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Il capo t’appoggio alla tacca clavicolare.
È dura, come tutto in te. Ti ho ben provato!

Ho coartato un po’ la tua volontà sforzandola,
ma neanche molto, ad essere quello che sei…,
e che non credevi di essere. Facile il seguito,
naturale conseguenza della nostra vicinanza.
Ti ho toccato,…sì ho dovuto muovermi io!

Me l’hai concesso, forse con una nota di disprezzo
o era solo timore di riscontrare quello che, in fondo,
ha dimostrato di essere la tua vera natura.
Quale? Eguale alla mia! Gli stessi sentimenti ci agitano;
entrambi sappiamo dove andiamo, quel che ci concediamo.

Con calma, estrema calma, ho circuito il tuo essere,
con estrema dolcezza, naturale sapienza, ho demolito
le tue certezze, quel che il mondo aveva costruito
intorno plasmandoti con retrivi stereotipi che avevi
accettato supinamente, senza porti il problema…
quel problema risolto sotto i tuoi occhi stupiti.

Ho scartato il pacchetto, l’ho girato dai vari punti
di vista e, poi, sviscerato com’era, nudo alla vista
di tutti l’ho infiocchettato; e tu hai apprezzato!
Finalmente, caduta la benda che ti fasciava il viso
hai saputo scegliere, apprezzare la nuova visione.

E, ora, condividi le nostre speranze, condividi le ansie
di sapere, coronato d’Amore, il nostro sentimento;
non sempre puro, non sempre etereo, fatto di sforzi
di volontà per accettarci, per sentirci uniti
nel carnale consenso che macera i nostri corpi
e rende liberi i nostri spiriti, più simili a Dei.

Tu, quindi, accarezzi il mio collo, mi sollevi il mento
e con dolcezza poni il suggello delle tue labbra
sulle mie, mentre sprofondo nell’inferno del desiderio.
Mi accarezzi la schiena e scendi lungo il dorso,
contando le vertebre ad una ad una. Rabbrividisce,
sferzato, il mio corpo indifeso; m’immergo nel tuo petto

che turgidi capezzoli erge, come umboni sullo scudo,
guizzanti di muscoli. Mi stringo al tuo seno possente
che, pronto, si spalanca ad accogliermi, mentre mani,
le Tue mani, raggiungono i reni, i miei reni, sfiorando,
leggere, i lombi, innescando la lieta tortura dell’attesa

che mi torce, cercando lo spasmo del piacere più acuto.
Voglio il possesso! E subito mi palpi i glutei, li serri,
come fossero tuoi, li batti, li schiaffeggi, li spremi
come arance succose; poi li schiudi, li dilati
come baccelli da sgusciare per giungere al frutto, per gustarne
il sapore, insinui prima l’indice, poi l’accompagna il medio.
Che gusto concedi alla povera carne che duramente provi!

Ansimi, ansimo! Gli occhi iniettati di quel sacro
furore, mi rivolti; sconvolto ti porgo le povere chiappe
tremanti che aspettano il deciso colpo, preciso… nel cuore.
Amore non tarda… e giunge il momento in cui rosa
si fa il panorama; l’astro si leva e la notte
si scalda, dall’indaco, al rosa al pervinca diventa,

esplode nell’intima unione, due corpi suggella,
un’anima sola, un ultimo fine comune che percorre
lo scuro, interminabile, lungo tunnel che pure
troppo breve sarà nel ricordo che torna e martella
le tempie, che torna e risente la stretta di mani
che comprimono i fianchi, del ferro ritorto

che svelle ogni intoppo e penetra in fondo e risucchia
a succhiello e ancora affonda la testa nel tenue tessuto
che, cedendo, consente lo scorrere rude del corpo contundente
che offende l’illibato, scordato, candore ormai solo
provato dalla stretta d’Amore che prende, che concede e ritorna.

Rotto, disperso, su un lato, ora giace in mille frammenti
il dissacrato vaso violato.

Nina Dorotea

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