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L’Harem dell Sceicco

By 7 Aprile 2018Dicembre 16th, 2019No Comments

Premessa

E’ una storia di qualche tempo fa.
Sonia &egrave fuggita dalla sua terribile prigionia dove &egrave stata rinchiusa per parecchio tempo, insieme ad altre bellissime ragazze, più o meno giovani.
Sonia era stata rapita per caso, o meglio per necessità, ma questo si capirà meglio dal racconto. Lei non doveva essere rapita, lei non stava nel target dei rapitori, era passabile, ma non bellissima e questo era il target dei banditi. Ma una volta che ciò &egrave avvenuto la sua sorte &egrave segnata, come quella delle bellissime.
Miracolosamente ed in modo rocambolesco e pazzesco, dopo molto tempo e dopo aver subito tutto, riesce a fuggire. Non ha nessuna intenzione di andare alla polizia e poi a quale polizia, di quale paese e per raccontare cosa, visto che in fondo non sa niente di preciso e comunque &egrave terribilmente spaventata, la rete dello sceicco, il mandante di quei sequestri, &egrave molto lunga. Lui &egrave molto potente, soprattutto in quella sperduta parte del mondo, mentre lei &egrave una poveretta sola e disperata. Però trova il coraggio di scrivere questa storia raccontando in prima persona quello che ha vissuto e che ha visto e sentito.
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Il Risveglio

Sentivo delle voci, era come se arrivassero dall’al di là, &egrave il mio primo ricordo dell’esperienza che voglio raccontarvi e che ancora non oso giudicare, so solo che mi ha profondamente cambiato la vita; un’esperienza che pochi essere umani, su tutta la faccia della terra, in questo secolo, possono dire di aver vissuto. Sentivo queste voci lontane, in una lingua che non capivo, il mio cervello stentava a funzionare, avevo la testa indolenzita come se fosse stata riempita di cotone. Piano piano, lentamente emersi da quelle nebbie, qualcuno mi aveva afferrato e sollevato il mento, da quanto tempo non lo so, e mi gridava: – What’s your name? – E poi: – Parlez vous francais? – Ed ancora: – Sei italiana? –
Finalmente qualcuno, pensai che può aiutarmi a venir fuori da questa situazione, non riuscivo a ricordare cosa mi fosse successo, da quanto tempo mi trovavo in quello stato. Aprii gli occhi e cercai di mettere a fuoco, mi ci volle qualche secondo per focalizzare il viso che avevo di fronte, la prima cosa che vidi.
– Chi sei? –
Mi rispose in francese. – Oh bene. Sei ritornata tra di noi. –
Capivo vagamente quello che mi stava dicendo, a scuola avevo studiato francese e lo conoscevo abbastanza bene, ma in quel momento non ero in grado di connettere granché neanche in italiano, figuriamoci in francese.

Era una donna matura, ma ancora avvenente, aveva il viso bruciato dal sole, i capelli neri e corvini raccolti a coda di cavallo, gli occhi scuri e cerchiati, ma aveva ancora un corpo sodo e piacente. Indossava un vestito leggero di lino, era pesantemente truccata, le unghie lunghe e dipinte di un rosso vivo. Doveva essere francese. Portava un collare di cuoio su cui c’era scritto Nicolette.
– Dove sono? – chiesi, ed intanto mi guardai intorno. Ero sdraiata su un giaciglio dentro quella che mi sembrò una grotta. Una grotta con una grata all’imboccatura. Mi sembrava che le cose stessero così, ma non ne ero sicura.
Per tutta risposta la mia interlocutrice mi fece un’altra domanda.
– Come ti chiami? –
Me lo chiese in italiano, ma si capiva che non era italiana.
– Sonia – risposi e lei assentì.
Nell’antro c’erano due altre persone, oltre a quella che mi stava aiutando a riemergere dal limbo o da qualsiasi luogo in cui fossi andata. Una era in piedi dietro la francese. Era vestita in un modo molto strano, era vestita di pelle. Di pelle era la gonna molto corta, che copriva appena due gambe lunghe e snelle; sopra indossava un reggiseno aperto, un reggiseno che fasciava i due seni con delle fibbie di varie dimensioni, alcune larghe un paio di centimetri ed altre strette come un laccio di scarpa, e che quindi li lasciava entrambi in vista. Era un bel seno, non molto grande, ma fatto bene, con dei capezzoli bruni molto scuri e pronunciati. La donna era di pelle scura ed aveva i capelli neri, ondulati e ricci, gli occhi tendevano al viola, non era proprio nera, ma neanche solo molto abbronzata come la francese, sembrava creola, era giovane. Ai piedi portava degli stivali che le arrivavano al polpaccio, larghi e morbidi. Quel vestito mi sembrò incongruo, ma ancora più assurdo mi sembrò quel frustino che aveva in mano. Ero troppo intontita per riuscire a ragionare più di tanto e ci rinunciai. Guardai l’altra donna che era presente. Era una donna bianca e bionda, molto bianca, di un bianco latte e cremoso. Era una donna meravigliosa, molto bella, con tutte le curve al posto giusto, tante curve, prospera ed abbondante, ma senza un filo di grasso. Aveva il viso bianco, con qualche lentiggine. Era bionda nei capelli, sotto le ascelle, ed anche giù nelle parti intime. Gesù, pensai, &egrave nuda. Mi misi a ridere, mi sembrava tutto molto strano. Guardai me stessa, ero nuda pure io. Tutta nuda. Mi accorsi che la bionda era spaventata, terribilmente spaventata. Svenni.

Quando rinvenni, parecchie ore dopo, nella caverna c’era poca luce, mi ripresi lentamente e piano piano mi abituai alla penombra, vidi così che oltre a me c’era solo la bella bionda. Stava dormendo nuda su un giaciglio come il mio. Ora che eravamo sole la guardai meglio, era molto giovane, una ragazza di circa venti anni. Bella e nuda. Anch’io ero nuda.
Cercai di ricordare come fossi arrivata lì, i miei ultimi ricordi risalivano a…. Non sapevo quanto tempo era passato, ma ricordai il luogo: Istanbul. Cos’era successo. Sì, potevo ricordare, ora era tutto più chiaro. Ero ad Istanbul in vacanza, quella mattina ero uscita da sola, la mia amica Anna era rimasta a dormire. Mi trovavo in una stradina deserta, c’era solo quella coppia di occidentali. Oh merda, la ragazza, &egrave lei quella ragazza che gli arabi volevano rapire. Io ero intervenuta in sua difesa, il ragazzo era a terra svenuto, e poi sentii una mazzata sulla testa. Ed in seguito eccoci qua. Doveva essere andata così, ma ora cosa volevano un riscatto, mi veniva da ridere solo a pensarci, i soldi di quel viaggio li avevo presi in prestito da un amico. Ma &egrave ovvio, volevano rapire lei, &egrave lei la ricca, io sono capitata in mezzo. Dovevo svegliarla, lei certamente sapeva tutto. E la svegliai.

Si chiamava Marianne, aveva ventitré anni, veniva da un paesino del Montana, non era ricca. Era solo bella e per quello l’avevano rapita. Sveglia Sonia, sul finire del novecento dovresti saperlo pure tu che c’&egrave ancora la tratta delle bianche. Ci volle più di un’ora per capire queste quattro cose, la ragazza parlava solo inglese ed in quella lingua me la cavavo male. Ci abituammo presto alla nostra reciproca nudità, avevamo solo dei sandali e per giunta dorati, ridicolo, in seguito ci abituammo anche a molte altre cose. Eravamo disperate. Pensai che se mai fossi ritornata libera non avrei aiutato più nessuno. Marianne era più disperata di me, aveva cercato di farmi capire tutto mentre piangeva e singhiozzava. Eravamo state rapite e poi narcotizzate e tenute a dormire per non si sa quanto tempo ed ora ci trovavamo dove?
– Oasi … desert … Sudan. – Questa fu la risposta di Marianne. Non sapeva altro.

Quando era diventato completamente buio arrivarono due nere, alte ed arroganti, la schiena arcuata ed il sedere alto, con i capelli corti e crespi, arroganti e manesche. Erano vestite come la donna che avevo conosciuto nel pomeriggio, quella con il frustino in mano, ovvero cuoio e borchie, l’unica cosa differente era che queste non portavano neanche la gonna, ma mutandine che coprivano poco, fatte, come il reggiseno, di strisce di cuoio intrecciate. Con loro c’era Nicolette che portava la cena. Una delle due nere teneva un lume in mano che appoggiò a terra. L’altra aveva in mano due collari di cuoio. Quella che aveva posato il lume prese in mano dall’altra uno dei collari e si avvicinò a me, io mi ritrassi, non volevo farmi mettere un collare, mi colpì con un pugno alla pancia e poi ricevetti uno schiaffo, mi colò sangue dal labbro. Nicolette che aveva posato il vassoio per terra si precipitò verso di me ed in qualche modo cercò di convincermi.
– Pour le nome… pour le nome. ‘ Lo disse sommessamente, lei non aveva nessun potere sulle due nere.
Le due nere intanto non avevano il collare, che c’entrava il nome, ma intanto mentre una mi teneva le braccia strette dietro la schiena l’altra mi sistemava il collare sul quale c’era scritto Sonia. Marianne non si oppose e tutto fu più semplice. Se ne andarono lasciando lì la cena. Costolette d’agnello, verdure cotte, frutta e datteri. Avevo una fame che non ci vedevo e convinsi pure Marianne a mangiare, la ragazza era depressa e sofferente.

C’era poco da fare, ero in una pessima situazione, avevo trenta anni e non ero bella, anche se tutti dicevano che ero un bel tipo, ma niente di lontanamente paragonabile a Marianne, dietro di lei avrei potuto sbavare pure io che mi consideravo eterosessuale al cento per cento. Questo solo per dire quanto lei fosse bella e quanto poco io potessi centrare con la tratta delle schiave. Mi descriverò confrontando il mio corpo con quello di Marianne, così potrete conoscerci meglio entrambe. Io ero alta e lo sono tuttora un metro e sessantacinque, Marianne era alta un metro e settantasei. Io pesavo cinquantacinque chili e lei sessantasei. Gli occhi: i miei sono neri ed espressivi; lei ha due grandi occhi blu profondi come il mare e ben distanziati. Io ho una boccuccia ben modellata, ma piccola, un discreto e sfrontato sorriso; lei ha una bocca sensuale, due labbra piacevolmente pronunciate ed un sorriso perfetto. I capelli: lei ha una vaporosa chioma bionda perfettamente modellata sul suo viso grande e rotondo; io ho una zazzera nera pettinata alla maschietto. Io sono un po’ spigolosa, ho il seno piccolo e due gambe robuste; lei &egrave fatta di crema, un seno grande e burroso, curve dovunque, le gambe lunghe, piene e formose, i fianchi soffici, sulla guancia ha una fossetta, e sul viso una spolverata di lentiggini che la rendono irresistibile. Per colpa sua io mi trovavo in quella situazione. Ma non mi sentivo di colpevolizzarla, lo faceva già lei continuando a piangere ed a scusarsi con me. L’abbracciai, era proprio di crema, pensai che se c’era una soluzione l’avrei dovuta trovare da sola.

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Il giorno dopo scoprii che scappare da quel posto era impossibile. Due nubiane, anche le nere del giorno prima lo erano, nella loro tradizionale divisa che poteva variare solo per qualche particolare, vennero a prenderci. Mani dietro la schiena e fummo ammanettate, volevo evitare un altro pugno e non mi opposi, Marianne faceva quello che vedeva fare a me. Uscimmo dalla cella e quindi dalla grotta. La grotta si trovava ai piedi di una collinetta non più alta di cinquanta metri, sulla collinetta ed intorno ad essa c’era una bassa vegetazione di arbusti ed alberelli; poi c’era qualche palma, alcune erano anche molto alte. Se io provai vergogna ad andare in giro nuda, Marianne invece era terrorizzata. Dopo cento metri di vegetazione uscimmo nel deserto. Di fronte a noi c’era solo sabbia ed un sole accecante. Non andammo nel deserto, piegammo a sinistra e costeggiammo l’oasi aggirando la collinetta, quindi rientrammo tra la vegetazione percorrendo un altro sentiero. Procedevamo in fila indiana, le guardie erano una in testa ed una in coda, io ero la seconda. Camminavamo a passo svelto. Ad un tratto mentre sulla sinistra rimaneva la vegetazione sulla destra si aprirono dei campi coltivati molto vasti. C’erano delle donne, una ventina stimai, che stavano lavorando e mi domandavo come potessero, il caldo era già forte ed erano ancora le prime ore dall’alba. Quelle donne coperte in ogni parte del loro corpo con larghi vestiti ci guardarono appena, un altro paio di nubiane sorvegliavano il loro lavoro. Oltre i campi, di nuovo tra le palme, c’era una costruzione bassa, lunga e stretta su cui si aprivano innumerevoli porte, ne contai una decina e come scoprii dopo ve ne erano altrettante sul retro. Si trattava di una costruzione in parte in muratura ed in parte fatta di canne ed arbusti, erano le abitazioni delle contadine, non vidi nessun uomo al lavoro, in effetti nell’oasi di uomini non ve ne erano. Tranne quando, come scoprii dopo, quando c’era lo sceicco ed eventuali suoi ospiti.
Accanto alla costruzione c’erano anche dei recinti con dentro degli animali, non vedevo bene, il sole mi accecava, ma si trattava di pecore, capre, galline e qualche altro animale da cortile. Chi sa cosa coltivano pensai. Costeggiammo i campi e ritornammo tra la vegetazione che ora era davvero rigogliosa. Attraversammo un ponticello in legno, sotto scorreva acqua e di fronte a noi, gradevole sorpresa, c’era uno stagno di dimensioni rispettabili, era lungo un centinaio di metri e nel punto più largo misurava circa cinquanta metri. C’erano canneti e spiaggette lungo tutto il perimetro. L’acqua era abbastanza limpida. Noi arrivammo a circa metà della sua lunghezza e di fronte a noi c’erano due sentieri uno che andava a destra ed uno che andava a sinistra. Prendemmo quello di destra camminando lungo la riva dello stagno, lì dove questo terminava c’erano tre diverse costruzioni ben distanziate l’una dall’altra. Una molto grande a due piani e due più piccole ad un piano. Qui rimasi davvero senza parole, perché vidi qualcosa che mai avrei immaginato di vedere. Una donna molto piccola, forse non arrivava ad un metro, a cavallo di una donna bianca tracagnotta e forte. Pensai ad un miraggio e mi augurai che lo fosse, confortata dal fatto, che quella cavalla al segnale del suo cavaliere corse sparendo tra la vegetazione. Fino a quel momento non avevo parlato e non mi ero voltata verso Marianne, ma non potei in quella circostanza fare a meno di consultarla e mi voltai verso di lei facendole segno con gli occhi, le due nubiane berciarono nella loro incomprensibile lingua e colpirono contemporaneamente me e Marianne, io fui colpita sulla schiena e Marianne sulle nude natiche. Marianne scoppiò a piangere, ma un’altra frustata accompagnata da un latrato la convinse a smettere. Ci stavamo avvicinando agli edifici e cavalla e cavaliere ricomparvero, anzi ci vennero incontro, potei quindi vederli bene e da vicino mentre trottavano verso di noi. La piccoletta che stava sopra era una pigmea, e nelle sue dimensioni ridotte vestiva come le nubiane. La cavalla era una donna bianca e bionda, seminuda, ma non proprio nuda. Intanto aveva le braccia ricoperte da due lunghi guanti di pelle nera che arrivavano fin sopra il gomito, su ogni guanto c’erano diversi ganci che permettevano facilmente di legare un braccio all’altro semplicemente agganciandoli. Infatti la puledra aveva le braccia legate dietro la schiena, ogni polso era agganciato all’altro braccio all’altezza del gomito ed entrambe le braccia erano fissate strette strette e ben in alto alle cinghie che scendevano dalle spalle. Ciò la costringeva a stare diritta, pancia in dentro e petto in fuori. In vita una larga, pesante e robusta striscia di cuoio che copriva loro la pancia e parte della schiena, ma lasciava nuda in basso la vulva e le natiche, in alto si fermava molto sotto il seno.
Il pesante sottopancia era l’anima di quel particolare abbigliamento, sia dietro che davanti c’erano innumerevoli borchie ed anelli, da esso partivano diverse strisce di cuoio più o meno larghe e più o meno robuste. Due, sottili, scendevano in basso e passavano ai lati della vulva, quindi ritornavano indietro passando sulle natiche della puledra, altre striscioline scendevano ancora in basso e si collegavano ai lunghi stivali che arrivavano fino alla sommità delle cosce.
Gli stivali erano molto particolari, pelle molto leggera e morbida in alto, tanto morbida da aderire perfettamente alle cosce della puledra. Gli stivali diventavano sempre più pesanti sotto le ginocchia, verso i polpacci e le caviglie, la suola era molto alta e si alzava notevolmente verso il calcagno che era scoperto e non era sostenuto da nessun tacco.
A causa della mancanza di tacco, la puledra era costretta a camminare e correre sulle punte modificando radicalmente la postura e l’andatura. Infine altre strisce partivano dal robusto sottopancia ed andavano in alto passando sotto il seno della puledra sostenendolo e quindi ritornando giù dopo essere passate sulle spalle, a queste stringhe erano legate le braccia delle puledre.
Il seno era scoperto e due anellini d’acciaio pinzavano i capezzoli della puledra e particolare interessante, dai due anellini pendevano due campanelle miniaturizzate. Anche dalle grandi labbra delle loro vulve e dal clitoride pendevano degli anellini.
Dalle spalle, davanti e di dietro, scendevano due grosse cinghie fissate al sottopancia e che sostenevano trasversalmente, sul retro, una sella di cuoio su cui stava seduta la pigmea.
Quello era un modo di cavalcare usuale per le pigmee, ma poco frequente per gli altri utilizzatori delle puledre.
Di norma le puledre portavano in giro gli abitanti di quella piccola comunità su calessi. Le puledre sostenevano e trainavano il calesse attraverso due corte, ma robuste cinghie legate da un lato ad una borchia del sottopancia e dall’altro ad analoga borchia infissa nelle aste. In ogni caso, sia che fossero montate a pelo, sia che trainassero un calesse, il capo delle puledre era ornato di tutto quello che serviva allo scopo: cavezza, museruola, frontale ed infine un morso ricoperto di cuoio. Spesso alle puledre non venivano risparmiato loro neanche gli ultimi ed avvilenti accessori: un pennacchio di piume rosso, la coda che pendeva dal retro della larga stringa di cuoio, i paraocchi.
Come vidi in seguito, altre puledre indossavano stivaletti bassi, anche se sempre senza tacco e avevano i genitali coperti da morbide pelli, quindi se quello descritto era l’abbigliamento base, molti dettagli potevano variare nei finimenti indossati dalle puledre.

Le gambe della bionda erano nude ed ovviamente abbronzate, tozze, corte e muscolose, ma la donna era tutt’altro che bassa, era comunque alta almeno un metro e settanta. La bionda non aveva un gran seno, le dimensioni erano paragonabili alle mie, ma il mio era più bello.
Come tutte le cavalle, che poi ho visto in seguito, anche questa aveva spalle larghe e muscoli sviluppati. La bionda non doveva essere molto bella, ma non riuscii a vedere il viso perché indossava una mascherina fatta di striscioline di pelle, che serviva a proteggere gli occhi dal sudore e dai raggi solari. La bionda sudava ed era affannata, ma resisteva bene. Teneva la testa alta e non guardava le persone. Mi avevano spiegato che un essere umano in buona salute ed allenato può portare a spasso un terzo del suo peso corporeo per tutto il giorno senza problemi, in questo caso la pigmea doveva pesare un po’ più del terzo della bionda, ma sicuramente meno della metà. Evidentemente la cavalla era ben addestrata ed in ottima salute e poi non correva da tutto il giorno. La pigmea, dopo averci guardato con curiosità ed aver cianciato con le due nubiane, fece fare dietro front alla sua puledra e ci guidò verso gli edifici. Dietro quello più grande c’era un vasto recinto, dentro il quale una decina di donne cavallo si stavano allenando.
Sbirciai Marianne, era interdetta e spaventata, lo ero pure io. Pensavo che né io né lei eravamo adatte a quello sport, ma forse con un buon allenamento sarebbero riusciti a far diventare pure noi delle vere bestie da soma. C’erano donne bianche e nere, bionde e brune, occidentali ed africane, ma avevano tutte dei tratti comuni, erano abbastanza alte, alcune anche un metro e ottanta; forti e muscolose, molte veramente possenti, tutte relativamente giovani, tutte sotto i trenta anni. Alcune erano montate, altre facevano esercizi da sole, tutte sotto il comando di una virago bionda, che conobbi successivamente con il nome di Miss Ethel, di nazionalità tedesca. Alcune pigmee erano abbarbicate sul recinto e sghignazzavano prendendo in giro le loro cavalle o le loro colleghe. L’edificio grande al pianterreno serviva da stalla per le puledre, che dormivano tutte insieme in un grande stanzone, una stanza più piccola era destinata alle serve, c’era poi una sala e la cucina. Sopra c’erano delle camerette, una per pigmea. La virago mi apparve inflessibile, ma non ebbi modo di poter vedere molto perché fummo dirottate verso un villino che stava di fronte all’edificio più grande.

Il villino era lindo e spartano, c’era un soggiorno e poi tre camere una per la padrona, una per la serva, una per gli ospiti ed un’ampia ed attrezzata cantina. Ci accolse Nicolette, la serva ci fece accomodare in soggiorno lasciandoci lì in piedi mentre andava a chiamare la sua padrona: Madame Jasmine, la signora del frustino. Prima di andare però licenziò le due guardie che ci avevano accompagnato fin lì. Pur rimanendo sole non osammo parlare tra di noi, tra l’altro la lingua era un grosso impedimento, ma ci guardammo confortandoci con lo sguardo. Non si poteva vivere nel terrore, ormai io mi ero rassegnata al peggio, Marianne era ancora sotto choc, per quello che aveva subito e per quello che aveva visto.
– Madame Jasmine – annunciò Nicolette.
Era assurdo, potevo anche ridere, ma accennai un saluto chinando lievemente il capo. Non era quello il saluto che lei voleva e un colpo di frustino mi arrivò su un capezzolo, sentii un bruciore incredibile ed il desiderio irresistibile di alleviarne il dolore con un lieve massaggio, ma ero ammanettata. Nicolette girò dietro di noi e mettendo le mani sulle nostre spalle ci convinse ad inginocchiarci. Io e Marianne in ginocchio e lei, Madame Jasmine, sbracata in poltrona di fronte a noi, così andava la vita da quelle parti.
Parlò Nicolette, prima in francese per me e poi in inglese per Marianne, il discorso che fece fu il seguente – Madame Jasmine &egrave la responsabile della sicurezza in questo luogo. Vi trovate nell’oasi di Alì Absara, il padrone di questo luogo, nell’attesa che lui venga a farci visita e decida della vostra sorte, voi inizierete l’addestramento base di una buona schiava, vale a dire che imparerete ad obbedire, questo corso come vi renderete conto sarà propedeutico per tutti gli altri. Responsabile di questo addestramento &egrave Madame Jasmine. Poi a seconda del ruolo che dovrete ricoprire sarete addestrate adeguatamente. Penso si possa escludere che voi possiate essere destinate a fare da puledre, quindi non sarete addestrate da Miss Ethel che dovete già aver visto fuori e che vive qui accanto nell’altro villino, ma ci sono degli altri corsi di cui saprete a tempo debito. Ora, però andremo a conoscere Madame Sham, la direttrice di questo luogo, che vuole vedervi. Potrete così completare di ammirare tutta l’oasi, in verità ve ne mancherà sempre qualche pezzetto, ma si rimedierà in futuro. Avete molto tempo davanti a voi. –
Ad un suo segnale ci alzammo in piedi e seguimmo Madame Jasmine.

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Il sole era salito ancora più in alto e la temperatura era diventata torrida. C’erano in giro solo delle pigmee riparate sotto le palme e due calessi che aspettavano solo noi. Ad ognuno dei due calessi erano assicurate due schiave, che si trovavano alle stanghe una dietro l’altra. Sul primo montarono Madame Jasmine e Marianne, sul secondo Nicolette ed io. Le giumente che trainavano il nostro calesse erano entrambe nere. Madame Jasmine diede la partenza sferzando la schiena delle sue due cavalle, Nicolette con un: – Ooh belle! –
Partimmo, senz’altro questo modo di impiegare le cavalle era meno faticoso rispetto a quello di montarle in groppa. Meno faticoso per le puledre s’intende. Il caldo era terribile, ma le puledre trottarono di buona lena. Le redini erano collegate al morso di cuoio, bastava tirare leggermente per ottenere quello che si voleva, generalmente venivano utilizzate dalle padrone con dolcezza, a meno che la conducente non fosse particolarmente nervosa, ogni tanto succedeva.
Seduta, nuda, come Marianne, accanto a Nicolette potevo ammirare due culi alti e neri, protetti tra le natiche da una strisciolina di morbida pelle, che danzavano regolarmente davanti ad i miei occhi. Due culi succulenti che trottavano coordinati e precisi. Il sudore scivolava sulle spalle scure e lucide delle puledre, le goccioline arrivavano sul culo e lo percorrevano fino alla sommità, gli sbalzi provocati dall’andatura ne facevano cadere qualcuna per terra, ma la maggior parte continuava la sua corsa scollinando dalla sommità del deretano o entrando nel gran canyon delle natiche.
Di queste alcune si fermavano lì tra le mutandine e gli orifizi aggiungendosi a quelle che provenivano dal davanti e che in massima parte imperlavano i peli della fica, la maggior parte si ricongiungevano con quelle che avevano scollinato e proseguivano verso l’interno delle cosce, dove ristagnavano prima di cadere per terra o evaporare.
Le cavalle erano assicurate alle stanghe con degli anelli di cuoio simili a manette, quella che stava dietro era assicurata al calesse con una catena che partendo da questo si congiungeva alla cintura di cuoio della schiava, questo per consentirle di trainare il calesse oltre che attraverso le stanghe, collegate da tiranti al sottopancia della cavalla, soprattutto con tutto resto il corpo. Le uniche che usualmente montavano in groppa alle cavalle erano le pigmee, ma le padrone facevano largo uso dei calessi, generalmente una sola cavalla trainava facilmente un calesse. Arrivammo in pochi minuti, in fin dei conti l’oasi era grande qualche chilometro quadro.

Qui c’erano ancora tre edifici, un palazzo grande ed importante, a tre piani, simile a quelli che venivano costruiti nelle città diversi secoli prima, poi c’era una grande palazzina ad un piano, l’alloggio delle guardie nubiane ed infine un villino poco più grande di quelli che avevamo già visto. Scendemmo da calesse e ci avviammo verso il villino. Ci accolse una serva bruna, non più giovane, ma piacente, più bella e più in forma di Nicolette, sul collare portava il nome di Carla, era italiana come me ed in cuor mio sperai che ci potesse aiutare. Anche lei vide il mio collare e mi parve turbata, mi guardò con occhi supplicanti, come per dire: mi dispiace, ma io non ci posso fare niente, ti prego non parlare. Qualche anno prima doveva esser stata ancora una splendida donna, ed era tuttora gradevole ed elegante nella sua aristocratica bellezza. Aveva gli occhi neri, lievemente strabici ed anche per questo affascinanti, i capelli neri, ondulati e lunghi fino alle spalle, il corpo maturo e calmo. Indossava una camicetta bianca ed immacolata, una gonna che le arrivava al ginocchio e dei sandali ai piedi con il tacco basso e comodo. La pelle era bruna, ma nelle parti più delicate che riuscivo ad intravedere era di un bianco pallido, tutto in lei era molto curato anche se non appariscente. Si rivolse a Madame Jasmine parlando in un ottimo francese con un tono ossequioso niente affatto servile, come si addiceva alla serva di una donna importante.
– Madame Sham si trova nell’edificio principale, vi riceverà lì. Prego, vogliate seguirmi. –
Era un edificio vasto e, per quel luogo, imponente, al pianterreno c’erano grandi saloni, rivestiti molto bene, divani, specchi, grandi tavoli da pranzo e da gioco, magnifici tappeti per terra e diversi arazzi alle pareti. E poi, tante donne, tutte molto belle e vestite in splendidi abiti di seta o di raso, quasi tutte indossavano vestiti orientali, ma qualcuna era vestita all’europea, con eleganti tailleur o affascinanti e freschi vestiti estivi. Mi sentii morire dalla vergogna, Marianne arrossì e pianse. Carla faceva strada facendoci passare da un salone all’altro, noi sfilammo nude ed ammanettate tra donne eleganti e ben vestite che venivano servite da compite cameriere, che anch’esse indossavano abiti raffinati. Ci guardavano con curiosità, ma senza alcuna meraviglia. Finalmente arrivammo e fummo introdotte nello studio di Madame Sham.

Madame Sham era una donna araba di mezz’età, grassa e depravata, bassa e tozza, nonostante ciò emanava un forte fascino. Dirigeva ed amministrava l’oasi con grande diletto, lo faceva più per piacere che per avidità, in quell’oasi si addestravano schiave, che dovevano dare piacere ai loro padroni ed alle loro padrone, con costi bassissimi, visto che materia prima e manodopera era fatta di schiave, che valevano una fortuna, ma che non dovevano essere pagate, anche se venivano mantenute nel lusso. Ma tutto ciò per Madame Sham, che amministrava l’oasi da quando questa era stata concepita, più di venti anni prima, era secondario rispetto al piacere ed al potere che quel lavoro le dava. In quale altra parte del mondo poteva permettersi di realizzare tutte le sue diaboliche fantasie come lì? Solo in quell’oasi poteva avere un potere assoluto su oltre cento donne, molte delle quali bellissime. Donne che tremavano quando lei posava gli occhi su una di loro. Solo lì poteva dare sfogo liberamente alla sua natura sadica. Mi resi conto immediatamente della personalità che avevamo di fronte. Quando entrammo era seduta alla scrivania, vestiva un costosissimo tailleur ed era carica di oro e di gioielli, trasudava di potere e libidine. Aveva gli occhi obliqui come le orientali, un casco di capelli neri perfettamente acconciati, il suo trucco era impeccabile, fino alle unghie splendidamente dipinte di un rosso vermiglio. Una volta all’anno Madame Sham si allontanava dall’oasi per conoscere un po’ di mondo, spendere qualcosa dei tanti soldi che aveva accumulato acquistando gioielli ed oro, fare qualche cura, e soprattutto rifornirsi di profumi e cosmetici.
Ci accolse. – Oh, eccovi qui, ma puzzate come delle capre. – Aveva parlato in francese e per la puzza si era rivolta a noi. Io e Marianne fummo spinte ad inginocchiarci. Lei ci osservò attentamente, non disse una parola, ma approvò quello che vedeva di Marianne. Poi si rivolse a Madame Jasmine. – Quando iniziano l’addestramento. –
– Domani. E’ meglio non perder tempo. –
– Bene, domani mattina te le consegnerò, per ora restano con me. Come sono? –
– Non dovrebbero essere pericolose, ma &egrave meglio essere prudenti. –
– D’accordo, dammi le chiavi delle manette, domani te le mando con qualche guardia. –
Madame Jasmine consegnò le chiavi e ci lasciò lì.
Per qualche minuto ci esaminò con attenzione, noi stavamo sempre in ginocchio, poi si decise e si rivolse alla sua serva.
– Portale in casa e lavale ben bene, a questa leva le manette e falle un bel trucco, l’altra lasciala ammanettata. – Quella a cui doveva levare le manette era Marianne, l’altra ero io.

Appena rientrate nell’abitazione di Madame Sham mi rivolsi alla sua serva.
– Sei italiana? –
– Sì. – Rispose sommessamente.
– Aiutaci, ti prego, facci scappare, fino ad ora non &egrave successo niente, ma ora temo il peggio. –
Stavolta lei mi rispose a muso duro.
– Stupida. Pensi che se si potesse scappare io starei ancora qui. E non solo io. Ti do un consiglio e dallo pure alla tua amica, conviene fare tutto quello che vogliono, tanto lo ottengono lo stesso, solo che se lo fai spontaneamente ti vergognerai di te stessa, ti degraderai, ma tutto finirà lì; se invece ti opporrai ti massacreranno, poi farai lo stesso quello che vogliono. Hai capito? –
Intanto Carla aveva levato le manette a Marianne. Non ci potevo credere, ma sembrava che eravamo davvero senza speranza. La seguimmo in bagno. Riempì d’acqua la vasca ed invitò Marianne ad entrare. Iniziò ad insaponarla. Marianne sentiva che Carla non ci era ostile, ed era ancora sotto choc, lasciò quindi che di lei si facesse quello che si voleva. Non mi chiese niente della discussione che stavo facendo in italiano. – Come sei finita qui? –
– Come te immagino. Rapita a Marrakech sedici anni fa, avevo ventisei anni. –
– Vuoi raccontarmi cosa ti &egrave successo? –
– No. E prima di sera capirai qualcosa, se non hai già capito. –
– Chi sono tutte quelle belle donne che stanno lì? – Indicai la direzione del palazzo da cui eravamo venute
– Schiave da letto come le chiamiamo noi o ragazze di piacere come le chiamano le padrone, le chiamano così anche se molte di loro sono ormai donne fatte, alcune anche mature. Proprietà dello sceicco Alì Absara. Alcune sono in vendita, due volte all’anno lo sceicco porta qui un certo numero di acquirenti che esaminano e provano la merce, se &egrave di loro interesse l’acquistano e se la portano a casa. Qualcuno lascia la schiava qui perché venga addestrata a qualche insolita perversione, spesso le schiave vendute ritornano qui per la stessa ragione. Le altre non sono in vendita, sono dello sceicco, ma utilizzabili, come anche quelle in vendita dalla mia padrona, da Madame Jasmine e dalle altre istruttrici. Tutte utilizzabili tranne la favorita che &egrave proprietà esclusiva dello sceicco. –
Ero allibita, non c’era bisogno di chiedere cosa ci fosse dietro il termine “utilizzabili”. Smise di strofinare Marianne e le fece segno di uscire ed asciugarsi. Svuotò la vasca e la riempì di nuovo.
– Ho visto che le schiave da letto non hanno il collare di cuoio come noi. Come mai? –
– Perché tutti sappiano che per l’appunto sono schiave da letto e non serve o contadine o giumente come quelle che portano il collare di cuoio, ma anche loro sono marcate. Quelle in vendita hanno un polsino di cuoio, le altre un braccialetto d’argento e la favorita d’oro, quelle già vendute un braccialetto d’acciaio. Immagino che la tua amica finirà tra le ragazze di piacere, tu non lo so. –
– Cosa mi succederà? –
– Entra dentro la vasca. Probabilmente finirai tra le serve, non sei così bella da diventare schiava da letto, ma non sei neanche abbastanza robusta per fare la puledra, e non sei tanto sfatta da finire tra le contadine. Se farai la serva qui, nel palazzo, ti andrà bene, nei corpi di guardia saresti alla mercé delle guardiane che sono veramente terribili con le loro serve, lo sono anche le ragazze di piacere e le padrone, ma per lo meno sono pulite e generalmente raffinate. –
– Incredibile – mormorai. Ero ammanettata e mi resse perché entrando nella vasca non scivolassi. Mi misi a sedere dentro la vasca. Lei mi insaponò anche in mezzo alle gambe.
– Stai tranquilla. Non sei il mio tipo. –
Mi era simpatica e mi dava fiducia. – Raccontami altro, dei particolari. –
– Come vuoi. Lì dentro in questo momento ci sono venti schiave, accudite da una decina di serve, sette sono dello sceicco, tra cui la favorita, otto sono in vendita e cinque sono già vendute e sono qui in addestramento. –
– E tu? –
– Io sono la serva di Madame Sham. –
– Sei sempre stata serva? –
– No. Per alcuni anni sono stata la favorita. E questa fu la mia sfortuna. –
– Perché sfortuna? Da quello che mi hai detto &egrave quella che se la passa meglio di tutte. –
– Perché c’era un arabo che mi voleva acquistare, sarei stata la sua concubina, ma in una città, non nel deserto e solo sua. Non sempre essere vendute &egrave una sfortuna, dipende chi &egrave che ti acquista, ve ne sono alcuni che trattano bene le loro schiave. Ma puoi anche finire peggio di qua. Quando arrivai qui diventai subito la favorita, ciò avvenne in un periodo in cui Madame Sham era via, lei in tutti quegli anni non poté deliziarsi con me, ed io, allora ero giovane, fui così stupida da assumere atteggiamenti superbi anche con lei. Quando venni ripudiata fece di tutto per avermi come sua serva personale, mi voleva umiliare, mi impedì così definitivamente di andare via. Ed ora vieni fuori dall’acqua, che sei pulita. –
Mi aiutò ad asciugarmi e mi mise un accappatoio sulle spalle, poi si prese cura di Marianne. Marianne si era leggermente ripresa e volle sapere cosa ci eravamo dette. Un po’ io ed un po’ Carla smozzicando frasi in inglese la mettemmo al corrente.
Carla ci fece sdraiare su un lettino ed iniziò a massaggiarci con unguenti profumati e balsamici, le scottature prese sotto il sole diventarono più lievi.
Sotto le sue carezze esperte e piacevoli chiesi altro, non sapevo quanto tempo avevo e non sapevo quando si sarebbe ripresentata un’altra occasione come questa per saperne di più.
– Le guardie sono delle schiave pure loro? –
– E’ ovvio che no, ma la loro situazione non &egrave poi molto differente. Ci sono due tipi di guardie, le nubiane che vengono prelevate dai villaggi più poveri e sperduti di questo paese, alle loro famiglie vengono dati un bel po’ di soldi in cambio di un contratto di dieci anni, vengono prelevate intorno ai sedici anni, quando vanno via a circa ventisei o ventisette anni vengono loro dati degli altri soldi. Sono prese naturalmente quelle che meglio si prestano a questo lavoro, devono essere, come puoi immaginare, forti e dure. Sanno tutte che si trovano in Sudan, ma non sanno precisamente dove e comunque a loro quello che succede qui le lascia del tutto indifferenti. Qualcuna di loro, per gravi mancanze può anche diventare schiava, in questo caso le loro famiglie vengono tacitate con un altro po’ di soldi e tutto si aggiusta. Le pigmee vengono reclutate allo stesso modo nei paesi del sud dell’Africa, per loro ci vogliono anche meno soldi. –
– E queste signore? – Lo dissi ironicamente.
– Con loro c’&egrave poco da scherzare. Sono delle professioniste, sono state reclutate da Madame Sham, qualche volta dallo sceicco. In questo momento ce ne sono cinque: Madame Jasmine che hai conosciuto, viene dalla Giamaica, &egrave a capo delle guardie, ed &egrave istruttrice del corso base; Miss Ethel, &egrave tedesca, addestra le puledre; Madame Corinne, &egrave vietnamita, con sangue francese, perfeziona il corso base; Miss Sabine, &egrave una spagnola, tiene il corso di educazione al piacere; Madame Ivonne, &egrave inglese, tiene il corso di femminilità. –
– Rimangono le contadine. Chi sono? –
– Ce ne sono di due tipe, le serve ormai disfatte, oppure donne che erano state condannate a morte dai loro governi, in questo o in altri paesi del golfo, e che lo sceicco ha acquistato con la complicità di funzionari statali, prima di tutto del Sudan, ma anche di altri paesi qui intorno. La stessa complicità che gli consente di tenere quest’oasi indisturbato. Certo qui siamo fuori dal mondo, ma senza complicità non si potrebbe reggere per tanti anni. Ovviamente tra i clienti dello sceicco c’&egrave anche il ministro degli interni. In genere le contadine più giovani sono tutte detenute condannate a morte, qualcuna discreta finisce tra le serve, in passato una finì anche tra le schiave da letto. –
– E cosa coltivano? –
– Tutto quello che serve a mantenere la nostra comunità. –
Mentre Carla mi raccontava ciò era passata a truccare Marianne. Mi resi conto del perché Madame Sham fosse così elegante e perfettamente truccata. Carla era bravissima. Marianne, vi ho già detto quanto era bella, mezz’ora dopo era stata trasformata in una bambola. Gli occhi erano diventati più grandi e profondi, le labbra erano più seducenti e pronunciate, la fossetta sulle guance da piacevole che era ora appariva deliziosa, gli zigomi si erano alzati. Lei stessa non si riconosceva.
– Potevo trasformarti in una bella puttana, ho invece voluto esaltare la tua fresca bellezza. Però non posso fare a meno di truccare anche le tue parti intime, altrimenti la padrona mi spella viva. – Marianne non capì niente e lei un po’ in inglese ed un po’ a gesti le fece capire che doveva truccarla sui seni.
– Why? –
Carla esitò. – Perché queste sono le regole. –
– What is she going to do to me? –
Carla era penosamente triste. – Non lo so, tra un po’ arriverà e se vorrai potrai chiederlo a lei. Ora lasciami fare. –
Immerse il pennello in un vasetto di una tintura vermiglia e trasformò le areole dei capezzoli di Marianne, che erano di un rosellino delicato e tenue, in rosso sangue. Lo stesso fece con le labbra del suo sesso. Le prese ad una ad una e le pitturò sull’interno, la fece girare e le diede un colpettino di colore anche sull’ano. Marianne arrossì, più che protestare si lamentò.
– It’s terribble! – esclamò.
– Quando si asciugherà diventerà di un colore bruno molto bello. Guarda. –
Aprì la camicetta che indossava e ci fece vedere i suoi capezzoli, non portava reggiseno, ed aveva un petto ancora sodo e sostenuto.
– I tuoi sono più belli, non ti toccare, tra dieci minuti indossa quei vestiti. Ed ora lasciatemi andare a cucinare qualcosa, &egrave quasi mezzogiorno e tra un po’ arriverà. –

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