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La Caduta. Atto Secondo. Dei dubbi di Proximo Lario e di Aristarda Nera.

By 4 Luglio 2020No Comments

Il Legato impugnò la spada, incitando le truppe ad avanzare. I fasci energetici delle armi di ambo le Legioni in lotta si intrecciarono, mietendo vite dall’una e dall’altra parte. Il tramonto era sanguigno, come se gli déi tingessero il cielo di sangue per armonizzarlo alla linfa vitale versata sul suolo durante il giorno trascorso.
La piana di Niacorenia era uno spettacolo grottesco: dei ventimila uomini che si stavano battendo per l’Imperator (usurpatore secondo il Legato) Septimo Nero rimanevano solo cinquemila di essi.
Giorni di battaglia avevano costretto il Legato nemico, l’illustre Proserpio Rufio, ad asserragliarsi nel Tempio di Ominario Martonide, dedicato all’eroico condottiero licaneo a perpetua memoria.
-Fuoco!-, esclamò il Centurione Tunio Svevo. Le armi dei legionari spararono, i raggi a energia abbatterono diversi nemici. -Ricaricate!-, urlò il Centurione, -Viragee, fuoco!-.
Le Viragee, guerriere emule delle Amazzoni del Kelreas tesero gli archi. Le frecce piovvero a parabola sulle truppe nemiche asserragliate. Dardi esplosivi o velenosi. Fu un’ecatombe.
Sebbene anche i suoi uomini fossero esausti, sicuramente i lealisti erano ormai una manciata, poche centinaia.
Il Legato contemplò quella strage con apparente calma, poi, lama in pugno, comandò di fermare l’attacco. Ordinò di suonare un segnale di tregua.
-Proserpio Rufio! Esci! Abbastanza sangue é scorso quest’oggi. Non si necessitano altre morti.-, la sua voce fu trasmessa tramite gli amplificatori vox sino alle linee nemiche.
Il suo appello parve restare inascoltato quando, tra i ranghi nemici, apparve la figura del condottiero avversario. Sia Proximo Lario che Rufio avevano combattuto, l’uno alla testa dei suoi uomini, l’altro in retroguardia. Erano entrambi dei valorosi.
-Se la tua é un’offerta di resa sprechi tempo, nobile Legato,-, esordì il lealista, -puoi anche risparmiare il fiato. Io e i miei soldati sappiamo bene che non avete onore alcuno. Come la vostra signora, avete barattato l’onore per la decadenza!-.
Le parole del nemico indussero Proximo a lanciare un attacco finale, ma si dominò.
Respirando a fondo, il giovane ricordò il perché di quell’ambasceria.
-Due giorni e due notti di battaglia, di massacro! La tua legione contro la mia, nobile Rufio. Io contro di te. E nessuno di noi ha vinto l’altro, pur avendo di certo dissanguato le nostre forze. Invero, non è forse il nemico dell’Impero a trarne vantaggio? Non saranno forse i barbari ad approfittare di questo caos?-, chiese. Si tolse l’elmo scoprendo il capo dai capelli scuri, la barba poco curata e un viso giovane, -Non saranno forse i nostri inestinguibili impulsi di orgoglio e brama la rovina della nostra civiltà?-, chiese.
-Quest’ambasceria é inutile, o Legato.-, ribatté Rufio con voce calma amplificata dai vox, -So che la  Decima Legione Hiberica, la Burdiganica, sta giungendo a rinforzare le vostre fila. Invero, stai solo temporeggiando.-.
-Sto cercando di evitare un massacro, o nobile condottiero. La morte tua e dei tuoi uomini non é necessaria! Ti prego di desistere. Posa le armi! La battaglia é finita.-, lo esortò Proximo. Vi fu solo silenzio. Un lungo silenzio.
-Proximo! Possa tu vivere in eterno!-, esclamò Rufio.

In coro, in perfetta armonia, i superstiti presero a cantare il Moripatres, il canto funereo che accompagnava gli eroi nell’Ade, che si diceva composto dallo stesso Janus.
Fu allora che Proximo Lario, legato della Legione Fenicia e servo leale di Aristarda Nera, comprese che non vi sarebbe stata alcuna resa. Stavano chiedendo di morire da eroi, secondo gli antichi valori dettati dal dio della guerra. E lui non poteva che assecondarli.
-Possiate trovare pace!-, esclamò il Legato. Sollevò la spada e ordinò l’attacco.
Le buccine suonarono l’attacco finale. Proximo ordinò a Tullio di passargli il comando.
Avrebbe omaggiato quei morituri con l’acciaio della sua lama, come avrebbero voluto e fatto loro. Guidò la carica. Con rapidità, i ranghi dei lealisti si serrarono. Continuarono a cantare, continuarono mentre i colpi ad energia li raggiungevano e le spade li falciavano. Continuarono a cantare sino all’ultimo uomo.

 

Avanzando tra i morti, i soldati di Proximo li spogliavano con rispetto di armi e armature, valutando cosa riutilizzare e cosa no. Sacerdoti del Dio dei Morti e del Custode dei Tre Mondi amministravano le benedizioni ai morti e ai morenti che venivano finiti con colpi di grazia rapidi e misericordiosi.
Il Legato osservava tutto ciò con occhi assenti.
-Un’altra grande vittoria.-, esclamò la voce di Aristarda Nera. L’Imperatrix per diritto di nascita e ora regnante sulle province Hiberiche avanzò, circondata dalla Guardia Honoris.
-Mia signora.-, Proximo chinò il capo con deferenza. Lei sorrise.
-Alzati, Legato! Non si addice a un eroe inchinarsi.-, disse. L’uomo eseguì rapido.
-Mio signore, ho il resoconto finale. 6000 perdite, tra morti e feriti.-, giunse un legionario.
-Ottimo. Provvedi che i feriti siano curati, anche quelli nemici se ve ne sono. Provvedi che i morti abbiano degna sepoltura. Tutti i morti.-, ordinò il Legato. Guardò il legionario andarsene dopo aver tributato loro un inchino. Aristarda sospirò.
-Dovremmo cercare di salvaguardare l’onore delle forze armate dell’Impero, mia signora, non di dimostrarci barbari quanto i predoni che assaltano i limites.-, le fece notare Proximo, notandone il vago disappunto.
-Mio fratello non ha di questi problemi: quando ha annientato la Justitia ne ha fatto uccidere tutti i prigionieri, i loro corpi ancora marciscono lungo le strade!-, la rabbia di Aristarda Nera era percettibile. Proximo osò alzare lo sguardo.
-Ed è per questo che voi avete la mia lealtà, mia signora.-, disse lui, -Voi combattete per salvaguardare i valori dell’Impero, non per assecondare i vostri più bassi istinti.-.
-Proximo, debbo credere che tu stia cercando di arrivare da qualche parte, giusto? Ti prego di delucidarmi in merito.-, sorrise la regnante.
-Mia signora, voi siete la primogenita della Dinastia Nera. Siete la regnante per diritto di nascita. Ma questo non dovrebbe mai autorizzare un regnante a divenire un despota. L’Impero di Roma è nato dalle ceneri ardenti di Licanes e dal valore dei suoi esuli e da quello di coloro che ad essi si unirono. Ma c’erano dei valori all’epoca. C’era onore.-, lo sgurdo del Legato volò lungo la distesa disseminata di corpi che ricevevano le Valedictiones, i riti propiziatori per i valorosi guerrieri caduti in guerra. I Sacerdoti si muovevano in modo lento e solenne con espressioni piatte e prive di emozioni, come fossero macchine. Riportò lo sguardo sul viso di Aristarda Nera.
-Mia signora, l’Impero è ben di più di terra e acqua. È onore, è civiltà. È il desiderio, l’anelito a riportare la luce nelle tenebre di quest’era! Se anche noi divenissimo come vostro fratello, che gli Dei abbiano misericordia di noi ma non di lui, cosa ne sarebbe dell’Impero? Dove finirebbe tutto questo? Diverremmo barbari, senza accorgercene.-.
Nel silenzio che seguì, Proximo vide qualcosa, un’increspatura tra i lineamenti della donna. Fu solo un istante, ma fu sufficiente. Lei annuì.
-Procedi ai riti funebri, Legato. Ti aspetto a Madridia per festeggiare la tua vittoria. Poi pianificheremo il da farsi.-, decretò lei. Scortata dalla sua guardia si diresse verso un mezzo VTOL. Tecnologicamente avanzato come i trasporti licanei del passato, esso era il mezzo personale dell’Imperatrix. Proximo sospirò guardandola andarsene.
Aristarda Nera sarebbe stata perennemente irraggiungibile per lui. Nonostante il suo fascino e la sua evidente stima nei confronti del Legato, la donna era palesemente fuori dalla sua portata, vincolata alla necessità di utilizzare anche il proprio corpo e le proprie relazioni per la mera ragion di stato e la gloria dell’Impero.
Eppure… il desiderio restava. Con un sospiro rinnovato, Proximo Lario si voltò e camminò lungo la piana, andando a raggiungere ciò che restava delle sue forze.

 

Ore dopo, Proximo osservò i suoi uomini. Erano stanchi, ma fieri.
Alcuni avevano perso amici e compagni. Ma erano ancora lì, vivi e decisi a restarlo.
-Soldati! Miei fedeli combattenti e fratelli!-, esclamò. Il vox amplificator diffuse le sue parole lungo tutta la piana, al di sopra del fragore delle pire.
-Vi siete battuti come leoni e avete sanguinato e perso amici e fratelli!-. Lasciò spaziare lo sguardo verso i roghi e verso l’orizzonte.
-Ma il vostro valore non è stato vano! L’Imperatrix, che gli Dei la possano proteggere, ha dichiarato che la nostra Legione tornerà a Madridia. Gloriosi festeggiamenti ci attendono fratelli! Siate fieri: il Dio della Guerra approva il nostro trionfo e marcia al nostro fianco contro l’usurpatore. Gli avi vi scrutano benevoli! Siate lieti, per la nostra legione vi è solo vittoria!-, esclamò alzando la spada al cielo. Gli rispose il grido di esultanza dei soldati.
Proximo!, Proximo!, Proximo! Il fragore di quell’esultanza era come una tempesta.
-Janus benedì i nostri avi, insegnando loro a vincere e noi continueremo a vincere!-, dichiarò il Legato. L’esultanza gli impedì di continuare, ma non era importante: i soldati erano con lui e tanto bastava. Sorrise.
Poi si diresse verso le pire. Trovò quella del Centurione Tullio. Era caduto combattendo, uno degli ultimi a morire. Slacciò dal collo la medaglia Primixia, l’onorificenza ottenuta per il valore dimostrato in battaglia. La gettò tra le fiamme.
“Tua, fratello. Non mia”, pensò. “Tua e di tutti coloro che hanno dato la vita oggi.”.

Si concesse un istante di rammarico e tristezza, dolorosamente conscio dello spreco di tante vite a causa dell’arrogante ambizione di Septimo Nero e forse, anche di Aristarda.
Se uno dei due si fosse piegato…
Ma la verità era ben diversa: Septimo non intendeva assolutamente rinunciare al trono, non più di quanto Aristarda non fosse disposta a recedere dal proposito di riconquistarlo.
Nessuno dei due si sarebbe piegato, Proximo lo sapeva. E quegli uomini, quei soldati fieri e umili che avevano deciso di sacrificare le loro vite per l’uno o per l’altra avrebbero finito col divenire olocausto, sacrificio salvifico dell’Impero.
O libagione finale al Caos incombente.
La verità era che c’era quel pericolo e sembrava che nessuno nell’Impero volesse rendersene conto: i barbari premevano alle frontiere, le Legioni si massacravano le une con le altre, in una spirale di violenza assolutamente insensata. Una strage immane, motivata solo dalla smania di potere e violenza.
Sarebbe stata quella la fine al suo inizio? Sarebbe giunta così la decadenza e la caduta?
Cos’era stato invero del valor militare? Della somma virtù delle Legioni Imperiali e di quel loro simbolo, l’Aquila Imperiale che poteva nuovamente dirsi baluardo di civiltà?
Dov’era finita quella somma vocazione, la consapevolezza della missione divina affidata alle Legioni nella protezione e l’espansione dell’Impero?
Il soldato era e sarebbe divenuto sempre più strumento, non guardiano, di quello stesso potere che avrebbe dovuto salvaguardare insieme alla pax imperialis…
Lario Proximo sussultò, come colto da una scudisciata a quel pensiero.
E senza quei valori, senza quei principi, cosa ne sarebbe stato dell’Impero? Cos’avrebbe differenziato gli eredi di Licanes, i prediletti del Dio Guerriero, dalle selvagge tribù e dalle nazioni nemiche?

Quando le pire dei caduti furono ormai cenere spenta, Proximo si accorse di non riuscire a rispondere a quelle domande, ma che tanta e tale era quell’angoscia da rendere cenere il sapore del cibo che gli fu portato da un attendente.

Il vino che gli fu portato e che bevve per un istante gli parve sangue.
Strinse il pugno con rabbia. Era questo? Era questo che voleva?
No. E avrebbe dovuto cercare di parlarne con Aristarda. Avrebbe dovuto cercare di riconciliare i regnanti dell’Impero, lo doveva al popolo sofferente che pativa il peso della guerra civile.

 

Madridia accolse la sua Legione con sommo gaudio. I cittadini, sostenitori fieri della causa dell’Imperatrix in esilio, offrirono cibo e generi di conforto ai militi sfilanti in parata.
Il trionfo fu certamente misero se comparato a quelli dei conquistatori del passato, nondimeno, Proximo Lario fu salutato come un vincitore, anzi, come se con quella vittoria, la guerra fosse de facto terminata. Solo Aristarda e il suo comitato di consiglieri e Legati sapevano, e Proximo con loro, quanto quella guerra fosse distante dall’esser finita.
Tuttavia, Aristarda e i maggiorenti delle province a lei fedeli non fecero o dissero nulla per smentire quell’erronea convinzione. Il Legato vittorioso sapeva perché: il popolo aveva bisogno di speranza, di sapere che c’era una luce alla fine del tunnel, anche se minima.
E si odiò per l’ammissione successiva: Aristarda aveva ragione. Meno la gente comune sapeva della guerra civile meglio era, tuttavia non poté evitare di sentire quel formicolio, anche mentre marciava alla testa della sua Legione vittoriosa. Un formicolio minuscolo. La consapevolezza che la speranza non bastava, che ci voleva la pace. Presto.

La Legione marciò lungo la via principalis con assoluta fierezza, il cielo solcato dai velivoli di Aristarda e il sole fiero che illuminava i militi marcianti. Giunto sino al palazzo, il Legato s’inginocchiò di fronte ai sommi sacerdoti, ai senatori e all’Imperatrix.
-Quest’oggi abbiamo trionfato grazie al vostro coraggio! Al vostro sacrificio! L’Impero vi deve molto, più di quanto forse voi stessi immaginiate. Septimo ha le sue forze tese sin quasi allo stremo per difendere i confini e sopprimere le rivolte di altri signori della guerra oltre al doversela vedere con noi.-, Aristarda parlava con tono calmo, la voce amplificata dai vox. Proximo Lario rimase ad ascoltare, in attesa.
-Il vostro valore è di esempio all’intero Impero. Uomini come voi sono quelli che fanno la storia, che vedranno la nostra grande civiltà espandersi sino a occidente del tramonto!-, l’esclamazione della donna fu salutata dalle ovazioni e da cori scandenti il suo nome.
-Invero, io sono Imperatrix, ma lo sono solo perché voi siete al mio fianco.-, il Legato sentì la donna prendergli un braccio, facendolo alzare.
-Sono io, che m’inchino a voi!-, detto ciò, l’Imperatrix Aristarda Nera chinò il capo dinnanzi al Legato e alla sua Legione, imitata da tutti i senatori, dai sacerdoti e dal popolo.
Si rialzò poco dopo, sorridente, fissando Proximo.
-Festeggiate, oggi! Domani la nostra guerra riprenderà. E incominceremo la nostra marcia su Roma!-, proclamò. Un ultima ovazione, poi Proximo ordinò di rompere le righe.
Notò che Aristarda gli passava un biglietto scritto su carta.
“Alle dieci, a Palazzo.”, lesse. Annuì.
Poi si girò e salutando rispettosamente i presenti, si unì ai suoi uomini nei festeggiamenti.

 

I festeggiamenti non lo toccarono minimamente. Sebbene fosse lieto, il successo era sicuramente funestato dalla consapevolezza dell’inutilità della vittoria.
Comunque fece i sacrifici propiziatori e ringraziò gli dei della battaglia vinta.
Accettò le congratulazioni dei presenti, dei politici e dei ricchi privati cittadini.
Visitò i feriti. Pochi, pochissimi prigionieri erano stati presi: la maggioranza dei lealisti aveva lottato sino all’ultimo. I pochi nemici catturati erano feriti, conciati molto male.
Indubbiamente, pochissimi supereranno la notte, meno ancora avrebbero rivisto le loro famiglie. Una strage. Una strage assurda. L’ennesima. Proximo combatteva sotto Aristarda da quando questa aveva dichiarato la sua ribellione contro il fratello.
“Deve finire.”, pensò. Allungò un bicchiere d’acqua a un ferito. Questi bevve tanto avidamente da rischiare di strozzarsi quando il liquido gli andò di traverso.
Tossendo, si tenne l’addome. Proximo notò che il bendaggio era impregnato di sangue.
-I medici parlano di lesione delle viscere, di infezioni multiple…-, mormorò il legionario.
-Come ti chiami?-, chiese il Legato.
-Sirus, signore.-, disse lui tossendo ancora. Riuscì a calmarsi. L’apotecario, un vecchio dai capelli canuti e il viso calmo lo guardò. Guardò Lario. Scosse il capo. Il generale annuì.
-Sirus… Sei stato coraggioso sul campo.-, disse Proximo. Non era una domanda.
-Ho ucciso sei dei loro uomini durante l’assalto finale. Poi uno dei nemici mi ha trafitto…-, mormorò il ferito. Altra tosse. Proximo gli appoggiò una mano sulla fronte. Scottava.
Febbre. Infezioni. Il pensiero del Legato fu che non c’era più nulla da fare.
-Ti sei fatto onore e hai reso onore alla nostra Legione. Aristarda Nera è fortunata ad avere uomini come te.-, disse Lario.
-Signore… sto morendo, vero?-, chiese a bruciapelo Sirus. Proximo annuì.
Gli occhi grigi del giovane si tinsero di un’assoluta rassegnazione.
-Me lo sentivo. I medici non dicono nulla. Sono indaffaratissimi.-, altra scarica di tosse.
-Non possono più fare molto. Hai un’infezione batterica dovuta alla perforazione del tratto intestinale. Nel giro di sei ore i tuoi reni inizieranno a cedere. Poi l’organismo starà sempre peggio. Io non ne so molto, ma so che non sarà una bella morte.-, il Legato si avvicinò al giovane. Dei, non aveva neanche trent’anni! Lui lo fissò.
-Sei stato coraggioso oggi sul campo, Sirus. Ti chiedo di esserlo una volta ancora.-, sussurrò Proximo. Il ferito annuì. Lario comprese.
-Veloce e indolore, Legato.-, sussurrò appena, -E c’è una lettera nella mia bisaccia. La mandi a Barcilo, alla mia città natale affinché mia madre e mio padre sappiano.-.
-Sarà fatto.-, annuì il generale. Aveva le lacrime agli occhi. Aiutò il giovane a sedersi.
Afferrò il capo del ferito.
-Sive Deae! Sive Dei! Salvate anima eia de inferi tormenti…-, iniziando lo scongiuro per i morituri, Proximo si preparò. Terminò l’orazione.
-Pronto?-, chiese.
-Sì.-, sussurrò il giovane. Il legato torse. Ci fu un crack secco, poi il corpo di Sirus si abbatté senza vita sulla branda. E Proximo Lario, Legato valoroso e vincitore, si concesse di piangere.

 

Vestito della sua toga migliore, lavato e sbarbato, Proximo salì i gradini del Praetorium arrivando alle porte. Gli furono aperte.
-L’Imperatrix mi aspetta.-, disse al capo delle guardie, una donna dai capelli biondi, di nome Vera Nemlia. Una bella giovane e decisamente conscia dell’estrema importanza del suo compito. Era stata lei a respingere i due assassini che Septimo aveva mandato alla sorella. Ed era stata sempre lei a riportare le teste dei sicari morti a Septimo, sotto una bandiera di tregua e la dichiarazione che non ci sarebbe stata pietà o tregua sino alla morte di uno dei due fratelli. Una donna d’acciaio. Lario la conosceva davvero poco, quasi solo per fama, ma abbastanza da rispettarla com’era giusto che fosse.
-L’Imperatrix è nelle stanze private. Suppongo lei sappia dove siano, corretto?-, chiese Vera con tono pacato e senza tradire emozione alcuna. Proximo annuì.
-Mi permetta di annunciarla.-, disse la donna. Lo precedette lungo i corridoio del Praetorium fino a raggiungere le stanze di Aristarda. Decisamente umile, l’Imperatrix non aveva preteso decorazioni eccessive e il suo letto era modico il giusto. Un piccolo altare dedicato agli avi e alla Dea Madre capeggiavano in un angolo. Per il resto, le stanze della sorella e oppositrice principale di Septimo Nero erano stranamente sobrie.
L’Imperatrix osservava Madridia dal balcone annesso. Si voltò.
-Mia signora. Il Legato Lario Proximo.-, disse Vera Nemlia. S’inchinò, subito imitata dall’uomo. Aristarda si voltò.
Non dimostrava la sua età: quarant’anni portati come se fossero stati appena trenta, forse anche meno. Il fisico era tonico, pur conservando la femminea bellezza e la carnagione ambrata tipica delle discendenti delle Amazzoni del Kelreas. I seni erano discretamente pieni e le natiche ferme. Il viso era appuntito, affilato come quello del fratello ma gli occhi erano neri e neri erano i capelli che scendevano lunghi sino a metà schiena.
Nata dal primo matrimonio di Antonio Nero, Aristarda aveva sempre dimostrato una notevole maturità e un orgoglio che talvolta le impediva di adottare strategie a suo dire eccessivamente umilianti. Un connubio esplosivo. L’intelligenza e l’umiltà pubblicamente dimostrare l’avevano resa la candidata ideale al trono imperiale.
Frustrata questa prospettiva, Aristarda Nera aveva scelto l’esilio, mostrando l’orgoglio che purtroppo pareva tipico della sua schiatta.
-Alzati, Proximo. Non si addice a un eroe di umiliarsi tanto. Non temere Vera, il Legato non attenterà alla mia vita. Rilassati pure.-, il sorriso di Aristarda era contagioso e lo stesso Proximo Lario si dovette costringere a restare serio.
-Mia Imperatrix. Giungo dai Castra Hospitalis di Madridia.-, iniziò.
-Ho saputo.-, rispose lei con un cenno del capo, -Molti dei nostri sono feriti e anche i prigionieri. Rufio e i suoi uomini hanno combattuto con sommo impegno e onore. Degni di essere ricordati anche nella sconfitta.-, disse. Si avvicinò all’altare degli Avi. Versato un bicchiere di vino lo consacrò ai caduti, ve lo depose con una supplica alla Dea.
-Mia signora, so che voi sicuramente non vorreste, ma debbo insistere: questa guerra sta dissanguando l’Impero. Solo i barbari esterni ne beneficeranno. Invero, io temo il giorno in cui essa finirà per la caduta dell’uno o dell’altra perché lascerà l’Impero alla mercé dei suoi nemici. Vi supplico dunque, cercate un accordo. Cercate la pace con Septimo!-, Proximo aveva parlato consapevole che un simile argomento era quasi taboo e che l’Imperatrix avrebbe potuto ucciderlo per tali parole. Di fatto, notò Vera mettere una mano sull’impugnatura del gladium che portava alla cintola.
-Proximo Lario… Pensi forse che io non ci abbia provato? Invero gli inviai Memnon Antares, uno degli ultimi monaci Zen-Shura. Septimo lo fece avvelenare e disse che era morto d’indigestione. Lui! Un monaco!-, la voce di Aristarda ora vibrava d’indignazione e rabbia, -Ha fatto uccidere un uomo consacrato! Un sant’uomo morto per la volontà del mio scellerato fratello, Proximo! Invero, che donna sarei se permettessi tale sacrilegio?-.
-Mia signora, io piango per Memnon tanto quanto ho pianto per ogni giovane caduto sotto le nostre insegne durante l’ultimo scontro. Ma dobbiamo riconoscerlo: l’Impero soffre. A pagare il prezzo di questa guerra è il popolo! Quello stesso popolo che il nostro fondatore volle vedere salvo e fiorente!-, esclamò il Legato.
-Un altro sarebbe già morto, Proximo Lario! Osi dire che io stia disattendendo il mandato degli avi?-, chiese Aristarda. Si avvicinò di un passo. Il suo profumo giunse alle narici dell’uomo. Era un profumo dolce e intenso. Il profumo di una donna sensuale, prima ancora che potente. Un profumo capace di dare dipendenza.
Proximo si costrinse a restare concentrato. Sapeva di dover sceglier bene le prossime parole. Espirò. Chinò il capo.
-Mia signora, nulla sarebbe più lontano dalle mie intenzioni! Il mio timore è per l’Impero, per quella stessa patria che tutti noi vogliamo vedere gloriosa e pacificata!-, esclamò.
-Che direbbero i nostri fondatori, mia signora, nel vedere la nostra amata patria straziata da questa guerra civile? Solo tre giorni fa nella Provincia di Moexia si è sollevata una rivolta guidata dal governatore Annuo Quintilio Varo. Le sue Legioni, ben due!, l’hanno acclamato Imperator. Deciso ad abbandonare l’Impero, Varo le ha condotte oltre il Limites.
Di lui non si non più avute notizie e intanto Antrasio Ceppo è intervenuto per respingere un invasione del territorio moexiano.-, il tono del Legato si fece fremente e indignato e si permise di fissare negli occhi Aristarda Nera, Imperatrix in esilio.
-Invero, il Senato è divenuto mero orpello della nostra democrazia, vuoto memento, vano nella sua mancanza di potestà.-, disse, -Io son certo che quel potere che un tempo aveva ora sicuramente gli permetterebbe di eleggervi, mia signora!-.
Aristarda restava immobile, gli occhi piantati in quelli di Proximo Lario.
-Mia signora…-, chiese Vera, -Desiderate che lo arresti?-. L’Imperatrix scosse il capo.
-No, mia fedele Vera. Proximo non ha detto che ciò che pensa e in tempi come questi è cosa rara avere un simile pregio, è bene essere abili a farlo, finanche davanti ai potenti.-, un sorriso lieto illuminò il suo viso.

-Proximo Lario, veramente tu hai espresso degnamente i miei dubbi e quelli dei miei consiglieri.-, Aristarda si avvicinò di un passo. Meno di un metro ora separava l’Imperatrix dal Legato. L’uomo si accorse di essere nervoso, il cuore gli batteva forsennatamente.
Si accorse che era eccitato. La vicinanza di quella donna stupenda e potentissima gli intorbidiva il sangue.
-Invero, sei un uomo particolarmente devoto e capace. Un bell’uomo e ciò è solo l’ultima di tante grazie che gli Dei ti hanno accordato. Sfortuna che gli Dei non t’abbiano mai concesso una degna compagna, forse misericordiosi e consapevoli della doppia faccia dell’amore.-, disse la donna.
-Io… ringrazio, mia signora.-, mormorò lui chinando il capo sinceramente confuso da quelle frasi. Non si sentiva benedetto, almeno non più d’ogni altro uomo.
-Tanta umiltà e tanta modestia non ti servono, Proximo. Hai da tempo suscitato la mia attenzione e la mia curiosità.-, disse Aristarda, avvicinandosi ancora. Le punte dei suoi seni, liberi sotto la tunica, sfioravano il petto di Proximo.
-Baciami, Legato. Ti voglio per me in questa notte placida.-, mormorò lei.
-Mia signora…-, sussurrò il Legato.
-Nessuna signora, Proximo. Nessun’Imperatrix. Solo una donna.-, lo interruppe lei.
-Io… sono onorato mia signora, ma…-, iniziò Proximo Lario.
-Ma ritieni che questo cambierà le cose? Che sia un mio stratagemma, volto a seppellire le tue angosce e i tuoi dubbi sotto le mie carezze e i miei baci?-, chiese lei, più curiosa che irata, nonostante si vedesse un accenno di offesa.
-No… io… non so se sarò all’altezza…-, sussurrò lui. L’Imperatrix sorrise.
-Sarai più che all’altezza, Legato. Ora taci.-, sibilò baciandolo.
Proximo rimase colpito. L’Imperatrix si avvinghiò a lui come una liana, baciandolo con maestria e piacere. Si sentì inturgidirsi, il desiderio montante, il cuore che batteva forte.
Il bacio terminò. Aristarda lo fissò.
-Vera, mia guardia, sarebbe ingiusto per me negarti il degno premio alla tua lealtà. Invero non ti è nuovo l’amore con un uomo, dico bene?-, chiese.
-No, mia signora. Le virilità maschili mi sono note.-, disse la bionda con un sorriso.
-E anche le grazie femminili che non siano le tue?-, chiese di nuovo Aristarda.
-Mia signora… voi mi onorereste. Sarebbe per me un piacere…-, sussurrò la guerriera.
-Chiama il cambio della guardia, poi ridirigiti qui. Senz’armi e armatura. Il nostro legato possiede tutte le armi che ci serviranno in questa notte stupenda.-, mormorò la sorella di Septimo Nero. Proximo rimase colpito, la bocca era divenuta secca.
Entrambe? L’Imperatrix e Vera sarebbero state sue? Non osò proferire parola.
Notò che la bionda era uscita dalle stanze.
-Ci metterà qualche tempo. Intanto…-, Aristarda suonò un campanellino. Accorse un domestico. Lei gli ordinò di portare una caraffa di vino e tre calici.
Il domestico sparì e tornò pochi istanti dopo durante i quali Aristarda si sedette sul letto e chiese a Proximo di fare lo stesso. Il Legato era sicurissimo che la sua eccitazione fosse ormai evidente per la donna.
-Proximo, è passato tanto tempo dalla tua ultima copula da averti fatto dimenticare finanche i più elementari rudimenti del sesso?-, chiese la regnante.
-Invero no, mia signora. Troverei solo ingiusto iniziare senza Vera, posto che si ripresenti realmente. Mi è parsa vagamente titubante.-, ammise il Legato.
-Vera Nemlia è da tempo capo della mia guardia. Fidati, si presenterà.-, disse Aristarda. Proximo si domandò quanto realmente l’Imperatrix conoscesse quella guerriera.

Ci aveva già fatto sesso? Probabile. Ma decise di non indagare, non sarebbe stato dignitoso e rispettoso nei confronti di entrambe le donne.

 

Aristarda deviò abilmente la conversazione sulla poesia e la musica, evidentemente decisa ad attendere il ritorno di Vera. Stava mostrando una notevole forza di volontà e Proximo non poteva che lodarla per questo. Discussero delle poesie di Salustio Virgilius, dei canti composti da Merea Venace e da suo marito Justus Venace.
Quando Vera arrivò, Proximo notò che vestiva una toga corta, una versione più impudica della comune toga nota come Chiton.
La bionda era decisamente bella sebbene non all’altezza di Aristarda.
Si avvicinò al duo con aria titubante, anche se Proximo poté percepire l’eccitazione della giovane al pari di quella di Aristarda. Sorrise. Vera lo ignorò, fissando Aristarda.
L’Imperatrix si alzò. Annullò la distanza tra lei e la bionda e la baciò.
Per nulla refrattaria o schifata, Vera lasciò fare, lasciando che la mano sinistra di Aristarda le palpasse le natiche dopo averle accarezzato la schiena. Proximo vide la lingua dell’Imperatrix dardeggiare nella bocca di Vera. Le due donne si staccarono. Vera ansimava piano, bramosa ed eccitata. Ad Aristarda Nera invece gli occhi brillavano di una luce languida. Quando si volse verso Proximo Lario, questi si sentì soggiogato da tale sguardo magnetico, da tanta bramosia. Sorrise senza accorgersene.
-Vieni qui.-, sussurrò la donna. Lui si alzò. Si sentiva d’acciaio. Avanzò sino alle due donne e lasciò che fosse l’Imperatrix a baciarlo languidamente, poggiandoli una mano sul sesso attraverso la toga.
-Lieta che il Dio dell’Amore ti abbia degnamente benedetto.-, mormorò Aristarda mentre gli baciava il collo. Come in un sogno, Proximo sentì le mani di Vera sulle spalle e sul petto. La guerriera si dedicava a baciare l’Imperatrix mentre esplorava il corpo del Legato.
-Gustiamo il vino prima di darci al piacere del sesso.-, propose Proximo con un sorriso.
Aristarda annuì e versò il vino nei tre calici, infrangendo il codice che voleva che fosse l’ospite di rango inferiore a farlo. Proximo prese il suo.
-Al godimento e alla vita, che gli Dei non hanno voluto né troppo breve, né troppo lunga affinché il primo non fosse dalla seconda turbato, né la seconda dal primo dominata.-, la frase, peraltro antica, proveniva da un’opera di Ilario Maximilio, famoso filosofo e sommo poeta. Il fatto che Aristarda lo conoscesse non stupì assolutamente Proximo, vista l’enorme risonanza delle sue opere sin dal regno di Simone Nero, capostipite della dinastia Nera. Bevendo il vino, Proximo notò la presenza di alcune spezie.
-Ho pensato che fosse bene usare questo vino. Un regalo di Chin Van Thrang, delle Isole Mediane. Dicono sia afrodisiaco.-, Aristarda parlava con un tono calmo, sebbene si notasse ora il suo desiderio, -Ma sappiamo che non ce ne sarà bisogno.-, ingollò ciò che restava del vino nel suo calice e depose il suddetto sul mobiletto su cui il domestico aveva appoggiato il vassoio con la caraffa e i calici.
Proximo terminò il proprio vino, appoggiando il calice accanto a quello della sua signora.
Vera concluse la bevuta poco dopo. Aristarda sorrise, intuendo la tensione.
-Stanotte non sono l’Imperatrix. Solo una donna, chiaro?-. I due annuirono.
Si avvicinarono. Proximo osò, timoroso come al cospetto di una dea, accarezzare quel viso stupendo. Vera, più intraprendente e meno timorosa, prese a sfilare la toga all’Imperatrix. Il corpo di Aristarda Nera, bronzeo e scolpito da esercizi fisici di vario genere e tipo si mostrò rapido. Poi cadde a terra la corta veste di Vera Nemlia. La giovane aveva una carnagione chiara e seni di buona misura con capezzoli turgidi e piccoli. Cicatrici le drappeggiavano il corpo. Lungo il petto c’era un evidente ferita di lama, divenuta ormai un bianco segmento di tessuto cicatriziale. All’altezza della spalla e poco più vicino alla clavicola era una ferita leggera da arma laser, Proximo la riconobbe per esperienza. Accarezzò quel petto, come a commemorarne le medaglie incise nella carne. Aristarda sorrise.
-Gioca pure con i suoi seni. È molto sensibile…-, sussurrò mentre gli sfilava la toga, svolgendola con movimenti esperti. Nudo, Proximo si accorse che la mano destra dell’Imperatrix e la sinistra della sua guardia del corpo si avvicendavano su di lui.
Si sentì ebbro di quel piacere e desideroso di ubriacarsene quanto più possibile.
Baciò Vera mentre la sua mano scendeva accarezzando lo stomaco, il petto e per finire il rovente pertugio del piacere di Aristarda. La sua vulva era rasata e curata, come si conveniva per i canoni di bellezza. La donna gemette quando sentì le dita di lui tra le cosce. Proximo sentì sotto le dita un calore notevole. Sfiorò tessuti umidi, accoglienti.
Aristarda era bagnata, vogliosa. Pronta a darsi. Si accorse solo dopo qualche istante che Vera gliel’aveva preso in bocca. Non era abilissima ma sicuramente non era neppure priva di esperienza. Diresse il ritmo della pompa mentre l’Imperatrix lo baciava, sussurrando oscenità licenziose. Strinse un seno della donna che lo stava baciando mentre l’altra accovacciata tra le sue cosce, lo masturbava leccando scroto e asta.
Facendo alzare Vera, Proximo decise di verificare la sensibilità della bionda. Prese a baciarle i seni. La giovane andò in visibilio. Con la coda dell’occhio, l’uomo notò che Aristarda si muoveva tra loro, come uno spettro stupendo, ora toccando lei, ora baciando lui, perennemente alla ricerca, perennemente intenta a eccitare, sollecitare, esortare e aumentare il loro godimento. La regnante affondò la mano destra tra le cosce di Vera, masturbandola con un’abilità che lasciava presagire una certa esperienza. L’altra mano di Aristarda si posò sul gluteo di Proximo e lui sentì le dita lambirgli lo sfintere. Fu solo un istante e la mano si riposizionò, afferrandogli il pene e manipolandolo.
-Spero tu sappia conservare le munizioni del tuo fucile.-, sussurrò Aristarda con un ghigno lascivo. Proximo si accorse che non era esattamente facile dare risposta: l’attenzione e la voglia di quelle due donne avrebbero davvero potuto farlo esplodere in quel momento, come un giovincello alla sua prima esperienza.
-Farò del mio meglio, ma con simili bellezze…-, sussurrò lui baciando l’Imperatrix. Lei rispose al bacio, una mano ora immersa tra le cosce della regnante e l’altra a sollecitare i capezzoli di Vera. La bionda gemeva piano, baciava entrambi e veniva da ambo carezzata. La mano di Aristarda si muoveva frenetica tra le cosce di Vera sollecitando i punti più sensibili in un crescendo estatico.
-Vengo…-, mormorò la guardia con un gemito.
-Non subito, tesoro. Il nostro uomo qui pare decisamente eccitato. Forse dovremmo fare qualcosa.-, sussurrò Aristarda Nera con un ghigno lascivo mentre baciava la giovane.
-Sì…-, mormorò Vera. Indietreggiò sino al letto e vi si stese con Aristarda. Le due presero a leccarsi, l’una con la testa su sesso dell’altra. Proximo si sentì eccitato ed escluso.
Infine, gettò all’aria le cautele e si avvicinò al talamo.
-C’è posto per un altro?-, chiese con un sorriso salace. Aristarda mormorò qualcosa. Vera annuì e si dispose sopra la sovrana. Intente a baciarsi e a mimare una copula le due donne spalancarono lascivamente le gambe. Un invito chiarissimo.
Proximo si piazzò tra le cosce delle donne e prese a strofinare il membro sulle vulve, una tortura bellissima e terribile per tutti e tre.
Poi, Aristarda fece cenno a Vera di spostarsi. Spalancò le gambe sfiorando appena il petalo frizzante di piacere tra di esse che già appariva schiuso e pronto.
-Prendimi, Proximo. Fammi tua. Non venirmi dentro.-, disse.
Il Legato non se lo fece ripetere: penetrò Aristarda con irruenza ma senza brutalità. Sentì Vera dietro di sé, i seni di lei che premevano sulla sua schiena.
-Scopala, scopa questa puttana!-, esclamò Vera. Proximo affondava, si ritirava, rientrava, usciva di nuovo, baciando e assaporando quel corpo divino. Vera si chinò a leccare e baciare i sessi a contatto, leccando e assaporando gli umori della coppia.
Gli occhi dell’Imperatrix si socchiusero, gemiti eruppero dalla sua bocca. Il corpo le si arcuò tendendosi. Godette il suo orgasmo con un gemito roco che divenne quasi un grido strozzato. Ricadde immobile un istante dopo.
-Esci. Tocca a Vera, ora.-, disse Aristarda, continuando a toccarsi piano. Lario eseguì.
Vera si era stesa poco distante, pronta a essere presa. L’altra donna si chinò sulla bionda baciandola, toccandosi e toccandola piano. Le pose la vulva sul viso, lasciando che Vera Nemlia la leccasse tutta. Proximo la penetrò.
Vera era stretta, la vulva rorida aiutava ma tanto era il desiderio che il Legato non seppe trattenersi e venne a fiotti nel ventre della bionda che urlava il suo orgasmo.
Crollarono l’uno sull’altro. Intorpidita dal piacere, Vera Nemlia scivolò nel sonno senza accorgersene, qualche istante dopo l’uomo disteso sopra di sé. Non si accorse neppure che l’Imperatrix si era alzata dal talamo e osservava i due corpi distesi sul letto con un sorriso. Aristarda Nera si toccò piano sino a un secondo orgasmo in solitaria. Era stato bello, sicuramente piacevole e forse un giorno l’avrebbero rifatto, ma ora…
Ora che l’orgasmo l’aveva attraversata come un fulmine, Aristarda si concesse di pensare.
In verità, ciò che Lario aveva detto era ciò che anche lei pensava. La guerra civile era stata terribile sino a lì e non vi era stato alcun vero vincitore, solo il massacro di leali soldati dell’Impero e la consapevolezza di un’assoluta mancanza di ordine.
Il Caos si era imposto sull’Impero di Roma. I fieri discendenti di Licanes erano divenuti belve, capaci solo di azzannare impietosamente le gole esposte dei loro fratelli.
Lentamente, Aristarda si rivestì. Aprì lentamente la porta della stanza e attraversò il corridoio, arrivando allo scriptorium. La stanzetta dello scriptorium era adibita alle comunicazioni e alla scrittura secondo i canoni licanei, sia tramite le comunicazioni ololitiche che tramite la scrittura cartacea tipica. Le luci si accesero piano all’incedere della donna nella stanza. Aristarda prese uno stilo da scrittura. Prese un foglio e iniziò a scrivere, lentamente. Non si curò del tempo che passava né del suo aspetto reduce dal piacevolissimo intermezzo di pochi minuti prima.

 

Dopo un ora, si permise di rileggere lo scritto.
“A Septimo Nero, mio fratello. Salve.”, quella era l’introduzione tipica.
“Fratello. Invero sono anni che ci combattiamo e l’Impero ne soffre. Uomini saggi e buoni hanno portato la cosa alla mia attenzione, come sono certa abbiano fatto anche altri presso di te.”, e fin qui la lettere era risultata facile.
“Invero, ritengo che essi abbiano ragione. Non fu il nostro Impero fondato su ben altri valori? Non furono altri i nostri aneliti quando fummo istruiti dai savi e dai sapienti di Roma? Non fu Socrax prodigo nell’inculcarci l’importanza assoluta della giustizia nei confronti del popolo? Egli c’insegnò l’importanza della pietà e del mettere il popolo al di sopra di sé stessi.”, quella parte le era costata. Socrax… che fine aveva invero fatto?
Pregò gli Dei di essere clementi con quel loro precettore, uomo savio e di retti principi.
Riprese la lettura, concentrandosi sulla parte successiva, invero la più difficile.
“Io riconosco che sono stata orgogliosa, ma non è forse il primogenito destinato a regnare?”, cancellò la riga, riscrivendola.
“Sebbene riconosca il tuo…”, s’interruppe. Rifletté, respirando piano. Come dirlo?
“L’Impero soffre e io invero soffro con lui. Intendo cercare con te un accordo, un’alleanza contro i signori della guerra elettisi nelle più lontane province. Son certa che gli Dei vedranno con favore la nostra rinnovata alleanza e ci permetteranno di innalzare le insegne imperiali ancora più lontano.”, scrisse infine. Annuì a sé stessa. Poteva andar bene. Non stava rinunciando alle proprie pretese sul trono, né stava alimentandole con frasi arroganti. Era solo l’invito a un colloquio, una tradizione sacra finanche durante i peggiori periodi di guerra civile.
“Sono ben conscia che tu tema per…”, cancellò quella riga: sapeva bene che supporre timore da parte di Septimo avrebbe inevitabilmente adirato il fratello minore.
“Sebbene possa comprendere tu brami il trono tanto quanto me e senza voler avanzare pretese o smentite di sorta su tale potestà, ti chiedo, per il bene dell’Impero tutto, di concedermi udienza.”, scrisse. Si accigliò: sembra supplicante. Non andava bene. 
Scosse il capo cancellando parzialmente la riga.
“Sebbene possa comprendere tu brami il trono tanto quanto me e senza voler avanzare pretese o smentite di sorta su tale potestà, richiedo, per il bene dell’Impero tutto, di concedermi udienza secondo i costumi tradizionali della nostra gente e nell’interesse di tutti noi.”, già meglio. Si domandò se aggiungere altro.
Il sonno incalzava, ma Aristarda tenne duro. Doveva concludere quella lettera perché sapeva bene che, in qualunque altro momento, il suo orgoglio le avrebbe impedito di scrivere una simile missiva.
“Ho fede che presterai orecchio a…”, s’interruppe e cancellò.
“Sono certa che comprenderai…”, s’interruppe e cancellò ancora. Espirò.
-Dannazione.-, sussurrò appena. Non trovava parole atte a permetterle di chiudere quella missiva in modo rapido e senza sminuirsi o attaccare il fratello.
“Auspico che tu stia in buona salute e che tu possa fare la scelta giust…”, neppure quella andava bene. Cancellò di nuovo. Alla fine optò per la più semplice delle chiusure.
“Auspico tu sia in buona salute e attendo tua risposta, fratello. Saluti.”.
Firmò rapidamente la lettera e ripose lo stilo da scrittura. Si alzò. Era sicura che i capelli le si fossero spettinati, e poco ma sicuro si sentiva esausta. Sorrise.
“Almeno ho fatto ciò che dovevo.”, pensò. Si diresse verso la camera. Notò che Vera e Proximo se n’erano andati. “Saggio.”, pensò. Vera avrebbe riaccompagnato Lario all’ingresso, forse anche oltre, magari elargendogli nuovamente il proprio corpo.
Il Legato era stato un ottimo amante, Aristarda lo doveva ammettere. 
Si spogliò distendendosi a letto e prese sonno rapidamente.

 

L’indomani si alzò e, vestitasi, il domestico la raggiunse con la colazione: focacce e acqua, una colazione frugale, eredità dei tempi in cui era allieva di Socrax. Il suo primo pensiero andò verso il vecchio maestro e il secondo si volse alla lettera. Dopo colazione si diresse allo scriptorium, ritrovandovi la bozza. Nessuno l’aveva toccata, nessuno si sarebbe azzardato a farlo visto che era chiarissimo chi l’avesse scritta. 
Stava per ordinare di inviarla quando Vera la raggiunse.
La guardia non pareva affetta da evidenti segni della loro attività notturna, cosa di cui Aristarda non poté dirsi certa per quel che la riguardava.
-Mia signora, un uomo chiede di vederla. Dice di essere allievo di Socrax.-, disse.
-Fallo entrare.-, disse Aristarda con un sorriso. Un segno degli Dei? Sì, doveva esserlo.
Gli Dei volevano la pace per l’Impero?
Aristarda accolse il giovane Alexander Varus con cortesia.
Questi narrò ciò che era accaduto. L’Imperatrix ascoltò. Lasciò che il giovane si stabilisse a palazzo. Lo trattò come ospite di riguardo. E rivolse uno sguardo alla lettera che stringeva in pungo. La bruciò piangendo lacrime mute di rabbia e disperazione.
Dopo un simile sacrilegio, non vi sarebbe mai più stata tregua alcuna.
Gli Dei avevano abbandonato l’Impero. Septimo li aveva oltraggiati con la sua condotta.
E doveva pagare per questo e per il suicidio di sua sorella, una Vestale della Dea!
Il sangue di Aristarda ribollì di sdegno al pensiero della morte di Socrax, costretto a suicidarsi per non dover tollerare l’onta di ciò che aveva visto. Septimo aveva distrutto tutto. Non c’era redenzione da tutto ciò. L’Impero era morto nel momento in cui suo fratello aveva osato penetrare ciò che avrebbe dovuto restare illibato.
Guardò bruciare quella missiva di pace sapendo che non ne avrebbe mai più scritta alcuna: a costo di vedere la fine dell’Impero di Roma, avrebbe punito personalmente suo fratello per il sacrilegio commesso.
Forse, con la sua morte, gli Dei avrebbero nuovamente guardato a tutti loro con favore.

Forse…

Redatto da Vaneo Primo Seleuca, reale sacerdote di Aristarda Nera. Redatto su ordine dell’Imperatrix dopo gli eventi avvenuti e narrati affinché non se ne perda il ricordo.

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