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Anni fa mio padre decise di abbandonare la società di costruzione per la quale lavorava ormai da decenni e di creare una piccola ditta di ristrutturazione in cui avrebbe operato solo lui. All’inizio mia madre non era stata molto dell’opinione che fosse una buona idea, ma, una volta venuta a conoscenza della situazione economica in cui versava la società straniera, decise che il vecchio lavoro di mio padre, se non lo avesse abbandonato lui in quel periodo, sarebbe stato il lavoro stesso ad abbandonare mio padre nel giro di sei mesi al massimo.

Va detto che all’inizio non fu facile: tutti conoscevano mio padre, nel nostro paese, e nonostante questo trovare qualcosa da fare si stava rivelando difficile (a differenza di adesso che a momenti nemmeno la domenica riesce a riposare). Per nostra fortuna, visto che io avevo appena concluso la mia avventura scolastica, uscendo con un diploma di maturità in elettronica che, nei quindici anni successivi, non mi è mai servito a nulla a parte farmi da solo prolunghe elettriche e cavi per collegare l’apparecchio televisivo alla presa dell’antenna, e stavo ancora distribuendo a pioggia curricula in ogni dove in provincia, come manna dal cielo apparve (telefonò, in realtà, e poi fisicamente comparve un avvocato che ne faceva le veci) il signor Sabatini.

Il signor Sabatini, imprenditore del centro Italia con una serie di fabbriche che producevano sacchetti per la spesa, aveva acquistato una vecchia baita sulle montagne nei pressi del nostro paese, e aveva intenzione di farla ristrutturare con l’intento di usarla come casa per le vacanze dove mandare la moglie e la figlia in estate e magari in inverno, mentre lui rimaneva a lavorare (immaginai allora fosse una cosa davvero piacevole lavorare, soprattutto se si ha un pezzo di gnocca come segretaria e la moglie fuori dalle balle). Il proprietario di una delle fabbriche che producevano farina nella zona era suo amico e, quando il primo gli chiese a chi potesse affidare il compito di ristrutturare l’edificio, quest’ultimo gli propose mio padre, che aveva fatto qualche lavoro per lui e che sapeva stessa attraversando un periodo difficile.

Quindi, grazie al signor Sabatini la nostra famiglia ebbe una copertura economica per un anno intero, il tempo che mio padre (ed io, di tanto in tanto) impiegò a rendere quel cumulo di macerie una baita bella e confortevole.

Un paio di giorni dopo che mio padre aveva consegnato all’avvocato le chiavi della baita, lo stesso lo contattò per informarlo che nel fine settimana la famiglia intera dei Sabatini sarebbe giunta in paese per scoprire come fosse viverci davvero e, per ringraziarci, aveva invitato la nostra per una giornata a pranzo da loro.

Come scritto prima, esisteva una giovane Sabatini, ragazza di cui sapevo poco se non che aveva un paio di anni in meno di me e stava finendo il classico. Era da poco che avevo la connessione ad internet, che a quei tempi era una serie di parole colorate su uno sfondo ancora più colorato (allora sembrava essere un obbligo per molti usare un carattere corpo otto bordeaux su sfondo nero, immagino una moda lanciata da qualche azienda produttrice di occhiali da vista che voleva aumentare il proprio volume di vendite) accompagnate da immagini sgranate grandi quanto un francobollo, compreso nel lasso temporale che andava tra sibili e schiocchi idioti di una scatoletta nera appoggiata sul computer con delle lucine verdi che si illuminavano random e la consapevolezza che la Telecom ti avrebbe pelato vivo in occasione della bolletta successiva. Quindi, date le scarse qualità di internet e la mia incapacità di trovare informazioni che non fossero relative al sesso (ma non i video porno, che allora erano qualcosa che si doveva recuperare nei sexyshop in formato DVD o ti sparavi una sega su un paio di figure statiche rosa dalla forma vagamente antropomorfa), non ebbi mai modo di sapere come fosse fatta la ragazza.

Ma, come tutte le figlie dei ricchi, supposi fosse bellissima (con la figlia del mio attuale datore di lavoro che è l’eccezione che conferma la regola).

Mio padre era ben conscio della vita sessuale tutt’altro che monacale che conducevo e che comunque non ne aveva mai fatto un problema; in un paio di casi, mentre eravamo in macchina insieme in giro per i paraggi, addirittura mi aveva indicato una casa e aggiungendo “lì abita una gran bella ragazza” (va detto che, dopo aver controllato chi abitasse davvero in quelle case, la mia stima verso mio padre ed i suoi gusti verso le donne, o più esattamente le ragazze, era aumentata a dismisura). Non era certo a conoscenza del mio quaderno per gli appunti che compilavo dopo aver letto qualunque articolo o pagina web relativa al sesso, tra un classico della letteratura e l’altro, in cui comparivano informazioni su come dare piacere ad una donna con la lingua o con le dita, o ancora come comportarsi da gentiluomo fuori dal letto e da vero amante una volta sotto le coperte, ma ci sono cose che è meglio che anche i genitori non sappiano. Però, comprensibilmente, non voleva che mi portassi a letto la figlia di un suo cliente e mi chiese di non farlo: per quanto allora fossi ancora più affamato di sesso di quanto non lo sia tuttora, se lui mi chiedeva di tenerlo nei pantaloni, io ce lo lasciavo, qualunque cosa succedesse.

E la cosa mi fece piuttosto penare, devo ammetterlo: quando arrivammo alla baita, dove era già parcheggiato uno di quei Suv che non sapevo come potesse passare per le strade di montagna, scoprii che la mia idea che le figlie dei ricchi sono bellissime si era dimostrata corretta.

Il signor Sabatini non era particolarmente alto, ma aveva un paio di spalle larghe, il tipico sorriso di chi sa cavarsela in ogni situazione ed una barbetta che trovai ridicola, ma soprattutto era una persona simpatica; la moglie era più riservata, castana, un po’ più alta del marito, il corpo tonico grazie, suppongo, a lunghe sessioni di yoga e pilates ed un gran bel sorriso. Sì, me la sarei fatta nonostante avesse più del doppio dei miei anni, ma se non potevo farmi la figlia, nei confronti della moglie del cliente era meglio nemmeno rivolgere la parola se non interrogati.

Comunque la signora Sabatini fu ugualmente la protagonista dei miei sogni erotici ma solo per i due secondi successivi, ovvero il tempo che impiegò la giovane Silvia ad oltrepassare la porta d’ingresso della casa ed entrare nel mio campo visivo e nel mio cuore: alta circa un metro e settanta, era la versione riveduta e corretta della madre, con un paio di anni in meno di me, gli occhi azzurri che illuminavano il cielo, due labbra carnose ma discrete incurvate in un lieve sorriso, di quelli in cui si scorgono i denti bianchi come la neve, il tutto in un viso che concentrava in sé i tre quarti della perfezione dell’universo, ulteriormente impreziosito da una spolverata di lentiggini che si accordavano alla perfezione con i capelli nocciola. Il corpo, che doveva beneficiare, forse ancora maggiormente, dell’attività fisica seguita dalla madre, poteva vantare un paio di gambe ben tornite che sbucavano da un paio di pantaloncini di jeans sbiaditi ed un busto che ospitava un seno di non piccole dimensioni che una maglietta nera con il nome di una qualche band musicale non cercava certamente di occultare.

Avrei potuto volere di meglio? Onestamente sì, una ragazza con un corpo meno perfetto ma senza il carattere di merda di Silvia, come appurai durante il pranzo.

Mentre il marito parlava di lavoro, di quanto valesse il mercato delle buste di plastica per la spesa e di quelle di carta per il pane, della sua idea di aprire anche alla produzione di bicchieri di carta cerati che si usano in certe macchinette del caffè, con la moglie che annuiva ogni volta che il suo uomo diceva qualcosa, ed i miei che mangiavano in silenzio, complimentandosi con il nostro anfitrione, io ero sotto la critica lente d’ingrandimento di Silvia.

Per quanto i suoi occhi fossero magnifici, per quanto avrei voluto baciare la sua bocca, per quanto avrei voluto spingerla contro un muro, le mie mani sulle sue tette meravigliose ed il mio uccello che inondava la sua passera di seme, era una donna che sembrava credere di essere l’unica con un cervello: non aveva impiegato molto a farsi odiare da tutti noi, poveri villici. Lei aveva studiato, lei sapeva questo e sapeva quello, e – ah! – era pure andata in vacanza quell’anno là ed il successivo qua. E poi, se io avessi saputo quanto era stato bello andare al concerto di questa o quella band musicale. Non sarebbe piaciuto anche a me andarci, mi chiese, convinta di rendermi invidioso.

Non che abbia avuto difficoltà a fare spallucce e a chiedere nel massimo del candore chi fossero, considerando che non ho mai avuto il minimo interesse per la musica, distruggendo completamente il suo gioco già dalle fondamenta.

Ma nonostante questo, non potevo evitare di immaginarmela nuda sotto di me, che godeva sotto i colpi del mio bacino, sudata e ansante, con il seno ben fatto che sobbalzava al ritmo del mio operato.

Effettivamente, lei ce la stava mettendo tutta per confondermi, con il suo desiderio di farsi sbattere e nel contempo trattandomi come un poveraccio. Immagino che una volta a casa si sarebbe fatta quattro risate con i suoi amici ricconi e con la puzza sotto il naso narrandole come avesse trattato il villico ignorante.

La gente sostiene io sia una brava persona, per bene. Lo ammetto: sono bravo ad ingannare la gente. Volevo vendicarmi su di lei, ma come? Sesso nemmeno a parlarne, e non solo perché mio padre me lo aveva vietato, ma anche perché quel giorno capii che c’erano donne che scopandosele non si guadagnava un orgasmo ma si perdeva il rispetto verso sé stessi. Insultarla non era nel mio stile, e poi quella era la figlia di un cliente.

Passò il pomeriggio e la ragazza, capendo che avevo smesso di interessarmi a lei, oltre a manifestare una palese indifferenza alla sua volontà di apparire migliore di me, e magari come ultima carta da giocare, era sparita un momento in camera sua, si era cambiata, ed era passata per il salotto indossando un bikini color pesca, davvero striminzito, che a malapena sembrava in grado di coprire i capezzoli ed il sesso. Si fermò per un istante per dire che aveva intenzione di andare nel prato dietro casa a prendere il sole, lanciandomi uno sguardo come a dire che una dea come lei non l’avrei mai avuta. Io la ignorai, ma la mia mente malata si era già messa in moto per trovare un modo per approfittare dell’occasione. Ci volle poco.

Passammo un paio di ore a sentire l’imprenditore incensare la sua azienda, io che mi annoiavo come poche volte nella mia vita. Quando infine iniziai a capire che il nostro soggiorno in quella baita stava giungendo al termine, mi alzai e annunciai che avevo intenzione di salutare Silvia, con i Sabatini che mi incoraggiavano a farlo perché sembravo davvero essere piaciuto alla figlia e al contempo mio padre che mi guardava con uno sguardo che sembrava implorarmi di non fare una stupidaggine.La raggiunsi sul retro nel prato tagliato di fresco da un’azienda locale specializzata nella cura dei giardini chiamata un paio di giorni prima, intenta a farsi un bagno di sole su una sdraio da quattro soldi, invisibile alla casa da un gruppetto di abeti, un paio di occhiali da sole che alzò quando mi vide. Ora che non era sotto l’ala protettiva dei suoi genitori non sembrava così spavalda, ma quell’aria di superiorità non l’aveva comunque abbandonata.

I nostri sguardi si scontrarono, io che sostenevo il suo con facilità, senza lasciar trasparire nessuna emozione. Lei non disse nulla, incerta se ricominciare a fare la saccente o temere una qualche mia reazione. Effettivamente, rimase stupita un attimo quando mi accosciai in fondo alla sua sdraio. Non si ribellò quando le presi un suo piede, lo sollevai davanti a me e, con tutte e due le mani, cominciai a massaggiarglielo. Un accenno di stupore turbò per un istante la sua espressione, ma io non smettevo di indirizzare il mio sguardo nel suo, senza che nessuna emozione potesse essere letta da lei, se non un pizzico di malizia maschile che sembra sempre catturare l’attenzione delle ragazze.

Storsi un po’ il suo metatarso con una mano sostenendo il piede con l’altra, poi lo afferrai e lo piegai leggermente verso la pianta del piede, quindi appoggiai il palmo della mia mano su tutte le tozze dita e le spinsi verso di lei. Lo stupore che aveva per un attimo animato il suo sguardo era ormai stato sostituito da un’espressione tra lo sprezzante ed il dilettevole. Aumentò ulteriormente quando appoggiai le labbra sul suo alluce ed iniziai a succhiarglielo. Fu quando lei stava per dire qualcosa, qualcosa di maligno a giudicare della luce nei suoi occhi e dalla curva delle sue labbra che infine diedi inizio alla mia vendetta.Le mie mani, che si erano spostate nei precisi punti di attacco che avevo stabilito già ancora prima che abbandonassi la baita per raggiungere la ragazza, si serrarono sul piede, ed i pollici e gli indici premettero pochi centimetri sotto la caviglia e contemporaneamente la seconda falange dell’alluce. Giuro che mi godetti quel secondo in cui lei mi fissò sorpresa, inconsapevole di immaginare cosa stesse succedendo, una novella Anne de Breuil che ancora non sa quale destino l’aspetti oltre il fiume, quell’istante che intercorse tra la pressione delle mie dita e la sua bocca che si apriva quasi di sua spontanea volontà, il respiro che entrava con un sibilo nei polmoni sotto il seno che si alzava e la schiena che si inarcava, le pupille color del cielo che si innalzavano quasi al punto di mostrare solo il bianco degli occhi sbarrati. Un gemito lungo e flebile, ma per nulla di dolore, si alzò dalla bocca di Silvia, che impiegò diversi secondi per riuscire a trovare di nuovo il controllo del braccio sinistro affinché la mano potesse bloccare quel silenzioso grido di piacere.

L’espressione di superiorità aveva abbandonato il volto della ragazza solo per scivolare sul mio, imbastardita dal piacere che stavo provando nell’infliggere una simile umiliazione a quell’altezzosa puttanella. Oh, ero ben conscio che le sarebbe bastato muovere il piede con un minimo di forza per sfuggire alla mia presa, anche solo ruotare la sua gamba perfetta sarebbe stato sufficiente per porre termine alla mia vendetta, ma per qualche motivo non lo fece. Che fosse stato il piacere che stava provando e che non voleva che terminasse, lo shock di una simile azione da parte di uno zotico come me ad una donna come lei, od il suo intelletto che per un momento era stato sopraffatto dalla libido, non seppi mai perché non mi impedì di continuare a premere quei due punti erogeni praticamente sconosciuti ma che diverse mie ragazze avevano impiegato poco ad amare.

Il fiato di Silvia divenne sempre più pesante, il suo seno sembrava volesse sfondare la poca stoffa che mi impediva di vederne la totalità. Ormai priva di controllo, la mano che non impediva ai gemiti di abbandonare le labbra della ragazza finalmente strisciò sul suo fianco, sfiorò il suo inguine ed infine scivolò sotto il lembo laterale dello slip, iniziando a muoversi all’interno del suo bocciolo di rosa con un movimento talmente scoordinato che un paio di volte un piccolo labbro ne fuoriuscì, testimoniando, con il suo colore ed il suo gonfiore, quanto fosse intenso il piacere che stavo infliggendo alla ragazza.

Ormai completamente priva di controllo, con il suo corpo che sussultava al ritmo delle contrazioni che si muovevano nel suo sesso, con il tessuto artificiale degli slip che si stava scurendo mentre solo la punta di tre dita era ancora visibile in rilievo, per lei fu quasi uno shock quando le mie dita si staccarono improvvisamente da lei. Un ultimo tremito la scosse, poi sembrò precipitare in quella sdraio da pochi soldi, ancora con il fiato corto ed un velo di sudore che brillava alla luce del sole su tutto il suo corpo divino. Mi fissò, confusa, incapace di pormi una delle domande che galleggiavano confuse nella sua mente obniubilata dal piacere che ancora scorreva nelle sue vene.

Come se si fosse accorta solo allora della mano che fino a quel momento era stata posseduta dalla libido, la tolse velocemente dalla sua umida femminilità, ma non fu abbastanza veloce: la mia la ghermì all’altezza del polso. Lei non comprese, ma mi osservò stupita mentre avvicinavo il volto alle sue dita bagnate di desiderio e facevo mio il suo odore di donna con un lungo e profondo respiro, che dopo un lungo secondo lasciai abbandonarmi in un gemito di approvazione. Poi gliele baciai, e suggetti il sapore del suo desiderio, i miei occhi chiusi ed il mio sorriso come indice del mio piacere, unico indizio di quanto avrei voluto, in realtà, assaporarlo direttamente dalla fonte.

Senza aggiungere nulla mi alzai, contemplando per un istante, per l’ultima volta quel corpo meraviglioso costretto a coesistere con un’anima tanto vile, quando lei parlò sommessamente, la voce rotta dall’emozione e dalla gola secca per il lungo, dolce ansimare.

– Perché… – sussurrò, schiarendosi la voce, e poi riprendendo: – perché questo?

Il mio sguardo abbandonò il suo seno morbido e si posò su quei due frammenti di zaffiro sottolineati da una via lattea di splendide lentiggini. – Perché sei una stupida stronza, ma mio malgrado un po’ ti amo.

La sua mascella si chiuse, i suoi occhi che mi fissavano ma al tempo stesso sembravano stessero bruciando alla luce diretta del sole.

Considerai chiusa la faccenda, ma non feci in tempo a fare che pochi passi verso la baita che Silvia, con la voce appena più alta di prima, mi pose la domanda che mi stavo aspettando.

– E… e se non fossi una stupida stronza? – mi chiese. Le sue parole rotte da un groppo alla gola sembravano preannunciare un acquazzone di lacrime in quei due angoli di cielo.

Mi limitai a ruotare appena il capo verso di lei, quanto bastava perché una sua sfuggente immagine apparisse alla mia vista. – In tal caso, – le risposi, la mia voce, a differenza della sua, ferma e quasi crudele, – ti starei amando per davvero, ed in questo momento ti staresti contorcendo tra l’erba, e la mano sulla bocca insufficiente a contenere la tua emozione. – E tornai a guardare avanti, con le nostre strade si divisero per sempre.

FINE

Per contattarmi, potete scrivere all’indirizzo email william.kasanova@email.it

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