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LETTERE DA COPENAGHEN – XXIX IL QUARTIERE A LUCI ROSSE

By 26 Novembre 2008Giugno 28th, 2021No Comments

Africa Coloniale Tedesca, 28 dicembre 1917.

Il quartiere a luci rosse luccicava forte, nella bella notte.
Lo visitai più volte, quando mi trovavo ad Amburgo. Era come se avesse il fuoco e la meraviglia dentro. Si trovava non lontano dal porto e buona parte dei clienti era composta da marinai di passaggio, inebriati e desiderosi di riscaldarsi con qualche graziosa ragazza dopo un lungo viaggio. Ah, quei giovani dalle casacche a righe bianche e blu, che tenevano sul capo i loro graziosi cappellini con la visiera, decorati con il disegno di un’ancora!
Non erano solo loro i clienti. Fra essi, si contavano anche degli scaricatori di porto, dalle braccia nerborute e dai volti scavati dalla fatica, a volte segnati persino da lunghe cicatrici, che solcavano la fronte o le guance sbarbate.
Poteva accadere che, al calar del sole, una grande nave mercantile entrasse in porto. Allora, dopo il suono vago della sirena ed uno scintillare di luci turchine, un folto stormo di marinai in libera uscita si riversava nelle vie della città, nonché nel quartiere dell’erotismo e del piacere.
Le case avevano i tetti spioventi e quasi aguzzi, alcune erano decorate con guglie e sembravano costruite in altri tempi. Non tutte le finestre s’illuminavano; alcune restavano nascoste dietro le imposte semichiuse, che lasciavano trapelare dei bagliori rossastri e fiammanti. Anche i lampioni spargevano luci vermiglie nell’etere notturno ed era una soddisfazione ammirarli. C’erano palazzi a due o a tre piani; nessun edificio era particolarmente alto. Alcuni apparivano un po’ decrepiti e cadenti, quantunque fossero ancora tranquillamente abitabili. Si notavano murature di pietra bugnata, dipinte per lo più del colore della passione, ma a volte anche di turchese, blu oltremare o verde acqua. C’erano anche dei negozietti carini, alla moda, che vendevano souvenir, immagini di donne nude, articoli marinareschi e giocattoli per adulti, destinati per lo più a giovani donne dedite alle gioie dell’autoerotismo. C’erano anche delle osterie, dove si beveva tanta birra, si mangiava pesce come in una taverna del porto, si chiacchierava di femmine e di accoppiamenti sessuali violenti.
Qua e là, a destra e a manca, si incontravano delle grandi statue raffiguranti delle giovani donne nude, senza veli, immortalate nel marmo o nel bronzo nelle loro pose più accattivanti, con la mano che ricopriva pudicamente il pube o il dito posato sulle labbra, come per tirare un bacio. Si vedevano anche delle sculture che raffiguravano gli amplessi più dolci, non solo tra figure eterosessuali ma anche fra omosessuali, tutti avvinti dalla carne e dal desiderio, dalle gioie dell’amore e dei corpi che fremevano. Chissà, chissà quali artisti avevano concepito quelle opere d’arte, su commissione di chi e sotto quale ispirazione fatata! C’era persino una Venere alata, raffigurata a cavallo, mentre tirava con l’arco. La freccia sua aveva al posto della punta un grosso fallo.
Il quartiere a luci rosse era un quartiere di bordelli. A dire la verità, non lo abitavano soltanto ragazze scelte tra le più avvenenti del paese, ma anche i loro padroni, nonché dei vecchi barboni, che tenevano la pipa fra i denti e il cappellaccio logoro tra le mani, usandolo per chiedere l’elemosina.
Le luci si accendevano al calar del sole. V’erano sia lampioni che lanterne, dorate ed assicurate alle finestre con lucchetti. I bordelli erano facilmente riconoscibili, poiché sulla facciata vi si scorgevano delle insegne luminose, con scritto ‘sesso’, ‘donne’, ‘amore’ e via dicendo. Erano edifici che aprivano sulla strada delle grandi vetrine scintillanti, dove si accomodavano le giovani. I padroni le facevano sedere su degli sgabelli, raccomandando loro di tenere le gambe accavallate, tutte nude o al più velate da calze alla moda. Le belle non portavano indosso quasi niente, facevano vedere i loro grandi capezzoli rosa, le loro tette da godere e da succhiare, i loro ombelichi perfetti, le loro vulve mal celate da peli femminili e profumati.
Poteva accadere che un giovane suonasse il campanello. Allora, gli veniva subito aperto, una servetta gli chiedeva cosa desiderasse e poi poteva accomodarsi in camera con la donna desiderata. Un passante che si trovasse in quei paraggi, avrebbe potuto sentire i versi selvaggi che accompagnavano gli accoppiamenti passionali consumati all’interno del bordello, nonché lo scricchiolio dei materassi e dei letti; non era difficile capire che cosa accadesse là dentro. Dovete sapere poi che qualcuno usciva tirandosi su le braghe.
Alcune ragazze si mettevano all’aperto, vestite in modo provocante e appoggiate al muro; tenevano un piede sulla parete, onde mostrare le loro belle gambe e le loro scarpette col tacco a spillo. Un fiore rosso in mano era il segno di riconoscimento. Le squillo sorridevano e fumavano col bocchino; di quando in quando, chiamavano a gran voce i passanti onde offrire le loro prestazioni amorose a pagamento. Avevano dei bei reggicalze, delle favolose camiciole che mostravano meravigliosamente i loro petti sodi ed assai carnosi.
Le venditrici portavano dei nomi romantici e fantasiosi, che però non corrispondevano a quelli voluti dai loro genitori. Erano nomi d’arte, inventati, che sapevano di teatro e di fiabe fantastiche, di bambole e romanzi d’appendice.
Per andare con una di loro, bastava salutarla, dirle qualcosa, accarezzare le sue belle labbra e avere in tasca dei biglietti di banca.
Buona parte degli uomini dell’alta borghesia frequentava il quartiere a luci rosse. Erano gentiluomini vestiti con abiti gessati, che portavano sovente il cappello a cilindro e i guanti bianchi, andavano a spasso col bastone dal pomolo d’avorio, su automobili fiammanti e assai costose, le quali avevano davanti dei grandi fari rotondi, che assomigliavano a degli occhi.
Si notava talvolta qualche squillo in dolce attesa in cima ad una scala: aveva delle ciglia lunghe, vellutate, poteva avere compiuto vent’anni da meno di un mese, si tirava su la gonna con la mano e faceva finta di salutare qualcuno.
Io mi facevo chiamare sempre Mirabelle e, passando, fui incuriosita da un bordello aperto da poco, il cui portone era illuminato da due lanterne a righe gialle e rosse, che giravano. La facciata era decorata con grosse corde marinaresche, che recavano un’infinità di nodi, reti da pesca e scalette di canapa, di quelle che usavano sui pescherecci. Sotto una delle finestre avevano collocato una piccola ancora, un po’ arrugginita e ricoperta di alghe secche. Sembrava una casa di marinai.

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