava il mio stesso istituto superiore.

Elena…

La storia, o meglio, il rapporto tra me e Elena è di difficile interpretazione. Lei era indubbiamente una bellissima ragazza, con spiccate doti non solo colloquiali – riuscire ad avere una conversazione con una ragazza non è semplice, oggigiorno – ma anche dominanti. Una sorta di femmina Alpha, per così dire, conscia della sua bellezza e tronfia nell’affrontare il sesso opposto.

Elena mi fu presentata casualmente dal mio migliore amico, mentre aspettavamo pazientemente l’arrivo del pullman. All’epoca era una ragazza estremamente saccente e schietta, e manifestava una profonda quanto naturale avversione nei miei confronti.

Ciononostante, ne diventai amico, e negli anni successivi alle superiori la frequentai spesso. Ma questa, come si suol dire, è un’altra storia…

Elena comunque era molto perspicace, ed aveva già sviluppato una caratteristica che poche ragazze hanno a quell’età. Nonostante un fisico slanciato infatti, il suo seno sembrava esplodere in ogni camicetta che lei indossasse, facendomi spesso perdere il filo logico di una conversazione. Per punizione, in accordo con la mia palese condizione di masochista, ricevevo insulti e punizioni corporali nel bel mezzo della stazione. Cosa che posso dire mi abbia scombussolato non poco.

Ma avete potuto leggere, quelli erano anni di totale perdizione, nella quale nulla e tutto erano in grado di distruggermi.

Una volta Elena riuscì a salire per prima sul pullman, sempre stracolmo di pendolari a quell’ora, e mi tenne gentilmente un posto di fianco a lei. La cosa mi fece molto piacere, perché devo ammettere che con lei riuscivo in qualche modo ad aprirmi, seppur superficialmente. Ed in quel periodo ne avevo molto bisogno, considerando lo strano comportamento di Veronica.

Ad ogni modo, iniziammo a discutere di dimensioni genitali; ovviamente, Elwood fu tirato in causa nel momento in cui affrontammo le nano-dimensioni. Non ho mai capito realmente come avesse saputo delle mie tristi misure; ciononostante, qualunque ragazza con un décolleté così prosperoso è sempre stata ben accetta nell’umiliarmi…

<< Io non saprei che farmene di un cazzo piccolo. >> mi disse seria, alzando indice e pollice. << Come può una ragazza sentire qualcosa con un coso così? >>

Io, non ancora a mio agio, divenni rosso. << Non saprei... >> tossì, << Ma non esiste solo il pene. Voglio dire: dita, lingua, zucchine... >>

Lei rise, scuotendo la testa. << Scommetto che dici così perché ce l'hai come un bambino! >>

Una ragazza, separata da noi dal corridoio, si voltò a guardarmi esterrefatta, per poi ripiegare la testa e ridere fra sé.

<< Elena! >> starnazzai, provando in verità una certa goduria.

Lei alzò il mignolo, simulando la masturbazione con l’indice e il pollice dell’altra mano. << Cosa c'è? Ti sta salendo? >>

Io divenni cianotico, << Dai, smettila. Poi la ragazza si prende male. >> dissi, cercando di coinvolgere nello scherzo la sconosciuta di fianco a noi.

La ragazza si girò, squadrandomi dalla testa ai piedi. << Credo che abbia ragione la tua amica. Hai la faccia di uno che ce l'ha davvero piccolo. >> esclamò, alzando a sua volta il mignolo.

Elena scoppiò a ridere, mentre io preferì eclissarmi, spalmandomi sul sedile…



Più tardi, quel pomeriggio, vidi Veronica. Mi chiamò appena misi piede in casa, chiedendomi se avessi voglia di un gelato. Non avevamo ancora affrontato l’umiliante discussione alla quale avevo assistito e dentro di me, ingenuamente, aspettavo forse delle scuse.

Le dissi di sì, ed andai a casa sua in bicicletta. Ciò che avvenne quel giorno, non potrò mai dimenticarlo, al pari dell’inizio di tutta questa storia.

Veronica mi accolse calorosamente, invitandomi ad entrare. Indossava solamente un paio di shirts che le coprivano a malapena l’inguine ed un top così aderente da sembrare una seconda pelle. A coronare il tutto, una camicetta bianco panna semitrasparente che lasciava ben poco alla mia fervida immaginazione.

Al mio ingresso, notai con un fremito i suoi piedi scalzi, con le unghie smaltate di un nero lucido semplicemente meraviglioso.

Si era legata i capelli sulla nuca, con la lunga coda di cavallo che le sfiorava la spalla. Niente trucco in compenso, ad eccezione di un filo di rossetto color rosa pallido sulle labbra.

Non lo nego, mi sentì mancare per un frangente; lei fece finta di nulla, ma si incamminò a passo ciondolante verso la cucina.

<< Mia mamma è uscita senza lasciarmi i soldi, Franci... >> disse con voce rammaricata, << Ti va lo stesso di uscire? >>

Si appoggiò contro lo stipite della porta, incrociando le gambe in modo da evidenziare la curva del piede più avanzato. I miei occhi si mossero subito verso quella graziosa visione, e dovetti far leva su tutto il mio autocontrollo per non gettarmi a terra.

Deglutì, scuotendo il capo. << Ehm... non ho capito. >> bofonchiai.

Lei sorrise, con uno sguardo mai visto prima d’allora in nessuna ragazza che avessi conosciuto ed importunato.

<< Dicevo... >> sussurrò, venendomi incontro. << Vuoi rimanere qui, soli soletti, o preferisci uscire? >>

Rimase ad un paio di metri da me, paonazzo e rigido come una canna di bambù. << Io... io... cioè... >>

Alzai il braccio per grattarmi la nuca, ma con tanta veemenza da far schizzare il telefonino dalla tasca della camicia. Questi cadde a terra, proprio ai piedi di Veronica.

Lei rimase basita, forse impreparata da tanta goffaggine. Io mi affrettai a raccoglierlo, imbarazzato oltre ogni dire, ma quando mi ritrovai a non più di trenta centimetri dai suoi piedi ne fui del tutto rapito.

Vedete, nel scoprire il mio innato amore per l’esser dominato, scoprì anche una fissazione del tutto eccentrica per i piedi femminili. Ancora oggi, quando guardo una ragazza, non posso non ammirare per primo i suoi piedi e nel caso questi non fossero visibili – accidenti alle scarpe e a chi le ha inventate – non faccio altro che immaginare la loro forma, che tipo di smalto vi sia sulle unghie e così via…

<< Ehi! >> ripeté Veronica per la quarta volta.

Uscì dall’impasse dopo un tempo lunghissimo, o almeno così mi parve di intuire guardando la sua smorfia.

<< Ti sei addormentato? >> chiese lei.

Sentì il cervello abbandonare momentaneamente il resto del corpo.

<< Allora? >> rise, allungando il piede per spingermi. Del tutto istupidito caracollai a terra, con lo sguardo rivolto al soffitto.

Veronica mi girò attorno, sedendosi sul mio sterno. << Sei veramente un porcellino, lo sai? >>

Tutto mi sembrò rallentare vertiginosamente, come se avessi assunto ogni tipo di sostanza stupefacente conosciuta all’uomo. Non me ne resi conto subito, ma quando realizzai che Veronica era seduta a cavalcioni su di me, ebbi una clamorosa erezione, malcelata dai pantaloncini di tela.

<< Ti va se parliamo dell'altro giorno? >> domandò.

Io annui, imbrigliato tra il gelido morso delle mattonelle sulle quali ero sdraiato e la corsa sfrenata di tutto il sangue del corpo verso le zone erogene.

Lei non si accorse della mia reazione, o quanto meno fece finta di nulla, cambiando posizione. Aprì le gambe e si sedette sulla mia pancia, facendo scivolare i piedi di fianco alla mia testa, in modo da avermi completamente alla sua mercé.

I miei occhi giravano come trottole, attratti inesorabilmente dalle sinuose gambe scoperte. La linea che definiva il polpaccio ed andava a scendere verso la caviglia mi scombinò ulteriormente i pensieri, già annebbiati da un pezzo.

<< Ascolta... >> esordì Veronica, << Mi spiace averti preso in giro, l'altro giorno. Volevo che tu capissi che Monica non merita una... devozione tale. Sei un ragazzo dolcissimo, anche se poco dotato, ed è per questo che mi sono agghindata in questo modo: per farti capire che la tua è solamente una fissazione per lei, non vero amore! >>

L’erezione andò calando progressivamente, lasciandomi i boxer umidicci. Quelle parole mi colpirono molto, scavando forse dove nessuno aveva ancora osato addentrarsi.

Ma quando un ragazzo è perso nella sua lotta all’emancipazione sessuale, nessun bel discorso può cambiare la realtà.

<< Io sono sicuro di amarla. >> dissi, sfidando in qualche modo la sua autorità.

Veronica rise, scrollando il capo. << Tu non sei innamorato. Ti piace la figa, come a qualunque ragazzo di questo pianeta con gli ormoni che vanno a mille! Ma fidati, Franci: la tua è solo una “fissa”. >>

Io feci cenno di no, sfiorando con la guancia la sua caviglia destra. Come per magia, mi ritrovai nuovamente un’enorme erezione nei pantaloni.

Veronica questa volta se ne accorse, tanto da rizzare la schiena.

<< Non ci credo...! >> esclamò, << Perché?! >>

La maggior parte del sangue era sepolto in altri lidi, e non potei arrossire come forse avrei dovuto.

<< Scusa Vero, non volevo! >> mi affrettai a dire.

<< Ma sei davvero un porco allora. >> rise, alzandosi.

La prospettiva era tutt’altro che spiacevole, vi dirò, e qualunque traccia residua di intelligenza era sparita del tutto dalla mia mente. Lei mi guardò trionfante, sicura del fatto suo.

<< Te l'avevo detto... sei solo un maialino arrapato. >> esclamò.

Si spostò e lasciò che mi rialzassi. Le tempie pulsavano, così come il cuore, che sembrava un tamburo impazzito pronto a schizzare in gola.

Monica era una Dea, la mia Dea, ma Veronica… era stupenda!

Mi appoggiai alla parete, prendendo fiato. Lei scomparve per un attimo, tornando con un paio di sandali neri dal tacco vertiginoso; le sue forme assunsero un ulteriore slancio erotico, dandomi per l’ennesima volta il capogiro.

Si abbandonò sul divano, mettendo una gamba sull’altra. Era oltre ogni mia umana fantasia, devo ammetterlo.

<< Vieni qui. >> mi invitò con tono sensuale.

Io mossi qualche passo in avanti, ma fui subito fermato dalla sua mano alzata. << No no. Non così. >>

La guardai, non capendo a cosa alludesse.

<< Mettiti giù, da bravo cagnolino... >>

Ecco tornare l’erezione, pensai, trattenendo un gemito.

<< Franci... >> sussurrò, << Vieni qui, cucciolo. >>

Ogni freno inibitorio sparì quel giorno. A distanza di anni, non so se ciò che avvenne fu un memorabile passatempo impresso nel profondo del mio animo o il crollo, definitivo, di ciò che rimaneva della mia autostima.

Mi misi a quattro zampe e andai da lei, tenendo lo sguardo basso e rallentando a stento i miei tremori.

<< Bravo il mio cucciolo! >> esclamò Veronica, battendo le mani.

<< Vero... io... >> tentai di dire, sopraffatto dalle mille emozioni.

<< I cuccioli non parlano... >> replicò, accarezzandomi i capelli come avrebbe fatto con un animaletto. << I cuccioli hanno solamente una padroncina... non è vero? >>

Io annuì, perso nel suo sguardo ammaliante.

<< E cosa vorrebbe fare questo cagnolino? >> chiese suadente.

I miei occhi puntarono la gamba sospesa, per terminare la loro corsa laddove il collo del piede era cinto dalla pelle del sandalo.

Lei dischiuse le labbra, mordendosi appena la punta della lingua. << Forza, allora. Leccami i piedi, cucciolino. >>

Scivolai verso il basso, liberando le mie pulsioni…


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