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POMERIGGIO

Negozio di abiti, ore 17:00


     Eleonora era indecisa riguardo quale emozione dovesse far prevalere dentro di sé: quella di meraviglia e di soddisfazione per l’abito con cui si stava ammirando nello specchio, o la vergogna per come lo stesso mettesse in risalto il suo grosso seno. In quel momento le parve di essere Jessica Rabbit, sebbene avesse i capelli biondi e non rossi.

     Poco più in là, Cristina distolse la sua attenzione dalla propria immagine riflessa a quella di Eleonora per imporle di smetterla di fare la timida. – Dovresti piantarle in faccia agli uomini, quelle bocce – sbraitò sottovoce. Non poteva evitare di invidiarla e chiedersi perché quella verginella avesse due cose simili inutilizzate quando lei le avrebbe fatte fruttare più dell’oro. Lei, non potendo vantare armi di erezione di massa di quel livello, aveva puntato sul suo lato B: indossava un abito molto meno castigato di quello di Eleonora, un top striminzito ed un paio di pantaloncini che le mettevano in risalto le chiappe. Non costava nemmeno tanto, ma non aveva intenzione di indossarlo a lungo. Anche se non fosse stato Jiménez quello davanti al quale si sarebbe inginocchiata e aperto la bocca, le sembrava stupido pagare una cifra qualcosa che si sarebbe presto sporcata di sborra e saliva, e magari gettata a terra per meglio ribadire il concetto al ricco che si fosse scopata. Poi, ovviamente, una volta sistemata, abiti come quello li avrebbe fatti usare dalla servitù per far pulire la cuccia del loro samoiedo o qualche altro cazzo di cane costoso quanto una monovolume.

     La comparsa del commesso la riportò al presente. – Le signore hanno scelto? – chiese, in un italiano perfetto, un ragazzo che doveva avere un paio di anni più di loro, che sorrideva cordialmente alle tre ragazze e sembrava pronto a farsi portare a letto da ciascuna delle tre, magari anche tutte contemporaneamente. O almeno a Cristina dava quell’impressione, che in più di un’occasione aveva scoccato un’occhiata interessata al suo sedere e, immancabilmente, alle bocce esagerate della figa di legno.

     – Io, in realtà, avrei… – cominciò Eleonora, coprendosi il seno con le mani, ma la voce di Cristina la sopraffece.

     – Perfetto, tutto bene – lo assicurò.

     – Ottimo – disse il commesso, lanciando uno sguardo in cui non c’era nemmeno un’ombra di dispiacere alla vista del seno della ragazza imbarazzata, – se volete seguirmi alla cassa per il pagamento… – aggiunse, e diede l’esempio raggiungendo il bancone.

     Eleonora era rossa in volto. – Io…

     – Piantala! – la rimproverò Cristina, stanca. – Piuttosto dovresti andare tu a pagare – propose, facendo un cenno con il capo verso l’inguine della ragazza, rendendo, per quanto possibile, ancora più rosso il viso di Eleonora.

     Miriam, che fino a quel momento aveva girato attorno a loro, limitandosi a consigliare l’abito che metteva così bene in evidenza i seni grossi di Eleonora, parve quasi saltare in mezzo alle due ragazze. – Ci… ci vado io a pagare, Cristina.

     Cristina sollevò le sopracciglia. – Ma se sei l’unica che… – iniziò, ma poi scrollò le spalle. – Va bene.

     Eleonora la guardò avviarsi alla volta del bancone, cercando di ignorare Cristina che le sibilava contro: – Dovresti fare come lei, o la vacanza finiamo con il pagartela noi, stronza…

     Dopo aver parlato con il cassiere, Miriam attese che questi tornasse da una porta che aveva varcato. L’attesa fu breve, e il ragazzo tornò informandola che il direttore la stava aspettando.

     

     Miriam non si era fatta illusioni quando si era proposta per pagare, ma aveva sperato comunque che il direttore, anche considerando la bellezza dei commessi e delle commesse che giravano per il negozio, non fosse esattamente un cesso. Quando aprì la porta ed entrò, si sentì crollare di dosso ogni speranza:. dovette ammettere che, per quanto, quella mattina, Cristina si fosse fatta chiavare da un bruto inguardabile per non pagare la corse in taxi, quello che aveva davanti non arrivava comunque ad un cinque sulla scala della bellezza. Forse non era nemmeno un quattro…

     Il direttore, un uomo sulla cinquantina portata male, calvo, decisamente grasso, la salutò distrattamente, finendo di impilare un plico di carte battendone un lato sul piano del tavolo prima di appoggiarlo in una scatola di plastica e alzare lo sguardo. – Mi hanno riferito che ci sono problemi con il pagamento della merce che ha intenzione di comprare – disse in spagnolo, dimostrando dal tono di voce che quella era una seccatura che aveva intenzione di risolvere quanto prima.

     Improvvisamente, la spavalderia che Miriam aveva creduto di possedere scomparve. – Io… non abbiamo soldi con noi – balbettò prima in italiano, poi ripetendolo nella stessa lingua usata dall’uomo.

     Il direttore si alzò dalla scrivania e si sedette sul bordo della stessa, fissando il seno della ragazza. Un sorriso si disegnò sulle sue labbra. Incrociò le braccia sul petto, anch’esso ragguardevole, mostrando delle macchie di sudore sotto le ascelle della camicia che indossava. – E come ha intenzione di pagare, in tal caso?

     Miriam sentì tremare le gambe e dovette prendere un profondo respiro per non cedere. Se ne pentì subito: l’aria era pregna di sudore e una nota pungente si stava diffondendo nella stanza. Le venne il voltastomaco quando comprese che era la minchia dell’uomo in erezione, come mostrava il bozzo che compariva sui pantaloni color cachi del direttore, che puzzava in quel modo.

     Chiuse gli occhi, cercando di estraniarsi dalla situazione disgustosa in cui era andata ad infilarsi. Prese il cursore della zip della maglia che indossava e lo fece calare, mostrando che sotto non portava il reggiseno, poi si inginocchiò davanti all’inguine dell’uomo.

     Lui rise, ma fu una risata di scherno. Infilò le mani sotto le ascelle di Miriam, assicurandosi di toccarle le tette con i polsi, e la fece alzare in piedi.

     Il cuore fece un balzo di gioia nel petto di Miriam. Se la sarebbe cavata senza fare un pompino, probabilmente l’uomo era stato mosso a pietà dal suo tentativo…

     Ma la ragazza non ebbe raggiunto l’altezza sufficiente per avere le gambe dritte che il direttore la spinse, quasi lanciandola, contro la scrivania. Il bordo la colpì alle cosce, facendola cadere di petto sul tavolo, il seno che impattava dolorosamente. Prima ancora che potesse fare qualcosa, l’uomo le mise una mano sulla schiena per bloccarla, una la sentì scivolarle nei pantaloni e gli stessi che venivano strattonati con un paio di colpi verso il basso insieme alle mutande. Miriam sgranò gli occhi quando sentì l’aria accarezzarle la fica e le chiappe.

     – Cosa credi? – rideva ancora l’altro, – Me lo faccio succhiare dalle commesse che vogliono uscire un’ora prima, pensi davvero che per la somma che mi devi basti un pompino?

     Il fiato di Miriam si mozzò quando sentì qualcosa premere contro ano con forza. Sperò fosse un dito che voleva infilarsi per qualche centimetro nel suo retto, e che le avrebbe scopato la fica, ma sapeva che si sarebbe presto rivelata un’illusione e che non avrebbe avuto quella fortuna.

     – Ce l’hai bello stretto il culo, troietta – disse soddisfatto l’uomo, – sarà divertente sfondartelo.

     Gli occhi della ragazza si sgranarono quando l’uccello, vincendo la resistenza del suo buco del culo, sfruttato in ben poche occasioni simile, aveva opposto, era sprofondato nel suo intestino. Lo sentì scendere dentro di lei come se non avesse mai fine, come se fosse il manico di una scopa e volessero nasconderlo tutto nella sua pancia.

     – Cazzo… no… – sussurrò, mordendosi le labbra. Era una sensazione orribile, e non solo per il suo buco che si apriva come non avrebbe mai dovuto, ma per quel corpo caldo che si muoveva nel suo retto, come uno stronzo che, animatosi improvvisamente, stesse cercando di risalirle fino allo stomaco e poi sfuggirle dalla bocca.

     “Dove cazzo la teneva una minchia simile, quel bastardo?” si chiese, cercando di trattenere il vomito.

     L’uomo quasi usciva completamente dalla ragazza per poi risprofondare con un colpo violento ma che sembrava impiegasse un secolo a raggiungere il fondo. L’inguine dell’uomo impattava contro le chiappe della rossa e le sue palle schiaffeggiavano la fica con lo stesso ritmo, la grossa pancia che sembrava un disgustoso blob di gelatina che si schiantava contro il suo coccige, nemmeno volesse mangiarlo al pari di una gigantesca ameba.

     Bloccata sul tavolo, incapace di fare qualsiasi cosa che non fosse ansimare, prossima al panico, l’unico pensiero di Miriam era chiedersi quanto dovesse essere idiota per voler apparire agli occhi degli altri come una troia al pari di Cristina, quando lei, nascosta dietro a quella facciata eretta a fatica e con grandi patimenti, era più simile a Eleonora. Non proprio così timida, certo, e amante del sesso romantico piuttosto che delle chiavate improvvise con qualsiasi bastardo incontrasse per strada per un puro tornaconto economico…

     – Sì, stupida puttana! – grugnì l’uomo, dopo essere sprofondato di nuovo nell’intestino della ragazza ed esserci rimasto.

     Lei lo sentì darle dei colpi ancora più profondi, con una sensazione strana che le causò un’altra ondata di voltastomaco, poi percepì, finalmente, il suo intestino svuotarsi. Fu una sensazione meravigliosa: non un orgasmo, quanto piuttosto la soddisfazione di una buona cagata rimandata per giorni.

     Rimase qualche secondo a boccheggiare, godendosi quel momento stupendo di liberazione, poi uno schiaffo la colpì al culo, facendola sussultare, lasciandola un‘impronta dolorosa a cinque dita sulla pelle.

     – Vestiti e levati dai coglioni – le ordinò il direttore. Tornò a sedersi alla sua sedia davanti a Miriam. – E se ti presenti di nuovo con questo scherzo, non sarò io a farti il culo quanto piuttosto gli agenti della policìa.

     La ragazza si sollevò lentamente, colta dalle vertigini, il fiato corto. Guardò l’uomo che era tornato a controllare dati sul monitor del computer come se lei non fosse mai esistita. Non salutò, si limitò a rimettere a posto pantaloni e mutandine, chiudere il top e uscire barcollando dall’ufficio.

     Trovò Eleonora che si guardava nello specchio, come se volesse assicurarsi che non si vedesse troppo del suo bendidio, e Cristina che stava chiacchierando con un commesso molto carino, scambiandosi il numero di telefono. Quando la ragazza la vide, lasciò la sua nuova conquista e si avvicinò a lei: Miriam si mise più eretta, schiaffeggiandosi sul volto un sorriso che sperò non risultasse troppo falso.

     – E allora? – domandò Cristina con aria di complicità.

     Miriam fece uno sforzo per allargare il sorriso. – Tutto bene – rispose, sogghignando e allontanando le mani per indicare una distanza di venti centimetri abbondanti. In realtà non aveva affatto visto la minchia che l’aveva scopata, ma avrebbe giurato che quello che era entrato nel suo intestino fosse stato lungo almeno il doppio. Dovette allontanare quel pensiero o avrebbe vomitato sul parquet del negozio.

     Cristina rise, battendole una mano su una spalla. – Allora andiamo – disse, poi ripeté l’ordine a voce più alta per farsi sentire da Eleonora. – Dai, che sei un pezzo di figa! – le urlò, notando che si guardava ancora nello specchio poco convinta. Si chiese se non fosse davvero troppo figa…

     Eleonora corse verso di loro, come terrorizzata dallo sguardo affascinato dei commessi, poi abbracciò Miriam, sussurrandole: – Grazie… vorrei essere come te…

     L’affettato sorriso soddisfatto di Miriam vacillò vistosamente mentre si sentiva una merda.

CONTINUA…

Per contattarmi, critiche, lasciarmi un saluto o richiedere il racconto in PDF, scrivete a william.kasanova@email.it

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