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La Caduta, Atto sesto: degli opposti sentimenti di Aristarda e Septimo e della congiura.

By 22 Gennaio 2021Gennaio 25th, 2021No Comments

Ordunque accadde che Septimo fece ritorno in Roma, acclamato dal popolo e molti furon dimentichi dei recenti avventimenti. L’ombra del sacrilegio ancora incombeva su di lui, ma egli non se ne facea problema. In Senato, sempre meno erano i suoi avversari. Serena Prima invece, pur tornata a Roma, già pianificava le prossime mosse di una controffensiva volta a distruggere definitivamente Aristarda. Già le forze lealiste avevano inseguito i nemici sin oltre Renneus, lungo i monti Pirenei.
Quivi, le forze lealiste subirono una prima battuta d’arresto quando Aristarda Nera, al comando della sua guardia personale e dell’esercito in rotta, tese un imboscata e abbatté Niverio Siriaco, al comando delle forze lealiste. I ribelli poterono dunque impadronirsi delle insegne della Legio Rapax e spinsero alla ritirata i lealisti. La breve vittoria permise ad Aristarda di tirare il fiato, facendo ripiegare le sue forze lungo i Pirenei. Ma la vittoria, pur indiscutibile, non era stata priva di perdite: moltissimi dei feriti di Brixiate, privi di assistenza medica, erano peggiorati, di fatto spirando sulle lettighe degli ospedali da campo. Altri avevano richiesto di coprire la ritirata dei compagni ed erano rimasti indietro, a gruppi di tre o quattro, retroguardie volontariamente votate al sacrificio per guadagnare il tempo necessario agli alleati per ripiegare.
Complessivamente, il bilancio della Battaglia di Brixiate poté così dirsi completo:
I lealisti subirono ventimilasettecentottantasei vittime tra morti e feriti.
I ribelli invece persero diciassettemilaquattrocentoventitré uomini durante Brixiate e altri cinquemila nei giorni successivi, a cui andavano ad aggiungersi i morti per ferite o malattia ed eventuali rari disertori.

Septimo Nero sorrise. Nel banchetto offerto per festeggiare la vittoria erano confluiti i generali vittoriosi, con l’eccezione di Serena Prima, che aveva rapidamente preso il comando delle truppe del defunto Niverio. Ethelus e il Legato della fu Septima Legio erano lì, insieme a Tribuni e Centurioni. Il cibo abbondava, il vino scorreva a fiumi e tutti loro festeggiavano, allietati da danzatrici, suonatori e suonatrici ed altri piaceri.
-Imperator. A cosa volgon i tuoi pensieri in questa dolce notte?-, chiese una delle concubine imperiali. Ella era Delsia Armisa Peona, una giovane dagli occhi stranamente a mandorla, la carnagione ambrata dei discendenti del Kelreas e il viso angelicamente bello, incorniciato dai capelli argentei. Era la sua favorita. L’unica che potesse permettersi sifatte domande.
-Mia soave Delsia.-, sorrise lui notandone la presenza che, assorto com’era stato nei suoi pensieri, non aveva precedentemente percepito, -Invero son cose da nulla. Son solo pensieri momentanei.-.
-Comprendo, mio signore. Posso io, umile serva, sollevarti dal tuo cogitare?-, chiese lei.
L’Imperator sorrise. Certo che poteva! Lasciò rapidamente la festa, che già stava degenerando in un’orgia bella e buona. Si diressero verso le stanze dell’Imperator.
Entrarono in una delle stanze, già avvinghiati. Con sapienti mosse, Delsia Armisa Peona scoprì il sesso dell’Imperator, già turgido. Si tolse la tunica con un gesto tanto aggraziato da far male.
L’Imperator la contemplò nuda. La fece girare. Lei sorrise.
Era un copione già noto: lei non doveva abbassare l’Imperator ai preliminari, quelli erano a suo carico. Lei doveva solo esser pronta e accogliente quando lui lo chiedeva. Come in quel momento.
Sentì la verga dell’Imperatore contrò il suo ventre, spingere contro la sua intimità, senza ancora però entrare… e fermarsi. Lei spinse contro di lui, invitante, sapendosi desiderata. Niente.
-Mio signore?-, chiese. Lui non rispose. Lei ponderò se girarsi a controllare. Septimo era in piedi, il membro che lento si sgonfiava, perdendo turgore.
-Vestiti, Delsia. Oggi… non sono in vena. Sebbene credimi, vorrei.-, disse. Lei esitò.
Era colpa sua? L’aveva in qualche modo deluso? No… Eppure…
-Mio signore?-, osò chiedere. Septimo la fece alzare.
-Vattene sinché non ti chiamerò.-, disse. Le ficcò in mano le vesti e la fece uscire.
Rapidamente, la cortigiana si avvolse nelle vesti. Mai, mai l’Imperator l’aveva tratta così.
Cos’era accaduto? Uscì e tornò ai suoi alloggi domandandoselo.
Septimo rimase fermo nella stanza, ricomponendosi lentamente. I mobili erano stati cambiati, la stanza riconsacrata da alcuni sacerdoti, ma ancora sentiva, ancora sapeva. Non poteva dimenticare. Mai.
Era lì che lui aveva posseduto sua sorella. Era lì che lui aveva lordato l’Impero.
Era lì che aveva perso tutti coloro che lo avevano davvero amato.
Quella vergogna lo trafiggeva come una spada nei momenti più quieti, affondandogli dentro sino a un punto che neppure l’orgoglio di essere l’Imperator poteva raggiungere.
In quei momenti, Septimo Nero, Imperator in Roma, si sentiva perso, totalmente.
Se non avesse fatto quel gesto, se non avesse fatto uccidere Socrax, forse, forse!, Aristarda avrebbe compreso, forse avrebbero potuto persino trattare, se non da fratello e sorella, almeno da pari.
E forse, lei avrebbe abdicato alle sue assurde pretese. Lei! Lei che mai si era piegata!
Lei che si era concessa a Proximo Lario e non a suo fratello!
-Proximo…-, grugnì l’Imperator. Alzò il gioiello che aveva strappato al Legato. Un semplice ornamento. Una collana di poco, pochissimo valore. Un pegno di Aristarda.
-Maledetto…-, sibilò. La rabbia montò dentro di lui, dirompente.
-Maledetto!-, ruggì. Un servo si affacciò.
-Mio signore?-, osò chiedere. L’Imperator lo fissò con tale furia che l’uomo non ebbe bisogno di ordini: si ritirò spontaneamente. Septimo crollò a terra, in ginocchio, nella posizione che i monaci Zen-Shura avevano chiamato Saizan.
-Maledetto…-, strinse i pugni, ma la rabbia lasciò il posto ad altro. Ai ricordi. Lui e Aristarda bambini, poi ragazzi, giochi, conversazioni, Dursilla, la sorella che poi sarebbe stata Vestale della Dea del Kelreas che danzava leggiadra al ritmo di strumenti a fiato e percussioni, riti presi a prestito dalle Amazzoni, così più vicini a quelli di Licanes ma come mancanti di una parte senza di essi. L’esistere tra i due mondi, gli usi del Kelreas e quelli di Licanes e dei Cimenei, come fu scritto dal Fondatore durante l’alba dei Romanei.
E le cerimonie. L’investitura della maggior età. La complicità, i sorrisi, l’affetto…
Septimo si accorse che qualcosa gli scivolava lungo il viso. Acqua? Vino? Si era versato addosso qualcosa? No… Un’infiltrazione sul tetto? No…
Eppure… Deve essere acqua. Poi qualcos’altro. Un suono che non ha senso, non lì. Non ora.
Eppure sembra così appriopriato. Un singulto scosse Septimo Nero.
Le lacrime sul suo viso caddero mute.
E il silenzio fu il solo testimone dell’inferno di quell’uomo che osò l’impossibile.
-Essere abbandonato…-, sussurrò, -È come essere ucciso e scoprirsi ancora vivo.-.

Aristarda Nera invece passava di letto in letto. I feriti degli scontri recenti erano andati a sommarsi a quelli di Brixiate. Erano due giorni che non dormiva. Aveva marciato e combattuto con i suoi soldati. Aveva ceduto il proprio VTOL per permettere l’evacuazione di diversi feriti verso Madridia e Barcino, ma non era bastato. I feriti erano semplicemente troppi.
-Serve altro plasma, qui.-, disse. Controllava le condizioni di un legionario il cui corpo era uno strazio. Ustioni lungo il braccio destro e il sinistro, mozzato all’altezza del gomito, ancora sanguinava. Asciugò la fronte del giovane. Febbre. Un infezione, sicuro. Dovuta alla ritirata protratta, a cure troppo a lungo rimandate.
-Mia signora…-, osò dire Vera Nemlia. La comandante della Guardia di Aristarda aveva vegliato al suo fianco, si era battuta al suo fianco. E alcuni dei suoi membri erano morti al suo fianco.
-Plasma. Ora. E del bactericida dermosigillante. Ora!-, esclamò Aristarda, i suoi occhi mandavano fuoco. Vera annuì. Si defilò. Aristarda passò dell’acqua al soldato. Lo aiutò a bere.
“Quanta morte, quanti morti per la scelleratezza di mio fratello…”, pensò.
-Mia signora…-, sussurrò il giovane.
-Non parlare. Risparmia le forze. Non é finita.-, disse lei.
-Io…-, un ascesso di tosse lo fece tacere. Un sanitarium giunse col plasma. Collegò le flebo e applicò il dermosigillante.
-Sarà necessaria una protesi.-, diagnosticò.
-Tienilo in vita.-, rispose Aristarda, -È un eroe. Come tutti i presenti.-.
Si allontanò dal letto del ferito. Passò al successivo. Ospitava una donna. La pelle era chiara ma l’uniforme, seppur lisa e insanguinata, non lasciava dubbi.
-Viragea…-, sussurrò Aristarda. Passò dell’acqua alla giovane che bevve. Era ferita alle gambe. Molteplici colpi di armi energetiche. La destra era ridotta a un moncherino.
-Mia signora… Ora cosa faremo?-, chiese.
Aristarda si stava facendo la stessa domanda da ore. Da giorni. Ma non osava esprimerla.
-Ciò che dobbiamo.-, rispose, -Tu pensa solo a guarire. Presto ti installeremo una protesi. Non temere: avrai modo di tornare a camminare.-, si accorse di stare per piangere.
-Mia signora… non é importante… Le braccia le ho ancora. L’arco si può ancora tendere. E io ho un’ottima mira.-, sorrise la ferita. Il viso di Aristarda si sciolse in un sorriso.
-Sono fiera di poter contare su gente come te.-, disse. Accarezzò piano la guancia della ragazza.
Lei sorrise. Aristarda andò oltre. Fermò un medico.
-Abbiamo altre protesi?-, chiese.
-Mia signora… stiamo finendo tutto. Plasma, protesi, bende, anestetici, tutto.-, l’espressione del medico era tesa, allo stremo, e sofferente. Come l’Imperatrix stessa.
-Manderò dei mezzi a Madridia e a Barcino. Ci procureremo ciò che ci serve. Cerca di far riposare chi può, fosse anche per poco tempo. Dobbiamo salvarli, dobbiamo.-, disse lei.
-Signora…-, iniziò il medico. Esitò.
-Parla.-, disse lei.
-Molti di coloro per cui ci stiamo affaticando non supereranno la notte. Io…-, prese un respiro, -Io credo che dovremmo decidere chi salvare. Perché l’alternativa é perdere un sacco di risorse e di gente che potrebbe essere salvata per cercare di tenere in vita tutti.-.
Aristarda tacque. Rimase zitta per un lungo, lunghissimo istante. Nella mente le passarono i volti dei morti. I loro visi erano un memento, così come quelli dei feriti visitati. Si concesse uno sguardo alla corsia. L’intero stabile era stato una fattoria, ora era un lebbrosario, la retrovia di un esercito sconfitto, seppur ancora fiero. “Quanti di loro?”, si chiese, “Quanti di loro moriranno?”.
-Mia signora.-, sentì la mano del medico scuoterla. Vera si fece avanti, attenta, per punire quell’atto ma un cenno di Aristarda la fermò. Non era il momento.
-Riesci a valutare con sicurezza chi può essere salvato e chi non?-, chiese. Il medico annuì.
-La responsabilità non ricadrà su di te.-, lo assicurò lei, -Fai ciò che va fatto.-.
Lui annuì. Lei si avvicinò a un altro letto. Su questo giaceva un giovane. Un carrista.
Era messo male: il corpo era un amalgama di lacerazioni e ustioni. Gli Apotecarii erano chiari.
Vivo, ma in stato comatoso, ferite multiple, possibili traumi di altro tipo ancora da diagnosticare.
Aristarda annuì. Lesse il nome del giovane dal bracciale su cui era inciso.
-Lemarteus.-, sussurrò, -Possa tu trovare pace.-.
Sfilò il pugnale e colpì, come già aveva fatto durante l’ultima battaglia. La lama trapssò il cuore.
I segni vitali del giovane ebbero un ultimo guizzo poi si azzerarono.
-Mia signora… voi dovete riposare.-, disse Vera.
-Non esiste. Devo… devo aiutarli.-, rispose Aristarda Nera. Svellò il pugnale dal corpo e lo ripulì, rinfoderandolo, -Tutti stanno facendo la loro parte.-.
-Mia signora, voi vi state logorando.-, replicò Vera. L’Imperatrix la fissò, sorpresa.
Erano amiche, ottime, avevano anche fatto sesso assieme o con terzi, donandosi piacere senza riguardo per il rango, ma mai, mai Vera si era permessa una simile opinione.
-Voi dovete riposare. Capisco che siete affranta, arrabbiata. Lo capisco. Ma collassare in preda alla stanchezza non vi sarà di aiuto alcuno.-, disse la guardia.
-Devo farlo! Sono andati a morire per me, non capisci?-, chiese Aristarda.
-Sì. Ma é stata una loro scelta. E se ora voi vi ammalaste o vi lasciaste abbattere dalla sconfitta ne disonorereste il sacrificio.-, rispose Vera Nemlia. La mano della guardia accarezzò la guancia di Aristarda. L’Imperatrix sfiorò appena quella mano, come ad assicurarsi che ci fosse.
Gli Apotecari e i Sanitarii si affaccendavano. Aristarda sospirò.
-Vera… come farei senza di te?-, chiese con un sorriso.
-Riposate, mia signora. Vi prego.-, sussurrò l’altra. Aristarda scosse il capo.
-Un ultimo giro. Sino al fondo.-, disse, -Poi ti prometto, riposerò.-.
I feriti successivi non erano messi meglio degli altri. Alcuni erano coscienti, e riconoscendo l’Imperatrix molti tentarono di alzarsi o parlare. Aristarda si prodigò per tutti, senza risparmiarsi. Una parola, un gesto, dell’acqua, un bendaggio. Quando uscì dall’edificio, si concesse uno sguardo a sé stessa. Era uno straccio. I capelli erano arruffati e sporchi di sangue e fanghiglia. L’armatura era lisa e lorda. Le vesti che aveva indossato sopra la corazza erano lacere.
Le vesti con cui si era avvolta per andare a trovare Proximo…
-Mia signora…-, iniziò Vera.
-Sì. Lo so.-, rispose lei. La guardia scosse il capo.
-Guardate.-, disse Vera. Indicava la linea del fronte, o meglio, la fine del loro campo.
Un messaggero con una bandiera di tregua.
-Per gli Dei…-, sussurrò Aristarda, combattuta tra furore e spossatezza.
-Cosa vorrà?-, chiese Vera. L’Imperatrix aveva qualche idea ma non le espresse.
-Scopriamolo.-, disse.
Il messo, in attesa, era avvolto in una toga, il cappuccio levato sopra il capo.
-Mostra il tuo viso, messaggero. Non si usa abbattere un emissario, finanche l’emissario di un sacrilego blasfemo.-, disse Aristarda da dietro Vera e il resto delle sue Guardie.
-Ave Aristarda.-, rispose una voce di donna. Il viso sotto il cappuccio si scoprì essere quello di Serena Prima, Comes Imperatoris et Magistra Militum.

Dire che la sua comparsa avesse scioccato Aristarda sarebbe stato minimizzare. Serena sapeva che l’Imperatrix era ben capace di dissimulare le proprie emozioni, ma poteva leggere chiaro lo stupore. Fece un inchino, breve ma sincero. Aristarda si riprese, più o meno.
-Ave Serena Prima, vincitrice di Brixiate.-, sussurrò la donna. Erano uno strano contrasto: l’Imperatrix in esilio pareva appena uscita da un campo di battaglia, cosa non falsa, e Serena invece sembrava tutto meno che colei che si era fatta venti chilometri di viaggio per giungere sino all’avamposto dei ribelli. La giovane attese che l’Imperatrix parlasse.
-Ti prego di seguirmi. E ritengo sia inutile dirti di non tentare azioni folli. Sarebbe la tua morte.-, disse Aristarda. Serena annuì. La seguì.

Passarono oltre la fattoria-ospedale, oltre i mezzi schierati a quadrato, oltre gli accampamenti eretti in fretta. Aristarda era ben conscia che Serena avrebbe così potuto comprendere la sua situazione, ma si accorse che non le importava.
“Siamo in piena ritirata, che non é divenuta rotta solo per grazia divina. Sono certa che qualche spia di Septimo ha già riferito tutto ciò, quindi perché darmi pena a negare ciò che già sapranno?”, pensò sconsolatamente. Si infuriò con sé stessa: non era da lei scoraggiarsi.
Non erano da lei molte cose. E molte di esse le stava facendo o le aveva fatte nelle ultime quarantotto ore. Era come se, dopo Brixiate, Aristarda avesse perso parte di sé.
-Vera, ti prego, fai portare dell’acqua e qualcosa da mangiare.-, disse Aristarda.
-Mia signora, è mio dovere restarvi accanto.-, replicò Vera.
-Certo. In tal caso, ti prego di incaricare qualcuno di portare l’acqua e il cibo.-, ribatté l’Imperatrix.
-Subito.-, obbedì la guardia. Intanto, Aristarda Nera e Serena entrarono nella tenda.
L’alloggio dell’Imperatrix era stato montato alla svelta e rapidamente. Ed era spartano, proprio come si esigeva in tempo di guerra. Le guardie si schierarono ai quattro angoli della tenda, Vera con loro. Serena sorrise.
-Desiderate perquisirmi?-, chiese, fissando Vera e comprendendo che essa era a capo del gruppo di guardie. Quest’ultima scoccò uno sguardo all’Imperatrix, che non raccolse.
Far perquisire un ospite implicava metterne in dubbio l’onore. Un’onta intollerabile.
-No.-, rispose infine la guardia, -Non sarà necessario.-.
Un servo portò pane e acqua. Si defilò subito dopo.
-Mi scuso per le condizioni del campo… ma come comprenderai, la nostra situazione é precaria.-, disse Aristarda Nera. Serena la guardò. Oltre alle vesti sporche e all’aspetto trascurato di chi non si é concesso il lusso del riposo, l’Imperatrix in esilio era ferita. Il braccio destro era fasciato all’altezza dei bicipiti. L’aveva vista appoggiare con fatica la gamba sinistra.
“Ha combattuto in prima linea. Per loro? O per sé?”. In realtà aveva già la risposta.
-Io… non do importanza a ciò.-, disse, colta in contropiede dall’osservazione di Aristarda, -Comprendo quanto difficile sia la situazione. E spero che ciò che dirò potrà, per quanto possibile, esserti d’aiuto.-, le guardie si accigliarono. Aristarda era di sangue reale, il “voi” sarebbe stato d’obbligo. Ma non dissero nulla. L’espressione dell’Imperatrix rimase neutra, per un lungo istante.
Poi, con un sospiro che parve racchiudere la spossatezza di due giorni di fuga e battaglia, parlò.
-Dì ciò che devi, Serena Prima. Ti conosco per fama e mi duole saperti avversaria.-, disse.
-Il dolore é reciproco. Ma ognuno occupa il posto che gli Dei gli hanno affidato.-, rispose lei, scegliendo con cautela le parole, -Ciò che devo dire é, per iniziare, che mi dolgo della morte di Proximo, di cui avrai sentito.-.
Aristarda annuì. Nei suoi occhi, Serena vide dolore, un dolore di altro tipo.
-Sì. So che Septimo non si é risparmiato nell’infliggergli sofferenza e che Proximo ha affrontato la sua fine a testa alta, con la dignità che ci si aspetta dagli eredi di Licanes.-, disse.
-Ebbene, le sue ultime parole sono state cripitche. Pare che prima che il rogo lo inghiottisse, egli abbia urlato che Septimo Nero lo raggiungerà presso il Dio dei Morti prima che l’anno termini.-, disse Serena. Aristarda sorrise tristemente.
-Se questa é profezia spero si avveri, ma di certo io non invierò assassini a quell’uomo che un tempo fu mio fratello.-, disse.
-No.-, rispose Serena, -Io so che sei diversa da lui. Una persona d’onore. E sono qui per questo.-.
La giovane notò la sorpresa negli occhi di Aristarda Nera. Ne lesse rapidamente la sequela di ipotesi. Infine, l’Imperatrix in esilio parlò.
-Mi confondi, Serena Prima. Hai fama di mantenere la parola data, e di esser leale al Trono di Roma. Ma invero ora dici parole che accendono in me la speranza che tu abbia compreso la verità sull’uomo che siede sul Trono e che tu voglia abbandonare la sua causa, a dispetto della tua lealtà.-, disse, -Ti chiedo dunque di spiegarti.-.
-Mia signora, Septimo é un idiota. Ha dissacrato l’Impero davanti agli Dei. E io so che la maledizione di Proximo non é stata solo frutto di odio e livore da parte di un uomo che si sapeva esser prossimo al supplizio. Io ti offro ciò che offrii a lui.-, spiegò Serena.
Aristarda non parlò. La giovane si alzò, infilando una mano nella toga. Le guardie alzarono le armi. Aristarda fece appena un cenno. Le armi si congelarono, i movimenti delle guardie si fermarono all’istante. E Serena estrasse qualcosa. una pergamena.
-Questa é un’offerta, un offerta che faccio sinceramente. Ma affinché essa sia fatta, mi necessita una cosa.-, disse. Aristarda tacque, in attesa che Serena Prima parlasse.
-So che Alexander Varus, disceplo di Socrax, é stato accolto presso di te.-, iniziò.
-È così.-, confermò Aristarda Nera. Serena guardò le guardie. Stavano immobili.
-Uscite.-, ordinò l’Imperatrix. Le guardie uscirono. Tutte.
-Bene. Ora posso continuare. Alexander Varus gode della tua ospitalità. Ma invero, io so che egli ha con sé una reliquia del prezioso passato dell’Impero. Il Coltello della Fondatrice.-.
Silenzio, poi una sequela di emozioni passarono sul viso di Aristarda Nera.
-Il… Coltello di Layla?-, sussurrò, -La lama che segnò la fine di Licanes? L’arma del Mito?-.
-Sì. Egli ne é il custode.-, confermò Serena.
Aristarda tacque, bevve dell’acqua, come per darsi un tono. Serena stessa non la biasimò: lei personalmente si era detta stupita a sapere che la lama reliquia fosse in possesso di Socrax.
-E tu desideri quella lama… in cambio di cosa?-, chiese Aristarda. Impossibile dire cosa pensasse, ma ora, poco ma sicuro, Serena sapeva che il tempo dei sotterfugi era terminato.
-L’Impero é in frantumi. Nimandeo Feral, Septimo, finanche tu, troppi regnanti, troppi ambiziosi pretendenti, e un solo trono. E la linea di sangue del Fondatore si é da tempo staccata dal trono.-, iniziò, -È da Severio Tullio che tale linea é stata strappata dal Trono. Invero, essa ormai non domina più l’Impero.-.
-Questo é cosa nota!-, esclamò Aristarda, -Io stessa so di non avere il sangue del Fondatore.-.
-Questo é ciò che tu credi, mia signora.-, disse Serena. Stupore, assoluto.
-Cosa stai dicendo, Serena Prima? Cosa stai suggerendo?-, chiese. Serena notò che l’Imperatrix si era sporta sul tavolo.
-Invero, tu sei figlia illegittima di tuo padre. Il quale ti ebbe dalla notte di passione con Althra Miera, figlia di Nimlarus e Karadma. Nimlarus fu figlio di Sicaneus, il quale fu generato da Suplicia, la quale nacque da Nierca, la cui madre fu Estrea Lima. La cui madre fu…-, silenzio, un istante di puro silenzio. Il viso di Serena Prima si aprì un sorriso, lo stupore di Aristarda Nera era all’apice mentre la possibilità diveniva sicurezza.
-Augustea Lysander!-, esclamò Aristarda, -Io… discendo dal Fondatore?-, chiese.
-Invero, sì. Come anche Proximo ne era discendente. La Stirpe perpetrata attraverso i secoli.-, disse Serena. L’Imperatrix ritrovò la parola un istante dopo.
-Io… Perché non lo sapevo?-, chiese.
-Perché, mia signora, tu come tanti altri siete nati illegittimi, indesiderati. Ma la Stirpe marchia i suoi discendenti. Spogliati, affinché io possa cercare sul tuo corpo i segni del tuo lignaggio.-, disse.
Aristarda parve titubare, poi lentamente, come fosse stata un automa, si tolse la sopravveste logora, la corazza, le sottovesti e l’intimo. Rimase nuda dinnanzi a Serena, che suo malgrado fu invero colpita dalla bellezza di quel corpo. Sorrise.
-Sei stupenda, mia signora. Ma noi cerchiamo un tatuaggio, un segno. Anche le fasciature alla caviglia e al braccio, per favore.-, disse. Aristarda eseguì. La ferita al braccio non era ben guarita.
Serena girò attorno alla donna, sondando il corpo con le dita, cercando, esplorando, sondando sin nella più intima intimità la donna.
Aristarda emise un gemito. Insofferenza o piacere? Aspettativa o frustrazione?
Serena sorrise. Era una bellissima donna. Si stava eccitando a sua volta.
Toccò il sedere dell’Imperatrix e infine trovò ciò che cercava, inginocchiata sotto di lei.
Sotto il piede destro, vi era un piccolo tatuaggio liso dal tempo. Scritto in un carattere incomprensibile. Serena sorrise. Poi fece un atto che non avrebbe dovuto osare fare, ma che volle.
-Mia signora…-, sussurrò. Baciò il piede di Aristarda. Salì lungo la coscia.
L’Imperatrix rimase basita. Folgorata. Non si oppose. Sentì la bocca di Serena salire sino all’interno coscia, poi la fermò, dolcemente, ma con decisione.
-Non qui e non ora. Termina la tua spiegazione.-, ordinò. A dispetto di quell’ordine, gli occhi dell’Imperatrix si erano illanguiditi.
-Sì. Rivestitevi, vi prego.-, disse Serena. L’Imperatrix eseguì, ma non si rimise i calzari.
Guardò sotto il piede destro.
-L’ho sempre avuto… Me lo fece Socrax.-, disse.
-Sì. Egli era uno di noi. Tentò di corregere la rotta dell’Impero, ma ormai era tardi. il Sacrilegio di Septimo Nero, tuo… fratello, ha invero condannato l’Impero a una triste fine.-.
-E Alexander Varus… Ha il pugnale, hai detto?-, chiese Aristarda.
-Sì. Quel pugnale non é suo, né tuo, né mio. Appartiene a ben altri. Se me lo cederai, io ti consegnerò l’Impero. E tuo fratello.-, disse Serena.
-Consegnartelo…-, ponderò Aristarda.
-So che é protetto dalle leggi dell’Ospitalità, sacre persino presso i barbari, ma invero, questa é l’occasione di una vita. L’Impero langue. Septimo ha sconfitto le tue forze a Brixiate e ora, so che vorrebbe che io marciassi sui tuoi uomini, che ti travolgessi, prendendoti viva per portarti a lui in catene.-, aggiunse la giovane, -Se però tu mi consegnassi il Coltello… Serena Prima sarebbe ai tuoi ordini, con tutte le sue legioni e Septimo avrebbe dalla sua solo generali di pessima leva, gentaglia indegna della porpora del comando. L’Impero sarebbe salvo, Proximo vendicato.-.

Aristarda ponderò la cosa. Attentamente. Sentiva ancora un brivido e non era il freddo dell’autunno inoltrato o la stanchezza, era esaltazione.
-Io… non posso risponderti su due piedi. È ben più di un cimelio che mi chiedi. Consegnarti Varus sarebbe la fine della mia integrità, mi renderebbe uguale a Septimo. Con che legittimità potrei dirmi più degna di lui?-, sussurrò.
-Mia signora! Invero tali domande apparterranno al passato. Pensateci! Septimo é storia passata. Rimettiamo l’Imperium sulla sua strada, così come decretata dal Mandato del Cielo! Insieme!-, la mano di Serena strinse quella di Aristarda, -Il nostro popolo merita questo sacrificio!- concluse. L’Imperatrix sospirò.
Era una decisione terribile, ma avrebbe messo fine a tutta la guerra civile. O almeno a buona parte di essa. Poche altre volte Aristarda Nera aveva avuto davanti una scelta tanto terribile a prendersi.
Non riuscì a dire nulla per minuti.
-Ti chiedo… tre ore.-, riuscì a dire, -Poi ti contatterò per comunicarti ciò che ho deciso. Potrai sostare presso il campo o fuori da esso ma ti prego di non allontanarti mai, lo considererei come un tradimento al patto. E ora, tale patto mi é doppiamente caro.-.
-Naturale, mia signora. Attenderò.-, disse. Serena s’inchinò e uscì.
Aristarda espirò. Rapidamente, andò a farsi una doccia, che fu più una secchiata d’acqua gelida. Si fece controllare le ferite, cercò di dormire senza riuscirvi, mangiò qualcosa senza troppo appetito, controllò i feriti e i morti, ordinò che i cadaveri fossero arsi come da tradizione e procedette.
Fece tutto ciò come un’automa, incapace di decidere.

-Allora? Cos’ha deciso?-, la donna velata era lì, accanto a Serena. Era comparsa silente come uno spettro, e altrettanto terribile. Le guardie di Aristarda, a poca distanza, non dovevano starla vedendo. Serena scosse il capo.
-Sta decidendo. Immagino sia stupita, confusa e sconvolta.-, disse.
-Le abbiamo fatto un’ottima offerta. E tu hai agito benissimo, Serena. L’idea di sfruttare quello stupido tatuaggio mal fatto durante una burla infantile é stata brillante. Degna di noi.-, disse.
-La Stirpe mi perdonerà mai tale menzogna? Aristarda Nera non lo farà.-, lamentò Serena.
-Hai agito nel nostro migliore interesse. Aristarda Nera non é una di noi, ma farglielo credere, specialmente ora, é stato un colpo di genio. E se ottterremo il Coltello, potremo proseguire la finzione fin dove sarà necessario. A suo tempo ci libereremo anche di lei. Alla fine, la Stirpe prenderà ciò che le spetta di diritto!-, continuò la donna velata. La sua voce pareva un sibilo.
Nitidissimo, ma impercettibile. Serena era affascinata da lei.
-Proximo é morto. La Stirpe ha perso un membro.-, disse.
-Proximo era indegno. Si é accoppiato con Aristarda seguendo i suoi bassi istinti. Dobbiamo ringraziare che il loro amplesso probabilmente non abbia dato frutto, dobbiamo altresì ringraziare che tu abbia avuto modo di prendere il suo seme dentro di te prima che perisse. Egli é morto, ma non perso. Possa la sua discendenza fiorire in te, Serena.-, ribatté l’altra.
-Eppure, Proximo é stato utile. Anche se deviato, ha portato Aristarda a questo punto. La Stirpe trionferà.-, disse Serena.
-Forse. E se Aristarda non dovesse accettare…-, iniziò la donna.
-Allora l’annienterò.-, rispose la giovane, -E anche Septimo perirà a sua volta.-.
-L’Impero é destinato a mutare. È sempre stato così. E sempre lo sarà. Ma noi non siamo attaccate al passato. Lo comprendiamo, lo accettiamo ma andiamo verso il futuro. Un futuro dove regnerà sovrana la discendenza dei Fondatori.-, sussurrò la viandante velata.

Septimo Nero sospirò. Guardò l’altare. Oltre a lui e al sacerdote non c’era che la sua guardia.
-Cosa vedi, Nicanore?-, chiese. Il vecchio sollevò gli occhi ciechi di glaucoma.
-Annientamento.-, disse. E fu allora che accadde.
Le porte si aprirono ed entrarono i congiurati. Asmio Calus, Antus, il vecchio Vonabrius e Runa.
-Imperator. È tempo che il tuo regno termini. Il Senato ti dichiara pubblicamente Nemico di Roma.-, dichiarò Vonabrius.
-Da un vecchio pederasta mi aspettavo sifatti tradimenti.-, disse Septimo con un ghigno.
-Sì. Ma questo vecchio pederasta non é da solo.-, rispose Antus.
-La flotta é con noi. E anche la Guarnigione di Roma. Diecimila uomini.-, disse Asmio.
-Fai ciò che sai essere meglio per l’Impero e abdica.-, disse Runa.
Tutti erano armati di pugnali. L’Imperator non portava armi. Eppure sorrise.
-Variato, mie guardie! Liberatemi di codesti infami traditori indegni del loro lignaggio!-, esclamò.
Le guardie non si mossero. E solo a quel punto, la sicurezza di Septimo s’incrinò.
-Septimo Nero, Imperator in Roma.-, il tono di Variato era di rabbia gelida, -Nemico degli Dei…-.
Ora il viso di Septimo era quello di un uomo tradito, disperato.
-Anche voi?-, chiese.
-Invero, sì.-, disse una guardia, -L’Impero merita di meglio.-.
-Aristarda é stata persuasiva.-, disse Septimo.
-Aristarda non c’entra. Serena Prima manda i suoi saluti.-, disse Asmio Calus.
-Serena Prima?!?!-, lo stupore di Septimo gli impedì di dire altro. Le guardie si strinsero attorno a lui. E l’Imperator sorrise di nuovo.
-Pensate di potermi arrestare? I miei sostenitori mi libereranno. Siete degli idioti.-.
-L’idiota sei tu, Mio signore.-, il tono canzonatorio giunse da una direzione inaspettata.
Septimo si voltò. E un pugnale gli si piantò in petto. Attraverso una coltre di dolore, Septimo Nero la riconobbe. Bellissima anche nell’atto di supremo odio appena compiuto.
-Delsia…-, sussurrò.
Delsia Armisa Peona sorrise, crudelmente.
-Questo é per mio padre, che facesti uccidere a Pavea.-, il pugnale uscì e trafisse ancora. Septimo sussultò nell’agonia. Altro dolore. Una palla di sale in gola, sangue in bocca.
-E questo per mia madre. Che violentasti e uccidesti a Mexina.-, sibilò Delsia.
Septimo sentì la vita fuggire celere dalle ferite. E cadde morente sulla fredda pietra.
-Aristarda…-, sussurrò, -Aristarda…-.
Poi le tenebre lo reclamarono.

Un ora più tardi, su insistenza di Vonabrius, il Senato conferì il Trono ad Asmio Calus, il quale si affrettò a inviare messaggeri a tutte le forze leali a Septimo. Morto lui, nessuno osò ribellarsi: passarono tutti sotto il comando del nuovo Imperator. Septimo fu bruciato e le sue ceneri sparse al vento, una fine ignobile per un uomo con il suo titolo.

-Septimo Nero é morto.-, disse Serena. Ripose il comunicatore a onde lunghe.
-Sì. L’Impero si avvia alla rinascita. Asmio Calus e i congiurati dovranno morire a loro volta. Nessuno dovrà sapere. Il ruolo di Comes Imperatoris é tuo, ma ora potrebbe cambiare. Sii pronta ad agire.-, disse la donna velata. Era calmissima.
-Sono quasi passate tre ore. Vado.-, disse.
-Vai, e possano gli Dei assisterti.-, disse la donna.
-Tu che cosa fari?-, chiese Serena. Lei sorrise. Da sotto la toga comparvero due pugnali.
-Alexander Varus sa troppo. Socrax é stato sciocco ad affidargli il Coltello. E parimenti a ribellarsi a noi. La Stirpe va protetta, anche da questo. Mi assicurerò che muoia.-, disse.
-Potresti morire a tua volta.-, obiettò Serena.
-La morte é una vecchia amica.-, si limitò a rispondere lei. Si protese e la baciò, piano, languidamente. Serena si staccò, respirando affannosamente.
-Vai.-, disse la donna. Poi si alzò.

Aristarda Nera la aspettava nella tenda. Si era lavata e cambiata. Pareva meno logora, ma ancora sciupata. Serena le sorrise, complice.
-Confido che tu abbia deciso, mia signora.-, disse.
-Invero, sì.-, disse lei. Serena non cessò di sorridere.
-Permettimi di aggiungere che una congiura ha ucciso tuo fratello quest’oggi. Asmio Calus é il nuovo Imperator in Roma.-. Silenzio e nessun particolare stupore.
-Capisco.-, disse soltanto Aristarda. Si alzò. Si avvicinò.
Serena si chiese cosa stesse accadendo. Cosa sarebbe accaduto.
Improvvisamente ebbe timore di aver sbagliato.
Il ceffone che le arrivò la colse impreparata. La sua testa girò di scatto. Non si era ancora ripresa che il secondo colpo la centrò alla guancia opposta. Serena Prima barcollò. Il pugnò successivo giunse al mento. La giovane vide le stelle. La mandibola protestò. Serena prima riuscì ad alzare lo sguardo, lentamente, con sorpresa mista a dolore.
-Tu credi realmente che io svenderò il mio nome, il mio onore per l’Impero? Tu veramente ritieni questo, Serena Prima? Tu non mi conosci. Se Septimo ha commesso sacrilegio, allora tu infanghi il  retaggio di Janus! Tu e i tuoi complici avete ucciso Septimo, e ora mi mettete davanti l’Impero come fosse un piatto prelibato, da barattare con la mia anima?! MAI!-, il ringhio di Aristarda fu quello di una pantera delle sabbie. Serena temette che l’Imperatrix la uccidesse lì dove si trovava.
-Torna a Roma, da Asmio, o da coloro che tu reputi essere tuoi pari, la Stirpe di cui parli. Io non sono come te. Io sono Aristarda Nera, Imperatrix in esilio, e non diventerò complice di un simile atto! Mai, mi hai udita? Mai! Se oserai tornare sarai uccisa. Guardie!-, Vera e un altro pretoriano apparvero dall’entrata della porta.
-Levatemi di torno questa serpe. Che torni a Roma, a decidere cosa fare della sua vita e a chi lasciar di poterne disporre. Non la voglio mai più rivedere. Mai più!-.
Si disse in seguito che l’intero campo sentì le due parole finali.
-Ti pentirai di questa scelta, Aristarda.-, riuscì a replicare Serena.
-Invero, mi sono già pentita di averci anche solo pensato.-, ribatté lei.
-Asmio Calus non ti cederà il potere. Ti distruggerà. E io lo aiuterò a farlo.-, rispose la giovane.
-Che sia.-, disse soltanto Aristarda.
Uscita che fu Serena, Aristarda fece mandare messi a tutti i generali la cui lealtà fosse stata dubbia, esortandoli a unirsi a lei. Ordinò alle truppe di prepararsi a muovere.
E mandò un messo a Madridia, da Alexander Varus.

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