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Eneide Postmoderno – Dell’errare degli esuli e delle loro vicende

By 17 Aprile 2020No Comments

I giorni dopo l’abbandono di Cassius e dei traditori furono lenti e tediosi.
Janus consultava continuamente le stelle, offrendo libagioni agli déi e pregando che presto giungesse la terra che Draupadi aveva profetizzato.
Decisi a proseguire il viaggio, gli Esuli avevano veleggiato a lungo sul mare ora placido, tentando di lottare contro la crescente noia che si riaffacciava sulle loro esistenze dopo il tumulto sollevato dal tradimento di Cassius. Per ben cinque giorni non si vide terra, invero.
Durante quei giorni, Maghera e Janus dormivano abbracciati, facendo l’amore piano e lentamente, come con timore di essere defraudati del presente tanto difficilmente guadagnato.
-Ho temuto di perderti.-, sussurrò lei mentre riposavano dopo un amplesso lento e passionale.
-Ho temuto di perdermi.-, ammise lui. Maghera lo baciò piano, sensualmente, senza voler mettere fretta al riaccendersi della passione ma sicuramente attendendo che essa tornasse.
-Dovremmo pensare a un nome, Janus.-, disse, -Ormai é la quarta volta che versi il tuo seme dentro me. Sarebbe logico credere che possa portare frutto.-.
-Senti questo nel tuo corpo?-, chiese l’Esule accarezzandole appena il ventre.
-Non ancora. Ma forse, un giorno non lontano…-, la frase si spense nel bacio dell’uomo.
-Sicuramente.-, disse lui, -E sarebbe per me la massima gioia saperti madre di mio figlio.-.
-Non credi forse che possa essere una figlia? Una prode guerriera?-, chiese Maghera.
-Invero, presso Licanes, le donne non combattevano quasi mai. Solo poche avevano tali inclinazioni.-, ammise lui, -E furono vere e proprie eroine nel nostro conflitto finale.-.
-Allora forse, nella nostra nuova patria, dovremmo permettere alle donne di apprendere l’arte del tiro con l’arco e con le vostre armi energetiche.-, suggerì Maghera, -Affinché la stirpe del Kelreas conosca nuova linfa in terra straniera.-, sorrideva tracciando piccoli ghirigori con le unghie sul petto di Janus che sorrise a sua volta.
-Sì, sarebbe auspicabile.-, ammise accarezzando il volto della giovane. Le mani si mossero lungo il collo, sino ai seni, sfiorando appena alcune cicatrici, come quelle di lei, facendosi strada su di lui parvero indugiare sui segni che la guerra combattuta aveva tracciato sul suo corpo.
-Entrambi portiamo nella carne i segni di ciò che abbiamo passato. Non vergognose rimembranze di colpa, o mio amato, bensì mementi di ciò che abbiamo passato, conferme della forza che abbiamo mostrato, ricordi di traguardi raggiunti e ostacoli superati!-, sussurrò Maghera.
Janus sorrise. Non l’aveva mai vista in quel modo. Lei intuì il suo pensiero.
-Presso la mia gente, le cicatrici sono degne d’onore. Sono il nostro vissuto, tanto quanto azioni e parole. Si pensa che, alla nostra morte, la Dea leggerà da esse la nostra storia.-, disse.
-Ma la vostra gente brucia i morti…-, ricordò Janus. Maghera sorrise, la mano che accarezzava lenta il viso dell’Esule su cui la barba faceva capolino nonostante la recente rasatura.
-Le cicatrici del corpo sono riflesso di quelle dell’animo, sono uno specchio e un tramite. La Dea legge ciò che la carne ha lasciato sullo spirito, o Janus.-, spiegò.
-E legge anche… altro?-, chiese lui, sentendosi stupido nel domandare. Strinse leggermente un capezzolo dell’amazzone che gemette appena.
-Legge tutto, mio amato. Finanche questo istante non le é ignoto.-, sussurrò Maghera.
-Allora dovremmo dare modo alla Dea di osservare i nostri sforzi per non vedere la stirpe del Kelreas inaridire…-, suggerì lui baciandola.
-Blasfemo…-, rise lei mentre lo baciava sentendo rinascere il desiderio per quell’uomo.
Sentì il suo membro tornare ad ergersi. Lo manipolò piano.
-Cavalcami, o valente guerriera!-, la esortò lui. L’amazzone s’impalò su suo sesso, accogliendolo dentre di sè con un gemito. Presero a muoversi piano, le mani che indugiavano su petti e volti, le bocche che si cercavano, famelicamente. Continuarono aumentando il ritmo e diminuendolo per un tempo lunghissimo, finché la giovane non sentì l’uomo prossimo all’orgasmo.
-Godi con me, Janus.-, lo pregò Maghera graffiandogli il petto, -Godi di me… Godi in me!-.
Quando lo sentì al limite aumentò il ritmo, graffiando il petto dell’Esule mentre si versava in lei.
-Mi lascerei ben volentieri uccidere da te, mia amata.-, sussurrò abbracciandola. 
La risposta di Maghera fu un bacio.

Fu al settimo giorno dall’abbandono di Cassius e dei suoi che il pericolo giunse inaspettato. Un essere enorme, serpentiforme e nient’affatto normale emerse dagli abissi.
Janus organizzò lesto la difesa mentre tutto l’equipaggio si prodigava per abbattere quella bestia giunta dal più oscuro dei loro incubi. Le Amazzoni scagliarono frecce su frecce, sino vuotare le faretre, le armi a energia dei Licanei baluginarono emettendo lampi corruschi che andavano a bruciare la carne di quell’essere che, mai sazio di distruzione o forse solo bramoso della propria fine, nei suoi spasmi, colpì l’albero maestro. La vela della galea fu spazzata, infranto il nobile palo traverso che la reggeva. Infine, fu Cthea del Kelreas a compiere l’impresa: si lanciò dalla coffa dell’albero maestro, piantando il suo pugnale nell’occhio della bestia. Il ruggito e le convulsioni dell’essere furono tali da rischiare di scagliarla in mare, o da farla sfracellare sul ponte della nave sottostante diversi metri da lei. Impavida, Cthea estrasse il secondo coltello e trapssò ancora il mostro. Svellò il primo, ed evitando a stento il tentantivo del mostro di ucciderla, ne lese anche l’altro occhio. Cieco e furente, il bestio prese a muovere repentinamente il capo più volte.
Cthea cadde in mare. Gli Esuli furono lesti a recuperarla con una cima mentre i Licanei sparavano per coprire quel salvataggio. La prodezza dell’amazzone aveva però dissuaso il mostro dal tentare nuovi attacchi e Janus lo vide fuggire. Cthea, riportata a bordo fu acclamata ma l’impatto era stato terribile: la gamba sinistra era lesa in modo grave ed era possibile che l’amazzone avesse riportato lesioni interne. Scossa dalla fatica e dal dolore, Cthea svenne.
Rapdiamente, Asclepia ne sancì il trasporto nel Sanitarium.
Mettendo all’opera tutta la scienza di cui disponeva, l’Apotecaria stabilì le condizioni di Cthea.
-Due costole fratturate, lesioni al braccio destro, una lussazione del tendine del braccio sinistro sicuramente dovuta all’eccessiva tensione e la gamba sinistra presente fratture in più punti.-, disse a Maghera e a Janus, accorsi insieme alle Amazzoni per sincerarsi delle condizioni della guerriera.
-Lesioni interne?-, chiese l’Esule. Asclepia scosse il capo, sconsolata.
-Non sembrerebbe ma non dispongo degli strumenti ottimali per verificarne l’assenza o la presenza. Purtroppo durante l’esodo da Licanes non abbiamo potuto portarli con noi.-, ammise, -Ci tocca aspettare. Il suo destino é in mano ai suoi déi e ai nostri.-.
-La Dea Madre veglierà su di lei.-, disse Maghera. Si accomiatarono.

Cthea rimase incosciente per il giorno successivo. Fu verso il mezzogiorno del giorno dopo che riaprì gli occhi, trovandosi davanti Asclepia, intenta a controllarne le condizioni.
-Non sono morta…-, sussurrò, sbalordita.
-No. Anzi, tutti noi ti dobbiamo probabilmente la vita. Ma dimmi, senti dolore da qualche parte, un dolore acuto?-, chiese l’Apotecaria. Cthea cercò di concentrarsi. Dolore? No, non ne sentiva.
-No… solo… la gamba, fa un po’ male ma é sopportabile. Un dolore sordo.-, disse.
-Già. Ho iniettato degli anestetici. Non sentirai dolore, ma é fratturata in due punti. Saresti dovuta essere morta…-, disse Asclepia. Cthea sorrise, consapevole del miracolo di cui era protagonista.
-La Dea Madre ha vegliato…-, sussurrò. L’Apotecaria annuì.
-Già. Comunque sarebbe bene che tu restassi ferma e a riposo.-, disse, -Hai anche due costole fratturate e un probabile outlet toracicus.-, continuò.
-Un cosa?-, chiese Cthea. 
-Un outlet toracicus. Le costole fratturate possono star compromettendo la respirazione. Ho dovuto steccare il torace e ovviamente questo implicherà l’impossibilità di muoversi da parte tua, almeno per un po’.-, spiegò Asclepia mentre le poggiava una mano sulla fronte.
-Hai la mano freddina…-, disse Cthea. Asclepia parve persa nei suoi pensieri e l’amazzone dovette ripetersi. Subito, l’Apotecaria sollevò la mano.
-Scusa… stavo riflettendo.-, disse con un sorriso, -Comunque non c’é febbre.-, decretò.
-Bene.-, sussurrò Cthea. Un pensiero le sovvenne.
-Gli altri? Stanno tutti bene?-, chiese.
-Più o meno. Athius ha riportato una ferita minore, Larius invece ha dovuto essere operato. Ho dovuto amputargli un braccio, a causa di un infezione.-, disse Asclepia, -Ma grazie a te abbiamo ancora una nave e un equipaggio. È più di quanto avremmo potuto mantenere.-.
-Avrei dovuto essere più rapida.-, mormorò Cthea. L’altra scosse il capo.
-No. Hai fatto tutto quello che potevi e anche di più.-, disse, -Ora riposa.-.

Rimasta sola, Asclepia rifletté su quanto ingiusta fosse la vita. Quella giovane era stupenda e certamente già bramante e bramata da altri. Lei era destinata a restare sola, la sua mano unico strumento di piacere sino al termine dei suoi giorni.
Eppure… che motivo aveva per non approfondire la conoscienza, anche solo per passare il tempo?
Prese a toccarsi pensando al bel corpo della ragazza, al desiderio cocente che le scavava dentro, al pensiero della lingua di lei sul suo petalo spumeggiante di piacere.

Nei giorni successivi, Cthea fu visitata da una fiumana di gente.
Il primo fu Janus, accompagnato da Maghera che onorarono la giovane lodandone il coraggio e l’iniziativa. Poi arrivarono le Amazzoni rimaste, congratulandosi con lei per una prodezza la cui riuscita aveva senz’altro consegnato il suo nome alla Storia. Poi i Licanei, uomini e donne, esuli di patria, grati per quell’atto di disinteressato coraggio e sacrificio con cui Cthea aveva salvato e protetto tutti loro. La giovane parlò poco e ascoltò molto. La sequela di visite si protraeva sino a tardo pomeriggio, spesso obbligando Asclepia a interrompere quella fiumana di grati visitatori per poter permettere alla giovane la quiete e il riposo necesssari.
Le sue condizioni andarono migliorando e, mentre la nave proseguiva il suo viaggio, Asclepia ebbe modo di conversare con la guerriera convalescente.
Cthea parlò ben volentieri del suo popolo, ascoltando l’Apotecaria spiegare la storia di Licanes e della sua caduta. I discorsi culturali e informali lasciarono il posto a conversazioni amichevoli e, quando le condizioni dell’amazzone lo permisero, a passeggiate di breve durata lungo il Sanitarium, con Asclepia che continuava a vegliare su di lei.
Tutavia, il tempopassò inesorabile e dopo qualche altra settimana, Cthea fu in grado di muoversi autonomamente. Asclepia non riuscì a mascherare la propria tristezza, sapendo che preso la giovane sarebbe tornata alla sua vita, tuttavia l’Apotecaria fece del suo meglio per non farle pesare le proprie emozioni. Continuarono a parlare del più e del meno, giocando a Gamon (un gioco antichissimo in voga nell’antica Licanes e che un tempo era chiamato Baggammon, o qualcosa del genere) e parlando di tutto tranne che dell’unica cosa che Asclepia avrebbe voluto chiedere.
-Dimmi, Cthea, hai forse un uomo che ti attende?-, chiese osando finalmente dirle ciò che tanto aveva atteso a chiedere, -Invero non ho visto spasimanti cercarti…-.
-Invero non v’é un uomo, o Asclepia, almeno non per ora.-, disse Cthea.
-Oh… un vero peccato.-, disse l’Apotecaria mentre muoveva due pedine. E la guerriera sorrise.
-Che vuoi dire?-, chiese mentre tirava i dadi. Cinque e tre. Un ottimo punteggio. Mosse.
-Che fossi io un uomo…-, Asclepia arrossì violentemente, improvvisamente conscia di aver parlato troppo, -Lascia stare.-, disse tagliando corto e tirando. Uno e tre. Non molto che potesse fare.
-No, dimmi. Ormai immagino che tu possa capire che non mi scandalizzerò, o Licanea.-, disse l’amazzone. Tirò i dadi e mosse una pedina facendola uscire dalla tavola.
-E sia! Fossi io un uomo…-, Asclepia s’interruppe, imbarazzatissima. Chiamò a sé tutto il suo coraggio e, preso un respiro finì la frase, -Ti vorrei tra le mie braccia con tutta me stessa.-.
Cthea osservò il viso di Asclepia, sorrise. L’Apotecaria si preparò all’inevitabile commento derisorio tipico di una simile situazione. Nonostante sapesse che tra le Amazzoni i rapporti tra donne fossero permessi, sapeva anche che Cthea era sicuramente, come tante sue compatriote, una mangiauomini di prima categoria e che tale proponimento sarebbe rimasto lettera morta, vano argomento conversativo, privo di qualunque seguito.
Cthea tirò i dadi. Tre e tre. Fece uscire le ultime pedine dal tabellone siglando la vittoria.
Asclepia non guardò neppure il tabellone, guardava solo l’amazzone con disperato desiderio.
Sentiva solo il battito impazzito del cuore, la consapevolezza che ancora, non avrebbe potuto conoscere che quella delusione e quella solitudine che già conosceva.
Poi, lentamente, Chtea avvicinò il viso al suo.
-Non abbiamo concordato una posta.-, disse in tono lieve. Asclepia si accorse di star respirando a fatica, come se i polmoni le si fossero atrofizzati in un orribile prognosi del Morbo di Karesia.
Ma così non era: non era che l’eccitazione a mozzarle il fiato.
-Prendi quello che vuoi…-, sussurrò l’Apotecaria, ormai conscia di ciò che sarebbe venuto dopo ed esultante. Socchiuse gli occhi quando sentì le labbra di Cthea sulle sue, la lingua dell’Amazzone che cercava, premeva, entrava, esplorava, e la sua che tentava esitante di fare altrettanto.
-Io…-, sussurrò quando il bacio finì.
-Sei una bellissima donna. E su questa nave vi sono già molti uomini… Pensavo fosse il caso di provare qualcosa di diverso.-, sussurrò appena Cthea prima di riprendere a baciarla.
Asclepia si sentì improvvisamente leggerissima, trasfigurata da un energia che non credeva possibile. Baciò di rimando la guerriera mentre scostava delicatamente il gioco posto tra loro per poterla abbracciare. Cthea le baciò il collo, causando all’Apotecaria la sensazione di starsi sciogliendo. Asclepia respirò a pieni polmoni il profumo di lei.
-Oh, déi…-, sussurrò quando sentì le mani di Cthea indugiare tra i suoi abiti, spogliarla.
Fece lo stesso con mani frementi e il cuore in tumulto, la mente assediata da mille e mille dubbi.
-Io non ho mai…-, incominciò. Cthea le sorrise.
-Neppure io. Ma credo non sia molto diverso dal fare quello che faremmo per darci piacere da sole, no?-, chiese baciandola. Le sfiorò un seno piano, stringendo il capezzolo. Asclepia gemette.
“Déi…”, pensò. Poi il suo cervello si spense, la mente chiusa in un angolino della sua percezione.
Accarezzò i capelli fulvi dell’amazzone mentre ne seguiva il flusso sino alle reni. Baciò i seni di Cthea, scendendo esitante lungo il petto.
-Staremmo più comode su un letto… o distese.-, osservò l’amazzone sorridendole.
-Non voglio aspettare… ho già aspettato tanto…-, mormorò Asclepia. Aiutò Cthea a stendersi sul pavimento e prese a leccarla, a esplorare con lingua, mani e bocca quel corpo ambrato e stupendo, costruito quasi per guerra e amore ad un tempo. Quando arrivò alla sua vulva, l’imbarazzo era ormai scomparso. Restava solo la brama, il desiderio, la libido sfrenata.
-Assaggia il mio nettare…-, supplicò Cthea, intenta a carezzare la vulva di Asclepia.
La donna s’immerse tra le cosce della guerriera, leccando, esplorando.
-Piano…-, sussurrò l’Apotecaria quando un dito di Cthea le entrò dentro pianissimo.
-Sei vergine.-, sussurrò appena Cthea, stupita e gemente a causa del dito della sua partener che la penetrava piano. Asclepia mormorò un assenso.
-Farà male.-, avvisò Cthea, -Ma va fatto. E voglio essere io a farti mia.-.
-Fammi tua…-, sussurò sognante la donna. Sentì il dolore e il piacere. Il dito affondò sino in fondo in lei, regalandole il godimento più totale. Proprio in quel momento, sotto le sue carezze e la sua lingua, anche Cthea godette.
Rimasero immobili, scosse dal vento del piacere, finché l’amazzone non osò parlare.
-Da adesso ci apparteniamo, Asclepia di Licanes. Io tua e tu mia sino alla morte.-, sussurrò.
-E anche oltre.-, disse Asclepia cercando la bocca della guerriera e baciandola.
Ricominciarono presto a darsi piacere, mai sazie, sino ad addormentarsi l’una nelle braccia dell’altra, spossate dagli orgasmi. Cthea lasciò il Sanitarium il giorno seguente.
Non lasciò mai più la vita di Asclepia di Licanes.

Fu dopo altre tre settimane di viaggio che Janus la vide.
Le scorte di cibo erano ormai quasi esaurite e il dubbio si era impadronito di molti degli esuli.
Ma mai come allora, la sua vista fu sì lieta!
Terra. Ma non solo. Sentì, percepì che il loro errare era finalmente concluso.
Maghera lo raggiunse a prua, il viso lieto nonostante nessuna gravidanza fosse giunta a dispetto dei loro accoppiamenti. Come se gli déi non intendessero permettere, perlomeno non ancora, l’arrivo di un discendente per la loro unione.
Osservando quella terra, Janus capì, intuì che quella era la terra loro promessa, quella per cui tanto aveva lottato e condotto i suoi compagni di sventura e le guerriere del Kelreas a unirsi in una sola stirpe, sorretti dal sogno di un destino comune attraverso quell’indicibile ordalia.
-È quella. È la terra promessaci!-, esclamò Janus.
-È quella?-, chiese Maghera.
-Sì! È lei!-, esclamò l’Esule, lacrime di gioia che straripavano, scendendo sul viso e abbracciando l’amazzone, -È lei, amore mio! Siamo arrivati!-.
Il suo grido fu ripreso e, lentamente, la galea guadagnò la spiaggia.

 

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