Skip to main content
Racconti di DominazioneRacconti Erotici EteroRacconti Erotici Lesbo

Confessione e rammarico

By 9 Febbraio 2020Giugno 17th, 2020No Comments

Quest’oggi qua da noi nevica, sono dentro casa, che sto revisionando davanti al fuoco del camino con una mia cara amica d’infanzia con spassosi rimpianti e con piacevoli nostalgie, le fotografie che avevamo scattato nel periodo dell’università a Urbino nelle Marche, nella facoltà di sociologia assieme alle mie devote e affezionate compagne e in compagnia d’allettanti giovani universitari. Precisamente scorreva l’anno 1994, all’epoca avevo ventun anni d’età e mi ero iscritta in quell’ateneo dietro opportuno suggerimento d’una mia cugina, essendosi anch’ella piacevolmente laureata anni addietro in quella sede. Io ero valutata e ritenuta, a dire di molti, una bella figa con un apprezzabile e invitante fondoschiena, anche se a differenza delle mie amiche io evitavo abiti troppo vistosi o provocanti, perché mia madre assieme a mia zia, fino all’ultimo nella sua ristretta quanto perseguitante permanenza con me a Urbino, nondimeno di natura ferrea, retrograda, morigerata e casta qual era, m’aveva attentamente segnalato e disciplinatamente avvertito di non indossarli. 

Tengo a precisare in aggiunta a ciò, che io essendo originaria di Cutro in Calabria, tenuto conto delle origini, delle radici e della provenienza della mia famiglia, essendo là ancora radicati certi valori da rispettare e talune virtù da onorare, in special modo per le femmine, dovevo ancora attenermi, conservare e uniformarmi a quelle etichettate e spiccate austerità e a quei ligi e pignoli doveri di donna che venivano inculcati in ogni famiglia, una disciplina peraltro molto osservante, in quanto a casa non godevo di ampia libertà. E’ stato aleatorio e problematico fino all’ultimo, quando finalmente sono andata via da casa per studiare, sentire tutte le intangibili e dannate ramanzine, i solenni suggerimenti e le sacrosante per me diaboliche e infondate paternali. Non vedevo infatti l’ora di trasferirmi e di trovarmi lontano da casa per respirare e per scrollarmi di dosso tutte quelle paturnie e tutte le scontentezze che avevo accumulato nel corso del tempo. 

Qualche anno addietro, prima che potessi andare via da casa per frequentare l’università, mia madre intollerante, meticolosa e severa qual era, mi stabiliva un orario di ritorno per così dire da marmocchia con ferree e inflessibili regole, perché dovevo varcare la soglia di casa al massimo alle otto di sera, perché altrimenti per me sarebbero stati grossi impicci e notevoli inconvenienti se avessi trasgredito. Mia mamma, di fatto, mi castigava aspramente e, a dispetto dei miei diciannove anni, non titubava nel pigliarmi a cinghiate oppure mi scudisciava in estate sulle gambe scoperte con la pompa dell’acqua da giardino lasciandomi i segni sui polpacci. 

Rammento ancora che a diciotto anni beneficiavo d’una emancipazione maggiore, mi autogestivo e saltuariamente pativo scotti o penitenze varie, dopo le cose sono radicalmente mutate e hanno intrapreso rapidamente un altro andazzo. Gradatamente io avevo iniziato a insorgere alle persistenti intimazioni e alle continue vessazioni di mia mamma, perché sono diventata grande solamente con lei, dato che mio papà fuggì andando ad abitare con una donna venticinquenne, nel tempo in cui io avevo sei anni d’età. Per un lasso di tempo io avevo iniziato a bazzicare con tre maschietti della mia età, parlando e passeggiando lungo il corso principale del borgo senza compiere chissà che cosa, mentre mia mamma già mi etichettava bollandomi come una scandalosa, sporca e infame sgualdrina. Per queste ragioni, a vent’anni lei m’aveva testualmente imposto un penoso e pietoso tempo di rientro, che ho dovuto adempiere e attuare, fino a quando non sono andata via da casa per studiare. Ricordo che ho subito e sperimentato la tremenda testardaggine, la disumana durezza e la costante intolleranza di mia mamma, accettando, reggendo penalità insistenti e sopportando sanzioni durissime per essere una figlia femmina. 

L’anno precedente la mia partenza per l’università di Urbino, mi capitò una vicenda alquanto singolare e intrigante. In quel periodo andavo fuori con un ragazzo di Migliarello, una frazione di Crotone, direi in modo non autorizzato, azzarderei abusivo, perché mia mamma m’aveva precluso d’incontrarlo e di frequentarlo; nella nostra cerchia si era aggregata una ragazza di ventidue anni di nome Margherita, che a dire il vero io mal tolleravo e che ripudiavo. Lei era incompetente e inetta, persino rozza e villana, indossava sovente gonne cortissime e si truccava parecchio per attrarre l’attenzione dei maschi. L’incompatibilità e l’antagonismo era reciproco e, devo confessarlo palese e indubbio a tutti. Un bel giorno bisticciammo in malo modo per la via in maniera furibonda spintonandoci a vicenda, io le sferrai un forte cazzotto e le scorticai pomposamente il viso. Memorizzo tuttora che ci disunirono e riconosco ancora adesso che sperimentai molta soddisfazione per quel gesto. Vito, il mio ragazzo dell’epoca, mi trascinò via, a casa sua dove, forse anche per l’emotività anomala e per la reattività insolita del litigio con Margherita, in ultimo scopammo in maniera splendida dandoci dentro al massimo. 

In quel preciso momento io apparivo un’altra, avevo brillantemente valicato sormontando in ultimo tutte le mie intrinseche e sostanziali preoccupazioni. Eppure c’era un’inquietudine grandissima che mi faceva compagnia, che mia mamma potesse venire ad apprendere qualche cosa dell’avvenuta colluttazione. Il mio allarme si palesò rivelandosi valido, perché alcuni giorni dopo mentre mi esercitavo, mia mamma entrò nella mia camera srotolando tra le mani la cintura, annunciandomi che era venuta al corrente di quell’episodio. Presa di sorpresa non ebbi il tempo di discolparmi né di spiegare le mie motivazioni, che mia mamma m’intimò all’istante di svestirmi, perché voleva vedermi nuda. 

Allorquando io subodoravo tale sensazione fiutando che mia mamma m’impartiva quell’intimazione, non riuscivo più a reagire, la mia fierezza si dissipava, svaporava, sembravo stordita, mi sentivo inespressiva, mi bloccavo e come un robot cedevo e alla fine adempivo. Io restai là, mia mamma mi fece curvare sul tavolo ingiungendomi di tenere le gambe bene aperte, poiché quella nozione mi fece comprendere che quello sarebbe stato per me un castigo avverso, spropositato e inclemente. Trascorsero soltanto pochi secondi che arrivò la prima scudisciata, dopo la seconda, la terza e la quarta. Io strillavo come una fanciulla, a dispetto dei miei vent’anni e della totale vergogna che provavo e che nutrivo: perché indubbiamente Concetta, la figlia della vicina, sarebbe stata di certo là ad origliare di gusto beffandosi e dileggiandosi. Mia mamma fu drasticissima, determinata e molto pesante, giacché mi diede una trentina di poderose cinghiate, io mi genuflessi ai suoi piedi e, piangendo invocai la sua assoluzione. Lei era sennonché molto infuriata, annunciandomi e promettendomi, che mi avrebbe in ultimo avvilita e mortificata a dovere. 

A vent’anni d’età, quantunque la benevolenza e le spiritosaggini delle mie amiche e del mio ragazzo, io venivo sistematicamente collocata in penitenza, tenuto conto che restavo per lunghi periodi sprangata dentro casa. E in quel lasso di tempo dovevo costantemente sottostare e dar retta a mia mamma, che aveva peraltro la cinghiata facile, senza dispute né polemiche, come se non bastasse dovevo infilare la tenuta da espiazione. Nel concreto era una maglietta corta con le calze e null’altro, al disopra di tutto niente mutandine, perché mia mamma insisteva obiettando che io mi comportavo da bagascia, da zoccola, perciò mi teneva con l’abbigliamento appropriato, pur sapendo che io detestavo questa cosa perché mi faceva imbarazzare moltissimo. Era un’espiazione terrorizzante e per di più crudele almeno per me a vent’anni. 

Quell’ignobile, indecoroso, sgradevole e vile lasso di tempo di trenta giorni era indubbiamente interminabile da trascorrere, peraltro asserragliata e barricata con forza dentro casa in totale penitenza, eppure non ideavo né concepivo anche allora che sarebbero stati anche incancellabili e meravigliosi momenti. Un giorno, quando ricevetti, la mia dose giornaliera di cinghiate, intanto che m’apprestavo ad esercitarmi nella materia, udii il bubbolo trillare, qualcheduno varcò l’uscio di casa, eppure non arrivai ad identificare le voci. Poco dopo, mia mamma come in preda al panico mi chiamò in modo isterico: 

“Rosa, avanti, esci da là, sbrigati, vieni qua”. 

Con la tenuta da espiazione indosso, che per me non era di certo un avvenimento che m’avrebbe fatto diventare gioiosa e spensierata nel vedere altre persone, allorquando intravidi chi c’era di fronte a me restai di stucco, ero totalmente incredula e alquanto sconcertata: là, dentro casa mia si presentarono Margherita, la sua amica Teresa e Filomena, la madre di Margherita. L’indisponente, odiosa e sgradevole ragazza aveva gli stampigli tangibili delle mie unghie ben impresse sul viso, mentre mia mamma rivolgendosi verso di lei sosteneva in modo altezzoso e sprezzante: 

“Guarda Margherita, adesso potrai ben notare che Rosa è in castigo, per tutto ciò che ti ha arrecato ha ricevuto come ricompensa parecchie frustate. Vedi tu stessa. Voltati Rosa, mostra a Margherita i segni che hai”. 

Io ero attonita, completamente esterrefatta, giacché ne derivò una sintetica polemica al termine della quale mia mamma m’ingiunse di sfilare perfino la maglietta e io dovetti adeguarmi e cedere. In seguito mia mamma esortò Teresa, Margherita e sua madre Filomena di collocarsi nel soggiorno sistemandosi dinanzi a loro, dopo mi convocò commissionandomi di dispormi in modo fermo e intransigente sulle sue gambe. Io non volevo credere né ritenere vero quello che stavo per assistere: mia mamma senza pudore né discrezione alcuna stava per sculacciarmi, a vent’anni, dinanzi a una tale più giovane di me e peraltro indisponente, insopportabile e urtante come poche. A dire il vero non rammento di preciso le esatte peculiarità, fatto sta che mi ritrovai con le mani appoggiate sul pavimento e con le estremità all’aria, sicché debuttarono i gagliardi sculaccioni dalle grinfie di mia mamma. Io volevo piangere tentando di sopprimere gli strilli, addirittura per non offrire la giubilante soddisfazione sia a Margherita che a Teresa, che m’osservavano incuriosite e per di più sanguinarie e perverse. Io le adocchiavo accomodate sulla vecchia ottomana, Margherita con l’abituale gonna cortissima, mentre Teresa pure lei agghindata ammodo, come se si stessero recando a un veglione, mentre io, là discinta e spogliata, nel buscarmi atterrita e incredula i sonori e i dolorosi sculaccioni da parte mia mamma. 

Ad un tratto mia mamma si rivolse repentinamente in direzione di Teresa manifestandole d’afferrare un ramaiolo d’alluminio dalla credenza. Lei fu lesta, in tal modo esordii nel percepire una sofferenza terribile, un male intenso. Tormentata, afflitta e prostrata com’ero non potei più reggere, perché iniziai a singhiozzare e a urlare, tentando d’invocare una giusta remissione così come farebbe una candida e ingenua adolescente. Captavo di netto che avevo smarrito la mia rispettabilità, la mia indiscussa moralità, il mio contegnoso e fiero orgoglio, intanto che mia mamma proseguiva nel suo intento, senz’accantonare neppure le gambe infischiandosene altamente. 

Nel tempo in cui lei terminò, io percepivo le natiche che m’avvampavano e le gambe colme di ecchimosi mi dolevano. Ricordo che stramazzai per terra, mia mamma avvertì Margherita, in seguito si orientò verso di me, enunciandomi con la sua immancabile faccia tosta d’esigere assoluzione e d’implorarle perfino perdono. Questa che udii, sarebbe stata la distante e per di più remota idea che avrei voluto fermamente compiere, tuttavia ero già in punizione e paventavo di ricevere altre espiazioni, in tal modo anche se con rincrescimento e con menefreghismo, invocai indulgenza e grazia a Margherita genuflessa ai suoi piedi. Ero interamente a pezzi nell’animo, a brandelli nella psiche e sfregiata nel corpo, intanto che cercavo di riassettare al meglio il mio scheggiato intelletto e il mio graffiato maltrattato corpo, con la vergogna che mi tartassava impossessandosi di me. Il giorno seguente, fui un grado di ascoltare Vito, dapprima tramite messaggi e dopo pure per mezzo del telefono, nel tempo in cui mia mamma uscì di casa, durante il tempo in cui sia Margherita che Teresa avevano già riferito e narrato là di fuori ogni cosa a chiunque. Che enorme imbarazzo, che fortissimo disagio che vivevo, perché pure Vito si trovava in instabile equilibrio tra la compassione, la premura, l’irritazione, per il continuo dileggio e per la perenne derisione. 

Trascorsero diversi giorni e alla fine Teresa, con la giustificazione che gradiva da me ottenere illustrazioni e spiegazioni, su d’una disciplina scolastica che non padroneggiava bene e che non aveva ben afferrato al liceo, mia mamma insolitamente cavillosa, indisponente e sentenziosa qual era non si oppose né obiettò, lasciandoci placidamente studiare avviandosi verso Capo Rizzuto da sua sorella. A un tratto io mi sollevai per andare in bagno e Teresa mi seguì: la tenuta da espiazione non mi donava molta privatezza e in quel modo Teresa iniziò, da principio gentilmente a sfiorarmi le gambe, in seguito a lisciarmi le chiappe esponendomi nel mentre: 

“Che roba, stento a crederci, tua mamma te le ha suonate parecchio l’altro ieri. Chissà quanto male hai patito, il tuo sedere è ancora rosso, e quante contusioni”, povera stella”.

Subito dopo rientrammo in camera e ci accomodammo sul mio talamo, io in verità non sapevo come comportarmi e che cosa eseguire, ero veramente confusa e a disagio, lo confesso, ma al tempo stesso briosamente accalorata e disinvoltamente aizzata da quelle inedite e originali attenzioni. 

Teresa era più giovane di me, malgrado ciò appariva assai più pratica e ferrata di me. Di sorpresa mi baciò, io distinto mi tirai indietro e lei insistendo m’attiro a sé, riapparendo subito mielata e armoniosa, finché non ci baciammo con passione, anche se io ero perennemente stata sempre attratta e invaghita dai maschi. Quello che vivevo era un turbamento strano, una percezione inedita e bizzarra, Teresa in quel frangente tirò su la gonna cortissima e s’abbassò le mutandine esortandomi: 

“Coraggio Rosa, su, bacia pure lei” – mostrandomi baldanzosa e sfrontata la sua pelosissima e odorosa fica. 

“Scusami Teresa, ma non ci riesco” – mentre lei con uno sguardo scaltro e malpensante mi disse che avrebbe rivelato tutto a mia mamma, con le conseguenze che ne sarebbero scaturite, in mio sfavore ovviamente. 

Io all’idea che potesse spifferarle tutto sbiancai in volto, paventando nuovamente le tremende e dolorose scudisciate e percosse che avrei ricevuto, tra critiche rimproveri e sgridate d’ogni sorta. Teresa, sorridendo, mi specificava con la mano la sua nerissima fica. Io, indugiando le diedi un bacio, poi tergiversando un altro, successivamente presi coraggio e adoperai la lingua eseguendo quel dissoluto atto, così come Vito aveva fatto qualche volta con me. In principio provai un poco di ribrezzo, poi iniziò a conquistarmi, perché Teresa aveva una fica gradevole e gustosa, la sua sapidità mi piaceva, non lo avrei mai immaginato. Roteavo la lingua dentro quella fessura come una ragazza abile e competente, perché dopo pochi istanti Teresa venne strillando il suo libidinoso orgasmo. Subito dopo Teresa lestamente si riordinò sbottandomi: 

“Fa’ presto Rosa, perché se tua madre ti trova in queste condizioni sono cavoli amari, in particolar modo nei tuoi confronti”. 

Io restai là di stucco, sbigottita e inspiegabilmente inquieta e delusa, con una voglia insoddisfatta che m’invadeva le membra. Mia mamma rientrò due ore più tardi esausta e trafelata, intimandomi di caricare i panni nella lavatrice con il suo modo militaresco e dispotico. Io mi rifiutai di netto contestai e controbattendo m’allontanai ignorandola. Chiaramente li caricai io in seguito, dopo aver ottenuto una bella ritoccata di frustate, come penalità per la mia antiliberale reazionaria replica. Quelle frustate, invero, ottennero comunque il merito e il pregio di farmi cessare i fervori e l’effervescenza che Teresa m’aveva dapprima propagato, annichilendomi, ridimensionandomi e umiliandomi un’altra volta al livello di ventunenne femmina in durevole penitenza. 

Io mi sarei di certo straordinariamente e lussuriosamente rifatta con Vito, concedendoci sublimi e appassionate coinvolgenti scopate, il mio ragazzo di allora, che è diventato infine il mio attuale e adorato consorte. 

{Idraulico anno 1999}   

 

Leave a Reply